7. Immanenza e nominalismo
nel discorso teorico postmoderno

Parte 1. Immanenza e neostoricismo

Poche opere della recente critica americana mostrano un’abilità interpretativa e un’energia intellettuale pari a quelle di The Gold Standard and the Logic of Naturalism di Walter Benn Michaels91. Oltre a rivolgersi verso un periodo le cui tendenze formali – in particolare il naturalismo – hanno sempre presentato problemi peculiari per la storia letteraria, e ad affrontare scrittori unici – Norris su tutti – che sembrano avere dimostrato un’insolita resistenza alla classificazione e alla valutazione, si dice che questo libro esemplifica in maniera speciale quella novità che si chiama “neostoricismo”, oggetto di notevole fascino per i polemisti attuali. Inoltre il libro sembra chiamato a “illustrare” un provocatorio e controverso testo teorico scritto dallo stesso Michaels insieme a Stephen Knapp, “Against Theory”92, presumibilmente dimostrando ciò che si può continuare a fare allorché si abbandona la “teoria”. In aggiunta a tutto ciò, l’attenzione verso la problematica della fotografia offre alcuni interventi stimolanti su quello che attualmente (nel postmodernismo) rappresenta forse il medium artistico maggiormente entusiasmante. D’altro canto, l’interesse per le questioni del romance e del realismo (e dello stesso moderno), combinate con il problema centrale del naturalismo sollevato prima, riportano all’ordine del giorno in maniera gradita e produttiva il genere e la periodizzazione. Infine, il libro mette in luce atteggiamenti politici forti (per alcuni aggressivi) che, a prima vista, intrattengono un rapporto tutt’altro che chiaro con le posizioni critico-letterarie. Ognuno di questi argomenti meriterebbe di per sé un’attenzione più ravvicinata; presi insieme lasciano intendere che la raccolta di Michaels (ma io sostengo che si tratta di qualcosa di più) offre un’occasione notevole per misurare la temperatura della critica e della teoria contemporanee (o postcontemporanee).

Nel saggio programmatico di Michaels e Knapp, la “teoria” dimostra di essere una categoria limitata in maniera rassicurante, che stranamente ignora la mole di tutti quegli ormai voluminosi materiali di provenienza continentale che negli ultimi vent’anni la parola ha evocato per molti di noi. I “teorici” non americani o di formazione europea saranno sicuramente colpiti dal quadro di riferimento del saggio, per il suo essere peculiarmente angloamericano e segnare il ritorno proprio a quelle preoccupazioni da dipartimento di Inglese (che validità ha questa lettura del poema canonico o del passaggio in questione?) da cui il resto di noi era in fuga, al posto delle quali la “teoria” (nel senso strutturale o poststrutturale, dialettico o tedesco) prometteva il conforto di interessi e problemi nuovi. A dire il vero, qui Gadamer fa la sua comparsa, ma in qualità di antagonista di Hirsch; Derrida è presente non solo per i suoi rapporti con l’America, bensì soprattutto in forza della sua polemica con Searle. È come se la naturalizzazione dipendesse ormai dall’avere validi nemici angloamericani. Più avanti sottolineerò tuttavia che le grandi tematiche e le questioni di origine continentale riaffiorano anche in The Gold Standard, e che la logica sottesa all’argomentazione di Michaels spinge quest’ultimo alla loro riscoperta e reinvenzione. Anzi, secondo me è proprio questo l’aspetto più straordinario e ammirevole del libro: il fatto che espone un procedimento di scoperta filosofica in atto davanti ai nostri occhi, e che Michaels si è abbandonato completamente alla logica del proprio contenuto, alla dinamica interna dei propri oggetti, al punto che i grandi problemi appaiono, per così dire, grazie al loro impeto e non convocati dall’esterno in forza di una certa tendenza filosofica, di una certa parola d’ordine attuale. Forse questo potrebbe fungere da momento di verità più profondo rispetto al programma altrimenti provocatorio di “Against Theory”: con la giusta combinazione di attenzione e ricettività, è lecito attendersi che i problemi si pongano in maniera tale da consentirci di aggirare le reificazioni del discorso teorico attuale.

Tuttavia non è questo che il saggio “intende” per “teoria”, cosa che si può ormai riassumere con tutta la concisione degli autori, cioè «la tendenza a generare problemi teorici separando termini che in effetti sono inseparabili» (at 12). Tale tendenza viene a sua volta identificata e localizzata in due tipi di errore privilegiato: la separazione di «intenzione autoriale e significato dei testi» (at 12) e una patologia più ampia, più “epistemologica”, che separa la «conoscenza» dalla «fede», generando l’idea che ci si possa in qualche modo «porre al di fuori della propria fede» (at 27), tanto che la “teoria” diviene ormai «il nome per tutti i modi in cui le persone hanno cercato di stare al di fuori della prassi, allo scopo di dirigerla dall’esterno» (at 30). Entrambe le questioni si ripresenteranno; e si è tentati di suggerire che un codice o una terminologia diversi le dividerebbero in questioni del soggetto da un lato e di ideologia dall’altro, prima di rimetterle insieme in un modo o nell’altro. Si tratta di una discussione che sarebbe interrotta prematuramente dalla facile obiezione che l’argomentazione di Michaels e Knapp ignora il problema più rilevante riguardo ai suoi obiettivi: perché separare «termini che in effetti sono inseparabili» rappresenta un errore tanto persistente, per adoperare le loro parole, e perché così tanti individui lo commettono e continuano a commetterlo. Abbagli ed errori sono presumibilmente faccende personali, frutto della stupidità o di un pensiero confuso; questo assume ormai le proporzioni di un mistero storico, rispetto al quale la prima risposta adeguata è la caratteristica reazione dello stesso Michaels, che in tutto The Gold Standard etichetta questi pensieri come «strani» e «bizzarri». Ed ecco infine perché pochi lettori possono avere preso sul serio la rassicurazione, piuttosto allarmante (mutuata da Stanley Fish), secondo cui cessare di produrre teoria non avrà conseguenze (pratiche) di sorta. Non è che tali lettori non dispongano di una qualche chiara controimmagine delle conseguenze in questione, ma il fatto è invece che sentiamo con molta forza che ci viene detto di smettere di fare qualcosa, che con energia e convinzione appassionate vengono eretti dei nuovi tabù, di cui non possiamo affatto intendere le motivazioni. Se c’è dunque qualcosa di «bizzarro» sta nello stesso nuovo tabù imposto alla “teoria”.

Uno dei silenzi enigmatici e intriganti di questa proposta concerne lo statuto che avrà la filosofia dopo la fine della “teoria”; quella stessa “fine” si può utilmente riformulare in termini filosofici come il ripetersi della vecchia tensione tra “immanenza” e “trascendenza”. Nell’ambito della critica letteraria, i New Critics si sono preoccupati in maniera eloquente ed efficace di tale problema, optando in favore del ben noto primato dell’immanenza testuale che talvolta a posteriori liquidiamo con il termine abbreviato di formalismo. Le parole che per loro equivalevano a immanenza e trascendenza erano “intrinseco” ed “estrinseco”; le forme della trascendenza teorica che cercavano di respingere erano costituite dalle informazioni storiche e biografiche estrinseche, ma anche dalle opinioni politiche, dalle generalizzazioni di ordine sociologico e dagli interessi “freudiani”. In sostanza il “vecchio” storicismo con l’aggiunta di Marx e Freud. Porre le cose in questi termini significa rendersi conto che, nel corso della sua ascesa trionfale – dagli anni Trenta marxisti alla canonizzazione accademica dei Cinquanta –, il New Criticism ha incontrato sul proprio cammino pochissime “teorie”. L’atmosfera intellettuale era ancora relativamente incontaminata dalla proliferazione teorica intrapresa con forza negli anni successivi: persino i dipartimenti di Filosofia dovevano ancora percepire le prime fresche raffiche del vento impetuoso scatenato dall’esistenzialismo. Sul terreno spiccavano soltanto un comunismo e una psicoanalisi antiquati, come corpi estranei enormi e brutti, dal momento che la storia stessa (all’epoca altrettanto antiquata) veniva sostanzialmente depositata nella pattumiera dell’”erudizione”. All’epoca, “immanenza” significava scrivere poesia e anche leggerla, circostanza dunque assai più emozionante di qualunque teoria.

Mettere le cose in questi termini implica inoltre comprendere che critica e teorie negli Stati Uniti di oggi affrontano situazioni del tutto diverse. Laddove la proliferazione di quelle che si potrebbero definire teorie “dotate di nome” è tanto intensa, sia per cadenza che nel numero, al punto da saturare in maniera incomparabile l’atmosfera culturale e intellettuale, e da rendere insensata la separazione dell’”intrinseco” propria del New Criticism, tale tendenza alla separazione, comunque la si concepisca, non fa che diventare l’ennesima teoria dotata di nome. Quanto alle due teorie menzionate in precedenza, la pluralità dei marxismi odierni, come la pluralità delle scuole psicoanalitiche, sembra rendere anch’esse meno minacciose, o se non altro meno evidentemente “estrinseche”. Quindi ci si può attendere che quella che Paul de Man chiamava «resistenza alla teoria» (che ovviamente significava soltanto alla sua propria “teoria”) assuma forme complesse, di secondo grado, solo in apparenza paragonabili alle resistenze precedenti. Persino la parola d’ordine del “ritorno alla storia” (ammesso che il neostoricismo vada davvero qualificato così) risulta fuorviante, in quanto oggi la “storia” non è il contrario della “teoria”, bensì a sua volta un’animata pluralità di “teorie” storiche e storiografiche (la scuola degli Annales, la metastoria, la psicostoria, la storia thompsoniana ecc.). Ma il “pluralismo” è di per sé un criterio di descrizione dell’attuale situazione intellettuale piuttosto “estrinseco”.

Quasi il primo problema che si incontra nel delimitare il neostoricismo e raccontarne la nascita riguarda la sua stessa denominazione, che ne presuppone l’esistenza in quanto “scuola” come “movimento” (o come “teoria” o “metodo”), mentre di fatto, come tenterò di dimostrare tra breve, costituisce una pratica di scrittura condivisa che sembra contrassegnare i vari seguaci, piuttosto che un contenuto o una convinzione di natura ideologica. Forse questo spiega le opinioni eterogenee a proposito dell’etichetta, la quale, pur da loro prodotta, ormai giunge loro dal di fuori, come una specie di accusa. Pochi movimenti intellettuali recenti (se si può ancora adoperare liberamente tale sostantivo) hanno generato tanta passione e tanto antagonismo come questo (con l’eccezione del decostruzionismo), così da destra quanto da sinistra. Anzi, se c’è un qualche pregio nel contraddistinguere l’epoca postmoderna come quella in cui le avanguardie e i tradizionali movimenti collettivi sono divenuti costitutivamente impossibili, allora appare plausibile che nella denuncia di qualcosa che assomiglia a un movimento collettivo di quel tipo (o anche accusato di passarsi per tale, o per il suo simulacro) siano all’opera delle forme di risentimento. Questa strana situazione a dir poco solleva di nuovo la questione dell’identità di un autentico movimento di avanguardia, nel momento in cui se ne afferma l’impossibilità strutturale.

Tale situazione spiega inoltre il malessere di coloro che vengono considerati i nuovi storicisti, i quali percepiscono, non senza giustificazione, che i loro libri sono stati trasformati in esempi di una qualche vaga idea o di un certo ismo, di cui vengono incolpati. Anzi, nelle pagine che seguono anch’io sarò colpevole in tal senso, e saltuariamente leggerò The Gold Standard appunto come un’illustrazione, nel bene o nel male, del metodo del neostoricismo. Ma questo dilemma è inevitabile, come ha mostrato Sartre molto tempo fa: un elemento cruciale della mia situazione particolare di individuo unico è sempre la categoria generale alla quale sono condannato dagli altri e di cui devo pertanto farmi una ragione (Sartre diceva assumere) nella maniera che preferisco – vergogna, orgoglio, comportamento elusivo –, ma che non posso attendermi di avere cancellato proprio perché rappresento qualcosa di speciale. Ai neostoricisti accade dunque ciò che accade ad altri presi di mira dalla “discriminazione”: come avrebbe detto Sartre, un neostoricista è un individuo che altri considerano un neostoricista. Nella nostra diversa terminologia, ciò significa di fatto che l’immanenza individuale qui sta in tensione con una certa trascendenza, che ha la forma di etichette e identità collettive, apparentemente esterne. La forma teorica della “negazione” consiste nondimeno nel sostenere in primo luogo che la dimensione trascendente non esiste in quanto non è data empiricamente e non dispone di un reale status ontologico o concettuale. Nessuno ha mai visto questi collettivi, né li ha esperiti direttamente, mentre gli ismi che corrispondono a essi sembrano comportare gli stereotipi più frusti o il più vago pensiero generalizzante. Ne consegue, per addurre gli esempi più plateali di una siffatta negazione del trascendente, che le classi sociali non esistono, o che, nella storia letteraria, concetti come il “modernismo” siano grezzi surrogati di quella esperienza assai diversa e qualitativamente discriminata che è la lettura di un singolo testo (che non ha più nemmeno modo di essere identificato come “modernista”). Il pensiero e la cultura contemporanei in tal senso risultano profondamente nominalisti (per estendere la diagnosi condotta da Adorno sulle tendenze dell’arte moderna) e il postmodernismo lo è completamente, più di ogni altra cosa lo abbia preceduto. Ma la contraddizione tra immanenza e trascendenza resta come prima, comunque lo Zeitgeist decida di trattarla; se mai, essa viene acuita dalle straordinarie forze sistematizzanti e unificanti del tardo capitalismo, talmente onnipresenti da essere invisibili, al punto che la loro azione trascendente non sembra porre il problema intellettuale della stessa trascendenza nella maniera tangibile e plateale propria delle fasi precedenti, quando il capitalismo era meno compiuto e più discontinuo.

Per questo è tanto improprio quanto inevitabile leggere The Gold Standard come un esemplare caratteristico del neostoricismo, operazione che esige che si sviluppi o si compendi qualche utile stereotipo di tale “movimento”. Credo che si possa farlo solo mediante la narrazione (prima c’era questo, e adesso quest’altro) e il racconto che propongo di narrare si basa sui mutamenti effettuati dall’introduzione del concetto di “testo”. Tali mutamenti non si verificano in prima istanza nell’ambito letterario, ma tornano a esso in seguito, da un “esterno” modificato dalla nozione di testualità, la quale sembra ormai riorganizzare gli oggetti delle altre discipline e rendere possibile affrontarli secondo criteri nuovi, che allontanano la problematica nozione di “oggettività”. Accade così che il potere politico diventa un “testo” che si può leggere; la vita quotidiana si trasforma in un testo da attivare o decifrare camminando o facendo acquisti; i beni di consumo si rivelano un sistema testuale, insieme a parecchi altri “sistemi” concepibili (lo star system, il sistema dei generi nel cinema di Hollywood ecc.); la guerra diviene un testo leggibile, come la città e l’elemento urbano. E infine il corpo stesso dimostra di essere un palinsesto: le fitte di dolore, i sintomi, gli impulsi più profondi e l’apparato sensoriale si possono leggere esattamente come qualunque altro testo. È indubbio che tale ricostruzione degli oggetti di studio fondamentali sia stata ben accetta e ci abbia liberato da tutta una serie di falsi problemi soffocanti, e nessuno ha mancato di prevedere che essa avrebbe portato a sua volta falsi problemi di tipo nuovo. Il mio interesse qui è rivolto ai dilemmi formali che questa concezione della testualità incomincia a porre alla scrittura espositiva (ossia alla Darstellung, per adoperare il termine classico che comprende la mera “rappresentazione”, ma al contempo significa qualcosa di più essenziale).

Questi dilemmi non affiorano in una precisa disciplina omogenea, dove, per esempio, il potere venga letto come un testo senza l’interferenza di materiali di tipo diverso. Ma laddove si giustappongono parecchi tipi di materiali o di oggetti, viene alla luce un problema di rappresentazione che si può risolvere esclusivamente per mezzo di una “teoria” (che talvolta assomiglia a un “metodo”). Così, entro la vasta portata degli interessi di Lévi-Strauss, avanzano le proprie pretese divergenti svariati oggetti di studio eterogenei: il sistema della parentela su tutti, ma anche la “struttura sociale” nel senso più ristretto di organizzazione dualistica o ternaria, e infine la cultura medesima, sia sotto forma di “stile” visivo di una data società tribale, sia nei suoi racconti orali. La famiglia, la classe, la vita quotidiana, l’elemento visivo e quello narrativo: ciascuno di questi “testi” presenta problemi specifici, i quali vanno a combinarsi in problemi qualitativamente più densi, se cerchiamo di leggerli l’uno accanto all’altro e di inglobarli in un singolo discorso relativamente unitario. Anticipando il pensiero sociale postmoderno, Lévi-Strauss evita di instaurare un’entità totalizzante fittizia come la Società in sé, sotto la quale venivano ordinate sul piano organico e gerarchico entità più circoscritte ed eterogenee del tipo già elencato. Tuttavia egli può farlo soltanto con l’invenzione di un’entità fittizia (o trascendente) di natura diversa, nei cui termini si possono leggere, come si trattasse in un modo o nell’altro della “stessa cosa”, i vari “testi” indipendenti della parentela, dell’organizzazione del villaggio e della forma visiva: è il metodo dell’omologia. Per quanto distinti l’uno dall’altro, questi vari “testi” circoscritti e concreti si possono nondimeno leggere come omologhi l’uno rispetto all’altro, nella misura in cui se ne dipana una struttura astratta che sembra essere attiva in tutti, secondo le loro specifiche dinamiche interne. In linea di principio la “teoria” della struttura, che giustifica la pratica dell’omologia come metodo, consente quindi di evitare l’instaurazione di priorità ontologiche. Almeno in teoria, la struttura della parentela risulta dunque non più fondamentale o anteriore a livello causale dell’organizzazione spaziale del villaggio (benché nei fatti lo slittamento sembri qui inevitabile, e lo stesso Lévi-Strauss spesso paia implicare proprio tali priorità e tali livelli “più profondi”). Per garantire l’indifferenza e la mancanza di gerarchia dei vari sottosistemi è però necessaria una categoria esterna, quella della “struttura”. La mia impressione è che l’influsso dello “strutturalismo” (con la straordinaria ricchezza di analisi nuove che ha schiuso) vada piuttosto ascritto alla possibilità di operare delle omologie, invece che al pretesto operativo – il concetto di struttura – che ne costituiva il presupposto filosofico, la finzione operativa (ossia l’ideologia). Occorre dire allo stesso tempo che la nozione di omologia si è rapidamente dimostrata un impiccio, un’idea tanto rozza e grossolana quanto quella di “base e sovrastruttura”, la scusa per le formulazioni più generiche e le asserzioni meno illuminanti di una “identità” tra entità del tutto diverse per qualità e dimensioni. Anzi, per la sua condanna si potrebbe invocare la stessa critica della “teoria” condotta da Michaels, pur con alcune modifiche (di cui analizzerò più avanti le implicazioni): da un’entità concreta, un “testo” – i fenomeni della parentela, per dire, oppure l’ubicazione di un villaggio –, è stata astratta o disgiunta una sorta di “intenzione”, la struttura soggiacente, al punto che il testo concreto finisce per apparire l’espressione o la realizzazione di quella intenzione formulata in maniera indipendente.

