Postfazione
di Daniele Giglioli

Si usa un’ascia per farne un’altra.

PROVERBIO CINESE

Nulla di più dialettico, e dunque di più congeniale a Jameson, che cominciare con quello che in questo libro non c’è. E non c’è perché non poteva esserci, in quanto si tratta del suo immediato futuro, ovvero del nostro passato recente. Non per fargliene un rimprovero: il dialettico non è un indovino, e la sola cosa di cui è certo è che quelle che Marx chiamava le dure repliche della storia spettano appunto alla storia, non agli esiti di una teoria. Una teoria diventa storia nella misura in cui è suscettibile di sottoporsi a una molteplicità di usi non necessariamente previsti nel suo quadro diagnostico. Si tratta dunque di storicizzare Jameson, non per vedere se avesse torto o ragione e in che misura, ma per valutare l’uso che possiamo fare oggi, a partire da lui, del nostro presente.

Un breve elenco, allora, dei fenomeni “emergenti” che sono venuti alla luce dopo la pubblicazione, nel 1991, di Postmodernismo. Non è difficile: la retorica delle identità; il risorgere aggressivo dei nazionalismi e delle fedi religiose; una decisa virata sostanzialista nel discorso sulla cultura (l’Occidente, l’Islam, la Famiglia, la Vita, tutti rigorosamente maiuscoli e dati bellamente for granted: niente più giochetti performativi); la perdita di carisma della “teoria”, il progressivo assottigliamento delle file dei suoi adepti e dei suoi interlocutori; la prosopopea di un “terrorismo” inteso in modo mistificatorio ma simbolicamente efficace come un attore globale dotato di una volontà e di un programma unitario; il ritorno della guerra guerreggiata chiamata senza più infingimenti con il suo vero nome (e non, come negli ambigui anni Novanta, operazione di polizia internazionale, intervento umanitario o altri eufemismi); infine, più importante di tutti, la globalizzazione intesa non più come processo “impensato” – che in quanto tale era già in atto da tempo – ma come pietra di paragone di ogni riflessione a venire. Il tutto ovviamente compendiato (e reificato) nell’immagine inevitabile delle Torri che crollano la mattina dell’11 settembre 2001. Di fronte a questo scenario ci servono ancora le categorie postmoderne?

In molti giurano di no, specie coloro che, come ad esempio Terry Eagleton, le avevano in antipatia già da prima, almeno nella loro forma vulgata. Ciò cui abbiamo assistito in questi ultimi anni costituirebbe una sanguinosa (è la parola) smentita degli slogan che hanno circolato come travellers cheques da riscuotere pronta cassa alla banca del senso comune medio-colto; fine della storia, decentramento del soggetto, irrappresentabilità dei conflitti, la realtà come costruzione discorsiva, la razionalità come prerogativa del sistema e non del singolo, eccetera eccetera. Niente affatto, si dice, e gli ultimi eventi lo dimostrano: la materialità del mondo si è presa una bella rivincita, e l’intero edificio della teoria postmoderna è stato solo uno spreco di intelligenza e di tempo. Non che nelle sue descrizioni non cogliesse qualcosa, ma le sfuggiva e non poteva che sfuggirle l’essenziale, perché la realtà esiste al di là della sua rappresentazione in qualunque ideologia.

Non lo conferma del resto il sostanziale mutamento di tono che si è verificato nella produzione artistica, letteraria e cinematografica dell’ultimo decennio? Dove sono finiti i pastiche, le citazioni, i travestimenti, la leggerezza, le giocose contaminazioni, l’ilare nichilismo (come lo ha ben definito Romano Luperini) che avevano caratterizzato l’immaginario degli anni Ottanta e che comunemente associamo all’aggettivo “postmoderno?” Come si è potuto considerare postmoderno un autore come Don DeLillo? E come si potrebbero ricomprendere in quella cornice artisti come William Kentridge, Damien Hirst, Steve McQueen? Solo in Italia non ce ne siamo accorti e continuiamo a esportare Cattelan, ma si sa che da noi tutto funziona peggio e i treni non arrivano mai in orario.

Nel resto del mondo, però, per fortuna, hanno ripreso a fare sul serio: è tempo di ricominciare a guardare in faccia l’orrore, smettendo di ridurlo a un bad trip da romanzo di fantascienza o da film horror. Il Reale è tornato e ha un aspetto per nulla rassicurante, se perfino Gianni Vattimo ha abiurato la sua rosea utopia della società trasparente, e Baudrillard ha dichiarato la fine di quello «sciopero degli eventi» (che peraltro lui stesso aveva proclamato). Lo stesso Lyotard, spaventato dall’uso volgarmente apologetico di un termine che pure gli deve buona parte della sua fortuna, si è affrettato fin dalla metà degli anni Ottanta a ribadire la necessità di tenere vivo il conflitto, il dissidio, il différend, di fronte all’onnivora omologazione di ogni alterità messa in opera dal mercato mondiale.