La soluzione evidentemente non starà comunque nella regressione agli stili delle vecchie discipline pretestuali, in altre parole nel ritorno all’analisi separata, specialistica di tutti quei materiali, o “testi”, eterogenei. Lo sviluppo discorsivo segnato dal “momento strutturalista” o dalla “teoria” della struttura che autorizzava la pratica dell’omologia è stato l’ampliamento dell’oggetto e la possibilità di stabilire una serie di nuovi rapporti tra materiali di specie diverse. E oggi non vi si deve rinunciare, al di là delle posizioni individuali sulla componente “teorica”. L’ambiguità del manifesto di Michaels e Knapp risiede in altri termini nella possibilità di essere letto come un appello al ritorno al procedimento pre-teorico, laddove esso, nella prassi del neostoricismo, dimostra di schiudere un insieme post-teorico di operazioni, le quali serbano la conquista discorsiva di una serie di materiali eterogenei e al contempo rinunciano tranquillamente alla componente teorica che in passato giustificò quell’ampliamento, trascurando in primo luogo le interpretazioni trascendentali che un tempo parvero il fine ultimo delle omologie.

Raffigurerò dunque il neostoricismo come un ritorno all’immanenza, come il prolungarsi delle procedure dell’”omologia”, che evita la teoria dell’omologia e abbandona il concetto di “struttura”. Si tratta peraltro di un’estetica (una convenzione della scrittura, una modalità della Darstellung) per la quale emerge una regola formale, che governa una sorta di proibizione o di tabù riguardo alla discussione teorica e alla presa di distanza interpretativa dal materiale, alla formulazione di un bilancio provvisorio, al compendio dei “punti” realizzati. La finezza consiste in tal caso nel costruire dei passaggi tra le varie analisi concrete, transizioni o modulazioni abbastanza creative da precludere il porsi di questioni di ordine teorico o interpretativo. Nel corso di questi momenti cruciali di transizione l’immanenza, l’abolizione della distanza devono essere mantenute in modo tale da far sì che la mente sia presa dal dettaglio e dall’immediatezza. Deriva da qui, nei più riusciti di questi prodotti, quel senso di affanno, di ammirazione per la perizia dell’impresa, ma anche di disorientamento che coglie alla conclusione del saggio, da cui si ha la sensazione di uscire a mani vuote, senza idee o interpretazioni delle quali appropriarsi.

Da questa prospettiva il volume inaugurale del neostoricismo, Renaissance Self-Fashioning di Stephen Greenblatt, a posteriori ha l’aspetto di una di quelle classiche scoperte scientifiche paradigmatiche compiute grazie a un caso fortunato nel tentativo di risolvere un falso problema (il platonismo di Keplero o di Galileo). Come indica il titolo, il punto di partenza, il quadro di riferimento, sembra essere stata una concezione piuttosto antiquata dell’”io” e dell’”identità” – ideologie e valori, questi, assai peculiari del modernismo avanzato –, che l’analisi finisce per demolire e screditare del tutto, benché tale esito non venga mai teorizzato e le sue implicazioni non siano mai tracciate a livello teorico. Si verifica qui una notevole combinazione di sofisticazione interpretativa, di intensa intellezione e di energia teorica, mentre sono escluse l’autocoscienza e la riflessività di tipo classico; tutto questo caratterizza dunque i prodotti più riusciti del neostoricismo. È ovviamente il caso del materiale particolare di Greenblatt, che con la sua logica interna ha determinato la decostruzione dell’intelaiatura ideologica: degli ego capaci di modificare le proprie figure con una efficacia tale, in ultima istanza, da mettere in discussione l’idea stessa di ego. Tuttavia le tematiche dichiarate del volume sembrano averne costituito il tratto meno influente, che sta invece nel modo in cui il tema sondato apertamente apre un asse tra teologia e imperialismo, asse su cui va a inscriversi un materiale documentario che spazia dall’istituzione della confessione alle edizioni della Bibbia inglese di Tyndale, fino ai resoconti di terribili atrocità commesse in Irlanda o alle Bahamas. L’associazione tematica inizialmente identificata nell’«io», interpretata con tutta la raffinatezza analitica della psicoanalisi, non viene rifiutata, ma rimodellata e, per così dire, transcodificata: «per quello che ho potuto vedere, in tutti i miei testi e documenti non c’era alcun momento di soggettività pura, libera; anzi, il soggetto umano in sé ha cominciato ad apparire notevolmente vincolato, quale prodotto ideologico dei rapporti di potere di una determinata società»93. Questa nuova versione retroattiva del Leitmotiv tematico, che alla fine sembra ormai nominare l’omologia, ossia la struttura, come il Potere in sé, mi colpisce però per il suo essere a sua volta una sorta di “stimolo del meccanismo”, vale a dire un’entità invocata a fatto compiuto per razionalizzare la pratica del collage, del montaggio di molteplici materiali. Il «potere» qui non è una nozione interpretativa, né un oggetto teorico “trascendentale” su cui opera il testo, e che cerca di produrre, bensì, piuttosto, una rassicurazione che garantisce la propria immanenza e consente all’attenzione del lettore di indugiare e persistere nel dettaglio senza rimorso o disagio.

Ciò, almeno, è quanto accade quando si legge Renaissance Self-Fashioning quale paradigma dei procedimenti del neostoricismo, cioè come dimostrazione di un “metodo” (o di un discorso) che si può reimpiegare altrove (nell’età vittoriana, oppure, come nel caso presente, nell’epoca del naturalismo americano). Occorre infatti aggiungere che il libro risulta strutturalmente ambiguo. Se lo si legge come un contributo al sapere sul Rinascimento, viene alla luce qualcosa di assai diverso da ciò che ho descritto sopra, cioè una proposta storica e l’abbozzo sperimentale di una narrazione storica nella quale una parvenza di soggettività, di interiorità (ma soltanto una parvenza, che esita tra la sicurezza di due istituzioni) fa la propria comparsa all’epoca di Tyndale e di More, si secolarizza in Wyatt e infine, nell’età elisabettiana, con Marlowe e Shakespeare viene sospinta nel carattere fittizio e nella fastosità drammatica di un nuovo tipo di non-soggetto. Anche qui si invoca la categoria del soggetto soltanto per “decostruirla”, ma restano i rudimenti di un’interpretazione storica trascendentale, che si possono adoperare e discutere in maniera molto diversa. Qui il loro definitivo abbandono da parte del neostoricismo viene adombrato dal relativo troncamento del segmento storico, che rende difficile determinare se venga identificata una tendenza di proporzioni più vaste oppure solamente una trasformazione circoscritta da un punto a un altro.

Occorre individuare e poi scartare un altro modo di pensare riguardo all’immanenza nel neostoricismo, cioè che esso non fa che riflettere il disagio dello storico di fronte alle generalizzazioni teoriche (solitamente di carattere sociologico o protosociologico, giacché nella maggior parte dei casi in questa situazione a essere in questione è la tensione costitutiva tra storia e sociologia). I procedimenti degli storici degli Annales, o di Ginzburg, o addirittura uno degli impulsi dell’attacco di Thompson contro Althusser, dimostrano un’avversione fortemente teorica a “teorizzare” che ha una certa rassomiglianza con il neostoricismo. Per quanto concerne invece l’altra tendenza della disciplina, l’antropologia “narrativa”, nel suo primo libro Greenblatt ne evoca esplicitamente le figure chiave (Geertz, Turner ecc.), malgrado all’epoca non conoscesse la codificazione di questa tendenza operata da George Marcus e James Clifford, senza dubbio connessa molto più strettamente allo stesso neostoricismo, come una sorta di reazione feconda alla sua comparsa. Quale che sia la direzione degli storici, la rassomiglianza si potrebbe comunque analizzare meglio in termini di sovradeterminazione: ciò significa che l’affinità ideologica del neostoricismo con quelle tendenze aggiunge una certa ulteriore risonanza alla sua ricezione e alla sua valutazione, al suo prestigio come nuovo movimento, però non va molto lontano nella direzione di una spiegazione del significato e della funzione di questo nuovo fenomeno storico nel suo contesto, tanto storico-letterario quanto teorico.

Adattando la celebre espressione di Ejzensˇtejn, riassumerò dunque il discorso del neostoricismo con la formula “montaggio delle attrazioni storiche”, nel quale viene imbrigliata e dispiegata un’estrema energia teorica, che però è al contempo repressa da una valorizzazione dell’immanenza e del nominalismo, circostanza che può apparire come un ritorno alla “cosa in sé” oppure come una “resistenza alla teoria”. Questi montaggi elaborati operano con maggiore vigore nella forma breve e si possono osservare, nel loro straordinario effetto, in due saggi diversi, ossia “Invisible Bullets” dello stesso Greenblatt e “The Bio-economics of Our Mutual Friend” di Catherine Gallagher. Nello studio di Greenblatt, la sorveglianza della polizia, la colonia della Virginia e la falsificazione di monete d’oro si giustappongono alle grammatiche rinascimentali, all’insegnamento delle lingue e all’imitazione dei dialetti in Shakespeare. Nel saggio di Gallagher, Malthus, le tematiche della morte, il movimento igienista dell’Ottocento e le nascenti concezioni della vita e della vitalità sono costellate, sotto il segno del Valore, dalla rappresentazione dello smaltimento dei rifiuti e dei liquami nel romanzo di Dickens. Da quel che si è detto sarà comunque chiaro che considero gli argomenti manifesti di questi saggi – l’Altro e il valore – quali pretesti per il montaggio in questione, invece che come “concetti” di per sé.

Anche un uso metaforico del linguaggio di Ejzensˇtejn, sia detto di sfuggita, ci rammenta che le analogie con le forme del neostoricismo esistono ben oltre i confini di discipline connesse come la storia e l’antropologia, mentre l’allestimento di tali opere discorsive secondo criteri estetici, in termini di forma o di Darstellung, indica già dei parallelismi storici più generali; ne menzionerò soltanto due. Il modo in cui le nuove forme del montaggio cinematografico vanno connesse a una pedagogia che stimoli il pensiero e sospinga lo spettatore al di fuori di una certa contemplazione meramente immanente delle immagini visive non costituisce esclusivamente il problema classico di un Ejzensˇtejn o di un Brecht, ma anche lo spazio contemporaneo più immediato entro il quale i film di Godard lottano disperatamente, e in maniera molto più problematica, con quell’eredità. È innegabile che Godard avesse delle “idee” non meno teoriche di quelle di Brecht o Ejzensˇtejn, idee sulla società dei consumi e sulla politica maoista che il film aveva il compito di trasmettere in un modo o nell’altro. Ma in Godard tali “idee” paiono essere divenute indecidibili come quelle del neostoricismo (il potere, l’Altro, il valore), circostanza che lascia per lo meno intendere che qui non siamo di fronte a inclinazioni o a scelte strettamente personali da parte dei singoli autori in questione, bensì a una situazione storica e a un dilemma di portata più ampia, per i quali posizioni concettuali come queste (che ho denominato “trascendenza” discorsiva) vengono delegittimate e screditate dal movimento più generale verso l’immanenza, verso ciò che Adorno chiamava nominalismo. Per esempio, non è più sicuro che gli accostamenti fortemente caricati e ammonitori dei film di Godard – un’immagine pubblicitaria, uno slogan stampato, i cinegiornali, l’intervista a un filosofo, il gestus di questo o quel personaggio fittizio – verranno rimessi insieme dallo spettatore nella forma di un messaggio, per non dire del messaggio giusto. Benché la Dialettica negativa si possa leggere per molti aspetti come il tentativo di trattare in maniera feconda il medesimo dilemma storico dell’immanenza e della trascendenza (che per l’autore non si può risolvere come tale), Adorno si è trovato di fronte questo dilemma nudo e crudo nella pratica (per lui) inammissibile del Benjamin del progetto sui Passages. Le lettere scambiate tra i due in quella circostanza tracciano la linea al di là della quale Adorno non era disposto ad andare, dinanzi alla riluttanza da parte di Benjamin a dire al lettore che cosa significassero e come interpretare le sue “costellazioni”, i suoi montaggi. Nella tradizione angloamericana, questa inquietudine dell’immanenza ritrova la propria genealogia nella nozione poundiana dell’ideogramma e nei dilemmi pedagogici dei Cantos. Abbiamo tutto l’interesse a ricollocare il fenomeno del neostoricismo in tale contesto storico e formale più ampio, nel quale le sue soluzioni (o scappatoie) particolari trovano una risonanza storica maggiormente esemplare.

The Gold Standard and the Logic of Naturalism costituisce naturalmente un altro di questi montaggi, che funzona sul duplice livello del singolo capitolo e del libro nella sua interezza. Questa prolungata dimostrazione della forma (o del “metodo”) del neostoricismo racchiude un ulteriore interesse per noi, in virtù del fatto che risulta organizzata senza l’intelaiatura delle “tematiche” tradizionali o convenzionali come l’”io” del pionieristico lavoro di Greenblatt (benché il gesto sporadico verso una tematica della “scrittura”, come avviene nell’introduzione, sembri ingannevolmente inteso a rassicurare il lettore di essersi imbarcato in un’impresa più consueta).

Il libro appare attraversato in maniera discontinua da tre ritmi distinti; l’attenzione verso ciascuno di essi fa da sfondo agli altri e genera una lettura alquanto diversa. Essi sono: 1) la prassi delle omologie come tale o, in altre parole, quel “montaggio delle attrazioni storiche” nel quale ho scorto il principio formale maggiormente caratteristico del discorso neostoricistico; 2) la polemica apparentemente condotta contro le interpretazioni liberali o radicali, ma che in effetti ricapitola la “posizione” delineata in “Against Theory”; 3) una narrazione protostorica in cui si afferma qualcosa sulla specificità di questo determinato periodo, sul suo declino e la sua imminente trasformazione in qualcosa d’altro. Tale narrazione si può intendere più chiaramente in termini economici (l’ideologia del sistema aureo, le controversie sui contratti, la nascita dei trust), ma la si può ricostruire anche secondo criteri di genere o di movimento letterario (realismo, romanzo sentimentale, naturalismo) o persino in termini di rappresentazione, come nelle notevoli pagine sul trompe-l’œil e sulla fotografia (dove peraltro trovano probabilmente posto le analisi dell’écriture). Non da ultimo l’interesse di The Gold Standard risiede in questa polifonia fortuita, che va perciò distinta da una certa regola presunta del neostoricismo mediante la presenza di altri aspetti, di altri livelli (in particolare il secondo, quello polemico).

A una prima lettura, le omologie catturano comunque l’attenzione principale, a causa della straordinaria eterogeneità dei loro materiali, che comprendono la medicina, il gioco d’azzardo, il possesso della terra, il masochismo, la schiavitù, la fotografia, i contratti, l’isteria e, non ultimo, il denaro. Si potrebbe dire che la legittimazione del denaro e le sue relative proiezioni (la legge sul trust, il mercato dei future, la retorica dell’oro) quali argomenti degni di analisi critico-letteraria rappresentino il contrassegno di Michaels, come l’accento sulla narrativa di viaggio e sull’imperialismo era quello di Greenblatt. Di notevole c’è il fatto che l’indagine delle motivazioni economiche oggi si è spogliata di tutte le sue connotazioni marxiste, in passato inevitabili. Non molto tempo fa, l’atto stesso di includere, sia pure in maniera succinta, lo sfondo economico accanto al consueto “contesto culturale” (scienza, religione, “visioni del mondo”) all’interno di un saggio critico o letterario aveva un significato e delle conseguenze di carattere politico, indipendentemente dal contesto dell’interpretazione storica in questione. È vero che in tal senso il termine “denaro” non è più esattamente contiguo all’elemento “economico”. Numismatiques di Jean-Joseph Goux era ancora un “contributo” al pensiero marxista, i libri pionieristici di Marc Shell sul denaro e la moneta sono già più neutrali, mentre in Michaels il “denaro” rappresenta semplicemente un altro “testo”, malgrado l’esistenza di una sorta di frontiera estrema, di zona arida nella quale gli umanisti privi della capacità di resistenza dell’autore sono ancora in larga parte restii ad avventurarsi. Paradossalmente il fattore politico qui non entra in gioco nella questione dello sviluppo del capitalismo nordamericano (i monopoli), ma invece, come vedremo, nelle questioni del mercato e del consumo, molto più prossime alla contemporaneità. (In Greenblatt, l’imperialismo resta ancora una problematica assai più fortemente politica, ma in una situazione come quella odierna, nella quale accanto al marxismo è sbocciato una specie di radicalismo alternativo, di tipo foucaultiano e terzomondista, con tratti più esclusivamente antimperialisti).

In The Gold Standard il denaro entra in scena quale prova a sostegno e non come oggetto a sé stante. Ecco una prima formulazione dei meccanismi che ci permettono di passare da un livello all’altro (il punto di partenza è costituito dai particolari scarabocchi e dalla “produzione” di segni da parte dell’eroina del romanzo La carta gialla di Charlotte Perkins Gilman):

Da questa prospettiva, la donna isterica incarna non solo il primato economico del lavoro, ma anche il nesso tra tale primato e il problema filosofico dell’identità individuale. L’interrogativo economico – come mi produco? – e quello terapeutico – in che modo posso restare me stesso? – trovano un parallelo nella questione epistemologica – come posso conoscermi? – o in maniera più specifica, secondo i termini di James, come so oggi che «sono lo stesso di ieri»? Che cosa «intende la coscienza quando definisce l’io presente come identico a quelli passati che ha in mente». (gs 7, corsivo mio)

Questa formulazione è ingannevolmente netta e irrevocabile: in realtà non fa che innescare il processo omologico o analogizzante, che si propagherà rapidamente a un gran numero di altri ambiti. Non è nemmeno chiaro se la “struttura” qui identificata e nominata – l’”io” – abbia qualcosa in comune con il concetto dal quale parte Greenblatt: questo io alla Hume appare già filosoficamente screditato e annullato fin dal principio, attraverso di esso vediamo anticipatamente il fondo. Qualunque stabilità fittizia escogiti, essa dovrà giungere dall’esterno, da istanze e risorse diverse, che alla fine vengono identificate in un “livello” non menzionato nel brano citato, cioè nelle forme della proprietà. In altre parole, non è affatto chiaro se Michaels sia guidato da una problematica astratta dell’io. Con una certa plausibilità si potrebbe sostenere che qui il linguaggio dell’io si limita a designare un’ennesima prova testuale della materia prima, vale a dire i libri di William James, i cui Principi di psicologia sono essenziali per The Gold Standard quanto gli scritti di Dreiser, Norris, Hawthorne, Wharton e altri. Così le nozioni dell’”io” da soluzioni o strutture esplicative scadono alla condizione di problemi testuali, di reperti esibiti insieme a tanti altri, dal linguaggio concettuale ormai privo di qualunque privilegio.

In effetti è lo stesso James a fornire la mediazione che consente di allontanarsi dall’elemento psicologico (o anche psicoanalitico) verso le categorie dei diritti di proprietà. Per mezzo di un passaggio rilevante nel quale James paragona la persistenza dell’identità individuale tra i nostri vari ricordi del passato alla marchiatura del bestiame con un “segno” distintivo, si arriva a una formulazione più soddisfacente, ove il linguaggio della produzione è stato rimpiazzato da quello giuridico:

James ritiene che il nostro errore sia stato quello di immaginare il pensiero (presente) come qualcosa che instaura una proprietà sui pensieri passati; dovremmo invece pensarlo come qualcosa che già li possiede. Il possessore ha «ereditato il proprio “titolo”». La sua «nascita» coincide sempre con «la morte di un altro possessore»; anzi, l’esistenza stessa del possessore deve coincidere con la nascita del posseduto. «Ogni pensiero nasce quindi possessore e muore posseduto, trasmettendo tutto ciò che ha riconosciuto come suo al proprio successore». (gs 9).

Con questa riformulazione, che sostituisce l’analogia dei diritti di proprietà a quella della produzione, si spalanca la strada maestra verso il lavoro associativo dei capitoli successivi: ora si può passare immediatamente alla questione del romance e della fotografia in Hawthorne. Il romance offrirà dunque la stabilità del «titolo incontestato e del diritto inalienabile» (gs 95) e la sicurezza contro le fluttuazioni del mercato dei valori immobiliari, laddove contro ogni aspettativa la pratica della fotografia (il mestiere di Holgrave nella Casa dei sette abbaini) finirà per essere «un’impresa artistica avversa all’imitazione» (gs 96). Se si associa la mimesi al realismo (e perciò alla minacciosa dinamica del mercato), la singolarità e l’«iperrealtà» delle prime fotografie, i dagherrotipi, sarà registrata come qualcosa d’altro, come un’attività ermeneutica che «svela il carattere segreto della gente con una veridicità di cui un pittore non sarebbe mai capace» (Hawthorne, citato in gs 99).

Questa particolare omologia con le forme di “arte” atipiche o marginali (il romance invece del realismo, la fotografia invece della grande tradizione dell’allora nascente pittura moderna) verrà ripresa nuovamente quando, con Norris e con il trompe-l’œil di Peto e Harnett, affronteremo quell’altro fenomeno anomalo che è il “naturalismo”. Questi media minori qui non annullano la grande narrazione lineare del telos della storia artistica o letteraria, ma stanno, per così dire, ai margini, come accade nella trattazione del naturalismo istintuale e del feticismo di Stroheim e Buñuel nella tipologia filmica tracciata da Deleuze. La soluzione impossibile della Casa dei sette abbaini – titolo permanente al di là del mercato, “immunità dall’appropriazione” – conduce ormai più direttamente alla possibilità di immaginare diversi tipi di relazioni concettuali tra l’io e la proprietà (tratterò più avanti l’interrogativo politico suscitato da questa lettura di Hawthorne, cioè se questa visione romanzesca non vada interpretata come una critica del mercato, come una sua trascendenza utopica). Tuttavia le estreme possibilità concettuali si danno nei tentativi di teorizzare la schiavitù e nei “bizzarri” accordi contrattuali per le pratiche “masochistiche” di Sacher-Masoch. Devo tralasciare l’ottima analisi di questi argomenti operata da Michaels, salvo osservare che la questione della schiavitù ancora il libro entro la tradizione della storia americana, mentre l’incursione apparentemente anomala attraverso materiali dell’Europa dell’Est in realtà istituisce il precedente fondamentale di The Gold Standard nel suo insieme: vale a dire la combinazione, in Norris e soprattutto in McTeague, dei fenomeni collegati dell’avarizia e del masochismo (nella persona di Trina). Finalmente l’oro fa la sua trionfale apparizione nella “realtà” del testo naturalistico (opposto ai fantasmi e alle soluzioni immaginarie delle “teorie” giuridiche della schiavitù da un lato o del “diritto canonico” del masochismo dall’altro). Il lungo excursus attraverso gli argomenti della terra e della proprietà ha tuttavia fornito a questa nuova combinazione di valore e di io il “livello” supplementare della teoria giuridica del contratto, la quale, come vedremo, si affrancherà presto da questi vincoli e diverrà autonoma.

L’ingegnosa lettura che Michaels offre di McTeague ha il merito di “creare il problema” di questo romanzo mediante una “soluzione” che necessariamente non convincerà tutti i suoi lettori (non più dell’interpretazione di Charlotte Perkins Gilman): «Pertanto la contraddizione è che Trina appartiene a McTeague, ma il suo denaro no. […] I desideri simultanei di possedere e di essere posseduti costituiscono il paradosso emotivo che Norris si propone di elaborare in McTeague» (gs 123). Questo può anche non piacere, ma in ogni caso d’ora in avanti il problema da risolvere – cui si troverà di fronte qualunque lettura a venire – sarà quello della disgiunzione dei “temi” del denaro e della violenza istintuale. Tale particolare soluzione consente a Michaels di tracciare il nesso tra l’avarizia rappresentata in questo testo e la passione dello scialacquatore in altri (Vandover and the Brute): per il tramite di Simmel, entrambe appaiono quali tentativi «tragici» di sfuggire al sistema del mercato in quanto tale e di abolire il denaro:

È come se, dal punto di vista dello scialacquatore, il rifiuto da parte dell’avaro di spendere denaro rappresentasse il tentativo fallito di allontanarsi dall’economia monetaria, fallito perché in quest’ultima non si può mai negare il potere d’acquisto del denaro. Per lo meno esso acquisterà sempre sé stesso. Facendo di meglio rispetto all’avaro, lo spendaccione a sua volta cerca di comprarsi la propria via d’uscita dall’economia del denaro. Se l’avaro permuta sempre il denaro per il denaro, lo scialacquatore cerca di farlo in cambio di nulla e così, inscenando la scomparsa del potere d’acquisto del denaro, tenta di mettere in atto la scomparsa del denaro medesimo. (gs 144)

La ricomparsa, in questa sede, della nozione di “mercato” ci avverte di un elemento polemico, cioè della funzione politica di questo brano, su cui tornerò al momento opportuno. L’analisi peraltro permette a Michaels di troncare, forse prematuramente, tutte le interpretazioni del naturalismo – comprese quelle degli stessi naturalisti – secondo le categorie dell’istinto, dell’atavismo, della libido arcaica e dell’ossessione (i grandi furori brutali da cui sono posseduti i personaggi di Zola e di Norris e che li scuotono dalla testa ai piedi come forze della Natura). Ciò che assomiglia all’inconscio o all’istinto nella lettura di Michaels viene decodificato, ancora una volta per il tramite di William James, come comportamento intenzionale, quand’anche vano e contraddittorio.

La lettura consente infine a Michaels di dar luogo alla dimostrazione centrale promessa dal titolo del libro, vale a dire l’analisi del “gold standard” in sé, o piuttosto della fede appassionata e persino ossessiva nel valore naturale dell’oro, quale forma estrema della brama di fuga dal mercato. Se ci si allontana dalla confusione di documenti d’epoca attraverso cui ci guida l’autore, non è difficile cogliere una certa aria di famiglia tra le diagnosi locali di Michaels e tutta una serie di denunce poststrutturaliste delle ideologie della natura e dell’”autentico”, ormai tipiche. Non si dovrebbero assumere troppo frettolosamente i primi smascheramenti brechtiani operati da Barthes nei confronti delle strategie della “naturalezza” e dei miti connessi (che si leggono in Miti doggi) come fonte di questa particolare crociata (allorché scrivono di Rousseau, sia Derrida che de Man risultano immediatamente più utili), la quale conosce in sostanza la propria prova generale nel Turista di Dean MacCannell e il proprio programma in Baudrillard, precisamente in quello della critica dei concetti di “bisogno” e di “valore d’uso”. Le conseguenze estetiche del dibattito sulla natura, l’oro e l’autenticità sono peraltro fondamentali e trovano espressione nelle critiche della rappresentazione (parimenti postcontemporanee e canoniche), che qui riaffiorano nelle poche brillanti pagine dedicate al trompe-l’œil, dove Michaels adopera, e al contempo scardina, la concezione modernista propria di Greenberg: «Il quadro che può non rappresentare nulla e restare ancora un quadro è “denaro in sé”, mentre l’estetica modernista (o forse letteralista) della libertà dalla rappresentazione è un’estetica da fanatici dell’oro» (gs 165). Questo è un modo ingrato di trattare i propri alleati, che tuttavia sottolinea la problematica posizione del modernismo nel presente. L’ideologia del moderno ha conquistato l’egemonia con la negazione e la repressione del periodo naturalista, con il quale ha rotto in maniera radicale; perciò anche una rivendicazione letteraria di questo specifico momento, che non sembra adattarsi alla trionfale narrazione modernista (oppure a un’ottica realistica), implicherà opinioni fortemente eterogenee sulle posizioni classiche del modernismo avanzato, anche laddove queste derivino dalla pittura e non dalla poesia. Di conseguenza si può considerare lo stesso revival odierno del naturalismo, in pieno postmodernismo, come una sorta di ritorno del represso, segnato da rapporti con le interpretazioni postmoderne del moderno (come quella di Michael Fried) che, nella migliore delle ipotesi, sono destinati a restare incerti. Il trompe-l’œil – così antiquato eppure così simulato e iperreale (si veda cosa ne scrive Baudrillard) – offre oggi un punto archimedico al di fuori del moderno, dal quale si può mettere in atto la critica (modernista) della rappresentazione secondo criteri estranei al modernismo.

C’è tuttavia, alla fine, un certo mutamento di accento tra le posizioni di Michaels e quelle dei vecchi critici dell’autenticità, mutamento che sono incerto se ascrivere alle differenze tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Nondimeno, sembra mancare qui l’urgenza morale e politica delle posizioni precedenti ancora condivise da Michaels; la polemica si è evidentemente riorganizzata, la sua nuova asprezza si è ormai combinata con accenti celebrativi che trovano qualche eco e qualche analogia in Lyotard invece che in Baudrillard.

Prima di esaminare questo piano maggiormente polemico del libro di Michaels, però, vale la pena soffermarsi per misurare la distanza coperta dalla tematica dell’io dalla quale sono partito: riemergerà inaspettatamente, dopo una notevole inversione di rotta, ma per il momento l’”io” sembra essere stato utile soprattutto nella conquista di terreni come la schiavitù, i contratti, la rappresentazione e il denaro, che hanno il merito di consentire di lasciarci alle spalle la psicologia. Eppure resta ancora una questione aperta, collegata agli stessi procedimenti dell’omologia, se cioè qualcuno di questi livelli abbia una certa priorità essenziale, un valore esplicativo privilegiato. Oppure ancora, per dirla in termini opposti, si può inventare un modo di produrre omologie senza farsi risucchiare nell’ideologia della “struttura” e trovarsi a istituire priorità e gerarchie contro la propria volontà? Michaels è consapevole del problema, che ripropone in maniera intermittente e irregolare, senza tuttavia configurare o formulare alcuna conclusione davvero soddisfacente: «Così, l’implicazione sociale di questi testi non dipende dalla diretta rappresentazione delle controversie sul denaro, bensì dalla rappresentazione indiretta delle condizioni espresse da quelle medesime controversie» (gs 175).

La risposta definitiva arriverà ovviamente con la concezione di quella “logica del naturalismo” che informa l’altra metà del titolo. Per il momento resta la fastidiosa sensazione che tutto ciò si riduca alla fin fine all’”io”, e che le fantasie disperate e passionali del produttivismo, del romance, della schiavitù, del masochismo, del sistema aureo, dell’accumulazione o del dispendio siano in qualche misura tutti tentativi di quadrare il cerchio e di farsi una ragione dell’antinomia dell’io in quanto proprietà privata. In nessuna parte nel libro ciò è affermato in questi termini, eppure il vuoto teorico o interpretativo nell’interminabile catena delle omologie spinge per certi versi la mente del lettore verso quella che si potrebbe chiamare soluzione esistenziale (se non psicoanalitica): la priorità ontologica delle spiegazioni nei termini dell’io al di sopra di tutti gli altri livelli. È questo, in genere, il destino delle filosofie senza “contenuto” (nel senso hegeliano del termine), e in particolare di quelle che cercano di escludere il contenuto in quanto tale: una sorta di «forclusione» lacaniana nella quale il contenuto viene reintrodotto dall’esterno, sotto forma di una sorta di conclusione compensativa e generalmente psicoanalitica (come in «Tel Quel» e in certi momenti in Derrida). E, rispetto a quelli di ordine storico e sociale, i materiali dell’”io” si dimostrano più funzionali all’allestimento di un sistema formalistico.

Quel che si descrive è la tendenza formale di un sistema, di un metodo, a perfezionarsi e a dotarsi, contro la propria stessa volontà e vocazione, di un fondamento su cui poggiare. L’osservazione generale riguardo alla tendenza dei “fondamenti” a ricomparire, attraverso una forma estrema di ritorno del represso, all’interno delle prospettive maggiormente antifondazionaliste va distinta dai giudizi sullo specifico livello fondazionale in questione. Nel nostro caso si tratta dell’identificazione di io e proprietà privata che a tratti offre una lettura alternativa – una tentazione interpretativa che aumenta e diminuisce d’intensità per tutto il testo di Michaels – di un libro; di essa si può dire con una certa sicurezza che non è quella giusta e che non corrisponde in alcun modo all’intenzione dell’autore. Tale lettura alternativa, secondo cui l’io si costituisce come proprietà privata, o anche sul modello della proprietà privata, riecheggia in alcuni settori molto diversi del pensiero moderno, soprattutto laddove l’ego e l’identità personale sono stati percepiti con maggior forza come una costruzione instabile. In Adorno, per esempio, «All’insediamento storico del soggetto come spirito era legata l’illusione che esso non potesse perdersi»94, mentre le implicazioni giuridiche di Michaels sono formalmente connesse all’angoscia di morte (assai presente in The Gold Standard, come si vedrà). In Lacan, per contro, specialmente nell’idea dell’ego o della personalità come meccanismo di difesa, anzi come una specie di fortezza, derivata dall’Analisi del carattere di Reich, la figura della proprietà fondiaria assume dimensioni pressoché feudali e territoriali. Se, a dispetto di questo, non si percepisce con particolare forza l’affinità intellettuale, ciò ha senza dubbio qualcosa a che vedere con l’assenza, in Michaels, dell’inevitabile passo successivo, vale a dire la speculazione su quanto rappresenterebbe vivere senza quella protezione giuridica, sulle forme che il soggetto stesso deve avere avuto un tempo, o potrebbe inventare in futuro, in assenza della poderosa, ancorché storica, categoria giuridica della proprietà. Tuttavia la differenza sostanziale tra la formulazione di Michaels e queste altre di natura filosofica – persino quella dello stesso William James – sta ancor più nella nostra incertezza rispetto al fatto che la prima sia ancora effettivamente una “idea”, nella nostra perplessità riguardo alla condizione di tale pensiero, o teoria, che, spogliato di una certa forza filosofica più generale, è stato limitato nelle funzioni e spinto a un impiego fortemente circoscritto nell’instaurazione di connessioni, di passaggi tra descrizioni storiche concrete.