Si tratta di un ripensamento di vasta portata che attraversa un po’ tutti gli ambiti del sapere. Una storica dell’arte come Rosalind Krauss, per esempio, pur condividendo la critica all’ideologia modernista dell’autenticità e dell’originalità, ancora vigente presso il suo maestro Greenberg, aveva mostrato molto per tempo in Loriginalità dellavanguardia come già in Rodin fosse presente in germe la possibilità della copia e della ripetizione (i calchi della Porta dellinferno mai fusi in bronzo da Rodin e lasciati in eredità allo Stato francese perché ne traesse a sua discrezione un numero imprecisato di riproduzioni “autentiche”). Mentre un altro critico del gruppo di «October», Hal Foster, ha indebolito nel Ritorno del Reale l’opposizione tra modernismo e postmodernismo sostenendo che entrambi si fondano su un medesimo processo di incessante differimento e riattualizzazione après-coup del tutto analogo a quella “posteriorità” (Nachträglichkeit) con cui continuamente si costituisce e si disfa l’attualità del soggetto secondo Freud e Lacan. Altri autori, poi, come Umberto Eco e Carlo Ginzburg, hanno seguito con crescente preoccupazione la diffusione e la radicalizzazione di alcune delle loro categorie più fortunate, come l’opera aperta, la fuga degli interpretanti, il paradigma indiziario. Eccoli dunque ormai da anni impegnati in un complesso e un po’ ansioso lavorio di smarcamento, di distinzione, di puntualizzazione, nel tentativo di sottrarsi all’abbraccio del nichilismo ermeneutico e storiografico, Eco con la distinzione tra uso e interpretazione, Ginzburg con la polemica contro l’eclissi dell’idea di “prova” e la riduzione della storia a retorica in autori come Hayden White. Quando il conto presentato dal nominalismo inizia a farsi troppo alto, chi chiamare a saldarlo se non il vecchio ma sempre servizievole realismo?

Questo per le obiezioni serie e argomentate. Ma molto frequente (specie tra chi non potrebbe permetterselo) è anche un atteggiamento di fastidio diffuso, di noia ostentata, o al massimo di condiscendenza bonaria per una moda ormai defunta e in attesa di un improbabile recupero vintage. Dopo aver dominato la scena degli anni Ottanta, il postmodernismo non è più così cool. Fa già parte del nostro passato, e di quello meno recuperabile, più inservibile, definitivamente inattuale. Il solo che ci crede ancora, sembrerebbe, è appunto Jameson.

Infatti. A più di vent’anni dalla pubblicazione del suo primo saggio in materia, uscito nel 1984 sulla «New Left Rewiew» e divenuto poi con pochi ritocchi il primo capitolo di Postmodernismo, Jameson non ha cambiato idea. Lui ha sempre fatto sul serio, ha sempre guardato in faccia la Medusa, col rischio costante di rimanerne pietrificato. Non ha mai finto di essere leggero. Non si è mai consolato pensando che in fondo il buon dio abita nel particolare. Nessuna delle accuse ormai convenzionalmente rivolte in blocco al “pensiero postmoderno” (come se ne esistesse uno solo) lo riguardano davvero: smobilitazione ideologica, smaterializzazione dei rapporti sociali, rifiuto della fatica del concetto a vantaggio di una girandola di metafore pseudoprobanti, contingentismo ironico che maschera in realtà uno stato di impotenza disperata.

È vero il contrario: il suo postmodernismo non è uno stile né un’ideologia ma la dominante culturale di un’epoca, che Jameson, seguendo la periodizzazione di Ernest Mandel, chiama tardo capitalismo. È il risvolto visibile, la facies linguistica, la caratterizzazione fisiognomica di un modo di produzione, di una totalità integrata dell’essere sociale che non ha più alcun senso scomporre in struttura e sovrastruttura, economia e ideologia. La postmodernità è l’epoca in cui la cultura è una pelle che aderisce troppo strettamente alla carne dell’economia perché la si possa esaminare separatamente, come nella scarpa-piede di Magritte; è uno stato dell’essere definitivamente antropizzato in cui la cultura è diventata davvero una seconda natura interamente prodotta dall’uomo, una generale «acculturazione del Reale» che non lascia residui e non ha alcun resto di materia da contrapporre a sé in modo da potersi pensare come spirito. Ciò che con essa è venuta alla luce del giorno, scrive Jameson, è la grondante e convulsiva «materialità che sta alla base di tutte le cose». Nulla esiste che non possa essere afferrato dalla forma-merce; nessun valore d’uso è più lì a lamentare la sua trasformazione in valore di scambio, al punto che sarebbe forse utile cominciare a pensarlo, come faceva Rousseau per lo stato di natura, come un esperimento di pensiero, un calco negativo, un postulato speculativo ricavabile a posteriori dalla generalizzazione dello scambio come forma di dominio dell’essere.

Che la cultura sia diventata una merce è una constatazione banale; molto più decisivo è il fatto che la merce sia diventata essa stessa cultura, senza più bisogno di una coscienza esterna a sé che la raddoppi in ideologia o la trasponga sul registro dell’immaginario. La merce è la sua propria cultura, il consumo è la sua propria ideologia, e non a caso, sostiene Jameson, si acquista e si consuma in primo luogo il fatto stesso di consumare. L’autoreferenzialità, un tempo prerogativa dell’opera d’arte modernista, si è trasferita alla merce, che non ha altro referente verso cui fare segno al di fuori e al di là di se stessa. Il che non comporta affatto, come voleva la vecchia lamentazione umanistica, un’umiliazione della cultura per mano dell’economia, ma semmai il suo trionfo: «la dissoluzione di una sfera autonoma della cultura va immaginata piuttosto in termini di esplosione: un’immensa espansione della cultura nell’intero ambito sociale, al punto che si può dire che tutto nella nostra vita sociale – dal valore economico al potere statale fino alle pratiche e alla stessa struttura della psiche – sia diventato “culturale” in un senso originale finora mai teorizzato».