Qui persino le “teorie” sono state dunque limitate a livello terapeutico, preconfezionate e trasformate nuovamente in materiali “testuali” più storici (non essendo più l’”io come proprietà privata” un’idea, bensì una formulazione scritta di William James), esattamente nello spirito di “Against Theory”. È tempo ormai di considerare le forme polemiche che questo spirito assume in The Gold Standard, ossia, in altre parole, di passare al secondo impulso di quest’opera, che (con maggiore frequenza nelle note) dal lavoro più neutro di istituzione di omologie condotto nel corpo principale del testo trae conseguenze attive e protopolitiche. Queste non paiono più dipendere da una questione di intenzione nella lettura di questo o quel nodo lirico (ma presto ristabilirò il legame); al contrario, in particolare nel caso delle interpretazioni di Nostra sorella Carrie, sono inerenti alla valutazione della mercificazione e del consumo in uno scrittore tradizionalmente ritenuto un realista e un critico della società, che per tutta la vita è stato associato alla causa e ai movimenti della sinistra. L’argomentazione più ristretta si incentra sul personaggio di Ames e sulla questione delle ambizioni artistiche che questi ispira a Carrie, se cioè esse vadano lette come una frattura radicale rispetto ai primi impulsi, più “materialistici”, provati da lei. Michaels sostiene che non sia così, e ritengo abbia ragione, ma la tesi è formulata in maniera istruttiva: «L’ideale che Ames rappresenta per Carrie è dunque un ideale di insoddisfazione, di desiderio permanente» (gs 42). In Dreiser non si sfugge mai al desiderio della merce, non esiste una “visione alternativa”, non si percepisce alcun impulso contrario, nessuna esperienza resta incontaminata, nulla nega questo elemento onnipresente, che Michaels altrettanto giustamente identifica come «il mercato». O almeno nulla di sociale, giacché nelle sue pagine più elettrizzanti Michaels individua quello che per Dreiser è il vero Altro rispetto al mercato e al consumo delle merci, cioè la morte: «In Nostra sorella Carrie, la soddisfazione in sé non è mai desiderabile; essa è invece il segno dell’imminente fallimento, della decadenza e infine della morte» (gs 42). (Qualcosa di analogo è in atto nella lettura di Hawthorne, dove la soluzione – l’inalienabilità del titolo, il romance, l’immunità rispetto al mercato – è parimenti un caso di afanisi: «Alice Pyncheon si figura immune dal possesso […] semplicemente perché non prova alcun desiderio» (gs 108). Se il “realismo” ha un significato qualunque, allora implica anche le parti dedicate a Hurstwood in Nostra sorella Carrie, la rappresentazione dell’Altro mortale rispetto al mercato e al desiderio, una «letteratura esclusivamente del desiderio spossato e del fallimento economico» (gs 46). I “realismi” – come quello del povero vecchio Howells – che evocano una fuga pastorale dal mercato in qualche altro spazio mondano (immaginario) rappresentano tutti delle tenui fantasie sentimentali, malgrado La casa dei sette abbaini venga clamorosamente escluso da tale giudizio, in quanto si contrassegna esplicitamente come estraneo al realismo e affronta apertamente la contraddizione nella propria stessa forma.

A questo punto la polemica riceve un’ulteriore svolta supplementare: infatti, siccome quella di Dreiser è un’opera di assoluta immanenza rispetto al mercato, ne consegue, secondo Michaels, che gli interpreti dello scrittore possono esibire questi testi come una critica nei confronti del mercato soltanto in maniera disonesta. Di colpo, quindi, ci troviamo dinanzi all’inattesa ricomparsa di una delle problematiche centrali di tutta la critica letteraria o culturale di matrice radicale o marxista: intendo dire il modo in cui il negativo vada concepito nella prassi e, in particolare, la possibilità di attribuire un valore a opere che, sul piano dell’ideologia e della rappresentazione, risultano complici del “sistema”. Ciò che a prima vista sconvolge in Michaels, a livello politico, non è pertanto la valutazione dello stesso Dreiser (nonostante le posizioni ideologiche consapevoli espresse dallo scrittore). È invece esattamente quanto c’era di sconcertante nella versione classica di questo dibattito, incentrata su uno scrittore ambiguo esattamente quanto Dreiser, cioè Balzac, nelle cui opere è altrettanto presente la questione del desiderio della merce, accanto alle fantasie conservatrici della proprietà terriera e alle palesi posizioni monarchiche (di natura molto diversa da quelle di Dreiser). Penso che sia lecito dissentire da Marx ed Engels e giudicare Balzac molto più profondamente corrotto e irrecuperabile di quanto lo pensassero loro (benché la loro posizione – cioè che Balzac fu in grado di registrare le contraddittorie spinte sociali con maggiore acutezza degli scrittori semplicemente “liberali” – sia più complessa e interessante). Probabilmente sconcerta maggiormente, nelle analisi contenute in The Gold Standard, la stessa presenza di tale problematica, che non ha mai suscitato l’interesse della critica formalista o di quella estetica, e che ritenevamo appartenesse a noi. Il fatto che l’”avversario” possa ormai disporre le proprie linee di battaglia sul nostro terreno – e offrire lo scontro sulle questioni della “sovversione” letteraria e culturale o del valore critico, negativo – oggi è persino più allarmante dell’appropriazione di quei materiali e di quegli argomenti economici menzionati in precedenza, fin qui associati alla sinistra. Certo, nel periodo del poststrutturalismo si sono ampiamente diffusi dei dubbi sulla praticabilità dei modelli critici e per lo più dialettici della funzione negativa della cultura, però di solito sono stati espressi da scrittori che restavano politici, “hommes de gauche”, i cui “metodi”, come la decostruzione, promettevano di essere più sovversivi e “rivoluzionari” di quelli tradizionali. Ritengo tuttavia che per il proprio lavoro Michaels non rivendichi più, come il neostoricismo in genere, alcun valore “rivoluzionario” o sovversivo.

Il termine “sovversione” può anzi fungere da formula abbreviata per una posizione, un principio che Michaels è ansioso di negare in svariate forme: abbiamo già visto come vengano sistematicamente prese di mira le varie ideologie della natura, del naturale e dell’autenticità (che vanno dalle discussioni sull’oro alle posizioni politico-economiche riguardo alla “ricchezza naturale” incarnata dall’olio o dal grano). È ormai chiaro che il loro difetto più profondo sta nel tentativo di garantire un certo spazio utopico al di fuori della dinamica del mercato, spazio che (per Michaels) si può descrivere come necessariamente e costitutivamente “impuro”, come un’infinita «suppletività» che non può mai pervenire all’appagamento (alla “soddisfazione”) e che attrae al proprio interno tutti gli altri tipi di spazio. L’altro nome del sogno illusorio di uno spazio non mercantile alternativo è naturalmente quello di «produzione», provocatoriamente adoperato nell’introduzione, che rappresenta il tentativo, da parte di Charlotte Perkins Gilman, di conquistare l’autonomia attraverso l’autoproduzione come una fantasia decostruita dal suo stesso testo; così i testi possono apparentemente compromettere o “sovvertire” ancora sé stessi, ma in un’immanenza che ricorda molto da vicino la decostruzione derridiana. Tuttavia Michaels ha ben chiaro che i suoi nemici concettuali vanno ben al di là dei marxisti e delle femministe: anche le ideologie continentali del “desiderio” ricevono la loro parte di attenzione, nel quadro di una critica verso Leo Bersani che, mutatis mutandis, potrebbe valere anche per la Kristeva e Deleuze (mentre Economia libidinale di Lyotard è più sfuggente). Non è arduo dimostrare che la forza del desiderio che si presume possa scardinare i rigori del tardo capitalismo sia in effetti proprio quella che per prima mantiene attivo il sistema del consumo: «l’elemento “dirompente” del desiderio che Bersani trova allettante per Dreiser non sovverte l’economia capitalista, anzi è costitutivo del suo potere» (gs 48). Forse si può leggere questo significativo rovesciamento come l’epitaffio di una delle principali posizioni politiche degli anni Sessanta, secondo la quale il capitalismo, risvegliando bisogni e desideri che era incapace di appagare, si sarebbe in qualche modo sovvertito da sé; e sotto questo profilo è all’interno di una generale reazione sistemica contro gli anni Sessanta che va certamente letto Michaels.

Occorre però sottolineare la consonanza di queste polemiche con le posizioni apparentemente più limitate del saggio “Against Theory”, dove, come si ricorderà, viene condotta un’offensiva su due livelli contro l’”ontologia” e l’”epistemologia” della cosiddetta teoria. Sul piano ontologico, il difetto di questo pensiero giace in una prassi critica che in qualche misura ha cercato di isolare l’”intenzione” dell’autore dal testo. A chiarire cosa vi sia di errato è l’analisi più filosofica del livello “epistemologico”, in cui si descrive concisamente l’errore come il tentativo «di porsi al di fuori della propria fede in un confronto neutrale con gli oggetti dell’interpretazione» (gs 27). Il concetto (o pseudoconcetto) di “sovversione” suggerisce ormai un’illusione di questo stesso genere rispetto al “sistema” nella sua totalità: l’illusione che l’opera di Dreiser, immanente al sistema del mercato e alla sua dinamica, e di esso fortemente complice, possa per certi versi «porsi al di fuori», raggiungere una “trascendenza” rispetto a esso (in genere contrassegnata anche come distanza critica) e fungere da critica, se non addirittura da rifiuto schiettamente politico del mercato medesimo. Ma ovviamente tutto questo ha ascendenze piuttosto lontane: i teorici del “sistema totale” come Foucault, infatti, hanno sempre dato per sottinteso che, qualora il sistema fosse tendenzialmente totalizzante come diceva il pensatore francese, tutte le rivolte locali, per non parlare delle spinte “rivoluzionarie”, sarebbero rimaste all’interno del sistema e sarebbero state in realtà una funzione della sua dinamica immanente. Eppure lo stesso Foucault è comunque parso capace di mettere in atto e di appoggiare una sorta di guerriglia locale contro il sistema. Ma di lui si può dire anche che, siccome non credeva nel “desiderio”, non era attrezzato per misurare le “seduzioni” del mercato in quanto tale. È toccato a Baudrillard fornire l’espressione più drammatica e «paranoico-critica» di tale dilemma, nelle dimostrazioni delle modalità secondo cui le ideologie consapevoli della rivolta, della rivoluzione e finanche della critica negativa sono – lungi dall’essere semplicemente “cooptate” dal sistema – parte integrante e funzionale delle sue strategie interne.

Negli Stati Uniti, quanto di tutto ciò è sopravvissuto negli anni Ottanta è evidentemente la critica del consumo o della società dei consumi: sono questi i principali nemici di Michaels (il che spiega peraltro perché Dreiser divenga il documento decisivo, il vero campo di battaglia). Vale la pena citare con una certa ampiezza una nota cruciale sull’argomento:

Cito qui [Richard Wightman] Fox e [T. Jackson] Lears, e Alan Trachtenberg e Ann Douglas più avanti, non perché mi sembrino esempi particolarmente macroscopici della tradizione nobile e progressista della storia culturale americana, bensì – proprio al contrario – in quanto esemplari nel loro tentativo di immaginare delle visioni alternative della cultura americana. Tale circostanza rende ancor più singolare il fatto che essi in fin dei conti non dissentono dall’opinione nobile/progressista che nelle opere d’arte importanti vede in un certo senso qualcosa che trascende il mercato o vi si oppone. In questo caso la mia opinione è che la critica letteraria americana (persino più della storia culturale) abitualmente ha interpretato sé stessa e gli oggetti della propria ammirazione come opposti alla cultura di consumo; e, con poche eccezioni, continua a farlo. Senza dubbio i fautori appena politicizzati della critica “oppositiva” rifiuterebbero questa assimilazione del loro lavoro alla tradizione nobile. Tuttavia non sembra un gran progresso trasformare il piagnisteo morale degli anni Cinquanta e Sessanta prima in quello epistemologico dei Settanta e poi infine in quello politico degli anni Ottanta. (gs 14, n. 16).

Tralasciando per il momento lo stesso Michaels, il brano appare utile e terapeutico, per la maniera scomoda con cui solleva un problema molto americano, ancora assai presente tra noi, quello cioè del rapporto tra “progressismo” e “radicalismo”. Di fatto Michaels sta sgarbatamente insinuando che i critici odierni che si pensano radicali in realtà non sono nulla più che progressisti, in tutti i sensi deboli e “tormentati” della parola. L’autore ci offre così l’opportunità di una “critica/autocritica” di un tipo significativo e persino urgente, in un momento nel quale le definizioni di sé da parte della sinistra nella migliore delle ipotesi sono confuse, se non inconsistenti. A questo riguardo ci saranno d’aiuto le sue taglienti formulazioni; eccone un’altra:

Che cosa significava esattamente pensare che Dreiser approvasse (o disapprovasse) la cultura di consumo? Sebbene superare le proprie origini allo scopo di valutarle sia stata l’istanza iniziale della critica della cultura per lo meno dai tempi di Geremia, è sicuramente un errore prendere alla lettera tale istanza. Non tanto perché non si può davvero trascendere la propria cultura, ma perché, se si potesse, non resterebbe alcun criterio di valutazione, salvo, forse, quelli teologici. Appare quindi errato pensare la cultura dentro cui si vive come l’oggetto delle proprie simpatie: ci piaccia o no, ci viviamo dentro, così come le cose che ci piacciono o non ci piacciono. Persino i rifiuti nei confronti del mondo alla Bartleby restano indissolubilmente legati a esso: cosa potrebbe valere come potente esercizio del diritto alla libertà di contratto più del rifiuto di Bartleby, coronato dal successo, di stipulare un qualunque contratto? (gs 18-19)

Il dilemma dell’uscita dal sistema totale (che qui Michaels reinventa) è particolarmente affascinante: comunque sia concepito – mercato e capitalismo, oppure carattere ed esperienza eccezionali americani (cultura americana) –, il potere con cui si teorizza il sistema supera in astuzia l’atto circoscritto di giudicarlo o resistergli dall’interno, rivelando che quest’ultimo non è altro che un ennesimo aspetto del sistema stesso, sia che si tratti dell’inganno o del tabù dell’incesto, pianificato in esso a priori. Benché la forma del dilemma replichi il modello più astratto di “Against Theory”, qui l’argomento specifico di Michaels è la «critica della cultura», attività designata con maggiore efficacia dal tradizionale vocabolo tedesco Kulturkritik, sulla quale Adorno dice cose notevoli nel grande saggio programmatico che apre Prismi. Questo saggio include le censure di Michaels entro un quadro più ampio e solleva questioni significativamente assenti qui: la condizione degli intellettuali, il carattere sia della cultura in sé che della sua nozione, l’antinomia da cui nasce la dialettica e nella quale trova la propria ragion d’essere: come fare qualcosa di impossibile, eppure indispensabile, e in ogni caso inevitabile. Persino la perentoria soluzione proposta da Michaels – smettere di farlo – non affronta il problema tanto a fondo, per quanto racchiuda sicuramente la consapevolezza che la teoria e la critica della cultura proseguiranno come se nulla fosse accaduto.

Ecco una ripetizione definitiva della questione:

i testi fanno riferimento alla realtà sociale? se sì, si limitano a rifletterla oppure immaginano alternative utopiche a essa? Come quello riguardante Dreiser, cioè se apprezzasse o no il capitalismo, mi sembra che tali interrogativi [Michaels erroneamente li circoscrive a questioni di rappresentazione realistica] presuppongano uno spazio al di fuori della cultura per indagare poi il rapporto tra quello spazio (qui definito come letterario) e la cultura. Ma gli spazi che ho cercato di esplorare sono tutti dentro la cultura, perciò il progetto di indagine non ha alcun senso. (gs 27)

In effetti qui Michaels non fa che ripetere il grande dibattito a proposito della natura etica (e vagamente kantiana) del socialismo della Seconda Internazionale: insieme ad altri, ma con una maggiore precisione, Lukács lo diagnosticò come un imperativo morale che ingiunge di realizzare qualcosa che non esiste e dunque per definizione non potrà mai essere realizzato. La proiezione del “socialismo” quale alternativa etica radicale all’ordine esistente praticamente ne garantisce l’impossibilità della realizzazione, e ciò non malgrado la sua plausibilità e la sua forza in quanto critica etica del capitalismo, bensì, nella sostanza, in proporzione a esso. A livello empirico (ma quella di Lukács è anche una critica energica della categoria stessa dell’etico nel pensiero kantiano), è chiaro che più il sistema risulta corrotto e malvagio, meno sono le possibilità che ne scaturisca qualcosa di meglio. Giustamente Lukács osserva che la descrizione (dialettica) della nascita del socialismo dal capitalismo compiuta da Marx è molto diversa da questa. La forza del marxismo in quanto tale, come lo concepì Marx, stava nel fatto di avere messo insieme l’argomento della desiderabilità del socialismo (e dell’intollerabilità del capitalismo) con la dimostrazione delle modalità secondo le quali il socialismo veniva già alla luce all’interno del capitalismo, per cui il capitalismo per certi aspetti stava già creando le strutture del socialismo. Il socialismo non è dunque rappresentato come un ideale o un’utopia, ma come un complesso tendenziale ed emergente di strutture già esistenti. Sta qui il sostanziale realismo della prospettiva di Marx, in qualche modo travisato dalla parola inevitabilità, nella quale si può osservare la forma solida e compiuta di ciò che Marx intendeva per “contraddizione”. Vale sempre la pena aggiungere che Marx non si sbagliava nella diagnosi, specialmente se assumiamo la lunga prospettiva temporale dei Grundrisse in luogo delle concise profezie apocalittiche del Capitale. Per raccogliere solamente un tratto dell’analisi di Lukács, si può osservare che oggi i processi di collettivizzazione hanno rimpiazzato l’individualismo del mercato a vari livelli, fino alle microesperienze della vita quotidiana, circostanza che si riflette nella “politica molecolare” dei cosiddetti nuovi movimenti sociali. Questo modello della presenza del futuro all’interno del presente è perciò chiaramente del tutto diverso dal tentativo di “uscire” dalla realtà effettivamente esistente verso un altro spazio: la classe operaia della Comune, come ha scritto Marx in quella che è forse la sua formulazione più incisiva, «non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese»95.

Il punto è che i sistemi, anche quelli totali, cambiano; ma la questione delle tendenze e delle leggi del moto di tale cambiamento si accompagna peraltro a quella, relativamente distinta, del ruolo dell’agente umano all’interno di questo cambiamento (che naturalmente potrebbe, tramite una hegeliana «astuzia della storia», avere come esito qualcosa di molto diverso da quello che aveva “inteso”). In tal senso la nozione marxiana di cambiamento non è del tutto immanente: anche se non hanno alcun «ideale», i comunardi possiedono un programma, e la loro consapevolezza in merito rispecchia i limiti loro imposti da quella stessa situazione che il programma vorrebbe mutare: «l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere».

Così è questo lo spirito con il quale occorre ritornare alla questione più immediata del “mercato” e alla critica utopica del consumo e del consumismo. Mi pare molto rilevante persuadersi, come ripete instancabilmente Michaels, che siamo dentro la cultura del mercato e che la dinamica interna della cultura del consumo costituisce una macchina infernale dalla quale non si sfugge assumendo un dato pensiero (o delle posizioni moraleggianti), l’infinito propagarsi e replicarsi del “desiderio” che si alimenta da sé e che non conosce né un fuori né appagamento. Si tratta di un processo contrassegnato da una forza pericolosa, concretamente osservabile nei paesi socialisti di oggi, i quali tentano di risolvere il problema fondamentale della produzione e della distribuzione di beni di consumo desiderabili e d’immediata urgenza senza alcuna particolare consapevolezza della dinamica autonoma di quella “cultura del consumo” che si scatena in questo modo, dentro cui siamo immersi a tal punto da non essere in grado di immaginare altro. Questo primo momento di un senso di costrizione del sistema totale, della sua ineludibilità persino per l’immaginazione, rappresenta ciò che può contribuire a tracciare nuovamente una linea più netta tra “radicalismo” e “progressismo”. Infatti l’opinione progressista in genere si caratterizza per la convinzione che il “sistema” in realtà non sia totale in questo senso, che lo si possa migliorare, riorganizzare e regolare in modo che arrivi a essere tollerabile, il “migliore dei mondi possibili”. Sotto questo profilo lo splendido libro di Susan Sontag sulla fotografia è esemplare: la sua concezione della “libidine dell’immagine” è affine alla visione del mercato e del consumo sostenuta da Michaels, ma rappresenta anche una variante significativa, oltre che un modo alternativo di parlare della stessa cosa. La conclusione sulla contemporanea cultura dell’immagine è la classica raccomandazione progressista di una «dieta»96 delle immagini, che lei chiama «rimedio conservativo»: «Se potrà esserci un modo migliore per permettere al mondo reale di includere in sé quello delle immagini, esso richiederà un’ecologia non soltanto delle cose vere ma anche delle immagini stesse»97. Tuttavia questa soluzione – nulla in eccesso! – in realtà è determinata dal fantasma di un’alternativa “radicale”, cioè da Platone, o dalla soppressione puritana delle immagini nel loro complesso (l’esempio avanzato da Sontag è la Cina maoista). Ho il sospetto che questa sorta di paura profondamente radicata – che altrove ho denominato “angoscia dell’utopia” – operi anche in quelle difese del mercato che fantasticano la totale abolizione del consumo, delle immagini e del desiderio, nello stesso momento in cui gli stessi paesi socialisti si spingono sempre più vicino a tutto questo.

Trarrei quindi una conclusione opposta rispetto a quella di Michaels: le critiche del consumo e della mercificazione possono essere autenticamente radicali soltanto quando racchiudono specificamente la riflessione non solo sul problema del mercato in sé, ma soprattutto sulla natura del socialismo in quanto sistema alternativo. Se non si viene alle prese con la possibilità di tale sistema alternativo e non la si teorizza in maniera esplicita, mi sento di concordare con chi afferma che la critica della mercificazione tende fatalmente a tradursi in un’analisi meramente morale, in pura Kulturkritik in senso negativo, in una questione di «piagnisteo». Negli anni Ottanta, la conquista dell’egemonia discorsiva da parte di quello che mi sembra più preciso etichettare come thatcherismo, invece di reaganismo, ha combinato l’adozione di una serie di dogmi economici (i bilanci devono quadrare, la produzione deve essere “efficiente”) con la convinzione, apparentemente ormai accettata da tutti, che il “socialismo non funziona”, convinzione in larga misura acquisita mediante lotte discorsive (come ci ha inesauribilmente mostrato Stuart Hall) e rafforzata dal disintegrarsi di qualsiasi chiara concezione di cosa dovrebbe essere il socialismo e come dovrebbe funzionare, in particolare negli stessi paesi socialisti. Viene tuttavia da pensare che, invece di far cadere sull’intera faccenda un silenzio imbarazzato, sarebbe proprio questo il momento di discuterla apertamente. Lo dico perché il problema del mercato è di per sé centrale rispetto a quello della teorizzazione o della concettualizzazione del socialismo: in anni recenti sono riemersi i primi accenni di un rigoroso dibattito della sinistra sul mercato, basato per lo più, sebbene non in maniera esclusiva, sugli scritti di economisti marxisti occidentali. In pratica il risultato più importante del libro di Michaels è stato di rimettere in maniera ineludibile tale argomento all’ordine del giorno della critica della cultura, la quale deve ormai scrollarsi di dosso la propria immanenza e accanto alle analisi testuali deve includere i materiali eterogenei del dibattito sull’economia e sul mercato98. Come mostra fin troppo bene Michaels, tali questioni di ordine politico – il mercato e il socialismo – rappresentano le conseguenze estreme, la posta finale in questo tipo di analisi letteraria o culturale; da parte nostra sarebbe paradossale lasciare il campo a lui.

Tutto ciò sembra implicare che dopo tutto si possa uscire dal proprio sistema o dalla propria cultura. Ma questa energica obiezione, che Michaels formula ripetutamente con forza per noi, mi pare comporti un fraintendimento degli usi e della funzione del pensiero utopico, e persino della critica utopica. (Lascio fuori da questa analisi quell’utilizzazione occasionale, da parte di alcuni di noi, secondo cui la parola in codice costituisce semplicemente un eufemismo per il socialismo stesso). Postulare questo discorso e il suo interesse non equivale affatto ad affermarne la possibilità, ovvero, nel linguaggio di Michaels, la “capacità” in qualsivoglia senso effettuale di uscire dal nostro sistema. Si tratterebbe di una prospettiva sulla questione ancora relativamente legata alla rappresentazione, che ci porterebbe a esaminare More o Skinner per stilare un inventario delle loro positività, per poi sommarne e confrontarne gli esiti visionari. Ciò che essi hanno realizzato è tuttavia piuttosto diverso dalla positività realizzata: hanno dimostrato, in relazione al loro tempo e alla loro cultura, l’impossibilità di immaginare l’utopia. Maggiormente interessanti sono perciò i limiti, le restrizioni e le repressioni sistemiche, gli spazi vuoti, del progetto utopico, in quanto essi soltanto attestano le modalità in cui una cultura o un sistema segnano la mente più visionaria e ne contengono il movimento verso la trascendenza. Ma questi limiti, che si possono analizzare anche secondo criteri di restrizione ideologica, sono concreti ed espressi nelle grandi visioni utopistiche. Non divengono visibili se non nel tentativo disperato di immaginare qualcosa di diverso, tanto che un tranquillo consenso verso l’immanenza – la consapevolezza anticipata del necessario fallimento del progetto che ci induce a rinunciarvi – non può produrre alcuna informazione sperimentale riguardo alla forma e ai confini del sistema, sulla specifica maniera sociale e storica, nella quale ci siamo rinchiusi che rende inaccessibile il fuori.

In un senso più ristretto, questo è inoltre il rapporto che dobbiamo sviluppare con gli impulsi radicali della letteratura e della cultura che ci hanno preceduto. Non sorprende affatto che Dreiser o Gilman non siano riusciti a pensare la loro via d’uscita dai sistemi che li circondavano come una sorta di orizzonte estremo del pensiero, però questi sono fallimenti specifici e concreti che fanno intuire come un movimento radicale verso qualcosa d’altro sia anche parte integrante del sistema che cerca di sfuggire o di superare, tanto che al limite questi gesti di rivolta sono anch’essi programmati nel sistema. Tale processo non riguarda esclusivamente la produzione di un nuovo pensiero, ma piuttosto quella cosa del tutto diversa e più tangibile che è la produzione di rappresentazioni; anzi, su questo piano la priorità dell’analisi letteraria e culturale sull’indagine filosofico-ideologica sta precisamente nella concreta abbondanza di dettagli riguardo al proprio fallimento offerta da ogni rappresentazione. Siccome tutte le rappresentazioni vanno in ogni caso incontro a uno scacco ed è sempre impossibile immaginare, l’importante è il fallimento dell’immaginazione, e non la sua realizzazione. Sul piano delle posizioni e delle ideologie politiche, ciò peraltro equivale a dire che tutte le posizioni radicali del passato sono manchevoli esattamente perché hanno fallito. L’uso produttivo dei primi radicalismi, come il populismo, il femminismo della Gilman, o anche le spinte e gli atteggiamenti contrari alla merce che Lears e altri hanno iniziato a indagare, non sta nel loro gioioso riassemblaggio sotto forma di una tradizione radicale precorritrice, ma in primo luogo nel loro tragico insuccesso proprio nel costituirsi in una tradizione del genere. La storia procede per fallimenti e non per successi, come Benjamin non si è mai stancato di ripetere; e sarebbe decisamente meglio pensare a Lenin o a Brecht (per fare due nomi illustri a caso) più come a insuccessi – cioè quali attori ostacolati dai propri limiti ideologici e da quelli del loro momento storico – che come a esempi gloriosi, come modelli in senso agiografico o celebrativo. La corruzione di Dreiser qui è tutt’altro che fuori argomento; nella sua denuncia dei travisamenti radicali di Dreiser, Michaels non tiene conto, prima di tutto, del perché i lettori li abbiano commessi, e continuino a farlo. Vale a dire perché qualcosa nel testo possa indurre imperiosamente a presupporre che questa elaborata anatomia del desiderio di merci scaturisca da una certa distanza interna da esso, invece che dalla più pura compiacenza. Ma sta qui la profonda ambiguità del dar nome a un fenomeno, designarlo o collocarlo in primo piano: una volta isolato nella mente dell’osservatore, esso diviene oggetto di un giudizio che prescinde dall’intenzione autoriale. E chi fraintende lo stesso Michaels sarà perdonato se crede talvolta che egli giudichi in maniera positiva il desiderio di merci in Dreiser, malgrado affermi spesso che esso in effetti non può essere affatto giudicato positivamente o negativamente, e che su quanto esiste non possiamo prendere posizioni del genere.

Anzi, il “momento della verità” dell’antiprogressismo di Michaels (non penso lo si possa definire conservatorismo nell’accezione ideologica, positiva o sostanziale) forse si può cogliere meglio per analogia con quelli che chiamerò vincoli ontologici delle varie fasi del romanzo moderno (o, meglio ancora, borghese). Quelli che Lukács identificava come i grandi realisti, vale a dire i principali romanzieri realisti dell’Ottocento, si possono qualificare in base a una sorta di interesse estetico diretto nei confronti dell’Essere in sé (cioè nell’interpretazione della società quale forma di Essere stabile), che, malgrado gli sconvolgimenti e i ritmi interni delle proprie legittime trasformazioni, alla fin fine si può in qualche modo intendere come tale e quindi registrare. Per quanto alcuni potessero essere progressisti, in virtù della loro vocazione e della loro estetica essi non potevano avere alcun interesse in una visione del mondo sociale che ammettesse delle brusche modificazioni e, per così dire, delle trasformazioni dialettiche nelle stesse leggi di quell’ordine e della sua forma locale della “natura umana”. La profonda affinità formale tra questi romanzieri e gli storici lascia intendere che questa seconda professione determina in pari misura un vincolo ontologico nei confronti dell’enorme densità dell’essere e dell’esperienza di natura sociale. Gli interessi di Michaels in quanto critico della storia (di tipo nuovo) mi sembrano nella sostanza convergere con questi, giacché i teorici che egli considera radicali minacciano la stabilità dell’oggetto di studio (qui talvolta riconosciuto semplicemente come «il mercato»). E siccome paiono suggerire che tale oggetto possa essere sostituito con qualcos’altro, essi tendono a banalizzare e a svigorire il progetto di ricerca.

Mi sembra che tutto ciò muti con quello che chiamiamo modernismo, allorché l’esperienza dell’effettivo mutamento sociale avvenuto con l’industrializzazione ispira ormai seri dubbi riguardo alla stabilità dell’essere e premonizioni altrettanto serie della natura costruita o demiurgica del sociale. Per contro, dal momento che tale processo si è compiuto nel postmoderno, gli artisti di quest’ultimo periodo si preoccupano appena dell’Essere, essendo convinti dell’assenza di peso e della testualizzazione delle molteplici realtà sociali. Tale posizione più postmoderna parrebbe comunque caratterizzare piuttosto l’ala sinistra del neostoricismo, per così dire, mentre la posizione del modernismo avanzato dovrebbe probabilmente essere attribuita a un tipo completamente diverso di storiografia, come quella di Hayden White.

Se si prende in considerazione la concezione del mercato propria di Michaels, si giunge al terzo filo conduttore del suo libro e si solleva la questione di quel paradigma storico che in alcuni momenti sembra sottenderlo implicitamente, mentre in altri pare invece conquistare il centro della scena e diventarne l’argomento ufficiale, la questione centrale. Per prima cosa occorre notare che «il mercato» in Michaels corrisponde a quello che spesso oggi viene sprezzantemente descritto come un concetto totalizzante. In questo l’autore si distingue dal modo di pensare più diffuso del neostoricismo, il quale, tanto nella variante rinascimentale quanto in quella vittoriana, non sembra prospettare o presupporre alcuna totalità, alcun sistema assente e tuttavia onnipervasivo di questo genere. È superfluo mettere in rilievo quello che Michaels sfrutta sistematicamente in svariati modi, cioè che questa maniera particolare di “dar nome al sistema” sposta l’accento – e i tipi di spiegazione richiesti – dalla produzione o dalla distribuzione allo scambio e al consumo. La polemica di Michaels contro la retorica della produzione non è indirizzata esplicitamente contro il marxismo (che qui non figura come soggetto); in effetti, il motivo principale della polemica sembra il femminismo di Charlotte Perkins Gilman. Eppure, onde evitare fraintendimenti, vale la pena affermare che l’analisi del capitale condotta da Marx non è “produttivista” (con buona pace di Baudrillard), e che l’abbozzo del 1857 di introduzione ai Grundrisse sostiene l’indissolubilità dialettica delle tre dimensioni della produzione, della distribuzione e del consumo. Se a dispetto di questo Marx è stato sempre (giustamente) inteso come chi vede nella produzione la chiave per comprendere gli altri processi, ciò è accaduto perché la tradizione del pensiero economico antecedente e successiva (Michaels compreso) si ostina ad assolutizzare il consumo e il mercato. L’affermazione del “primato della produzione” (quale che sia il significato) offre il modo più efficace e valido per straniare e demistificare le ideologie del mercato medesimo e dei modelli capitalistici incentrati sul consumo. Quale visione del capitalismo, dunque, l’affermazione del primato del mercato non è nient’altro che pura ideologia.

In Michaels è però anche qualcos’altro, che adesso occorre affrontare. Si è già rilevata la tendenza di un metodo omologante a proporre, a livello esplicito o implicito, una sorta di “struttura” che giustificherebbe la giustapposizione per analogie dei materiali di base, dei vari documenti, e fornirebbe la forma o i criteri per i quali si può affermare in qualche misura che tali materiali sono la “stessa cosa”. Ma in Lévi-Strauss, malgrado la sua agilità nell’adattarsi sul piano metodologico, tale “struttura” comune resta un meccanismo trascendente che non si apre mai del tutto su nessuna delle proprie manifestazioni di superficie, non importa quanto privilegiata, e pertanto non si annulla mai totalmente nell’immanenza della descrizione etnografica. Come abbiamo visto, l’istanza essenziale e l’originalità del neostoricismo stanno tutte nel suo disagio di fronte a queste entità trascendenti e nello sforzo di farne del tutto a meno, preservando al contempo i vantaggi discorsivi del metodo omologico. Michaels condivide palesemente tale posizione operativa, ma in maniera altrettanto palese prende le distanze dalla prassi del neostoricismo nel tentativo di rappresentare questa “struttura” comune assente come un sistema totale asfissiante, il mercato. In tal modo dà alle sue interpretazioni un effetto alquanto diverso, quello di una chiusura che abbraccia tutto, di una certa fatalità onnicomprensiva. Ma in che modo si può teorizzare una procedura del genere? Di certo il “mercato” non può più essere inteso all’antica, come una visione del mondo, uno Zeitgeist; in Michaels i suoi effetti hanno un’aria di famiglia con l’episteme foucaultiana, ma questa, come suggerisce il nome stesso, continua a essere espressa e descritta in termini di conoscenza e a produrre per prima cosa descrizioni di un certo ordine specifico e modelli di pensiero, e in secondo luogo modelli di un ordine di regole discorsive che preselezionano alcune possibilità verbali e ne escludono altre. Non sembra esattamente quello che accade qui. Il Foucault del libro sulle prigioni – con le sue «biotecnologie del corpo», la sua griglia tendenziale di potere e controllo – ha generato effetti più consoni al sinistro dispiegarsi del mercato prospettato da Michaels, ma, a differenza di Greenblatt, Michaels non nutre un particolare interesse verso il potere. La parola che adopera per la questione è dopotutto la migliore: chiama tutto questo «logica» del naturalismo, e per estensione sembra peraltro implicare una certa logica più profonda, una dinamica del mercato in base alla quale si può intendere quella specifica logica estetica (e anche quella degli altri reperti, dei non naturalisti come Gilman o Hawthorne)99. In un libro con un titolo come questo, l’osservazione non equivale a una critica; secondo me, sul piano della diagnosi è più fruttuoso possedere un concetto totalizzante che cercare di muoversi senza. La Scuola di Francoforte non procedeva diversamente, con la sua nozione spesso alquanto confusa di «tardo capitalismo» (oppure, in alternativa, della più weberiana «società amministrata»).