A questo patto e solo a questo patto si può sostenere, come afferma la koiné poststrutturalista, che la realtà umana è un insieme di dispositivi discorsivi, e che il referente di ogni strategia rappresentativa non è un più un’indistinta e misteriosa physis “là fuori” (o “là dentro”, nelle profondità dell’inconscio), ma un complesso organizzato di fantasie culturali collettive, di stereotipi, cliché, luoghi comuni che coincidono ormai con la totale umanizzazione dell’ecumene. Ed è solo in quanto descrizione di un modo di produzione (quello del tardo capitalismo) che le analisi sulla società dei simulacri, sull’indistinzione tra realtà e apparenza, sulla definitiva trasformazione del mondo in immagine trovano la loro pertinenza esplicativa. Il mondo è diventato infine quello che Vico chiamava un «mondo di nazioni». La nostra prassi è la nostra unica “cosa”. La massima umanizzazione coincide con la massima reificazione. E da questo punto di vista, perfino le poetiche postmoderne più piattamente apologetiche contengono un momento di verità; parla per bocca loro l’esultanza della merce che adora se stessa, della cultura che ha realizzato il suo sogno e può finalmente liberarsi del suo autore (come già aspiravano a fare senza riuscirci le opere d’arte obbedienti ai dettami dell’estetica modernista): il soggetto umano imperfetto, inconciliato e sempre a venire, che aveva inventato la cultura per sanare la frattura tra sé e il mondo da cui egli stesso aveva tratto origine.

La differenza principale tra modernità e postmodernità consiste esattamente in questo. La postmodernità è il capitalismo senza più residui e opposizioni, è il «mondo dentro il capitale», per parafrasare Peter Sloterdijk, è un capitalismo che può essere definito “tardo” solo nel senso di ultimo, più recente, più – paradossalmente – moderno, in quanto esito di una modernizzazione dei mezzi e dei rapporti di produzione infinitamente più estesa e pervasiva. Non esiste un “altrove” dalla merce. E il mercato, nella sua ideologia e nella sua pratica, ha preso il posto di quello che nel pensiero politico di Hobbes era il Leviatano, il grande lupo preposto a impedire che lasciati a se stessi i piccoli uomini-lupi si sbranino tra loro. Non noi regoliamo il mercato, ma il mercato, autoregolandosi, regola noi. Solo conformandoci alla sua logica potremo salvarci dalla miseria, dal socialismo, dal totalitarismo o da altri orrori; non per una libera iniziativa della nostra ragione, ma obbedendo a una necessità impersonale che armonizza gli animal spirits (gli istinti dunque, non le deliberazioni) nell’unico modo ritenuto possibile.

Che poi questo abbia ancora qualcosa a che fare con la libertà è ovviamente assai dubbio: «L’ideologia del mercato ci garantisce che gli esseri umani provocano disastri quando cercano di controllare le proprie sorti (“il socialismo è impossibile”) e che siamo fortunati a disporre di un meccanismo interpersonale – il mercato – che può sostituire la superbia umana e la pianificazione, nonché rimpiazzare tutte le risoluzioni dell’uomo. Dobbiamo solo tenerlo ben oliato ed esso – come faceva il monarca tanti secoli addietro – provvederà a noi». Analoga, in questo senso, era l’amara lezione che Lyotard ricavava dalla teoria sistemica di Niklas Luhmann: le aspirazioni individuali hanno senso solo in quanto sono compatibili con le decisioni del sistema: «Queste ultime non devono rispettare le aspirazioni: bisogna che siano le aspirazioni ad aspirare alle decisioni, o almeno ai loro effetti. Le procedure amministrative fanno “volere” agli individui ciò di cui il sistema necessita per essere performativo».

Come potrebbero le vecchie categorie della modernità tenere il passo in una situazione del genere? Dove collocare in questo contesto l’esortazione kantiana a camminare eretti, a uscire dallo stato di minorità? La modernità era un’epoca in cui essere e coscienza non aspiravano con tutte le loro forze a fondersi in un’indissolubile unio mystica. È vero che Jameson nutre forti riserve (lo scrive in Una modernità singolare, un saggio uscito nel 2002) verso la pretesa di intendere la modernità come la storia di una soggettività che si autocomprende e si autoemancipa: tutti i suoi principali manufatti artistici e filosofici sono lì a dirci quanto sia problematico per la soggettività rappresentare se stessa, a meno di non cogliersi volta per volta nel suo essere costantemente “in situazione”. Ma è certo altresì che la postmodernità del soggetto non sa proprio che farsene, e che la sua ontologia si fonda esattamente sul rovesciamento speculare della deduzione trascendentale kantiana: «non è l’unità del mondo a esigere di essere postulata sulla base dell’unità del soggetto trascendentale; al contrario, l’unità o l’incoerenza e la frammentazione del soggetto – cioè l’accessibilità di una posizione soggettiva praticabile o la sua assenza – rappresentano esse medesime un correlativo dell’unità o della mancanza di unità del mondo esterno. Certamente il soggetto non è un mero “effetto” dell’oggetto, ma non sarebbe sbagliato sostenere che la posizione soggettiva è precisamente questo effetto». Tanto più che per oggetto non si deve intendere un dato percettivo ma un complesso di rapporti sociali, una rete strutturale di relazioni insieme materiali e immaginarie di cui il soggetto diventa una funzione nella misura in cui, come diceva Althusser, ne viene interpellato: ehi, tu! Chi, Io?

Per questo, sostiene Jameson, più che come un’epoca o una logica, la modernità dev’essere interpretata come un tropo, o meglio ancora come una narrazione, per quel tanto di inevitabile arbitrarietà “infondata” che presiede alla decisione del soggetto di porsi come tale, e di raccontare e raccontarsi una storia di cui è – o si suppone essere – protagonista. Un’arbitrarietà che l’universo postmoderno, in quanto totalità integrata, sistema-mondo senza bordi e senza margini, non è più intenzionata a concedergli. In nessun caso, comunque, si può pensarla come una vera e propria dominante culturale. A differenza della postmodernità, la modernità non è mai stata veramente egemone, e si è costituita non a caso pensandosi in opposizione ad altre formazioni culturali: il passato, il vecchio, l’antico, la città versus la campagna, la ferrovia invece della carrozza.