La mia osservazione è un’altra, cioè che un concetto o un sistema organizzante del genere sembrerebbe sollevare dei problemi reali per lo schema di “Against Theory”, caratterizzato da un accento individualistico sull’«intenzione» autoriale (anche se non siamo più tenuti a utilizzare quel termine) e dalla più generale limitazione alle categorie del soggetto individuale. Nel mondo empirista angloamericano di soggetti individuali e responsabili, quale potrebbe mai essere la condizione di questa “logica” trans-soggettiva del mercato? Per chi si è formato sulla teoria “continentale” tali questioni hanno sempre rappresentato le assenze più misteriose e sconcertanti dei primi saggi: certamente l’inconscio freudiano, per assumere un punto di riferimento “teorico”, non sempre “dice ciò che intende” e “intende ciò che dice”. Quel che è diventato di Freud, delle nozioni marxiane di ideologia, per non parlare dell’episteme foucaultiana menzionata prima, del «codice» di Baudrillard o dell’«astuzia della ragione» di Hegel, sembrava un problema davvero urgente, trascurato dalla lista delle eccezioni degli antiteorici («narratologia, stilistica e prosodia»), lampante proprio nella clamorosa mancanza di menzione. Eppure queste entità transindividuali rappresentano oggi l’autentico luogo dell’interpretazione, nel senso più forte del termine (in positivo e in negativo). Assai più delle discussioni sull’intenzione dell’autore, questi concetti di provenienza continentale hanno fornito gli alibi più frequenti alle ipotesi critiche sui significati non premeditati dai loro autori (e lo scontro Gadamer-Hirsch non rende realmente giustizia alla complessità di tali problematiche).

A questo punto, però, The Gold Standard tenta di dare una risposta a questo interrogativo e di ampliare implicitamente il quadro e la problematica propri di “Against Theory”. Tanto per cominciare, Freud fa finalmente la propria fatale comparsa: salta fuori inaspettatamente nell’ultimo capitolo, tra i fotografi, rammentando un po’ Ragtime (neanche un brutto racconto, peraltro!). Così viene alla luce la più sorprendente, e sorprendentemente pertinente, delle omologie: fotografia e psicoanalisi come eventi pressappoco contemporanei, quali fenomeni che condividono una struttura comune, o per lo meno si incentrano su un analogo problema strutturale. Nel caso di Hawthorne abbiamo già visto Michaels argomentare come la fotografia non fosse il “realismo fotografico”, ossia la rappresentazione, come essa fosse in qualche misura meno legata a quest’ultima rispetto alla pittura o al “realismo”. Tale argomentazione, ancora relativamente pretenziosa nella propria ingenuità, chiamava in causa l’autorità di Hawthorne in relazione all’idea che la fotografia fosse per certi versi più ermeneutica e penetrasse la superficie delle cose in maniera peculiare e misteriosa. Frattanto si aveva l’impressione che la fotografia – i cui specifici processi, non teorizzabili, sono divenuti inaspettatamente centrali per il postmodernismo, che ha, per così dire, promosso la fotografia in cima alla nuova gerarchia delle arti, praticamente per la prima volta nella sua pur breve vita – condividesse con il naturalismo almeno l’eccentricità di un inclassificabile sconvolgimento culturale; si tratta di apparenze comuni sottese dal mondo tutto arcaico della libido, che tuttavia svanisce allorché si cerca di fissarlo direttamente a occhio nudo. Lo spazio dell’inconscio viene ormai in piena vista, in posizione centrale: è quanto esorbita dall’intenzione, ciò che l’atto o l’espressione intenzionale non domina; è, in sostanza, il caso, l’evento fortuito, l’imprevedibile. (Michaels non menziona il fatto che nello stesso periodo, con la statistica e la teoria delle probabilità, pure la matematica si ritrova a dominare il caso, a prevenirlo, come testimoniano Mallarmé e il suo Un colpo di dadi). Per quanto il fotografo scelga la propria angolatura, il proprio punto di vista, sulla lastra definitiva si registrerà infatti una moltitudine di dettagli imprevisti e fortuiti. In seguito tale circostanza è stata celebrata nella teorica filmica, nell’esaltazione, da parte di Bazin, della profondità di campo in Welles e Renoir quale autentico spazio dell’essere, dove si schiude e si svela la «mondanità del mondo», al di là delle “intenzioni” insignificanti del soggetto umano puramente individuale. Ma il caso sarà anche l’impedimento dei fotografi d’arte di quel periodo – Stieglitz su tutti –, i quali, cercando di promuovere la fotografia ad arte come la pittura, dotata di pari dignità (mentre la realizzazione definitiva di tale condizione nel postmoderno ha implicato una degradazione della pittura e dell’”arte” in quanto tale), si trovarono di fronte alla circostanza che in qualità di artisti non potevano accampare pretese sulla totalità del loro prodotto, in quanto alcune parti considerevoli di esso non avevano nulla a che fare con loro e anzi sfuggivano alla direzione, al controllo. Come si poteva sostenere che il prodotto finito fosse davvero loro, in senso estetico o demiurgico? È in questo momento che compare Freud: emerge che l’”inconscio” (lapsus, sogni, sintomi nevrotici, caso nell’accezione più ampia del vocabolo) non è qualcosa d’altro rispetto alla coscienza – l’altra scena, come preferiva chiamarla Freud –, ma piuttosto proprio un suo ampliamento, una dilatazione dello stesso concetto di intenzione tale da consentire di afferrare anche questi fenomeni anomali nella propria rete e di renderli “voluti” e deliberati, di conferire loro la pienezza di significato propria dell’arte cosciente. «La scoperta dell’inconscio quindi problematizza l’agente soltanto per estenderlo, rintracciando azioni dove si sono verificati soltanto dei casi fortuiti» (gs 222). È sufficiente: con questo giro di vite Michaels vanifica le obiezioni “continentali” nei riguardi di “Against Theory” e nel medesimo tempo innesca l’operazione di una nuova serie omologica che arriva a comprendere la macchina (attraverso Pierce, gs 230) e il gioco d’azzardo (La casa della gioia della Wharton). In tal modo trasforma Freud in un testo storico, circoscritto, in un altro dei suoi reperti, non meno privilegiato rispetto agli altri documenti, ma neppure di più: la psicoanalisi verrà definitivamente ricondotta alla condizione di «coazione a far sì che il caso non valga come caso» (gs 236).

A ogni modo la storia non finisce qui; il fatto che le avventure dell’agente, della coscienza e dell’intenzione non si concludono davvero qui diventa più evidente allorché si richiama la questione del mercato: il suo essere una sorta di agente, su un piano del tutto impersonale, viene appena accennato nella schermaglia con Freud. Di fatto, l’inconscio politico del libro di Michaels non ha smesso di pensare al problema in un altro modo, più coerente, e ha qualcosa di molto diverso da raccontarci. Non proprio una teoria, né una “soluzione”, piuttosto un’evoluzione e una ristrutturazione della medesima problematica, che costituisce un riconoscimento persino maggiormente significativo delle questioni più profonde rispetto al regolamento di conti tra intenzione e psicoanalisi. Dopo tutto il «mercato» ci ha per prima cosa rimandato ai soggetti individuali – Dreiser, Gilman, Hawthorne, Norris ecc., e i loro personaggi –, i quali, presi dalla sua logica del consumo, hanno messo in atto e dimostrato l’impossibilità di uscirne verso qualcosa di diverso. Uscirne significava semplicemente morire, quando non implicava la fantasia romanzesca o i diritti immortali di proprietà, come in Hawthorne. E se questa particolare ricerca si potesse prolungare in maniera inattesa e più coerente? E se, di fronte all’incapacità di teorizzare il “sistema”, all’impossibilità di pensare un agente non individuale, pieno di significato, collettivo eppure impersonale (quello che il marxismo chiama «modo di produzione»), si aprisse la possibilità di intendere un agente di tipo diverso, ancora in qualche misura “soggetto” come la coscienza individuale, e tuttavia ormai immortale, impersonale in un altro senso, collettivo al di là dei sogni del populismo, incarnato, istituzionalizzato tanto rigorosamente da assumere un’obiettività storico-sociale oltre ogni immaginazione?

Il terzo filo conduttore del libro di Michaels consiste dunque nell’osservazione della comparsa di quest’altra specie di “personaggio”, così diverso da quelli antropomorfi: i primi segni, le avvisaglie, i rimandi raddoppiati, l’insistenza che diviene sempre più rilevante e infine la cosa in sé, del tutto sviluppata, nel suo definitivo trionfo. Per avere un quadro di riferimento, è un po’ quello che avviene nelle splendide pagine conclusive di The Octopus di Norris, allorché penetriamo finalmente negli uffici esterni e giungiamo faccia a faccia con Dio stesso, dietro la scrivania del presidente (nel modernismo questo si risolverà in un incontro con l’Autore, come in Nebbia di Unamuno). Il mercato dei future ci ha già dato un’idea di ciò che accadrebbe al tempo e all’incertezza individuale qualora se ne afferrasse la chiave giusta. Tuttavia, nella confusione del mero dato empirico (i Rockefeller e i «piagnistei» della loro nemica Ida M. Tarbel), ci si apre uno squarcio sulla cosa nuova e la sua categoria: il trust, il monopolio, la società per azioni “dotata di un’anima” con il suo nuovo diritto societario. Questo nuovo “soggetto della storia” abolisce ormai i caratteri individuali del laissez faire, con i loro falsi problemi; soppianta l’opposizione tra produzione e consumo, e infine agisce sulla stessa categoria della macchina (che nel capitolo sulla fotografia si configurava in maniera alquanto diversa):

In effetti, seguendo Seltzer, possiamo dire che il “discorso della forza” non solo annulla l’opposizione tra corpo e macchina, ma, forse in modo più sorprendente, anche quella tra il corpo/macchina e l’anima, tra qualcosa che è tutto corpo e qualcos’altro che non lo è affatto. Per questo Davis può pensare alla società per azioni come qualcosa che è al contempo “intangibile” (senza corpo) e “macchina” (tutta corpo), non perché sia incoerente, ma perché queste due condizioni sono più simili l’una all’altra di quanto siano alternative, un’anima in un corpo. (gs 201)

«Più o meno lo stesso», conclude l’autore, «si può dire di The Octopus». Anzi, si deve dire, dal momento che la società di capitali non è anzitutto una questione di potere, di pensiero o di filosofia (benché dia a Royce l’occasione per sviluppare il concetto di «comunità di interpretazione», gs 188), né dell’invenzione di nuove categorie giuridiche o dell’applicazione di quelle tradizionali in maniera nuova; si tratta in primo luogo di una questione di rappresentazione. Questo è il momento modernista: non soltanto la comparsa della riflessività sul processo di costruzione della narrazione (la più debole di tutte le descrizioni del modernismo), ma invece il senso nascente di quel fallimento necessario che ormai va anticipato o, meglio ancora, trasformato in un nuovo genere di successo, di trionfo, calcolando l’impossibilità stessa della rappresentazione nella cosa in sé: «Di qui la società di capitali giunge a configurarsi come l’incarnazione della figuralità che rende possibile l’individualità, invece che apparire come l’estensione figurata dell’individualità» (gs 205). Per la mente individuale gli agenti sovrapersonali sono impensabili; questo è per lo meno quanto ci dicono quando adoperiamo parole come classe o coscienza di classe, e categorie deplorevolmente antropomorfe come quella tanto derisa di soggetto della storia elaborata da Lukács. Eppure esse esistono e noi le nominiamo: una cosa dovrebbe essere credere nell’esistenza dell’entità nuova, e un’altra intenderla in primo luogo come una figura di ciò che in realtà non possiamo pensare o rappresentare. In ogni caso qui Michaels toglie l’ultimo pezzetto di terreno da sotto i piedi del soggetto individuale, del “personaggio”, che non si rivela essere ciò che proiettiamo sull’entità sovrapersonale per farla sembrare una persona, bensì un effetto, una figura, una proiezione dal collettivo, un’illusione di secondo grado generata dalle priorità della storia stessa.

Essendo immortale, la società di capitali placa inoltre quella paura della morte destata, come abbiamo visto, dal consumo individuale. Si tratta però di un aspetto ormai relativamente poco significativo del processo grazie al quale The Gold Standard risulta all’altezza della situazione e realizza un concetto del collettivo e dell’agente collettivo. Naturalmente, in senso filosofico o teorico il problema non è stato risolto ma aggravato, giacché ci troviamo in presenza di due concetti, in altri termini dinanzi alla contraddizione tra la società di capitali e quella nostra vecchia conoscenza che è il mercato, rimasto in vita per tutto il corso di quest’altro mutamento, apparentemente importantissimo. A un certo livello della storia è accaduto qualcosa: la società di capitali e il trust hanno depositato l’individualismo (con le sue forme e le sue categorie) nella pattumiera della storia. Su un altro livello, invece, non è mutato nulla e il mercato continua come prima, ovunque arrivi l’occhio. Ma se il mercato implica il capitalismo come sistema, e il trust è soltanto un momento, una ristrutturazione di quel sistema, allora la contraddizione non è più tanto dannosa, se non a livello del testo e di dettaglio, dove continuiamo a fare la spola tra un codice e l’altro. Tuttavia il mercato è in ultima istanza un esempio dello stesso genere di quel nuovo personaggio transindividuale, immortale e dotato di un’anima che è il grande trust? Anche il mercato è un “individuo” oppure costituisce un effetto della figuralità dell’individualità? Che rapporto sussiste tra una “logica” siffatta e gli attori – consumatori, scrittori e trust in pari misura – trascinati dal suo apparato ineluttabile? Gli sviluppi attuali della teoria neopragmatista suggeriscono che il “mercato” intrattiene una relazione con i soggetti individuali, con i loro desideri e con la sete di merci analoga a quella del termine incriminato fede con i tentativi coscienti, “teorici” (talora designati con l’appellativo di “conoscenza”) di uscire da quel termine, di teorizzare o addirittura di mutarlo. La fede si configura qui come la totalizzazione assente, l’altro termine dal quale non si può mai uscire, una specie di forma estrema e definitiva dell’ideologia fissata una volta per tutte (ossia quella che Sartre chiamava «scelta originaria dell’essere»): «l’unica verità di rilievo a proposito della fede è che non se ne può uscire; e lungi dall’essere invivibile, è una verità che non si può far altro che vivere. Essa non ha conseguenze pratiche non perché non si possa mai unire alla prassi, ma perché da quest’ultima non può mai essere separata» (at 29). Ma non siamo usciti un po’ dalla “fede” semplicemente chiamandola “mercato” e conferendole tale raffigurazione? E in tal caso, chi viene prima? È la condanna degli esseri umani a questa “fede” in senso assoluto a generare la dinamica infernale del mercato? Oppure è il mercato che in qualche modo “produce” oggi questo strano concetto di “fede”? E la stessa separazione tra fede e conoscenza presupposta qui non è a sua volta un esempio della produzione di una teoria mediante la creazione artificiale di due entità astratte a partire da una realtà inseparabile?

Parte 2. La decostruzione come nominalismo

La sporadica impressione che per il poststrutturalismo tutti i nemici stiano a sinistra, e che il bersaglio principale finisca sempre per essere questa o quella forma di pensiero storico, potrebbe presumibilmente condurre a qualcosa di diverso dall’insofferenza e dall’esasperazione, se solo traessimo delle conseguenze di tipo alquanto diverso. Per quella indefessa e implacabile missione cerca-e-distruggi del poststrutturalismo, che rinviene tracce e contaminazioni della diacronia con una precisione maggiore rispetto a qualsiasi tecnologia teorica o filosofica precedente, non consegue infatti che a essere privilegiato sia in tal modo il pensiero sincronico. Quest’ultimo non risulta particolarmente giustificato dai difetti di quello diacronico. Al contrario, resta singolarmente contraddittorio e incoerente (a questo si fa spesso riferimento come alla “critica dello strutturalismo”), con questa differenza: diversamente dalla diacronia, le antinomie concettuali della sincronia sono immediatamente evidenti e inevitabili. Il “pensiero” sincronico è una contraddizione in termini, non può nemmeno spacciarsi per pensiero, e con esso svanisce l’ultima vocazione tradizionale della filosofia classica.

Ne deriva pertanto il paradosso secondo cui la diacronia diviene contigua al “pensiero” e si instaura quale terreno privilegiato della filosofia grazie alla forza degli attacchi furibondi che conduce contro di essa. Se il “poststrutturalismo” o “discorso teorico”, come preferisco chiamarlo io, fa corpo unico con la dimostrazione della necessaria incoerenza e dell’impossibilità di ogni pensiero, allora in virtù della persistenza delle sue critiche contro il diacronico, e tramite lo stesso meccanismo di puntamento (che coerentemente colloca al centro del proprio obiettivo delle concettualità temporali e storiche), il tentativo di pensare la “storia” – per quanto in maniera confusa e internamente contraddittoria – alla lunga si identifica con la vocazione del pensiero medesimo. Queste immagini abbozzate (Vorstellungen) del tempo e del cambiamento, e l’ingombrante apparato della dialettica, sono fallimenti tangibili della rappresentazione, più o meno come le ali ingenue dei primi aviatori a fronte dell’aeroplano dei fratelli Wright. Soltanto che in questo caso non disponiamo di un aereo con cui confrontarle. Nondimeno si possono perfettamente immaginare i primi ominidi filosofi raffinati, già scettici progrediti, che tra loro si lamentano della scomodità delle rocce che i loro simili adoperano per battere, spaccare e pestare. Questi rozzi oggetti, pensano, non si approssimano nemmeno al loro concetto, lo “strumento”, l’”utensile”: sono in linea con il livello e la qualità della vita sociale della popolazione degli ominidi, i quali, ci dicono oggi gli archeologi, si urtavano molto l’uno con l’altro, erano spesso confusi, avevano tempi di attenzione ridotti e in genere si muovevano in massa inutilmente, senza uno scopo o una meta identificabili. I nostri filosofi ominidi avevano bisogno di una qualche nozione più avanzata per effettuare una tale critica (l’idea, per esempio, di un’impugnatura speciale e di una testa dalla funzione nettamente differenziata rispetto a essa, la prima splendente idea platonica di un martello)? O avrebbero potuto allo stesso modo concludere che la conquista dell’autentica strumentalità (e la differenziazione) era impossibile per il genere umano, e che la macchinosità latente nel pensiero umano più progredito – fino a dove può arrivare la mente – è predestinata a una sorta di incoerenza comica e a un’insufficienza rappresentativa rispetto al proprio concetto, che si tratti di missili spaziali e di martelli, o di computer, esattamente come di legnetti anneriti dal fuoco? L’intenzione infatti è sempre qualcosa di profondamente comico: da questa prospettiva non c’è per forza bisogno di una buccia di banana e dell’interruzione di un’azione intenzionale perché l’agire umano ci colpisca per la sua inadeguatezza ontologica (il riso omerico). Per questo è sufficiente separare l’intenzione dall’atto e porla accanto a esso come un criterio di giudizio ormai non più del tutto interno: a quel punto il progetto stesso di camminare proprio dell’essere umano – anche senza lo scivolone – è fonte di una certa ilarità. Ciò implica tuttavia che dovremmo quanto meno dissipare tutte le illusioni ideologiche del progresso tecnologico, e che si guadagna qualcosa se si restituisce all’azione e al pensiero dell’uomo quest’inestirpabile dimensione della goffaggine: i suoi aspetti caserecci, il nucleo non specialistico di meccanica popolare e di scoordinata sperimentazione infantile. Gli oggetti possono essere complicati quanto si vuole, complessi quanto la storia della filosofia medesima, ma allorché si giunge ai grandi atti del pensiero e della concettualizzazione – quelli di Kant o Hegel, di Galileo o di Einstein – occorre riconquistare la semplicità grossolana e perentoria, se non addirittura la semplicioneria, con cui alla fine si decide di spaccare una pietra sull’altra.

Un altro di quei “grandi” ominidi, Rousseau, decise di inventare il concetto di “storia”; nel suo caso possiamo lasciare da parte più che mai agevolmente la complessa vicenda dei suoi precursori e le sue condizioni di possibilità, dal momento che a lui stesso, faux naïf, piaceva pensare che la questione partisse da zero, mettendo insieme «un ingegnoso mobile fatto in casa» (come scrive splendidamente T.S. Eliot a proposito della filosofia di Blake, solo che egli pensava che la «tradizione» fosse qualcosa di diverso; e in genere nell’idea del bricolage il problema sta nel presupposto che esiste un altro modo di realizzare le cose, più efficace). L’interesse di Rousseau, uno degli snodi cruciali, degli elefanti bianchi della filosofia occidentale, è di offrire lo spettacolo di questo nuovo pensiero rudimentale – la storia – nel momento della sua invenzione dal nulla.

È però importante aggiungere subito che la “grandezza” di colui che ha condotto le critiche e le analisi più avanzate di Rousseau, cioè Paul de Man, è di pari misura. La grandiosa architettura della metà di Allegorie della lettura dedicata a Rousseau – l’immensa costruzione degli edifici della metafora, dell’io, dell’allegoria, dell’allegoria della lettura, delle promesse e delle scuse –, una Darstellung della quale (come il Marx che aveva appena concluso il primo volume del Capitale) aveva ragione di essere orgoglioso, non vale meno come «ingegnoso mobile fatto in casa» delle particolari composizioni che assume quali oggetti di studio. La grossolanità delle sue incipienti generalizzazioni filosofiche va ormai intesa come una questione di onore, un motivo di vanto: iniziare da zero nell’ambito del pensiero non è un’impresa da tutti. De Man ha tenuto fede a Rousseau esattamente in questa costruzione autoctona del testo; e mi sembra più fecondo insistere sul rapporto tra la difficoltà del suo libro e la nuda semplicità dei suoi pensieri appena plasmati, piuttosto che evocare un “pensiero dell’altro” ultrasofisticato, tanto complesso e sottile da restare per sempre irraggiungibile, e stimolare così quei sentimenti di invidia testuale che Harpham ha identificato nelle critiche di de Man. Per metterla in termini maggiormente estetici, ripristinare la grossolanità di un procedimento iniziale del pensiero significa tornare all’atto del pensiero come prassi e grattar via le reificazioni che sedimentano attorno all’atto, una volta trasformato in oggetto. Diceva Gertrude Stein che «ogni capolavoro è venuto al mondo con una dose di bruttezza congenita. […] È compito nostro, di critici, porci di fronte a esso per recuperarne la bruttezza»100.

La “condizione” di critico e pensatore di de Man è talmente legata in maniera assoluta a quella di Rousseau che le incertezze sulla specificità storica di quest’ultimo (siccome esistono molteplici, sia pure non infinite, possibilità di considerarla, preferisco evitare la parola indecidibilità) proiettano a loro volta incertezze sul progetto dello stesso de Man.

Tanto per cominciare, pochi contemporanei hanno vissuto la crisi della storia, della storiografia, la crisi del linguaggio narrativo della diacronia, tanto intensamente quanto de Man: la possibilità di tornare da capo a questa esperienza estrema – per quanto egli stesso abbia deciso di trattarla a livello teorico – rappresenta dunque una delle fonti del valore e dell’importanza che la sua riflessione racchiude per noi. «Ho cominciato a leggere seriamente Rousseau», ci dice de Man, «in vista di una riflessione storica sul Romanticismo e mi sono ritrovato nell’impossibilità di procedere oltre specifiche difficoltà d’interpretazione. Cercando di risolverle, sono dovuto passare dalla definizione storica alla problematica della lettura. Questo passaggio, tipico della mia generazione, è più interessante per i suoi risultati che per le sue cause»101. Quest’ultima frase tenta acutamente di separare le “soluzioni” dell’autore dalla prospettiva storica che si è scoperto incapace di adottare per i propri oggetti di studio; se rispettata, questa avvertenza si realizza da sé e convalida le posizioni successive. Ovviamente, si comprende cosa egli intenda con entrambi gli aspetti del brano appena citato: la vacuità delle narrazioni manualistiche della storia letteraria, che per loro natura non sono in grado di affrontare i testi se non quali esempi, e la rozza causalità della storia delle idee, che talvolta raggiunge la propria formulazione nella psicoanalisi (verso la quale de Man ha nutrito per tutta la vita una certa avversione) oppure, con minore frequenza, la sua generalizzazione sotto forma di sociologia volgare. Sarebbe comunque un errore limitare l’originalità dell’esperienza di tale problema realizzata da de Man a un puro e semplice passaggio dalla diacronia alla sincronia (la forma che potrebbe assumere, per esempio, in qualche futuro manuale di storia delle idee della nostra epoca).

Ma il rifiuto delle categorie di periodizzazione dei manuali è complicato e dialettico, in quanto esse vengono conservate nell’opera di de Man, nella quale resta in vigore l’idea di una drastica differenza tra illuminismo e romanticismo, insieme a una certa distinzione, più esitante, tra romanticismo e modernismo. Il romanticismo è, tra le altre cose, l’epoca di Schiller e della volgarizzazione del pensiero settecentesco (o della sua trasformazione in ideologia, per ricorrere a un lessico diverso). Esso diviene pertanto un momento pericoloso, un momento di seduttività (secondo la categoria etica centrale di de Man), ma quello che ci seduce qui è un sistema di pensiero, ossia una sintesi ideologica (se le dessimo quel nome e la attivassimo a quel livello di generalità, verrebbe inclusa anche la dialettica), mentre il moderno segna il trionfo di una seduttività più propriamente verbale e sensoriale (circostanza su cui ritornerò). Così era essenziale per de Man garantire la specificità storica del Settecento, come risulta chiaro dalla prefazione a The Rhetoric of Romanticism, che diversamente apparirebbe immotivata: «Tranne che per qualche fugace allusione, Allegorie della lettura non è un libro sul romanticismo o sulla sua eredità»102. Questa rettifica sottintendeva la tendenza, da parte almeno di alcuni lettori, ad assimilare le descrizioni di quel libro (nonché i testi di Rousseau) alle letture dei testi di altri periodi operate dallo stesso de Man. «Il guaio del marxismo», ha osservato una volta in un colloquio privato, «è che non ha modo di comprendere il Settecento». Scarso conoscitore della letteratura sul tema, egli non poteva essere consapevole di quanto fosse perspicace un’intuizione del genere nei dibattiti sulla “transizione”, così come in quelli sulla “rivoluzione borghese” e il rapporto del potere statale con il capitalismo.

Di solito nei manuali il Settecento viene considerato il momento della nascita della Storia, della storicità e del senso della storia, oltre che delle possibilità (se non della pratica) della moderna storiografia. In che modo tale caratterizzazione vada collegata all’altro pseudonimo, l’Età della Ragione, dipende dalla singolare coordinazione tra l’esercizio della ragione e la comparsa di quelle nuove realtà storiche (la scoperta dei vecchi modi di produzione, radicalmente diversi, delle Americhe e di Tahiti, il conflitto tra modi di produzione nell’Europa prerivoluzionaria) con cui prima non ci si era mai confrontati. Adesso, per un lungo periodo la Ragione avrebbe “tralasciato tutti i fatti”103 (per riprodurre uno degli atti più scandalosi di Rousseau) e cercato di elaborare la storia per mezzo della pura deduzione, o riduzione, astratta. In altri termini, si trattava di pensare il proprio ritorno alle origini di questo o di quello (in pratica la categoria centrale in questo dibattito filosofico sulla “storia”) eliminando l’inessenziale dai materiali della vita contemporanea. L’espressione coniata da Kant per questo modo di procedere, che egli stesso segue nel proprio ragionamento filosofico, è stata resa alquanto liberamente da un primo traduttore con «annichilire nel pensiero»104. Dopo la più ricca storiografia empirica sviluppatasi nell’Ottocento, il procedimento cesserà di contraddistinguere l’esercizio della Ragione filosofica in maniera così centrale e si ridurrà alla condizione di “esperimento di pensiero”, ovvero, nella fenomenologia di Merleau-Ponty, alla nozione di «arto fantasma» (la sensazione in un arto già amputato quale rappresentazione dell’impossibilità di afferrare qualcosa di cui non possiamo mai fare a meno, come il Linguaggio, l’Essere o il corpo). Il privilegio epistemologico del Settecento, il suo valore per noi quale laboratorio concettuale unico, sta quindi nella situazione paradossale secondo cui, soprattutto nel caso di Rousseau, esso non solo ha generato il concetto di “origini”, ma anche, pressoché simultaneamente, la sua critica più devastante. Sembra essere stato questo, in parte, ciò che ha fatto di Rousseau un oggetto di studio ideale per de Man.

Si può anche leggere Rousseau come colui che apre quello spazio concettuale in seguito garantito dalla dialettica; tuttavia il capitolo di de Man dedicato a quel fondamentale testo dialettico che è il Discorso sullorigine e i fondamenti della disuguaglianza (che d’ora in avanti chiamerò semplicemente Secondo Discorso) non fornisce, né cerca di farlo, un quadro adeguato della più ampia forma narrativa di tale saggio. Ciò si deve in parte al fatto che l’esempio centrale, il gigante come metafora, è tratto da un frammento secondario (non si sa se bozza o continuazione di questo) intitolato Saggio sullorigine delle lingue.

Le riflessioni di Rousseau sul linguaggio contenute nel Secondo Discorso sono certamente abbastanza interessanti, ma più per la loro funzione e la loro collocazione narrativa che per il loro contenuto. Possono servire come dimostrazione fondamentale di quella “riduzione nel pensiero” cui si è appena fatto riferimento, nonché del modo in cui il filosofo necessariamente «tralascia tutti i fatti» per arrivare a un concetto per lo meno negativo dello «stato di natura»: tirando via dalla realtà umana gli strati successivi di tutto ciò che è artificiale, «superfluo», sociale, sfarzoso e dunque immorale, per vedere che cosa rimane allorché si toglie tutto l’inessenziale. A quel punto Rousseau invertirà il processo allo scopo di ricostruire la storia attraverso cui sono venute alla luce queste appendici degradate ed è comparsa la società umana come la conosciamo oggi. Così il suo è pressoché il primo esempio di quel «metodo progressivo-regressivo» attribuito da Sartre a Henri Lefebvre, ma che quest’ultimo ascriveva allo stesso Marx (nella prefazione del 1857 ai Grundrisse)105.

In Rousseau comunque questa inversione non è esente da problemi. È evidente dalle sue osservazioni sul linguaggio, che di per sé costituisce proprio una di quelle aggiunte, di quelle appendici «superflue» che la riduzione della Ragione tramite il pensiero si sente in grado di eliminare dalla sostanza della vita umana. Il problema è che Rousseau si è persuaso con tanta forza della prova che il linguaggio non sarebbe mai potuto nascere, che ha dovuto interrompersi per l’imbarazzo, dal momento che esso ovviamente lo ha fatto. Il Saggio rimanda dunque a tale enigma, cui si accosta in svariati modi, nessuno dei quali decisivo.

La sua narrazione richiede nondimeno un nuovo tipo di concetto causale – un detonatore – affinché possa invertirsi e spiegare le origini della Storia in quanto tale, nel senso del dinamismo delle «società calde» di Lévi-Strauss o dell’origine del potere statale nell’accezione marxiana. È palesemente errato attribuire a Rousseau una visione univoca (e quindi quasi religiosa) di tale caduta, oppure una certa forma unica di causalità o di determinazione. Il Secondo Discorso anzi postula o ipotizza una molteplicità di punti di partenza circoscritti, che in momenti diversi comprendono la sessualità – che incita gli uomini alla lotta per via dell’amore e della gelosia, e quindi non solo istituisce la disuguaglianza, ma genera anche la necessità del linguaggio [rd 166, 176-177] – e la più nota proprietà privata («Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare, questo è mio…» [rd 173]). Quanto c’è di dialettico, o per lo meno di protodialettico, in Rousseau106 è comunque la doppia valenza della «perfettibilità», che definisce tutto ciò che distingue gli esseri umani come tali e determina inoltre la fatalità pressoché inevitabile della loro caduta nella degradazione, nella corruzione e nella civiltà (rd 150-151).

Ciò che giustifica la lettura “linguistica” di de Man è che tale processo in Rousseau è sempre descritto secondo criteri di differenziazione: l’esperienza di classe del Settecento era segnata soprattutto da distinzioni di casta intollerabili, dal rango, dall’orgoglio arrogante dei potenti, nonché dall’ossessione del “grado” e del prestigio, tutti elementi che il termine eponimo disuguaglianza concentra incisivamente più nel senso feudale e sociale che in quello economico. Però Rousseau descrive esplicitamente questa differenziazione in termini protolinguistici e, come vedremo tra breve, quale significato profondo dell’origine del linguaggio stesso.

Qui merita attenzione un’ultima svolta narrativa, poiché costituisce il climax del Secondo Discorso ed equivale a una specie di potenziamento, di intensificazione dialettica delle prime “disuguaglianze”: mi riferisco all’origine dello Stato e del suo potere. A tale proposito Rousseau vuole dimostrare che il suo contratto fittizio è un’enorme truffa, una mistificazione (il che motiva, in un primo momento, la sua versione di un «contratto sociale» autentico, che analizzerò più avanti).