La stessa estetica modernista, d’altro canto, è sempre vissuta in un rapporto di costante tensione, frizione e spesso deciso antagonismo con chi gestiva di fatto i processi di modernizzazione veri e propri: da cui l’ostilità dell’artista per “il borghese”, del bohémien per il rangé, del refusé per l’accademico ecc. Per artisti e intellettuali, essere moderni ha sempre significato, insieme e contraddittoriamente, invocare e temere l’avvento del nuovo, auspicare innovazioni stilistiche e nello stesso tempo deprecare quei processi di modernizzazione della società che stavano togliendo all’arte ogni residua sfera sacrale, e alla filosofia il rango di luogo deputato alla definizione del senso sotteso all’universo complessivo delle pratiche (economia, scienza, politica).

In questa contraddizione irresolubile, l’arte moderna ha trovato insieme il suo punto di forza e il suo principio di dissoluzione. Non stupisce perciò che abbia sempre tenuto al centro del suo operare il principio dello choc, con cui poteva articolare creativamente paura e desiderio, speranza e nostalgia, meraviglia e angoscia del nuovo. Ma, per poter funzionare, lo choc ha bisogno di campirsi sullo sfondo di un passato, di una consuetudine invalsa, di una aspettativa da frustrare, di una memoria individuale e collettiva da disorientare: «Paris change!» lamentava Baudelaire nel Cigno. Un problema, ovviamente, che il postmodernismo con il suo eterno presente e con la sua temporalità da perpetuo anno zero non si pone nemmeno. Il che manda definitivamente in soffitta i compiti che l’arte moderna nella sua esasperata (e spesso esasperante) riflessività si era assegnata.

Per esempio il rinnovamento della percezione caro ai formalisti russi, la liberazione del mondo sensibile dal giogo mortificante dell’abitudine e dall’involucro di cliché (luoghi comuni, automatismi, bêtises flaubertiane) che lo affliggono. Perché mai dovremmo desiderare qualcosa di simile per la sterminata distesa di merci e simulacri in cui viviamo immersi? Non nascono già di per sé strutturalmente programmati per essere nuovi, e in quanto tali consumabili, deperibili, sostituibili? Non abbiamo bisogno di vederli come nuovi, dal momento che lo sono già ex officio e quasi ab aeterno, e lo saranno almeno fino a quando durerà il loro quarto d’ora di celebrità. Poi diverranno vecchi e non avremo nessun motivo per rimpiangerli o per volerli rivitalizzare, presi come saremo a metabolizzarne altri ancora più nuovi. La novità non è una prerogativa del soggetto ma la spinta archimedica del sistema, e il capitalismo non ha bisogno di nessuno che lo stimoli in tal senso.

Né d’altronde l’imperativo dell’innovazione formale è l’unica vittima del mutato assetto del mondo. Una sorte non migliore conosce la vecchia idea moderna (di origine idealistica, dal classicismo weimeriano di Schiller al romanticismo di Friedrich Schlegel) secondo cui la dimensione estetica, nel libero gioco delle sue facoltà, è in grado di offrire l’immagine più vicina possibile a ciò che sarebbe un mondo senza divisione del lavoro. Un’idea che crolla sotto il peso delle sue promesse impossibili da mantenere. Se non si abbatte la barriera tra fruitori e produttori (come chiedeva il Barthes sessantottino di S/Z con la sua teoria del testo scrivibile), il superamento dell’alienazione sarà vero solo in effige, e dunque falso. E chi mai però, se non un’élite di deracinés, avrà il tempo e la possibilità di conseguire un addestramento sufficiente non solo a fruire ma a produrre un’esperienza estetica come quella postulata dalla grande arte moderna? (A parte il fatto che un mondo in cui tutti scrivano l’Ulisse o la Recherche o un romanzo di Robbe-Grillet o di Sollers più che a un’utopia estetica assomiglia a un incubo borgesiano). E quanto al gioco, al ludus come attività disinteressata e perciò libera dai vincoli del processo produttivo, è difficile immaginare qualcosa di più permeabile alla mercificazione (industria dell’intrattenimento, turismo come principale business mondiale ecc.), come dimostra l’intera storia della società dei consumi. Tanto più che nell’attuale modo di produzione, caratterizzato da un’enorme espansione e valorizzazione del “capitale cognitivo”, tutte le abilità linguistiche e simboliche acquisite durante il cosiddetto “tempo libero” sono divenute ormai da tempo forze produttive a tutti gli effetti.

Niente soggetto, dunque, niente innovazione, niente promessa di una fine dell’alienazione, se non quella, non si sa se utopica o distopica, del suo compimento nella forma della saturazione estatica, dell’irrealtà definitiva – il mondo di Matrix. E, soprattutto, va da sé, niente rivoluzione: nessun impulso a changer la vie, come chiedeva Rimbaud, trasformando se stessi nella misura in cui si trasformava il mondo. Perché cos’altro è stato, scrive Jameson, la soggettività moderna se non un’allegoria della rivoluzione? I tempi cambiano e io cambio con loro; i processi hanno bisogno di me per compiersi, le promesse di felicità dell’arte e della filosofia non si avvereranno senza la mia opera. Vero o falso, realistico o illusorio che fosse, non è andata così. Ciò che ci resta, e dicono che ci è andata ancora bene, è la postmodernità come avocazione integrale di ogni agency, di ogni possibile iniziativa individuale, da parte dell’impersonale e infallibile razionalità sistemica.

Un quadro troppo nero, apocalittico, senza penombre e privo di qualunque sfumatura? Nessun dubbio, e Jameson sarebbe il primo a dirlo. Ma la valutazione di un quadro è in primo luogo una questione di sguardo. Che tipo di sguardo è allora quello che Jameson rivolge a questa rutilante e un po’ intimidente congerie di fenomeni tanto più difficili da afferrare quanto più è doveroso ricondurli a una radice prima, il modo di produzione contemporaneo nel suo chiasmo tra materialità del simbolico e simbolicità del materiale? Si può rispondere: uno sguardo curioso ma non complice, duttile ma non arrendevole, senza illusioni ma non senza speranza. Se dovessimo riassumerlo in un motto, la scelta cadrebbe naturalmente su quello classico di Brecht: non allacciarsi al buon vecchio ma al cattivo nuovo; ovvero, una totale mancanza di illusioni sulla propria epoca, e ciononostante un pronunciarsi senza riserve per essa.

Curiosità, in primo luogo. Onnivora, (come gli riconoscono tutti e gli rimproverano molti), inesauribile, capace di spaziare attraverso tutte le manifestazioni della cultura alta e bassa, “originale” e seriale, letteraria e visiva, così come nei discorsi della teoria e nelle analisi degli economisti e dei sociologi, con un’attitudine di palese a tratti sconcertante divertimento. Una curiosità che mobilita tutti gli strumenti di interpretazione possibili, dai più complessi ai più elementari, fino a includervi il gusto, la sensibilità, le idiosincrasie più inverificabili: «scrivo da consumatore relativamente entusiasta del postmodernismo, o quanto meno di alcuni suoi aspetti. Mi piacciono l’architettura e gran parte delle nuove opere visive, in particolare la nuova fotografia. La musica non è male da ascoltare, né la poesia da leggere; il romanzo è il più debole di questi nuovi ambiti culturali ed è superato di gran lunga dai suoi equivalenti narrativi del cinema e del video […]. Anche il cibo e la moda sono molto migliorati, così come la vita in genere». Purché sia chiaro, beninteso, che anche il più umbratile sussulto della sensibilità deve essere messo al servizio di un’istanza conoscitiva; il sensibile è subordinato all’intellegibile, al contrario di quanto avveniva, per esempio, nella straordinaria fenomenologia culturale di un’autrice come Susan Sontag. Nulla di più distante da Jameson; nessun abbandono sensuale al flusso globale di quella che Sontag avrebbe chiamato una «nuova sensibilità», e primato, invece, dell’interpretazione, i cui poteri Jameson vuole anzi estendere fino all’impossibile, se è vero che il postmodernismo è fatto per lo più di fenomeni che si negano alla dimensione della profondità e non “desiderano” affatto essere interpretati, ma piuttosto consumati. Scopo della teoria è tracciare, con una formula ormai passata in proverbio (e citata spesso a sproposito), una «mappa cognitiva» della nostra attualità, e cioè uno strumento con cui orientarsi, ipotizzare una via da percorrere, pianificare una futura battaglia. Perdersi in un labirinto può essere divertente, la prospettiva di restarci in eterno molto meno.

Eppure il progetto di Jameson, soprattutto in questo libro, non coincide esattamente con questa prospettiva di quadrato razionalismo. È vero infatti che, soprattutto nel primo capitolo, ci troviamo effettivamente di fronte a una mappa, i cui tratti fondamentali, complice una serie di formule icastiche e di esempi ben giocati, sono divenuti ormai pietre miliari nella percezione della nostra contemporaneità. Anche chi dà dell’epoca un’interpretazione completamente diversa da quella di Jameson non può non convenire con la maggior parte dei suoi rilievi: l’ascesa del populismo estetico, la perdita della profondità, la decostruzione dell’espressione, la trasformazione dell’affettività da prerogativa di un soggetto a flusso di «intensità libere» che appartengono a tutti e a nessuno, l’intertestualità come pastiche e non come parodia, la crisi della dimensione storica (sostituita da uno storicismo eclettico che rivisita e combina liberamente stili ed epoche), il collasso della catena significante (costitutivo nei prodotti dell’industria culturale, deliberato nelle opere d’arte che le zoppicano dietro), il «sublime isterico» come espressione dello spaesamento per una totalità insieme evidente e inafferrabile, l’abolizione della distanza critica, lo spazio che dopo secoli di minorità si prende la sua rivincita sul tempo nella sfida di fornire un analogon dell’esperienza, una tavola delle categorie con cui rappresentarsela.

Ma è anche vero che, in questo panorama così ben delineato, resta poi piuttosto difficile orientarsi. A confermarlo ci sono tutti i restanti capitoli del libro, nel loro configurarsi come un’inesausta complicazione dello schema, come una perenne e sospettosa verifica dei propri assunti attraverso l’immersione nei materiali più eterocliti, dai video come Aliennation di Edward Rankus, John Manning e Barbara Latham ai romanzi di Claude Simon, dalla casa di Frank Gehry a Santa Monica a film come Velluto blu di David Lynch, dalla fantascienza ai manifesti del neoliberismo, il tutto attraverso un confronto quanto mai serrato con teorie affini o rivali alla sua come quelle di Lyotard, di Habermas, del neostoricismo e del poststrutturalismo.

Una congerie di stimoli in cui perdersi è quanto di più probabile. Ma i maligni che parlano di un supermarket teorico (o che lamentano il mancato intervento di un buon editor), se non hanno tutti i torti di sicuro non hanno ragione. La sfida al labirinto, per riprendere un titolo famoso di Calvino, non viene mai ritrattata; né si può dire, sempre per parafrasare un Calvino più tardo e più perplesso, che per Jameson l’unico modo per uscire da un labirinto sia tracciare a propria volta un labirinto. È vero però che, nel continuo farsi e disfarsi delle vedute e degli scorci che questo libro propone, si può leggere un tentativo di non arrivare troppo presto alla meta, di non restare prigionieri della brillante apoditticità delle proprie formulazioni, o magari dall’inevitabile schematismo implicito nel pensare per “fasi”, per epoche, per periodizzazioni (il “realismo” come dominante culturale del capitalismo nazionale, il modernismo come parto dell’epoca imperialista, il postmodernismo come sinonimo di globalizzazione culturale) che pure Jameson ritiene inevitabili. Una preoccupazione tanto più comprensibile nel caso di una teoria che prendendo l’avvio da una serie di brucianti smentite (crisi del senso storico, destrutturazione della soggettività, sconfitta della politica ecc.) è sempre esposta, un po’ come accadeva alle analisi della scuola di Francoforte, al rischio del “chi vince perde”. Quanto più accurata e fedele la descrizione, tanto più paralizzante l’effetto, col risultato di trasformare una realtà quanto mai terragna e intramondana come un modo di produzione in una sorta di maledizione metafisica, in una gabbia d’acciaio o in un heideggeriano «invio destinale», dichiarando vana fin dalle premesse quella prassi cui spetta sempre, per un marxista come Jameson, l’ultima parola.

Di qui la duttilità, la spregiudicatezza nel prendere a prestito dalle teorie più diverse; una spregiudicatezza per cui Jameson viene alternativamente lodato o biasimato fin da quando, in libri come La prigione del linguaggio o Marxismo e forma, si confrontava con lo strutturalismo e il poststrutturalismo. Non perché siano intercambiabili, ma perché, come ha sostenuto nel suo testo metodologicamente più importante, Linconscio politico, uscito nel 1981, la sua è un’ermeneutica «rivale» che si caratterizza per un continuo sforzo di sussumere limpensato di tutti gli altri punti di vista interpretativi, abolendoli e insieme conservandoli come momenti di una verità in divenire che si dispiega solo nell’«orizzonte intrascendibile» della Storia, e cercando dialetticamente di appropriarsi, per parafrasare Gadamer, delle domande che pongono più che delle riposte che propongono. Una duttilità antagonistica, dunque, conflittuale, agli antipodi dell’eclettismo: «L’interpretazione non è un atto isolato, ma ha luogo all’interno di un campo di battaglia omerico, dove schiere di scelte interpretative sono o apertamente o implicitamente in conflitto tra loro».

Ma in conflitto per cosa? Che cosa si contendono? E che cosa contende Jameson, a loro e all’intera logica del postmodernismo? Sarebbe facile rispondere: la loro ideologia, di cui ambisce a porsi come critico radicale secondo i procedimenti di quell’ermeneutica negativa che è implicita nella concezione marxiana dell’ideologia come falsa coscienza. Facile e riduttivo, e in qualche modo fuorviante. Nei confronti dell’”indeterminismo” poststrutturalista, per esempio, Jameson sembra ripetere il gesto con cui Marx si smarcò dallo scetticismo solipsistico di Max Stirner. Se Stirner non credeva ad alcuna idea generale, come lo Stato, la produzione, la classe o la stessa rivoluzione, ma soltanto agli individui, Marx ha accolto e superato, come ha mostrato Balibar, la sua critica all’astrattezza degli “universali” attraverso lo studio delle modalità concrete della loro genesi, della loro «produzione attraverso gli individui, in funzione delle condizioni collettive e sociali nelle quali essi pensano e si rapportano gli uni agli altri». Solo così, e non respingendole o accogliendolo in blocco con una logica di tutto o niente, si può discernere tra le astrazioni che comportano una conoscenza reale e quelle che hanno solo una funzione di mistificazione. Perché l’ideologia, secondo Jameson che in questo segue Althusser, non è solo una falsa coscienza che traveste la realtà dei rapporti sociali, ma una pratica, che in quanto tale fa parte a pieno titolo della realtà stessa: non si oppone a un’inerte e inanimata struttura, ma contribuisce a produrla attraverso l’interpellazione del soggetto che deve agirla, e che può farlo solo situandosi in una relazione necessariamente immaginaria – ma pragmaticamente efficace – con un Reale che altrimenti resterebbe inconoscibile e dunque inoperabile.

Non bisogna dunque limitarsi a demistificare l’ideologia implicita o esplicita nelle produzioni simboliche, siano esse teorie o opinioni, opere moderne o “testi” postmoderni, manufatti artistici altamente elaborati o prodotti cheap dell’industria culturale. Il compito di un’ermeneutica marxista non è solo quello di ricordare con Benjamin che non c’è monumento di cultura che non sia anche un monumento di barbarie, ma è anche quello di rivendicare per sé il momento utopico insito in ogni ideologia, anche la più reazionaria. Il fascismo è totalitario, scrivevano Horkheimer e Adorno nella loro Dialettica dellilluminismo, perché «cerca di mettere la rivolta della natura oppressa contro il dominio direttamente al servizio di quest’ultimo», e perfino l’antisemitismo nasce come risentimento represso e deviato «dei soggetti dominati dal dominio della natura». Ciò vale a maggior ragione per quella gigantesca fabbrica di coscienza alienata che è l’industria della cultura di massa, anch’essa fondata, scrive Jameson nell’Inconscio politico, sulla stessa promessa di felicità che è sottesa a ogni prodotto della cultura “alta”: «Il luminoso recupero fatto da Ernst Bloch degli impulsi utopistici all’opera nei più degradati fra tutti i testi della cultura di massa, gli slogan pubblicitari – visioni di vita esteriore, del corpo trasfigurato, di una gratificazione sessuale eccezionale – può servire come modello per un’analisi della dipendenza delle forme più rozze di manipolazione dai più antichi desideri utopistici dell’umanità».

Per questo il lettore di Postmodernismo viene ripetutamente invitato a «pensare l’impossibile», e cioè a rivolgere alla postmodernità lo stesso sguardo che Marx aveva riservato al capitalismo della sua epoca, visto insieme come «la cosa migliore che sia mai capitata all’umanità, e la peggiore», in quanto dotato allo stesso tempo di un’enorme quantità di caratteristiche rovinose e di uno «straordinario potenziale di liberazione». Ed è a questo che serve una cartografia cognitiva, che in fondo può essere tradotta quasi alla lettera con la definizione althusseriana di ideologia: una «rappresentazione del rapporto immaginario degli individui con le proprie condizioni di esistenza reali». Purché sia chiaro, beninteso, che in una società divisa in classi la “verità” dell’ideologia della classe dominante si trova nella coscienza della classe dominata. E non a caso, infatti, con un coup de théâtre fin troppo scoperto per essere innocente, si legge nell’ultimissima pagina di Postmodernismo che «cartografia cognitiva» è in buona sostanza un nome in codice per «coscienza di classe».

Il che ovviamente apre problemi enormi, teorici e pratici. Quanto ai primi, li si può tranquillamente lasciare agli specialisti, che non mancheranno di notare quanto sia difficile tenere insieme strutturalismo e dialettica, Bloch e Althusser, l’escatologia del «non-ancora-conscio» del primo e la convinzione del secondo che l’ideologia non possa mai del tutto essere rivendicata alla coscienza e operi in maniera sostanzialmente inconscia. Funambolismi spericolati che criticherà chi ne ha voglia, non chi è convinto che il teorico prende il proprio bene dove lo trova, e che se anche i conti non dovessero quadrare del tutto poco importa perché la verifica decisiva di una teoria è sempre altrove.

Ben più importanti sono invece gli interrogativi storici, pratici e politici che una prospettiva come quella di Jameson solleva. Li si può compendiare in una domanda: non tanto “come” o “che fare” (che sarebbe ridicolo porre a un teorico) ma, piuttosto, chi? Chi dovrebbe tracciare la cartografia cognitiva? E per chi, per preparare l’avvento di chi, di quale agente, se proprio non si vuole più parlare di soggetto? D’accordo, la postmodernità, da buon capitalismo, può essere e deve essere vista anche come una possibilità di liberazione, come il «fragoroso scioglimento di un intoppo», come lo scatenamento di «una nuova produttività che nella seconda metà del periodo moderno si era in qualche modo irrigidita e congelata, bloccata come un muscolo in preda a un crampo». Nessun problema, dialettica oblige: ma la liberazione di chi, e praticata da chi?

Non che Jameson non abbia una risposta: certo, allo stato attuale delle cose che chiamiamo postmodernità, il capitalismo gode di un’assoluta e incontrastata libertà di manovra: tutte le forze minacciose che ha sollevato contro se stesso – il socialismo nelle sue varie forme – appaiono neutralizzate. Ma è perfettamente possibile che la postmodernità stessa non sia altro, invece dell’illusoria “ultima istanza” cantata dai suoi apologeti, che una fase di transizione. E anzi: «Non ci vuole un profeta per pronosticare che da questo violento sconvolgimento riemergerà un nuovo proletariato internazionale (sotto forme che ancora non si possono immaginare)». Nel frattempo ci troviamo in mezzo al guado, «e nessuno può dire per quanto vi resteremo».

È un po’ poco, bisogna riconoscerlo, anche se non è certo colpa di Jameson. Il che ci riporta alla questione posta all’inizio, ovvero ciò che in questo libro non c’è. Quanto è successo dopo non è molto confortante (almeno per chi non riesce proprio a entusiasmarsi per il concetto di «moltitudine» di Toni Negri e seguaci). Nuovi soggetti, o agenti, o quello che si vuole, si sono effettivamente fatti avanti, ma non hanno un aspetto gradevole. È per questo forse che Jameson, in Archaeologies of the Future. The Desire Called Utopia and Other Science Fictions, pubblicato nel 2005 e presentato come il terzo pannello, dopo Postmodernismo e Una modernità singolare, di una “Poetica delle forme sociali”, riprende in mano il concetto di utopia, che del resto è sempre stato centrale per lui, come si è visto, fin dai tempi dell’Inconscio politico. Ma se lì l’utopia era presentata come costitutivamente sottesa a qualunque formazione ideologica, qui l’accento batte al contrario sul discorso utopico propriamente detto, esplicito, intenzionale, e non più da rintracciare tra le pieghe dell’impensato. Un discorso che oggi tutti, da destra a sinistra, si affannano a dichiarare non solo impossibile (il che è già implicito nel suo stesso concetto) ma perfino impensabile.

Per Jameson, invece, impensabile è una politica che non preveda in sé la possibilità di un’alternativa sistemica, riducendosi a quella che Jacques Rancière ha efficacemente denominato «polizia», nel senso settecentesco di police, amministrazione, gestione dell’ordinario. Perché vi sia politica, anche lo straordinario deve stare in campo, e non a caso per Jameson l’utopia ha un ruolo di supplenza, che diventa visibile in quei momenti di «sospensione della politica» in cui tutto sembra immutabile e insieme infinitamente plastico, manipolabile, variabile. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, non c’è bisogno di utopia nelle situazioni rivoluzionarie, lì dove il pensiero si concentra con la massima concretezza sulle urgenze della prassi, e dove lo straordinario ha abbandonato il cielo dell’immaginazione per accamparsi nelle strade e nelle piazze delle donne e degli uomini effettivi. La sua vera funzione è di carattere critico, negativo, distruttivo. Non serve a immaginare un futuro diverso, ma a denunciare l’incapacità di farlo. Col suo ricorso all’impossibile, l’utopia mette in scena un’impossibilità, l’imprigionamento in un presente in cui è vietato attendersi alcunché di concreto dal futuro.

Quella dell’utopia è una dialettica senza sintesi. Il valore di una rappresentazione utopica non consiste tanto nel suo contenuto quanto nella sua critica alle rappresentazioni che le si oppongono. E nulla di peggio di un’utopia realizzata, che nel suo annullamento di ogni possibile futuro non potrebbe non generare a sua volta altre utopie. Non è questa l’ambizione del capitalismo, la sua grande narrazione, il suo sogno di essere la fine della storia? Ma perfino il desiderio più radicato nella nostra costituzione di esseri viventi, il divenire cosciente del programma inscritto nelle nostre cellule sessuali, e cioè l’abolizione della morte, se realizzato prenderebbe la forma di un incubo, perché un incubo da cui è impossibile svegliarsi è un mondo in cui ogni cambiamento radicale sia ritenuto impossibile.

Nel teorizzare questo doppio vincolo, Jameson è più vicino ad Adorno di quanto fosse disposto ad ammettere nel 1990, quando in un libro come Tardo marxismo. Adorno, il postmoderno e la dialettica lo presentava come modello esemplare di indagine analitica da applicare a quel postmodernismo che Adorno avrebbe peraltro detestato. A differenza di Bloch, di Benjamin e di Marcuse, Adorno diffidava dell’utopia; ne diffidava in quanto trasformazione del sogno in calcolo, pianificazione, necessario intervento della ragione strumentale. Ma solo alla luce dell’idea di conciliazione può essere chiamata per nome la sostanziale inconciliatezza del mondo. La conoscenza, si legge nell’ultimo aforisma dei Minima moralia, «non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione del mondo. […] Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato, manchevole, nella luce messianica».

Ma anche la prassi, potrebbe replicare Jameson, non può essere illuminata da nessuna altra luce. E perché questo accada non c’è bisogno di immaginare altre galassie o isole remote. Quale richiesta più radicale e insieme più concreta, da porre all’attuale assetto del mondo, che la banalissima ed eticamente irrefragabile pretesa della piena occupazione? Impossibile, risponderebbero subito gli esperti: la piena occupazione non è compatibile con il capitalismo, il quale ha bisogno per riprodursi di un esercito di disoccupati di riserva, e si vendica se non viene obbedito aumentando vertiginosamente l’inflazione. Ma è solo pensando l’impensabile e chiedendo l’impossibile che ci si mette in condizione di controbattere al Reale che esso ha dalla sua soltanto la violenza, avrebbe detto Adorno, di ciò che semplicemente è; che non può accampare nessuna pretesa di necessità; che non contiene tutto il possibile e che nessuno può impedire a nessuno di progettarne uno diverso.

DANIELE GIGLIOLI

Nota bibliografica

Tra le opere di Jameson disponibili in italiano ricordiamo: La prigione del linguaggio: interpretazione critica dello strutturalismo e del formalismo russo, Bologna, Cappelli, 1982; Marxismo e forma: teorie dialettiche della letteratura nel ventesimo secolo, Napoli, Liguori, 1975; Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989 (traduzione del saggio apparso nel 1984 sulla «New Left Rewiew», poi diventato il primo capitolo del presente volume, e sviluppo a sua volta di una conferenza tenuta al Whitney Museum di New York, raccolta in Postmodern Culture, a cura di Hal Foster, Londra, Pluto Press, 1985); Linconscio politico, Milano, Garzanti, 1990; Tardo marxismo. Adorno, il postmoderno e la dialettica, Roma, manifestolibri, 1994; Una modernità singolare. Saggio sullontologia del presente, Firenze, Sansoni, 2003; Firme del visibile, Roma, Donzelli, 2005. È annunciata a breve la traduzione di Archaeologies of the Future e di Brecht and Method. Tra i libri non tradotti, vale la pena segnalare almeno The Ideologies of Theory: Essays 1971-1986, Minneapolis, University of Minnesota press, 1987, e The Geopolitical Aesthetic: Cinema and Space in the World System, Bloomington, Indianapolis, 1992.

Un’ottima introduzione italiana al problema del postmodernismo è Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, con una ricca bibliografia. Molto utile anche l’antologia Postmoderno e letteratura, a cura di Peter Carravetta e Paolo Spedicato, che raccoglie testi di Ihab Hassan, John Barth, Paul Bové, William Spanos e altri, pubblicata da Bompiani, Milano, 1984. Uno strumento indispensabile è poi ovviamente il The Jameson Reader, a cura di Michael Hardt e Kathi Weeks, Oxford, Blackwell, 2000.

Tra le perplessità e i ripensamenti segnalati all’inizio, ricordiamo il divertente (e superficialmente condivisibile) pamphlet di Terry Eagleton, Le illusioni del postmodernismo, Roma, Editori riuniti, 1998, e la severa requisitoria, peraltro in sé non ostile a Jameson, di Romano Luperini, La fine del postmoderno, Napoli, Guida, 2005. Di Jean-François Lyotard, oltre all’ovvio La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1979, cfr. almeno Il dissidio, Milano, Feltrinelli, 1985. Il saggio di Rosalind Krauss si trova in Loriginalità dellavanguardia e altri miti modernisti, Roma, Fazi, 2007; quello di Hal Foster in Il ritorno del reale, Milano, Postmedia, 2006. Le preoccupazioni antinichilistiche di Eco e Ginzburg si leggono rispettivamente in I limiti dellinterpretazione, Milano, Bompiani, 1990, e in Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano, Feltrinelli, 2000.

Il Mondo dentro il capitale di Peter Sloterdijk, un autore che sul piano della diagnosi se non della prognosi ha molte affinità con Jameson, è stato pubblicato da Meltemi, Roma, 2006. L’equiparazione del rapporto tra Marx e Stirner a quella tra Jameson e il poststrutturalismo è stata indirettamente suggerita da Etienne Balibar, La filosofia di Marx, Roma, manifestolibri, 1994. L’influente definizione altusseriana di ideologia si legge nel saggio Ideologia e apparati ideologici di stato, raccolto in Freud e Lacan, Roma, Editori Riuniti, 1997. Di Susan Sontag, si rimanda ovviamente a Contro linterpretazione, Milano, Mondadori, 1988. La dialettica dellIlluminismo di Horkheimer e Adorno è citata nell’edizione Einaudi, Torino, 1966; i Minima moralia da quella, sempre Einaudi, Torino, 1979.

D.G.