Delle affinità più personali di de Man con Rousseau non sappiamo praticamente nulla e quindi possiamo solamente fare congetture (per esempio, che un belga si interessasse alla marginalità della Svizzera rispetto alla grande realtà parigina sembra abbastanza ovvio). Ci sono tuttavia alcuni errori: penso al momento in cui, nel suo Miti doggi, avendone evocato la funzione demistificante, Barthes ammette di essersi occasionalmente lasciato andare, per un diversivo, a una certa descrizione più ontologica e bachelardiana. Allo stesso modo de Man si arrende alla tentazione allettante di un tipo molto diverso di critica (di solito esplicitamente respinta), quando osserva, a proposito della Nuova Eloisa:

Le passioni sono dunque concepite come dei bisogni patologici, e ciò spiega perché esse siano valorizzate emotivamente in termini di piacere e di dolore. L’allegoria adotta inevitabilmente un vocabolario eudemonico. Nelle sue versioni più domestiche, questo vocabolario genera la mescolanza di dolcezza erotica e di inganno, del «doux modèle» (ibid.) con gli «âcres baisers», che caratterizza molte delle finzioni di Rousseau. Egli stesso paragonava Julie al «soave licor» (Tasso) che maschera l’amaro del suo vero proposito, e questo sapore leggermente nauseante coglie l’aroma quintessenziale del gusto necessariamente «cattivo» di Rousseau. Ci si può sempre consolare di questa stucchevole sdolcinatezza con la lettura dell’igienicamente alacre Contratto sociale. (al 225-6)

Eppure si può ammettere che questa particolare dimensione corporea, fenomenologica, dei testi di Rousseau risulta abbastanza repulsiva da garantirla contro ogni «seduzione». È più rivelatrice la dimensione epistemologica: «Per uno spirito diffidente come quello di Rousseau, poco incline ad aver fede in alcuna voce compresa la propria, sembra poco probabile che una tale catena di spostamenti possa essere dominata senza ulteriori complicazioni» (al 242-243). Qui la paranoia e il disprezzo di sé, che avrebbero potuto indurre un altro critico a un qualche genere di psicoanalisi esistenziale, divengono una «caduta felice», «un incidente fortunato» che delineano la prerogativa epistemologica del pensiero e della scrittura di Rousseau. Questo ci consente ora, in maniera eccezionale, di osservare la creazione di una concettualità storica ex nihilo e la sua parallela demolizione per via del sospetto e della diffidenza: una costruzione seguita immediatamente, all’interno del medesimo testo, da una decostruzione. Sebbene una certa retorica più generale della “decostruzione” (come ideologia) continui a sostenere che tutti i “grandi” testi si decostruiscono da sé, o che il linguaggio letterario in quanto tale lo fa sempre, tali asserzioni non si possono generalizzare sulla base dell’analisi di Rousseau. Inoltre, le ulteriori “spiegazioni” del possibile privilegio epistemologico di Rousseau a tale riguardo – la sua “paranoia”, la sua situazione storico-sociale – sono già state strategicamente neutralizzate in de Man («più interessante per i suoi risultati che per le sue cause»).

Il nucleo essenziale dell’analisi di de Man sarà quindi il modo in cui la mente di Rousseau ha costruito il cosiddetto stato di natura: non solo il passato in generale, o un qualunque passato storico, bensì il passato storico necessario. Cioè che cosa resta, che cosa dev’esserci stato, se cancelliamo l’artificio e la frivolezza decadente e lo sfarzo della «civiltà» com’è stata identificata e denunciata nel Primo Discorso. A questo punto è fondamentale distinguere la prospettiva di de Man a proposito del Secondo Discorso (Sullorigine e i fondamenti della disuguaglianza del genere umano) da quello del Derrida di Della grammatologia. Anzi, almeno per il momento e considerando che i due nomi vengono tanto spesso evocati insieme e rubricati sotto il titolo di “decostruzione”, mi pare un’utile ipotesi operativa assumere sin dal principio che questi due organismi di teoria “firmata” non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. Questa terapeutica ipotesi di lavoro sarà giustificata ancor più profondamente dall’immagine della metafisica di de Man che intendo sviluppare qui, la quale avrà un aspetto assai diverso dalle posizioni che in genere si ascrivono a Derrida.

In questo caso concreto – la questione dello “stato di natura” – si possono però segnalare chiaramente certe iniziali differenze d’accento. De Man descriverà lo stato di natura come una «finzione» (al 149), così come considererà la filosofia politica di Rousseau (comprese le costituzioni concepite dal philosophe) come un insieme di «promesse», e la narrazione del suo passato come un insieme di «scuse». Questi termini stranamente squalificano già ciò che sta al di là del presente come una serie di proiezioni soggettive: o piuttosto, dato che ho già avuto occasione di rilevare l’avversione di de Man verso il “soggettivo” in sé (e lo farò di nuovo), come un insieme di convenzioni di un carattere sociale relativamente inconsistente. Considerare, per esempio, la Costituzione degli Stati Uniti come una «promessa», per quanto straniante possa essere tale descrizione, significa in qualche modo adottare una prospettiva che imprime una singolare invisibilità alla forza delle istituzioni (e di quelli che in Althusser sono gli Apparati Ideologici di Stato). Il senso di colpa esistenziale diverrà a sua volta una sorta di “motivazione del procedimento”, nel senso del formalismo russo, un effetto collaterale della struttura dell’enunciato (al 320). Quanto alla «finzione», sembra una categoria “estetica” singolarmente antiquata nell’attuale clima della teoria dei simulacri e della società dell’immagine, oltre che dell’estendersi delle tendenze contemporanee della psicoanalisi, nelle quali la “fantasia” e l’immaginario paiono spesso disporre di un’effettualità più vigorosa rispetto alla realtà e alla ragione; e ancora della teoria storiografica, dove i vari passati empirici della storia talora non risultano più persuasivi, a livello ideologico, della particolare «finzione» di Rousseau. Se la teoria narrativa di oggi ha realizzato qualcosa di essenziale, questo è il fatto di avere soppiantato con forza la vecchia categoria del “fittizio” (insieme a quella, altrettanto importante in de Man, con tutte le opportune trasformazioni, del “linguaggio letterario”). Per il momento è comunque sufficiente segnalare la presenza attiva, nei testi di de Man, di vecchie categorie come “finzione” e “ironia”, che il testo derridiano non sembra particolarmente rispettare o riconoscere. Riassunto in maniera più che mai frettolosa, l’interesse di Derrida non punta sul carattere fittizio dell’”esperienza” del passato che sembra presupporre la descrizione di Rousseau, bensì sulle contraddizioni interne della sua formulazione. Aprirsi mentalmente la strada verso una condizione che deve essersi verificata un tempo (una volta il linguaggio deve essere comparso tra gli ominidi; deve esserci stato un tempo in cui non esistevano gli eccessi, in cui lentamente vennero alla luce le istituzioni sociali e tribali) ci obbliga a postulare, nel linguaggio o nella scrittura, una condizione dalla quale siano assenti entrambe quelle “proprietà”, una circostanza le cui tante incoerenze e contraddizioni si possono per lo meno rappresentare come segue: la difficoltà, per un essere che “possiede” il discorso/la scrittura, di immaginare quello che presumibilmente potrebbe comportare la loro mancanza. Questa prospettiva particolare attacca dunque ogni fantasia di mutamento o di differenza radicali e pone la questione di come un essere permeato da un sistema nel presente possa mai formarsi un giudizio su una condizione del tutto diversa, giacché per definizione la tesi della differenza e del mutamento significa proprio questo, cioè che il passato è inaccessibile e inimmaginabile. La forza dell’argomentazione di Derrida esige tuttavia la precondizione politico-intellettuale che si continui a “credere” nella diversità del passato, nonostante l’incoerenza di tale concettualità. Il carattere fittizio postulato da de Man non sembra più mettere in atto quel doppio legame angoscioso. Lo stato di natura scade a una posizione opzionale, o piuttosto il suo contenuto storico viene rimpiazzato da un tipo piuttosto diverso di interesse filosofico, che sarebbe fuorviante identificare come epistemologico, e nel quale per certi versi si trasforma il problema delle origini. Si tratta dell’intera questione della nascita dell’astrazione, anzi della concettualità filosofica come tale; l’accento su di essa determinerà ora una lettura molto diversa del testo di Rousseau, oltre che del resto della sua opera.

L’analisi si sviluppa sotto il segno della metafora, termine concettuale cui ci si dovrebbe sempre avvicinare con cautela negli scritti di de Man, dal momento che qui ne viene sempre esclusa con fermezza la funzione tradizionalmente celebrativa nella scrittura letteraria ed estetica (la metafora come marchio del genio, come essenza stessa del linguaggio poetico). Anzi, paradossalmente la metafora «è essenzialmente antipoetica» (al 54); in maniera ancor più paradossale, lungi dall’essere il cuore della figuralità, nonché spazio entro il quale la lingua si svincola dall’elemento letterale e referenziale (che in genere è il punto di vista dell’estetica romantica e di quella modernista, per lo meno quando queste si trasformano in ideologie dell’estetico e si trasmettono in maniera approssimativa come idee universali), per de Man la metafora si configura come una sorta di fonte, di origine, di causa profonda delle stesse illusioni letterali e referenziali. «La metafora trascura l’elemento fittivo, testuale nella natura dell’entità che connota. Essa suppone un mondo nel quale gli avvenimenti intra ed extratestuali, le forme letterali e quelle figurali del linguaggio possono essere distinti, un mondo nel quale il letterale e il figurato sono proprietà che possono essere isolate e, di conseguenza, scambiate e sostituite l’una con l’altra» (al 164). «È un errore», aggiunge, «benché si possa dire che nessun linguaggio sarebbe possibile senza questo errore». È quindi chiaro che, quale che sia lo statuto dei tropi in de Man, non dobbiamo supporre che la metafora venga spodestata allo scopo di promuovere qualche altra figura (per esempio la metonimia o la catacresi) alla posizione centrale di una presunta struttura poetica. Tornerò sulla questione della retorica tra breve, e in particolare sul problema specifico che presenta qui, cioè il fatto di dipendere da una distinzione tra il letterale e il figurato che nello stesso tempo si preoccupa di sovvertire. Per il momento basterà utilizzare questo brano per illustrare quanto c’è di maggiormente gravoso e sconcertante nell’argomentazione di de Man, e forse anche di più “dialettico”, vale a dire il passaggio dalla struttura all’evento, dal presupposto di un rapporto strutturale all’interno del momento testuale all’attenzione verso i suoi effetti ulteriori, che disgregano la struttura iniziale. È in tal senso che la metafora è o non è un «errore»: essa genera illusioni; eppure, nella misura in cui è ineludibile ed è parte integrante del tessuto stesso del linguaggio, «errore» non pare una parola particolarmente idonea, giacché non abbiamo a disposizione uno spazio che ci possa consentire di uscire dal linguaggio e di formulare giudizi del genere. (Era questo, tuttavia, il modo di procedere di Rousseau, la sua illusione epistemologica; e c’è un senso in cui, come si vedrà, la straordinaria impresa di de Man replica quella di Rousseau a un livello teoricamente più raffinato, e si potrebbe dire che costituisce una forma tardiva di razionalismo settecentesco).

Il Secondo Discorso sarà dunque allestito – per impiegare le categorie dello stesso autore – come una tensione tra nomi e metafore o, se si preferisce, come uno slittamento esemplare dai nomi alle metafore. Qui, seguendo Rousseau, il “nome” viene preso in maniera relativamente aproblematica, come un uso del linguaggio che isola il particolare, nell’accezione forte di assolutamente unico e individuale, l’”eterogeneo”, secondo la terminologia contemporanea, vale a dire quanto non si può classificare all’insegna del generale o dell’universale. Si tratta di un intersecarsi tra il linguaggio umano e la “differenza” radicale delle cose tra loro e rispetto a noi. Esprimersi in questi termini significa suscitare un certo senso della peculiarità, anzi dell’autentica perversità, dell’impossibilità inerente allo stesso atto della nominazione. “Albero” non sembra già più il “nome” di quella concreta “pianta dalle grandi radici” che contemplo da questa finestra; per contro, laddove alcuni individui si scoprono capaci di dare un nome alla propria auto preferita, in genere noi non lo facciamo con la nostra poltrona, il nostro pettine o il nostro spazzolino da denti preferiti. Per quanto riguarda gli altri nomi, quelli “propri”, Lévi-Strauss in particolare ci ha abbondantemente insegnato come i nomi facciano parte dei sistemi di classificazione, circostanza che sovverte subito la pretesa di unicità del nome individuale (in un’altra linguistica tale funzione specificante viene svolta dall’atto pressoché muto della deissi, fatta di “questo” e “quello”, che indica la specificità altrimenti ineffabile dell’oggetto unico, qui e ora). Però le argomentazioni di de Man non sono più di tanto viziate da queste considerazioni, che si limitano a far retrocedere di uno stadio nel tempo l’atto secondario, metaforico, e confermano la vanità del linguaggio in genere, le cui “proprietà” necessariamente generalizzanti, concettualizzanti e universalizzanti scivolano sulla superficie di un mondo fatto di cose uniche e non suscettibili di generalizzazione. Pensare in questa maniera appronta inevitabilmente un’immagine ontologica (o metafisica) del mondo e del linguaggio (su cui tornerò più avanti).

Tuttavia il linguaggio nasce; noi nominiamo le cose e ne parliamo, siamo in errore o no; e i procedimenti razionalizzanti del Settecento hanno condotto Rousseau a cercare di “comprendere” (o “spiegare”) tale situazione per via genetica o storica, attraverso la deduzione di una fase nella quale il linguaggio non era ancora presente. «I contatti ripetuti tra l’uomo e esseri diversi, e di questi tra di loro, dovette necessariamente generare nella mente dell’uomo la percezione di certi rapporti» (Rousseau, citato in al 168). Tali rapporti – paragoni, prima di tutto («grande, piccolo, forte, debole»), e poi il numero – segnano la nascita della concettualizzazione e dell’astrazione autentiche o, se si preferisce, di un’astrazione che si intende come tale (a differenza della nominazione che pretende ancora di rispettare il particolare, e non di raffrontarlo). Potrebbe dunque sembrare che il puro rapporto concettuale sommerga nuovamente il particolare e lo converta in una serie di equivalenze o di identità; in altri termini, non è possibile evocare le differenze quantitative tra due entità (quest’albero è più grande di quello) senza averne in qualche modo postulato l’equivalenza (o la rassomiglianza), per lo meno a tale riguardo. A questo punto, dunque, termina il regno del nome e ha inizio quello della parola, del concetto, dell’astrazione, dell’universale. Naturalmente de Man identificherà fondamentalmente tale trasformazione nell’operazione della metafora. Il concetto implica una certa decisione preliminare a proposito della somiglianza di un gruppo specifico di entità tra di esse (d’ora innanzi le chiameremo uomini, alberi, poltrone o così via). Eppure a questo livello di decisione preliminare le entità non hanno nulla in comune tra loro; sono tutte realtà distinte, per questo, in tale momento sostanzialmente prelinguistico, “raffrontare” due diverse “piante” è un atto linguistico tanto eccentrico quanto descrivere “il mio amore” come una “rosa rossa, rossa”. Tale identificazione della comparsa dell’astrazione con l’atto metaforico rappresenta ovviamente molto di più di una glossa su questo specifico brano di Rousseau: è anche, come vedremo, una mossa strategica che consente al singolare sistema “retorico” di de Man di venire alla luce. A questo punto del processo di “costruzione teorica”, una pausa può permetterci di vedere un po’ più distintamente che cosa l’opera di de Man, per altri aspetti apparentemente unica e inclassificabile, abbia in comune con determinate altre forme del pensiero contemporaneo.

Adorno è il più prossimo tra coloro la cui visione della tirannia del concetto – la cosiddetta teoria dell’identità, la violenza imposta all’eterogeneo dalle identità astratte della Ragione (le somiglianze di Rousseau, le metafore di de Man) – dispone di una funzione diagnostica analoga, circostanza ancora una volta rinvenibile nelle frequenti tentazioni a raffrontare la sua «dialettica negativa» con una certa forma della «decostruzione» derridiana. Porre tra parentesi le differenze tra una filosofia che descrive tali fenomeni al livello del concetto e una teoria che li rintraccia nello schema degli eventi linguistici stessi esige che si differisca la questione (forse metafisica) della priorità ontologica del linguaggio sulla coscienza. Ma richiede che si osservi di sfuggita la maggiore narratività interna della versione di de Man, in contrasto con una sorta di narratività esterna contenuta nella «dialettica dell’illuminismo». Come si vedrà, in de Man il dato strutturale della metaforizzazione ha conseguenze fattuali per il testo e il suo contenuto, le quali alla fine saranno riordinate e classificate nei vari generi di allegoria. In Adorno la tirannia del concetto, dell’astratto, dell’”identità” si può superare in vari modi, rispetto ai quali la proposta di una «dialettica negativa» si presenta come una sorta di codificazione, come un vero e proprio programma strategico. Tuttavia anche in Adorno, come accade nel caso della metafora in de Man, il concetto resta vincolante, ed è una componente ineliminabile del pensiero (tanto che l’«errore» qui è al contempo una caratterizzazione tanto adeguata quanto inadeguata). Ma Adorno – sotto questo profilo come Rousseau, e assai diversamente da de Man – si sente capace di ricostruire una narrazione storica esterna che può dar conto del manifestarsi dell’astrazione (la somiglianza in Rousseau, la ragione o il «dominio» illuministico sulla natura in Adorno e Horkheimer). In entrambe le versioni tale narrazione ruota attorno alla paura e alla vulnerabilità degli ominidi di fronte a una natura smisuratamente minacciosa, verso la quale soltanto il pensiero offre uno strumento durevole di protezione e di controllo. De Man, del quale è dato pensare che abbia patito un’esperienza storica della paura e della vulnerabilità maggiore di quella di buona parte dei nordamericani, esclude spiegazioni di questo genere, che senza dubbio avrebbe designato come “meno interessanti”.

Le affinità più profonde con questa problematica di de Man stanno qui nello stesso Marx, e in particolare nella sua descrizione delle quattro fasi del valore (la quale, anche se non è necessario, può naturalmente essere letta come la narrazione di una nascita). De Man non è vissuto abbastanza per esplorare e articolare l’incontro con il marxismo che aveva promesso nei suoi ultimi anni. Allegorie della lettura tuttavia racchiude già un’allusione essenziale che sposta l’incontro con il marxismo dal livello antropologico (bisogni, natura umana ecc.) a quella che egli chiama «concettualizzazione linguistica»: