4. Equivalenti spaziali nel sistema-mondo
Il postmodernismo suscita interrogativi sulla voglia di architettura per poi, pressoché all’istante, sviarli. Si può dire che, insieme a quello per il cibo, il gusto per l’architettura sia relativamente recente per i nordamericani, che sanno tutto di musica e di narrativa, si sono interessati meno all’eloquenza e talvolta hanno dipinto quadri piccoli, oscuri e segreti per fini sospetti, che odorano di superstizione o di occulto. Tuttavia fino a tempi molto vicini essi non hanno voluto – e per buone ragioni – pensare molto a ciò che mangiavano; quanto allo spazio edificato, anche in quel caso ha regnato a lungo una narcosi protettiva, un atteggiamento fatto di “non voglio né vedere né sapere” che, nel complesso, è stato forse il rapporto più sensato che si potesse stabilire con la vecchia città americana. (Il postmodernismo sarebbe dunque il momento in cui tutto ciò è cambiato). Il retaggio lasciato nell’immediato dopoguerra da questa protezione della specie quasi naturale o biologica è stata la deviazione di tali istinti estetici (denominazione assai incerta) in una mercificazione immediata: da un lato i fast food e dall’altro la decorazione d’interni e l’arredamento kitsch per i quali gli Stati Uniti vanno celebri e che sono stati spiegati come una sorta di manto protettivo – il chintz della produzione interna del primo dopoguerra – concepito per allontanare il ricordo della depressione e le sue dure privazioni materiali. Tuttavia non si può ricominciare da zero, perciò tutto quello che è venuto in seguito – nel cosiddetto postmodernismo, molto tempo dopo che la depressione era caduta nell’oblio, a eccezione della pretestuosa citazione di Reagan quando si paragonò a Roosevelt – ha dovuto aggiungersi a quegli inizi tutt’altro che promettenti. Come se fosse stato un discepolo di Hegel, dunque, il postmoderno raccoglie, e cancella, tutto quel ciarpame (Aufhebung), compresi l’hamburger nella divaricazione dei suoi pasti da gourmet e Las Vegas nel paesaggio multicolore dei suoi psichedelici monumenti commerciali.
La voglia di architettura è nondimeno incoerente con l’indifferenza con la quale in precedenza le varie classi sociali del paese trattavano i propri centri cittadini. Questa voglia rimanda di certo alla città e anche agli edifici isolati, preferibilmente blocchi di pietra, la cui forma nello spazio è bella da vedere, se questo è il verbo giusto. Qui è in questione il monumentale, che non ha bisogno della retorica contemporanea del corpo e delle sue traiettorie, e tanto meno è volgarmente visivo nel senso dei codici cromatici del postmoderno. Non è necessario salire l’imponente scalinata di persona, ma non si tratta nemmeno di una qualche parabola manierista che si possa miniaturizzare con un rapido sguardo per portarsela a casa in tasca. Dato che sono già stati menzionati Heidegger e J. Pierpont Morgan, è giusto dire che il monumentale sta nel mezzo di questi due termini, più vicino a Pittsburgh che al Partenone, pur partecipando di entrambi attraverso l’Idea. E in ogni caso forse è il momento di dire qualcosa di positivo riguardo al neoclassico, che qui sembra essere ciò di cui si parla, e che potrebbe essere l’omologo occulto e silente nello schema combinatorio su cui tanto inaspettatamente, alcuni anni fa, si è all’improvviso acceso il postmoderno. Come la cucina francese, pertanto, questo appetito è fortemente borghese e ottocentesco, e necessita, se non della stessa Parigi, quanto meno di una solida città neoclassica che comprenda ancora la categoria formale della strada con il marciapiede che notoriamente il modernismo era pronto ad abolire, con scarsissimo successo. Ritengo che il postmodernismo sia andato oltre, abolendo qualcosa di ancor più fondamentale, cioè la distinzione tra interno ed esterno (tutti i modernisti hanno sempre detto che uno doveva esprimere l’altro, il che lascia intendere, in primo luogo, che nessuno aveva nemmeno lontanamente dubitato che i due termini fossero entrambi necessari). Le vecchie strade diventano dunque corsie di un grande magazzino, il quale, se lo si pensa alla maniera giapponese, passa a essere il modello e l’emblema, la segreta struttura interna e il concetto della “città” postmoderna, già abbastanza adeguatamente realizzata in certe aree di Tokyo.
La conseguenza è tuttavia che, per quanto questo nuovo fenomeno possa essere emozionante in termini di spazio, nel paesaggio urbano attuale si fa sempre più arduo ordinare un menù architettonico di prima classe alla vecchia maniera, anche se dovesse piacere (e in tal senso le concrete realizzazioni degli architetti postmodernisti sono paragonabili a spuntini freddi di mezzanotte, surrogati invece della cosa stessa). Pertanto, l’attuale voglia di architettura – ed è noto che ritengo che il postmoderno l’abbia sicuramente ravvivata, se non addirittura reinventata completamente – dev’essere in effetti voglia di qualcos’altro.
Penso che si tratti di una voglia di fotografia: ciò che oggi vogliamo consumare non sono gli edifici in sé, che si riconoscono a malapena mentre si prende l’autostrada. I riflessi condizionati rendono tutto incolore prima di potere ricordare la foto del centro urbano; il tipico cantiere edile della California meridionale ne appanna l’immagine e imprime la consueta provvisorietà, circostanza che si suppone sia una bella cosa in un “testo”, ma che nello spazio non è nient’altro che un sinonimo di cattiva qualità. Di fatto è come se la “realtà esterna”, che mi asterrò con cura dall’indicare come il referente, fosse l’ultimo rifugio, la riserva del bianco e nero (come nei film in bianco e nero): quello che nel mondo vero di fuori si scambia per colore non è nient’altro che un’informazione su qualche programma informatico interno, il quale ritraduce i dati e li contrassegna con la tonalità giusta, come avviene nella colorizzazione dei classici di Hollywood. Il colore vero arriva quando si guardano le fotografie, le lastre lucide, in tutto il loro splendore. «Tout, au monde, existe pour aboutir au Livre». Bene, quanto meno al libro illustrato! E molti sono gli edifici postmoderni che sembrano progettati per la fotografia, poiché soltanto lì sfolgorano nella loro esistenza e nella loro realtà brillanti, fosforescenti come un’orchestra ad alta tecnologia su CD. Qualunque ritorno al tangibile e al tattile, come la conversione alla rispettabilità operata da Venturi nella Gordon Wu Hall di Princeton, con i suoi metalli lucidi e le balaustrate veramente solide, sembra ridare ascolto a Louis Kahn e al “tardo moderno”, cioè al momento in cui i materiali da costruzione erano costosi e di qualità superba, e la gente indossava ancora giacca e cravatta. È come la transizione dai metalli preziosi alla carta di credito: il “cattivo nuovo” non è meno costoso e non se ne consuma il valore autentico in misura minore, però (come si indicherà più avanti) si consuma soprattutto il valore dell’attrezzatura fotografica, e non quello dei suoi oggetti.
Forse per questo l’architettura postmoderna è dopo tutto proprietà dei critici letterari, nonché testuale in più di una maniera. Il modernismo avrebbe fatto tutto ciò organizzando l’architettura attorno ai nomi e agli stili individuali, più distintivi delle singole opere: gli effetti secondari residuali del modernismo sono tangibili tanto nei metodi sollecitati dalle opere quanto nelle strutture di queste ultime, e un’indagine tutt’altro che priva di senso sul postmoderno (che, alla sua maniera, si persegue in questo capitolo) consiste nell’esaminare tali residui e riflettere sulla loro necessità.
D’altro canto, esistono residui che risalgono a molto prima del moderno stesso e ci si parano davanti come una sorta di arcaico “ritorno del represso” in seno al postmoderno.
Per esempio, si deve supporre che le grandi forme collettive siano in genere residuali, ereditate dai modi di produzione precedenti, dal carattere più collettivo rispetto al nostro; ciò vale per la cucina cinese e le sue interrelazioni sincroniche o, in un altro ambito, per quella che è ormai nota come il concetto giapponese di team, che tuttavia organizza evidentemente i gruppi di persone in campi diversi da quello della fabbrica vera e propria. Ciò fa supporre che i modelli monumentali della “totalità” di tipo architettonico siano ricostruzioni di quei frammenti residuali del periodo moderno. In altre parole essi non offrono forme capitaliste e “occidentali” di totalità alternative a queste più arcaiche, dal momento che la logica del capitalismo è prima di tutto dispersiva e disgiuntiva e non tende verso alcun tipo di totalità. Pertanto, laddove quest’ultima si riscontra nel nostro modo di produzione, come nel potere dello Stato (ossia, in altri termini, nella costruzione o nella ricostruzione di una burocrazia statale), il fenomeno va visto quale reazione contro la dispersione e la frammentazione, come forma reattiva o di secondo grado. La distensione del postmoderno determina dunque non un ritorno alle vecchie forme collettive, bensì uno scomporsi delle costruzioni moderne, al punto che i suoi elementi e componenti – ancora identificabili e relativamente interi – fluttuano a una certa distanza l’uno dall’altro in una stasi miracolosa, in una sospensione che, come per le costellazioni, sicuramente verrà meno da un momento all’altro. La più vivida rappresentazione visiva di tale processo si può senza dubbio rintracciare nel cosiddetto storicismo degli architetti postmoderni, e specialmente nel loro rapporto con il linguaggio classico, i cui vari elementi – l’architrave, la colonna, l’arco, l’ordine, l’arco piano, il lucernario e la cupola – cominciano, con la forza lenta dei processi cosmologici, ad allontanarsi l’uno dall’altro nello spazio. Tali elementi si sganciano dai loro vecchi supporti, come se levitassero liberamente, per così dire, dotati per un ultimo breve istante della brillante autonomia del significante psichico, come se la loro funzione sincategorematica secondaria si fosse trasformata per un attimo nella Parola stessa, prima di disperdersi nella polvere delle vuote distese dello spazio. Questo fluttuare era presente già nel surrealismo: gli ultimi Cristi di Dalí si libravano sulle croci alle quali erano inchiodati, e gli uomini con la bombetta di Magritte discendevano lentamente dal cielo sotto forma di quelle gocce di pioggia che li obbligavano a indossare la bombetta e a portare l’ombrello. Per dar conto dell’esperienza dell’assenza di peso che in qualche modo univa tutti questi oggetti si è spesso fatto ricorso all’Interpretazione dei sogni, che li ha dotati della profondità del modello psichico o dell’inconscio, in un senso del tutto estraneo e antiquato nel contesto del postmoderno. Tuttavia, nella Piazza d’Italia di Charles Moore, e in tanti altri suoi edifici, gli elementi fluttuano liberi per impulso proprio e ognuno diventa un segno o un logo della stessa architettura. Inutile dire che quest’ultima viene consumata come una merce – e con tutto il piacere avido che accompagna tale consumo – in contrasto con il ruolo che quegli elementi erano chiamati a svolgere, o più spesso impediti di svolgere, in un modernismo ansioso di opporsi al consumo e di offrire un’esperienza tale da non poter essere mercificata.
Così, sembra che un sintomo fondamentale dello spazio postmoderno sia la differenziazione interna di questo tipo, come se gli elementi e i componenti dell’opera fossero mantenuti in soluzione da una sorta di antigravità del postmoderno, radicalmente diversa nella sostanza dalla legge della caduta dei gravi del moderno, che cercava di addensare e combinare per attrazione (come l’Eros di Freud). A prima vista, l’altro non ha alcuna relazione con questo, perché pare implicare un principio positivo di relazione invece che questo movimento centrifugo, e indica piuttosto il modo in cui gli organismi reagiscono ai corpi estranei, tentando di circondarli e di neutralizzarli in una specie di quarantena spaziale o di cordone sanitario. Eppure tali elementi spesse volte sono estranei o extrasistemici per il mero fatto di appartenere al passato.
Prenderò dunque a prestito il termine degli architetti e chiamerò questo secondo procedimento involucro; resta inteso che in questa sede io sto facendo qualcosa di analogo, e che sarebbe bene tentare di “produrre il proprio concetto” anche a livello teorico. L’involucro può essere considerato una reazione alla disintegrazione di quel concetto tradizionale che Hegel designò come «fondamento», passato poi nel pensiero umanistico nella forma denominata “contesto”, che i suoi oppositori percepiscono quale spregevolmente “esterno” o “estraneo”, giacché sembrava racchiudere in sé il principio duplice di due insiemi di pensieri e procedimenti radicalmente diversi (uno per il testo, l’altro – in genere importato dall’esterno, dai manuali di storia o di sociologia – per il contesto in questione). Inoltre il contesto sembrava sempre evocare una certa concezione più ampia e ancor meno tollerabile della totalità sociale a venire. Il problema sembrò dunque riformularsi come problema di ordine formale: che genere di rapporti dobbiamo instaurare oggi tra questi due insiemi distinti di dati o di materie prime, se il rapporto figura/sfondo è escluso fin dal principio? L’”intertestualità” ha sempre costituito una soluzione eccessivamente debole e formalistica a tale problema, che l’involucro risolve molto meglio, in quanto per prima cosa è più frivolo (e dunque usa e getta), ma anche e soprattutto perché, contrariamente all’intertestualità, mantiene il prerequisito essenziale della priorità o addirittura della gerarchia – la subordinazione funzionale di un elemento all’altro (talvolta chiamata anche “causalità”) –, rendendolo tuttavia reversibile. Anche ciò che è avvolto può essere adoperato come involucro, e l’involucro può essere a sua volta rivestito.
Ci si può approssimare a tali effetti mediante delle anticipazioni precedenti, come l’intuizione di Malraux di un’opera d’arte fittizia46. Lo scrittore francese aveva in mente il modo in cui la fotografia crea delle forme d’arte finora irrealizzate, ingrandendo per esempio l’oro lavorato di un gioiello scita fino a ottenere dei volumi che ricordano i fregi del Partenone. L’arte decorativa si trasforma così in scultura e i prodotti provvisori, mutevoli e minori dei nomadi divengono “opere” canoniche monumentali e sedentarie. Egli stesso, dal suo punto di vista canonico e modernista, non riuscì a sviluppare il concetto di tali trasformazioni, ma soltanto ad aggiungere gli anonimi sciti (insieme ai pittori delle tombe di Fayoum) al canone “principale”. Se l’operazione possa funzionare al contrario, in modo tale da riconvertire le grandi forme canoniche in arti minori, è un’altra questione, senza risposta (Deleuze e Guattari hanno cercato di farlo con quel classico moderno che si chiama Kafka)47.

Comunque, dopo la comparsa del discorso teorico e data l’opinione ormai pressoché universale che (essendo tutto in qualche modo un testo) anche il vecchio contesto sia in effetti un testo di per sé, dal momento che lo traiamo da un altro libro, quella che appariva come una citazione fa sì che venga alla luce una certa versione della pratica di Malraux, la creazione di forme d’arte immaginarie, viene alla luce grazie a quella che appariva come una citazione. (Si veda, per esempio, la foto dal film Nostalghia di Andrej Tarkovskij). Diviene persino più chiaro che in qualsivoglia forma di critica o explication de texte, ma in modo assai più visibile nelle pratiche più idiosincratiche della teoria contemporanea, un testo viene semplicemente avvolto in un altro, con l’esito paradossale che il primo – un mero campione di scrittura, un paragrafo o una frase esemplare, un segmento o un momento strappato al suo contesto – si afferma come autonomo, come una sorta di unità in sé, come i leoni voraci negli orecchini di Malraux. Il nuovo discorso si affanna per assimilare il “testo primario” (che una volta si chiamava Letteratura) alla propria stessa sostanza, transcodificandone gli elementi, portando in primo piano tutti gli echi e le analogie, talvolta persino prendendo a prestito i tratti stilistici dell’esempio per coniare i neologismi, ossia la terminologia ufficiale dell’involucro teorico. Anzi, talora i classici più deboli si fondono con i loro potenti portavoce teorici e si ritrovano a essere appendici o lunghe note a piè pagina di un celebre teorico. Ancor più spesso, però, il risultato durevole è quello secondario e non del tutto intenzionale di uno scioglimento dell’unità primaria, la dissoluzione di un’opera in un testo, la liberazione degli elementi verso un’esistenza semiautonoma di frammenti d’informazione nello spazio saturo di messaggi della cultura mediatica, dello “spirito oggettivo”, del tardo capitalismo. Ma in tal caso il movimento può essere reversibile, e così accade in scrittori come Samuel Delany, che reintroducono i frammenti terminologici del discorso teorico nella loro “produzione letteraria” ufficiale e li lasciano incorporati lì, come fossili nei resti stratificati o quali impronte di un corpo polverizzato di una Pompei futura. Nel discorso teorico i “frammenti” non sono in ogni caso questi pezzi di un’opera d’arte precedente, bensì i termini stessi, i neologismi, i quali, essendo divenuti loghi ideologici, si disseminano nell’universo sociale come schegge di una bomba, si diffondono nell’uso generale e descrivono una parabola discendente finché non vanno a conficcarsi in qualche ostacolo immobile, che potrebbe essere, naturalmente, gli stessi media.
La strategia dell’involucro e di ciò che avvolge perpetua peraltro la sensazione (e implicitamente il più esplicito messaggio del “concetto” di intertestualità) che nessuna delle parti sia nuova, e che d’ora in poi sia in gioco la ripetizione, invece dell’innovazione radicale. Il problema sta nel conseguente paradosso secondo cui la pretesa di originalità storica del postmodernismo in genere, e dell’architettura postmoderna in particolare, si fonda su questa rinuncia al nuovo, al novum. Che cosa c’è dunque di originale (nel senso della novità) nell’idea di un “neo” che si astiene dall’originalità e abbraccia la ripetizione in maniera vigorosa e, questa sì, originale? Fino a che punto si possono ancora descrivere le peculiarità della costruzione spaziale del postmoderno, laddove quest’ultimo ha esplicitamente abbandonato il grande mito modernista della realizzazione di uno spazio utopico radicalmente nuovo in grado di trasformare il mondo stesso?
Come sempre, i dilemmi del postmoderno stesso modificano (e a loro volta ne sono modificati) quelli del moderno, per il quale l’innovazione era abbastanza inequivocabile come valore ideologico, ma strutturalmente ambivalente e indecidibile nella sua realizzazione. Un giudizio di questo genere dovrebbe essere agevolato dall’esplicita identificazione, nel più programmatico dei moderni (qual è Le Corbusier), dell’innovazione formale con una radicale trasformazione sociale, circostanza che presumibilmente presenta la consueta verificabilità empirica, sempre che si consideri un compito facile registrare la rigenerazione sociale a posteriori. Il tentativo di pensare tali cambiamenti dalla prospettiva della sovrastruttura sembra da ultimo generare modelli sociali o visioni del mondo di tipo essenzialmente religioso. In ogni caso, il concetto di spazio dimostra qui la sua funzione sommamente mediatrice, in quanto la sua formulazione estetica inizia subito a comportare conseguenze cognitive da un lato e sociopolitiche dall’altro.
Tuttavia questo è anche il motivo per il quale potrebbe essere fuorviante formulare le conseguenze sociali dell’innovazione spaziale nei termini dello spazio stesso; qui si impone l’intervento di un terzo termine o interpretante, tratto da un altro ambito o da un altro medium. È quanto è accaduto alcuni anni fa negli studi sul cinema, allorché Christian Metz ha elaborato la sua semiotica filmica in un vasto programma di riscrittura nel quale i fondamenti della struttura filmica venivano riformulati in termini di sistemi linguistici e segnici48. L’esito tangibile di un siffatto programma di riscrittura è stato di generare un problema duplice che non si sarebbe mai potuto articolare o mettere a fuoco se fosse rimasto espresso in un lessico puramente cinematografico. Si tratta del problema delle unità minime e delle macroforme di ciò che, nell’immagine, potrebbe corrispondere al segno e ai suoi componenti, per non dire alla parola stessa. È anche il problema di quanto nella diegesi filmica può essere considerato un enunciato completo, se non una proposizione, un più ampio paragrafo “testuale” di qualche genere. Tali problemi si “producono” però nel quadro di uno pseudoproblema più vasto di aspetto ontologico (o metafisico, il che fa lo stesso), il quale può assumere la forma di un interrogativo irresolubile, cioè se il film sia un tipo di linguaggio (anche asserire che esso è come un linguaggio – o come il Linguaggio – presenta risonanze metafisiche). Questo periodo particolare degli studi sul cinema sembra essersi concluso non quando la domanda ontologica è stata identificata come falsa, bensì allorché il lavoro specifico di transcodifica ha raggiunto il limite dei propri oggetti; soltanto allora si è potuta considerare tale questione come uno pseudoproblema.
Un tale programma di riscrittura potrebbe risultare utile nel nostro attuale contesto architettonico, a patto che non lo si confonda con una semiotica dell’architettura (che peraltro già esiste) e che si aggiunga questo secondo passo storico e utopico a quello principale, la cui funzione non è di suscitare interrogativi ontologici analoghi (se lo spazio edificato sia un tipo di linguaggio), ma di destare invece la questione delle condizioni di possibilità di una qualunque forma spaziale.
Come nel cinema, le prime questioni riguardano le unità minime: le parole dello spazio edificato, o quanto meno i suoi sostantivi, sembrerebbero essere le stanze, categorie collegate e articolate, a livello sintattico e sincategorematico, dai vari verbi e avverbi dello spazio – corridoi, entrate e scale, per esempio – a loro volta modificati dagli aggettivi, che hanno la forma della pittura, dell’arredamento, della decorazione e degli ornamenti (la cui puritana denuncia da parte di Adolf Loos offre alcuni interessanti parallelismi letterari e linguistici). Frattanto, queste “frasi” – se davvero si può dire che un edificio possa “essere” tale – vengono lette da lettori i cui corpi riempiono le varie posizioni dei modificatori e del soggetto; e il testo maggiore in cui si inseriscono tali unità può essere assegnato al testo-grammatica dell’urbano (o forse, in un sistema globale, a geografie persino più vaste e alle loro norme sintattiche).
Una volta stabilite queste equivalenze, cominciano a porsi le questioni più interessanti, quelle relative all’identità storica – questioni tutt’altro che implicite nell’apparato linguistico o semiotico, le quali iniziano a imporsi quando quest’ultimo viene sfidato sul piano dialettico. In che modo, per esempio, concepire la categoria fondamentale della stanza (in quanto unità minima)? Le stanze private, quelle pubbliche e quelle destinate al lavoro (lo spazio degli uffici impiegatizi, per esempio) vanno pensate come lo stesso genere di sostantivo? Si possono impiegare tutte indifferentemente entro lo stesso tipo di struttura della frase? Secondo un’interpretazione storica49, tuttavia, la stanza moderna nasce solamente come conseguenza dell’invenzione, nel Seicento, del corridoio; la sua intimità ha ben poco a che vedere con quegli spazi mediocri per il sonno che una persona era solita superare passando attraverso una congerie di altre stanze, camminando sopra corpi addormentati. Tale innovazione, così rinarrativizzata, genera ora interrogativi affini sull’origine della famiglia nucleare e sulla costruzione o formazione della soggettività borghese, cosa che fanno anche le domande riguardanti le relative tecniche architettoniche. Ma suscita pure seri dubbi sulle filosofie del linguaggio che in effetti hanno generato per prime questa formulazione: qual è davvero lo statuto trans-storico della parola e della frase? La filosofia moderna ha modificato in maniera consistente la visione della propria storia e la concezione della propria funzione quando ha incominciato a rendersi conto del rapporto tra le sue categorie (occidentali) più essenziali e la struttura grammaticale del greco antico (per non parlare delle approssimazioni di quest’ultimo in latino). Si può dire che il rifiuto della categoria della sostanza operato dalla filosofia moderna sia una risposta all’impatto di questa esperienza della storicità che sembrava screditare il sostantivo in quanto tale. Non è chiaro se al macrolivello della frase propriamente detta sia accaduto qualcosa di analogo, benché si sia giunti a intendere la relazione costitutiva tra la linguistica quale disciplina e la frase in quanto suo più ampio oggetto di studio concepibile (e invece di dissolversi tale relazione si rafforza con il tentativo di inventare discipline compensative come la semantica o la grammatica testuale, le quali definiscono in maniera evidente i confini che vorrebbero disperatamente trasgredire o abolire).
Quando si traggono le conseguenze politiche e sociali, la speculazione storica non fa che esasperarsi. Tutti, da Kant a Lévi-Strauss, hanno dichiarato illegittima la questione delle origini del linguaggio (la ur-formazione della frase e della parola in un magma galattico agli albori del tempo umano), malgrado essa si accompagni alla questione dell’origine del sociale (e fosse solita accompagnarsi a un’altra, legata all’origine della famiglia). Tuttavia quella della possibile evoluzione e modificazione del linguaggio continua ad avere senso e intrattiene un rapporto vitale con la questione utopica della possibile trasformazione della società (laddove essa stessa sia ancora concepibile). Anzi, le forme assunte da questi dibattiti sembreranno filosoficamente accettabili o, al contrario, antiquate e superstiziose in maniera direttamente proporzionale alle convinzioni più radicate di ciascuno di noi circa la possibilità di trasformare la società postmoderna. Per esempio, Lysenko ha etichettato la controversia su Marr in Unione Sovietica come un’aberrazione scientifica, in larga misura per via dell’ipotesi dello stesso Marr secondo la quale la forma e la struttura del linguaggio si alteravano seguendo il modo di produzione di cui quel linguaggio costituiva una sovrastruttura. Dato che il russo non si era sensibilmente evoluto dall’epoca zarista, Stalin pose bruscamente fine a tale speculazione con un celebre pamphlet dal titolo Marxismo e linguistica. Nel nostro tempo, il femminismo è stato pressoché il solo a tentare di immaginare i linguaggi utopici parlati in società nelle quali la dominazione di genere e l’ineguaglianza abbiano cessato di esistere:50 il risultato non è stato nulla di più di un momento notevole della fantascienza recente, e dovrebbe continuare a rappresentare l’esempio del valore politico dell’immaginazione utopica quale forma della prassi.
È precisamente, però, a partire dalla prospettiva di tale prassi utopica che si può tornare al problema del giudizio sulle innovazioni del movimento moderno in architettura. Infatti, proprio come nel modernismo letterario, da Mallarmé a Faulkner, l’espansione della frase esercita un ruolo fondamentale, allo stesso modo la metamorfosi dell’unità minima risulta essenziale nel modernismo architettonico, che, con l’abolizione della strada, si potrebbe dire che ha tentato di andare al di là della frase (in quanto tale). Analogamente la «pianta libera» di Le Corbusier mette in discussione l’esistenza della stanza tradizionale quale categoria sintattica e genera un imperativo ad abitare in modo nuovo, a inventare nuove forme del vivere e dell’abitare come conseguenza etica e politica (e forse anche psicoanalitica) della mutazione formale. Tutto dipende dunque dal fatto di pensare che la «pianta libera» sia semplicemente un’altra stanza, benché di carattere insolito, oppure che essa trascenda completamente tale categoria (così come un linguaggio oltre la frase trascenderebbe in egual misura la nostra concettualità e la nostra socialità occidentali). Tanto meno la questione si riduce alla demolizione delle vecchie forme, come avviene nella terapia iconoclasta e purificatrice del dada: questo genere di modernismo ha promesso l’articolazione di nuove categorie dello spazio che è giusto considerare come utopiche. È largamente noto che il postmodernismo fa tutt’uno con un giudizio negativo circa tali aspirazioni del moderno avanzato, che pretende di avere abbandonato; però la nuova denominazione, il senso di una rottura radicale, l’entusiasmo che ha salutato gli edifici di nuovo tipo, tutto testimonia il persistere di una certa idea di novità o di innovazione che sembra essere sopravvissuta al moderno stesso.
Questo è per lo meno il quadro problematico entro il quale mi propongo di esaminare uno dei pochi edifici postmoderni che sembrano rivendicare con forza una spazialità rivoluzionaria: la casa (o abitazione unifamiliare) che l’architetto canadese-americano Frank Gehry si è costruito (o ricostruito) a Santa Monica, in California, nel 1979. Tuttavia anche questo punto di partenza è irto di problemi: tanto per cominciare, non è chiaro cosa pensi Gehry di sé stesso rispetto all’architettura postmoderna più in generale. Certamente il suo stile ha piuttosto poco in comune con l’ostentata frivolezza decorativa e l’allusione storicistica di Michael Graves o di Charles Moore, o persino con lo stesso Venturi. Gehry ha anzi osservato che Venturi «è interessato al racconto, […] a me interessa in realtà l’aspetto pratico, non raccontare delle storie»51; si tratta di una definizione abbastanza azzeccata della passione per la periodizzazione da cui, tra le altre cose, deriva il concetto di postmodernismo. Peraltro, l’abitazione unifamiliare potrebbe essere meno caratteristica dei progetti del postmoderno: la grandeur del palazzo o della villa è manifestamente sempre più inadeguata in un’epoca inauguratasi con la “morte del soggetto”. Né la famiglia nucleare costituisce un interesse o una preoccupazione specificamente postmoderni. Anche qui, pertanto, se si vince in effetti si potrebbe perdere; e tanto più l’edificio di Gehry risulta originale, tanto meno le sue caratteristiche potrebbero essere generalizzabili al postmodernismo in genere.
La casa è ubicata all’angolo tra la Ventiduesima Strada e Washington Avenue e, propriamente parlando, non è un edificio nuovo, bensì la ricostruzione di un’abitazione precedente, più convenzionale.
DIAMONSTEIN: Una delle opere d’arte che lei è riuscito a creare è tuttavia la sua stessa casa. È stata dipinta come un anonimo edificio di periferia. La struttura originale era rappresentata da una casa di legno a due piani con il tetto a falde. Lei ha proceduto a costruire attorno a essa un muro di lamiera ondulata di un piano e mezzo, ma dietro questo muro la struttura originaria spunta dall’interno della nuova. Può dirci quali erano, in questo caso, le sue intenzioni?
GEHRY: C’entra mia moglie. È stata lei a trovare questa bella casa – e io amo mia moglie –, questa graziosa casetta con dentro delle cose di antiquariato. Davvero carina. E avevamo un sacco di problemi nel trovare casa. L’abbiamo acquistata a Santa Monica al culmine del boom del mercato immobiliare. L’abbiamo pagata al prezzo più alto possibile.
DIAMONSTEIN: Centosessantamila dollari, leggo.
GEHRY: Centosessantamila, esatto.
DIAMONSTEIN: Un sacco di soldi.
GEHRY: L’anno prima ne costava quarantamila. A proposito di traslochi disperati. Faccio sempre così. E in quella casa avremmo potuto vivere bene. Dentro c’era abbastanza spazio, e tutto il resto.
DIAMONSTEIN: Una casa rosa con il tetto verde?
GEHRY: Era tutta di assicelle rosa di amianto su una mansarda bianca. C’erano diversi strati, sopra. Era già stratificata; oggi stratificazione è un termine gravoso.
DIAMONSTEIN: Questo è in parte ciò che l’ha attratta.
GEHRY: In ogni caso, ho deciso di instaurare un dialogo con la vecchia casa, il che, vede, non è diverso da quello che dicevo a proposito della casa di Ron Davis, dove gli interni dialogano con gli esterni. Nel mio caso è stato agevole, perché la casa vecchia era già di un’estetica diversa e perciò potevo contrappormi a essa. Tuttavia volevo indagare il rapporto tra le due. Mi affascinava l’idea che la casa vecchia dall’esterno potesse sembrare intatta, e che si potesse guardare attraverso quella nuova e vedere la vecchia come impacchettata in questa nuova pelle. Il nuovo rivestimento e le finestre della casa nuova sarebbero stati di un’estetica completamente diversa rispetto alle finestre della casa vecchia. Così sarebbero state costantemente in tensione, o qualcosa del genere. Volevo che ogni finestra avesse un’aspetto diverso, cosa che all’epoca non sono riuscito a realizzare.
DIAMONSTEIN: Dunque la casa vecchia costituiva il nucleo, e la nuova l’involucro. Naturalmente lei ha adoperato parecchi di quei materiali consueti nel suo vocabolario – il metallo, il compensato, il vetro e la rete metallica –, tutti assai economici. Da un lato, la casa sembra incompiuta e grezza…
GEHRY: Non sono sicuro che sia conclusa.
DIAMONSTEIN: Non è sicuro?
GEHRY: No.
DIAMONSTEIN: Si è mai sicuri?
GEHRY: È una cosa complicata. L’altro giorno mi sono chiesto che effetto tutto ciò abbia avuto sulla mia famiglia. Ho notato che mia moglie lascia carte e oggetti in giro sul tavolo, e così nell’organizzazione della nostra vita domestica c’è una specie di caos. Ho iniziato a pensare che questo abbia qualcosa a che vedere con il fatto che non sa se io abbia finito o no.52
Da qui in poi, seguo da vicino The Secret Life of Buildings di Gavin Macrae-Gibson53, libro che contiene eccellenti esempi di descrizione fenomenologica e formale. Io stesso ho visitato la casa e vorrei evitare l’assoluta aporia metodologica del Sistema della moda di Barthes (che sceglie di analizzare gli scritti sulla moda invece dei concreti articoli di moda); tuttavia è indubbio che persino gli approcci di taglio a prima vista più fisico o sensoriale al “testo” architettonico sono soltanto in apparenza opposti all’espressione o all’interpretazione (circostanza che affronterò al momento di ritornare al fenomeno peculiare della fotografia architettonica).
In questo caso però il libro di Macrae-Gibson racchiude un motivo di interesse ancora maggiore, per via del carattere del suo quadro interpretativo, che resta quello del vecchio modernismo avanzato. Pertanto, nelle congiunture cruciali tra descrizione e interpretazione, può dire qualcosa di rivelatore tanto sulla differenza tra il modernismo e il postmodernismo quanto sulla stessa costruzione di Gehry.
Macrae-Gibson classifica la casa di Gehry secondo tre tipi di spazio. Anche se non la manterrò, questa tripartizione fornisce comunque un utile punto di partenza. «Primo: un gruppo di piccole stanze sul retro della casa in entrambi i piani, composto da camere da letto, bagni e ripostigli. Secondo: gli spazi principali della casa vecchia, che sono diventati il soggiorno al piano terra e la camera da letto principale al primo piano. Infine, i complessi spazi rarefatti del nuovo involucro spaziale, composti dagli ingressi, dalle aree della cucina e del pranzo, situati cinque gradini al di sotto del soggiorno»54.
Ripercorriamo questi tre tipi di spazio. «La casa consiste in un guscio di lamiera ondulata che avvolge su tre lati una graziosa casa rosa preesistente con il tetto di assi in legno, risalente agli anni Venti, in modo da creare nuovi spazi tra il guscio e le vecchie mura esterne»55. La vecchia struttura in legno rimane sul luogo come una sorta di impalcatura della memoria, ma la zona pranzo e la cucina si sono espanse al di là di essa e si collocano in sostanza nell’ex passo carraio e nell’ex cortile (cinque gradini al di sotto del livello del vecchio piano terra). Queste zone nuove, tra la struttura e l’involucro, sono per lo più ricoperte di vetri e pertanto si aprono visivamente sul vecchio “esterno”, verso l’”aria aperta”, indistinguibili da esso. Quale che sia l’emozione estetica che suscita questa innovazione formale (potrebbe essere una sensazione di disagio o di malessere, ma d’altro canto Philip Johnson, che in quella casa ha fatto colazione, l’ha trovata assai gemütlich), essa avrà chiaramente qualcosa a che fare con una cancellazione delle categorie di interno/esterno, o con un loro riassetto.
L’aspro effetto della struttura metallica sembra attraversare senza pietà la casa antecendente, oltre che imprimerle brutalmente il marchio e il segno dell’”arte moderna”, sia pure senza annullarla del tutto, come se il gesto perentorio dell’”arte” fosse stato interrotto e abbandonato a metà. Oltre a questo plateale intervento formale (di cui non bisogna dimenticare l’uso di materiali poveri ed economici, come si vedrà tra breve), l’altro aspetto plateale della casa avviluppata riguarda la copertura in vetro del passo carraio e, in particolare, il nuovo lucernario della cucina, che, vista dall’esterno della casa, sembra sporgere verso lo spazio esterno come un enorme cubo di vetro – Gehry lo ha chiamato «dado in movimento» –, il quale «segna la giuntura delle strade con ciò che durante il giorno è un vuoto rientrante e di notte un solido che avanza come un faro»56. La descrizione di Macrae-Gibson mi colpisce per il suo interesse, ma l’interpretazione del cubo, che rimanda ai quadrilateri mistici di Malevicˇ (Gehry una volta ha progettato una mostra di Malevicˇ, per cui il riferimento non è peregrino come potrebbe apparire), mi sembra il frutto di un totale equivoco, l’ostinato tentativo di reinscrivere l’estetica stracciona di un certo postmodernismo entro le vocazioni metafisiche più elevate del vecchio modernismo avanzato. Lo stesso Gehry ha insistito spesso su ciò che risulta evidente a chiunque osservi i suoi edifici, cioè il basso costo dei materiali; una volta ha definito la propria come un’«architettura avara». Oltre alla lamiera dell’edificio in questione, egli nutre un’evidente predilezione per la rete d’acciaio, il compensato grezzo, i blocchi di calcestruzzo, i pali del telefono e cose del genere, e una volta nella sua carriera ha addirittura progettato dei mobili di cartone, sorprendentemente ornato. Questi materiali chiaramente “connotano”57; annullano il progetto di sintesi tra materia e forma dei grandi edifici moderni. Inoltre inscrivono in quest’opera quelle che sono tematiche di ordine chiaramente economico o infrastrutturale, ricordandoci il costo dell’abitare e del costruire, nonché, per estensione, della speculazione immobiliare, cioè quella giunzione costitutiva tra l’organizzazione economica della società e la produzione estetica della sua arte (spaziale), che l’architettura deve vivere in maniera più drammatica delle altre belle arti. Fa forse eccezione il cinema, ma le cicatrici sono più visibili nell’architettura che nel cinema, il quale deve necessariamente reprimere e occultare le proprie determinazioni economiche.
Il dado e le lastre di latta: questi indicatori ostentati, piantati nel vecchio edificio come una specie di spuntone letale che trafigge la vittima di un incidente stradale, spezzano chiaramente qualsiasi illusione di forma organica si possa accarezzare riguardo a questa costruzione (illusione che sta tra gli ideali costituitivi del vecchio modernismo). Questi due fenomeni spaziali costituiscono l’“involucro”; violano lo spazio precedente e ora sono al contempo parte della nuova costruzione e distanti da essa, come corpi estranei. Corrispondono inoltre, secondo me, ai due grandi elementi costitutivi dell’architettura stessa che, nel suo manifesto postmoderno Imparando da Las Vegas, Robert Venturi svincola dalla tradizione allo scopo di riformulare i compiti e la vocazione della nuova estetica: vale a dire l’opposizione tra la facciata (del centro commerciale) e il capannone alle sue spalle, lo spazio a forma di fienile dell’edificio stesso. Tuttavia, opponendo i due termini l’uno contro l’altro per produrre una soluzione interessante, ancorché provvisoria, Gehry non resta dentro tale contraddizione. Mi sembra piuttosto che la facciata di lamiera ondulata e il dado in movimento alludano ai due termini di tale dilemma e li colleghino ad altro ancora: i resti della vecchia casa, la persistenza della storia e del passato. Questo contenuto si può letteralmente vedere ancora attraverso gli elementi nuovi, come quando la finestra simulata nell’involucro metallico rivela alle proprie spalle le vecchie finestre della casa di legno.
Se tuttavia è così, allora ci vediamo obbligati a riorganizzare lo schema tripartito di Macrae-Gibson. Manteniamo la prima categoria – i residui del tradizionale spazio suburbano – per trattarli in seguito. Ma se qui l’involucro – cubo e lastra – assume vita propria, quale agente visibile della trasformazione architettonica in corso, occorrerà attribuirgli una sua propria categoria, mentre gli altri due tipi di spazio individuati da Macrae-Gibson – i vecchi «spazi principali» e quelli nuovi dell’«ingresso» e della cucina – si fonderanno come risultati combinati dell’intersezione delle prime due categorie, dell’intromissione dell’“involucro” nella casa tradizionale.
In questo caso, pertanto, il fatto che il soggiorno sorga in uno spazio già edificato della vecchia casa, mentre la cucina è di fatto una stanza aggiuntiva al di fuori di essa, non sembra tanto rilevante quanto la sensazione che entrambi siano in qualche modo ugualmente nuovi, in una misura che resta da valutare. Anzi, sia il soggiorno interrato che le zone pranzo e la cucina aperte tra il libero drappeggio dell’involucro esterno e l’”avvizzirsi” dell’ormai inutile struttura in legno mi sembrano oggi la cosa in sé, il nuovo spazio postmoderno propriamente detto, che i nostri corpi abitano con malessere o con piacere, cercando di spogliarsi delle vecchie abitudini delle categorie e delle percezioni relative al binomio interno/esterno. Desideriamo ancora l’intimità borghese di solide mura (recinzioni come il vecchio ego borghese, su cui tutto si incentrava), ciò nonostante ci aggrada la novità dell’incorporazione di piante di yucca e di ciò che Barthes avrebbe denominato californità del nostro ambiente ricostruito. Occorre insistere senza tregua, in svariati modi, sulle inquietanti ambiguità di questo nuovo “iperspazio”. Ecco come lo fa Macrae-Gibson, evocando
numerose linee prospettiche contraddittorie che corrono verso molteplici punti di fuga al di sopra e al di sotto di una grande varietà di orizzonti. […] Quando nulla è ad angolo retto, nulla sembra dileguarsi verso lo stesso punto. […] I piani prospettici distorti e l’uso illusionistico degli elementi costruttivi assunti da Gehry generano nell’osservatore la stessa sensazione [come fanno i dipinti di Ronald Davis, nei quali «chi guarda è sospeso sopra le griglie prospettiche deformate e inclinato verso di esse»]: l’inclinazione dei piani che ci si aspetta siano orizzontali o verticali e il convergere delle intelaiature di sostegno inducono a sentirsi sospesi e inclinati in varie direzioni.
Per Gehry il mondo si dilegua in una moltitudine di punti, ed egli non ne presuppone nessuno in relazione con l’essere umano eretto. Nel mondo di Gerhy l’occhio umano ha ancora un’importanza critica, ma il senso del centro non detiene più il proprio valore simbolico tradizionale.58
Questa descrizione non evoca nient’altro che l’alienazione del vecchio corpo fenomenologico (con le sue coordinate destra/sinistra, davanti/dietro, sopra/sotto) nello spazio cosmico di 2001 di Kubrick, non più dotato della certezza della terra newtoniana. La sensazione è certamente connessa al nuovo spazio informe – né massa né volume – che (secondo me59) caratterizza i grandi vestiboli di Portman, dove festoni e tendaggi rimandano come residui spettrali ai vecchi limiti divisori e strutturali e alle categorie di chiusura, e allo stesso tempo negano questi limiti e offrono l’illusione di una liberazione e di un gioco dello spazio nuovi e appariscenti. A dire il vero lo spazio di Gehry è molto più preciso e scolpito di quei contenitori enormi e grossolanamente melodrammatici. Ci pone di fronte, in maniera più articolata, le paradossali impossibilità (non ultima l’impossibilità della rappresentazione) insite nella recente mutazione evolutiva del tardo capitalismo verso “qualcos’altro”, che non è più la famiglia o il quartiere, la città o lo Stato, e tanto meno la nazione. È invece qualcosa di astratto e dislocato come il nonluogo della stanza di una catena internazionale di motel o lo spazio anonimo dei terminal aeroportuali che si fondono tutti insieme nella nostra mente.
Esistono nondimeno altre vie per approssimarsi alla natura dell’iperspazio; nell’intervista già citata Gehry ne menziona una diversa, allorché parla del caos degli oggetti all’interno della casa. Dopo tutto, il «capannone decorato» di Venturi lascia intendere che i contenuti sono relativamente indifferenti e che potrebbero essere tanto disseminati dappertutto quanto ordinatamente accatastati in qualche angolo. Peraltro è così che Gehry descrive lo studio ricostruibile che ha realizzato per Ron Davis: queste strutture «creano un guscio. Poi entra l’utente e ci mette in qualche modo le sue cianfrusaglie. La casa che ho realizzato per Ron Davis si rifà a quest’idea. Ho costruito il guscio più bello che potessi e poi gli ho fatto portare dentro la sua roba, e lui ha trasformato il guscio per il proprio uso»60. Però le osservazioni di Gehry sulla confusione della propria casa tradiscono un vago senso di malessere che varrebbe la pena indagare ulteriormente (specialmente perché la continuazione del dialogo introduce un nuovo argomento – la fotografia – sul quale tornerò tra breve):
DIAMONSTEIN: Forse lei ha fornito un altro spunto agli occupanti. Quando la casa venne fotografata con tre gigli perfetti in un posto e due libri in un altro, il detergente per il lavello stava sul lavello della cucina e alcune ante della credenza erano aperte. Era un ambiente molto vissuto. È parso evidente che si trattava di un assetto deliberato della foto, tale da riflettere un ambiente in cui delle persone vere vivono una vita vera.
GEHRY: A dire il vero, la foto non è stata organizzata.
DIAMONSTEIN: Era una foto del modo in cui vivete?
GEHRY: Sì. Sta di fatto che ormai ho avuto per casa molti fotografi. Ognuno che arriva ha un’idea diversa dell’aspetto che dovrebbe avere il luogo. Allora cominciano a spostare i mobili. Se arrivo in tempo inizio a rimettere tutto a posto.61

Analisi del genere implicano una dislocazione dello spazio architettonico tale da rendere problematica la posizione dei suoi contenuti, oggetti e corpi umani in pari misura. È un’impressione che si può valutare adeguatamente soltanto in un contesto storico e comparativo e, secondo me, a partire dalla tesi seguente: se le grandi emozioni negative dell’epoca del modernismo sono state l’ansia, il terrore, l’essere-per-la-morte e l’«orrore» di Kurtz, ciò che caratterizza le nuove “intensità” del postmoderno, che peraltro sono state descritte nei termini del “brutto viaggio” e dell’immersione schizofrenica, si può formulare altrettanto bene come il disordine di un’esistenza dispersa, la confusione esistenziale, la perpetua distrazione temporale della vita successiva agli anni Sessanta. Anzi, si è persino tentati (senza pretendere di sovraccaricare un aspetto davvero minore dell’edificio di Gehry) di evocare il contesto pervasivo più generale di un certo incubo virtuale maggiore, quello degli anni Sessanta diventati tossici, trasformati in un “brutto viaggio” storico e controculturale che eleva la frammentazione psichica a una potenza qualitativamente nuova, e che promuove ormai la distrazione strutturale del soggetto decentrato ad autentico motore e a logica esistenziale del tardo capitalismo.
In ogni caso, tutte queste caratteristiche – la nuova e strana sensazione che interno ed esterno siano assenti, lo smarrimento e la perdita dell’orientamento spaziale negli alberghi di Portman, il disordine di un ambiente nel quale cose e persone non trovano più il loro “posto” – presentano degli utili approcci sintomatici alla natura dell’iperspazio postmoderno, senza fornire un modello o una spiegazione della cosa stessa.

Tuttavia tale iperspazio – cioè il secondo e il terzo tipo di spazio individuati da Macrae-Gibson – costituisce a sua volta il risultato della tensione tra i due termini o poli, due specie distinte di struttura e di esperienza dello spazio, delle quali finora ho menzionato soltanto una (vale a dire il cubo e la parete ondulata, l’involucro esterno). Occorre pertanto passare alle parti più arcaiche della casa – le vecchie scale superstiti, le camere da letto, i bagni e i ripostigli – per vedere non soltanto cosa doveva essere trasformato seppure parzialmente, ma anche se quella sintassi e quella grammatica tradizionali siano suscettibili di una trasformazione utopica.
In effetti queste camere sono conservate come all’interno di un museo: indenni, intatte, eppure in qualche modo “citate” e svuotate senza la più lieve modifica della propria vita concreta, come quando qualcosa si trasforma nell’immagine di sé, come una Disneyland preservata e perpetuata dai marziani per il loro diletto e per l’indagine storica. Se si salgono le scale ancora antiquate della casa di Gehry, si arriva a una porta antiquata, per la quale si entra in un’antiquata camera della domestica (anche se potrebbe benissimo essere la stanza di un adolescente). La porta è una macchina del tempo; allorché la si chiude, ci si ritrova nel vecchio sobborgo americano del Novecento, con la vecchia idea di stanza, che racchiude la mia intimità, i miei tesori, e il mio kitsch, i miei chintz, i miei vecchi orsacchiotti e i vecchi vinili. L’evocazione del viaggio nel tempo è nondimeno fuorviante. Da un lato, qui abbiamo la prassi e la ricostruzione, come in Wash-35 di Philip K. Dick Faccio riferimento al romanzo di Philip K. Dick, Now Wait for Last Year, New York, Doubleday, 1966 [Illusione di potere, trad. di G. Tamburini, Milano, Nord, 1971]; cfr. anche il capitolo 8.62, la ricostruzione affettuosamente autentica della Washington della propria adolescenza nel 1936 realizzata da un miliardario di trecento anni su un pianeta satellite (oppure, se si preferisce un riferimento più rapido, come Disneyland o EPCOT). Dall’altro, invece, non si tratta esattamente di una ricostruzione del passato, giacché questa enclave è il nostro presente e replica gli spazi abitativi reali delle altre case della stessa strada o di altri luoghi della Los Angeles odierna. Eppure si tratta di una realtà presente che il procedimento di copertura ha trasformato in un simulacro, in una citazione; pertanto essa è divenuta non storica ma storicistica, un’allusione a un presente al di fuori della storia reale che potrebbe nella stessa misura costituire un passato lontano dalla storia reale. La stanza citata ha dunque delle affinità anche con quella che nel cinema si chiama la mode rétro o cinema della nostalgia: il passato come figurino e immagine patinata. A un tratto, quindi, questa zona, mantenuta e preservata dalla casa precedente con la quale Gehry persegue un «dialogo» entra in risonanza quale fenomeno estetico con tutta una serie di altri fenomeni molto diversi estranei all’architettura, propri dell’arte e della teoria del postmoderno: la trasformazione in immagine o simulacro, lo storicismo come surrogato della storia, la citazione, le enclave all’interno della sfera culturale e così via. Ho persino la tentazione di reintrodurre, a questo punto, il problema del referente, tanto paradossale quando si ha a che fare con degli edifici, i quali, presumibilmente “più veri” del contenuto della letteratura, della pittura o del cinema, sono in qualche modo i referenti di sé stessi. Ma il problema teorico di come un edificio possa essere dotato di un referente (rispetto a qualunque tipo di significato o di senso) perde la propria capacità di straniamento, la propria forza d’urto, allorché scivola nella questione più debole di ciò a cui potrebbe riferirsi tale edificio. La menziono perché rappresenta un altro passo nell’interpretazione “modernizzante” della casa condotta da Macrae-Gibson, e si risolve in un saggio brillante sul modo in cui la casa allude alla propria posizione a Santa Monica con una moltitudine di allusioni e di immagini marine. Si tratta di un genere di interpretazione cui ci hanno abituato le analisi delle opere di Le Corbusier e di Frank Lloyd Wright, dove l’effetto di tali allusioni risulta perfettamente coerente non soltanto con l’estetica modernista di tali edifici, ma anche con lo spazio sociale e la situazione storica che sono loro peculiari. Se però si ritiene che lo spazio cittadino degli anni Ottanta abbia perduto, per ragioni molteplici ed eccessivamente condizionate, quella particolare materialità, quello specifico senso del luogo – cioè se non percepiamo più Santa Monica in questo modo, come un luogo le cui aree edificate intrattengono una relazione determinata con la spiaggia o l’autostrada e così via –, allora questa esegesi finirà per apparire incauta o irrilevante. Non necessariamente errata, comunque, poiché queste strutture potrebbero essere le vestigia di un precedente linguaggio modernista sussunto e pressoché cancellato da quello nuovo, eppure fievolmente persistente; e al limite un interprete critico retrivo, intelligente e caparbio lo può decifrare.
È comunque possibile inquadrare la questione teorica del referente anche in altre maniere, in particolare la prospettiva nella quale la stanza in sé – caratteristica di quella società conformista americana e dello spazio sociale in cui si inserisce la casa di Gehry – sta come una sorta di ultimo residuo minimo di quello spazio precedente che il nuovo sistema ha riscritto, cancellato, sovraccaricato, volatilizzato, sublimato o trasformato. In tal caso, la stanza tradizionale andrebbe considerata come un referente debole, estremo, esile, oppure come l’ultimo nucleo, tenace e tronco, di un referente sulla via di una dissoluzione e di una liquidazione complete. Non penso che si possa dimostrare nulla di simile rispetto allo spazio del Bonaventure di Portman, a meno che non si tratti dell’ormai emarginato apparato dell’albergo tradizionale: le ali e i piani delle stanze da letto claustrofobiche e scomode nascoste nelle torri; una zona giorno tradizionale dalle decorazioni talmente note che sono state modificate parecchie volte dall’inaugurazione dell’edificio, e che nell’agenda dell’architetto rappresentavano chiaramente la questione meno interessante. Pertanto in Portman il referente – la stanza tradizionale, il linguaggio e le categorie tradizionali – risulta brutalmente separato dal nuovo spazio postmoderno dell’euforico atrio centrale ed è lasciato a scolorirsi e a penzolare lentamente all’aria. La forza della struttura di Gehry proverrebbe dunque dalla dialettica attiva che mantiene ed esaspera la tensione tra i due tipi di spazio (se si tratta di un «dialogo», allora ha poco della soddisfazione delle «conversazioni» di un Gadamer o di un Richard Rorty).
Vorrei aggiungere che tale concezione del referente, nello stesso tempo sociale e spaziale, possiede un contenuto reale e si può sviluppare in direzioni assai concrete. Per esempio, l’enclave descritta poc’anzi è in effetti una camera della domestica; per questo viene immediatamente investita del contenuto di vari tipi di subalternità sociale, residui della vecchia gerarchia familiare, nonché della divisione sessuale ed etnica del lavoro.
Nella sostanza ho riscritto i tre tipi di spazio enumerati da Macrae-Gibson (le stanze tradizionali, le nuove zone giorno, il cubo deformato e il muro di lamiera ondulata) in un modello dinamico entro il quale due tipi di spazio nettamente distinti – la camera da letto e le forme architettoniche astratte che aprono la vecchia casa – si intersecano per generare nuove tipologie di spazio (la cucina e la zona pranzo, il soggiorno). Questo spazio include il vecchio e il nuovo, l’interno e l’esterno, i solai in legno della casa vecchia e le aree ricostituite, ancorché singolarmente amorfe, tra la struttura di base e l’involucro. È sostanzialmente soltanto quest’ultimo tipo di spazio – l’esito di uno scontro dialettico tra gli altri due – a poter essere descritto come postmoderno, vale a dire come una spazialità radicalmente nuova che va al di là, in eguale misura, del tradizionale e del moderno, la quale sembra rivendicare sul piano storico una differenza e un’originalità integrali. Il problema dell’interpretazione sorge allorché si tenta di valutare tale rivendicazione e di avanzare delle ipotesi sul suo possibile “significato”. Per dirla in maniera un po’ diversa, queste ipotesi costituiscono necessariamente delle operazioni di transcodifica nelle quali formuliamo in altri codici o linguaggi teorici degli equivalenti di questo fenomeno architettonico e spaziale; oppure, per adoperare un altro genere di lessico, essi costituiscono la proiezione allegorica della struttura dei modelli di analisi. Così, per esempio, nel nostro caso è evidente fin dal principio che si narra un’allegoria secondo la quale, a partire da un momento tradizionale o realistico (per quanto si tratti forse del realismo di Hollywood più che di quello di Balzac), la folgore del “modernismo” sembra generare il postmoderno “propriamente detto”. (L’allegorizzazione personale di Gehry pare implicare l’adattamento o la riedificazione dell’ebraismo in vista di una funzione nuova, se non semplicemente della sopravvivenza, nel mondo moderno, o anche in quello postmoderno. Il nonno di Gehry «era presidente della sinagoga, un piccolo edificio ristrutturato a forma di casa, ha ricordato in seguito il nipote, per alcuni aspetti simile alla casa di Santa Monica che egli stesso avrebbe ristrutturato negli anni Settanta. “La mia casa mi ricorda quel vecchio edificio”, ha confessato Gehry, “a cui penso spesso quando mi trovo qua dentro”»63). Anche se, stando a Kant, risiedono esclusivamente nell’occhio dell’osservatore, tali narrazioni esigono una spiegazione storica e una certa considerazione delle loro condizioni di possibilità, nonché delle ragioni per le quali riteniamo che questa sia una sequenza logica, se non una storia, una narrazione completa. Sono nondimeno possibili anche altri costrutti allegorici, la cui analisi richiede una lunga deviazione attraverso il sistema interpretativo di Macrae-Gibson, che è (come ho già detto) un sistema essenzialmente ispirato al modernismo.
Ho toccato svariati passi interpretativi dell’articolo di Macrae-Gibson senza registrare le formulazioni di base in cui egli inquadra la sua idea della funzione di questa nuova specie di edificio. Eccole: «L’illusione prospettica e la contraddizione prospettica vengono utilizzate in tutta la casa di Gehry, e in molti altri suoi progetti, per prevenire il formarsi di un’immagine intellettuale che potrebbe distruggere l’immediatezza continua dello shock percettivo. […] Tali illusioni e contraddizioni obbligano a mettere continuamente in dubbio la natura di ciò che si vede, ad alterare, tutto sommato, la definizione della realtà dalla memoria di una cosa alla percezione di quella cosa»64. Con il loro accento familiare sulla vocazione dell’arte a ristimolare la percezione, a riconquistare una freschezza dell’esperienza sullo sfondo del torpore assuefatto e reificato della vita quotidiana in un mondo malato, queste espressioni ci conducono al cuore del sostanziale modernismo dell’estetica di Macrae-Gibson. Ovviamente i formalisti russi hanno codificato queste opinioni in maniera più incisiva e duratura, ma si può rintracciare qualcosa di analogo in tutte le teorie moderniste, da Pound al surrealismo fino alla fenomenologia, e attraverso tutte le arti, dall’architettura alla musica e alla letteratura (e finanche nel cinema). Credo che oggi, per svariate ragioni, questa notevole estetica sia priva di senso e debba essere ammirata come una delle più intense realizzazioni storiche del passato culturale (insieme al Rinascimento, alla civiltà greca o alla dinastia Tang). Nell’universo interamente edificato e costruito del tardo capitalismo, dal quale la natura è stata infine effettivamente abolita e nel quale la prassi umana – nella forma degradata dell’informazione, della manipolazione e della reificazione – è penetrata nella sfera un tempo autonoma della cultura e addirittura nell’inconscio, l’utopia di un rinnovamento della percezione non trova spazio. Per dirla in maniera più concisa e sommaria, non è chiaro perché, in un ambiente di meri simulacri e di immagini pubblicitarie, dovremmo desiderare che la nostra percezione di tali cose si acuisca e si rinnovi. Si può dunque concepire una qualche altra funzione per la cultura del nostro tempo? La domanda offre se non altro una misura in base alla quale valutare le pretese di una certa originalità formale e spaziale avanzate dal postmodernismo contemporaneo. Tale misura può farlo almeno in maniera negativa, mettendo a nudo i resti di un modernista inaccettabile ancora all’opera in vari manifesti postmoderni: la nozione di ironia di Venturi, per esempio, oppure quella di straniamento individuata nel libro di Macrae-Gibson. A queste vecchie tematiche del modernismo si fa ricorso in extremis, quando le nuove teorie richiedono certi fondamenti concettuali che esse non sanno generare a partire dalle loro economie interne (e non da ultimo perché la logica stessa della teoria postmoderna è in primo luogo incongruente con l’idea di fondamento, ostile a essa, talvolta peraltro tacciata di essenzialismo o di fondazionalismo). Aggiungerò che devo rifiutare la spiegazione di Macrae-Gibson anche su una base più empirica, dal momento che, secondo la mia esperienza, la casa di Gehry non risponde in maniera particolare alla descrizione dello straniamento e del rinnovamento percettivo.
Ciò malgrado, la sua descrizione mi interessa da un’angolatura in qualche misura diversa, cioè quella della sua possibilità di persistenza in un contesto postmodernista. La descrizione continua a essere plausibile, anche se non dovrebbe esserlo più, e penso sia necessario spiegarne il perché. Torniamo ai dettagli, i quali indicano che la funzione estetica primaria dell’edificio è quella di sovvertire (o di ostacolare) «il formarsi di un’immagine intellettuale che potrebbe distruggere l’immediatezza continua dello shock percettivo». Poche frasi più oltre, tale «immagine intellettuale» (che va respinta, sovvertita o ostacolata) viene assimilata alla «memoria di una cosa», distinta dal valore positivo attribuito alla «percezione di quella cosa». Nel rafforzamento e nella crescente specificazione del termine negativo (che deve essere frammentato, minato, prevenuto) potremmo scorgere una lieve modifica del vecchio paradigma modernista. Nelle varie espressioni del modernismo, questo termine negativo disponeva ancora di un carattere relativamente generico ed evocava la natura della vita sociale in una specie di modalità globale: è il caso, per addurre qualche esempio, del concetto formalista di assuefazione quale condizione della vita moderna, oppure della nozione marxista di reificazione utilizzata nel vecchio senso sistemico, o persino ancora dell’idea di stereotipo, come la bêtise e i lieux communs di Flaubert, allorché vengono assunti per contrassegnare la “coscienza” sempre più standardizzata dell’individuo borghese moderno. La mia opinione è che negli ultimi anni, malgrado la generale struttura binaria dell’estetica modernista resti intatta in molte teorie, apparentemente più avanzate, il contenuto di questo termine negativo si sia modificato secondo criteri divenuti storicamente interessanti e sintomatici. In particolare, da caratterizzazione generica della vita sociale o della coscienza, il termine negativo si trova ormai a essere ricostituito come uno specifico sistema di segni. Perciò non c’è più universalmente una vita sociale degradata opposta alla cruda freschezza del rinnovamento estetico della percezione, bensì, per così dire, due tipi di percezione, due sistemi di segni, tra loro in opposizione. È uno sviluppo platealmente documentato dalla nuova teoria filmica e in particolare dal cosiddetto dibattito sulla rappresentazione, in cui, a dispetto del taglio sostanzialmente modernista della discussione, delle sue priorità e delle sue soluzioni estetiche, la parola d’ordine “rappresentazione” designa ormai qualcosa di molto più organizzato e semiotico rispetto alle vecchie concezioni dell’assuefazione o persino agli stereotipi di Flaubert (i quali, malgrado la loro precisione romanzesca, continuano a essere caratteristiche generali della coscienza borghese). La “rappresentazione” è al contempo una certa vaga idea borghese della realtà e uno specifico sistema segnico (all’atto pratico il film hollywoodiano), e deve essere straniata non con l’intervento dell’arte grande o autentica, ma grazie a un’altra arte, da una pratica dei segni integralmente diversa.
Se questo è vero, risulta interessante tornare ancora per un momento alle formulazioni moderniste di Macrae-Gibson e interrogarle in maniera un po’ più insistente. Quale sarebbe, per lui, questa «immagine intellettuale» che ostacola i più autentici processi percettivi dell’arte? Penso che qui sia in gioco qualcosa di più della semplice opposizione tradizionale tra l’astratto e il concreto, la differenza tra intellettualizzare e vedere, tra ragione o pensiero e percezione concreta. Eppure sarebbe paradossale tematizzare una tale nozione dell’immagine intellettuale nei termini della memoria (l’opposizione tra la memoria di una cosa e la percezione di una cosa) quando tanto la memoria collettiva quanto quella personale sono divenute oggi funzioni in crisi cui è sempre più problematico fare appello. Proust, lo si “ricorderà”, ha compiuto esattamente l’opposto e ha cercato di mostrare che soltanto per mezzo della memoria si può ricostruire una certa percezione genuina e più autentica della cosa. Tuttavia il rinvio al cinema della nostalgia lascia intendere che la formulazione contemporanea di Macrae-Gibson non è priva di ragioni se si suppone, contro Proust, che sia la memoria stessa a essere diventata un deposito degradato di immagini e simulacri, al punto che l’immagine ricordata della cosa introduce di fatto ciò che è reificato e stereotipato tra il soggetto e la realtà, o il passato stesso.
Ritengo però che ormai si possa identificare l’«immagine intellettuale» di Macrae-Gibson in maniera un po’ più precisa e concreta: secondo me si tratta semplicemente della stessa fotografia e della rappresentazione fotografica, cioè la percezione da parte della macchina; formulazione, questa, che intende essere un po’ più forte dell’idea maggiormente accettabile della percezione mediata dalla macchina. La percezione corporea è già una percezione da parte della macchina fisica e organica, ma nel corso di una lunga tradizione abbiamo continuato a pensarla come una questione riguardante la coscienza, la mente di fronte alla realtà visibile o il corpo spirituale della fenomenologia che indaga l’Essere in sé. Ma supponiamo, come dice Derrida in un suo luogo, che non esista una percezione in questo senso; supponiamo che sia già un’illusione immaginarci davanti a un edificio nell’atto di coglierne le unità prospettiche sotto forma di una splendida immagine-cosa: oggi la fotografia e le varie apparecchiature di registrazione e riproduzione svelano o scoprono subito la fondamentale materialità di quell’atto della visione in precedenza spirituale. Bisogna pertanto spostare la questione architettonica dell’unità di un edificio in maniera analoga a quanto è accaduto nella recente teoria cinematografica. Qui le riflessioni sull’apparato filmico, inserite all’interno di una riscrittura della storia della prospettiva pittorica e rafforzate dalle nozioni lacaniane di costruzione e posizione del soggetto e del loro rapporto con lo speculare, hanno sostituito nell’analisi dell’oggetto filmico le vecchie questioni psicologiche dell’identificazione.
Questi spostamenti sono già in atto in tutta la critica architettonica contemporanea, in cui si è da tempo instaurata una chiara tensione tra l’edificio concreto o già costruito e quella rappresentazione dell’edificio da costruire che è il progetto dell’architetto, i vari schizzi dell’”opera” futura. E ciò si è verificato a tal punto che l’opera di un certo numero di interessantissimi architetti contemporanei o postcontemporanei consiste esclusivamente di disegni di edifici immaginari che non getteranno mai un’ombra reale alla luce del giorno. Il progetto, il disegno, è dunque un surrogato reificato dell’edificio reale, tuttavia è un “buon” surrogato, che rende possibile un’infinita libertà utopica. La fotografia dell’edificio già esistente costituisce un altro surrogato, ma diciamo che si tratta di una “cattiva” reificazione, ossia dell’illecita sostituzione di un ordine di cose con un altro, della trasformazione dell’edificio nell’immagine di sé stesso, e per di più in un’immagine spuria. Accade così che nei nostri manuali e nelle nostre riviste di architettura consumiamo così tante immagini fotografiche degli edifici classici e moderni che alla lunga arriviamo a credere che queste siano in qualche modo la cosa stessa. Almeno dalle immagini proustiane di Venezia, cerchiamo tutti di mantenere la nostra sensibilità alla costitutiva illusorietà visiva della fotografia, la cui inquadratura e la cui angolazione ci danno sempre qualcosa al paragone con il quale l’edificio è sempre qualcosa di distinto, di leggermente diverso. Ciò è tanto più vero nel caso della fotografia a colori, ove entra in gioco un nuovo insieme di forze libidiche, al punto che a essere consumato ormai non è nemmeno più l’edificio, essendo esso stesso divenuto un mero pretesto per l’intensità della gamma cromatica e la brillantezza della carta rigida. «L’immagine», ha scritto Debord in un celebre passaggio teorico, «è diventata la forma finale della reificazione», ma avrebbe dovuto aggiungere “l’immagine materiale”, la riproduzione fotografica. A questo punto, quindi, e con queste limitazioni, si potrebbe accettare la formulazione di Macrae-Gibson, secondo la quale la struttura peculiare della casa di Gehry mira a «prevenire il formarsi di un’immagine intellettuale che potrebbe distruggere l’immediatezza continua dello shock percettivo». Lo fa ostacolando la scelta del punto di vista fotografico, sottraendosi all’imperialismo dell’immagine fotografica, garantendo una situazione nella quale nessuna fotografia della casa risulterà mai del tutto corretta, perché in questo senso è soltanto la fotografia a offrire la possibilità di un’«immagine intellettuale».
Tuttavia, se estrapoliamo completamente dal suo contesto la curiosa espressione «immagine intellettuale», se ne propongono altri possibili significati: esistono per esempio mappe al contempo pittoriche e cognitive, ma in un senso molto diverso da quello delle astrazioni visive della fotografia. Questa nuova direzione mi condurrà alle riflessioni conclusive sull’interpretazione, e a delle opzioni interpretative alternative a quella modernista che ho già analizzato e rifiutato. Nei suoi libri dedicati al cinema, Gilles Deleuze sostiene che il film costituisce un modo di pensare, cioè un altro modo per fare filosofia, sebbene in termini puramente filmici. Il concreto filosofare del cinema non ha nulla a che vedere con la maniera in cui questo o quel film potrebbe illustrare un concetto filosofico, precisamente perché i concetti filosofici del cinema sono concetti filmici, e non ideativi o linguistici. Analogamente vorrei sostenere che anche lo spazio architettonico rappresenta un modo di pensare e di filosofare, di cercare di risolvere problemi di natura filosofica o cognitiva. A dire il vero, chiunque concorda sul fatto che l’architettura sia una modalità di risoluzione di problemi architettonici, così come il romanzo è un modo di risolvere problemi narrativi e la pittura un modo di risolvere quelli visivi. Intendo presupporre tale livello della storia di ciascuna arte quale insieme di problemi e di soluzioni e, al di là di questo, assumere un tipo molto diverso di perplessità o di oggetto del pensiero (o pensée sauvage).
Eppure questa transcodifica allegorica deve comunque incominciare con lo spazio: se infatti la casa di Gehry costituisce la meditazione su un problema, quel problema all’inizio deve essere di natura spaziale, o quanto meno essere suscettibile di una formulazione e di una incarnazione in termini propriamente spaziali. Di fatto abbiamo già sviluppato gli elementi per dare una spiegazione di tale problema, che in qualche modo riguarderà l’incommensurabilità tra lo spazio della stanza e della casa a schiera tradizionali e quell’altro spazio contrassegnato qui dal muro di lamiera e dal dado in movimento. A che genere di problema potrebbero corrispondere questa tensione e questa incommensurabilità? Come possiamo inventare una mediazione che consenta di riscrivere, in altri linguaggi o codici estranei all’architettura, il linguaggio spaziale con il quale descriviamo questa contraddizione puramente architettonica?
Come sappiamo, Macrae-Gibson vorrebbe inscrivere il dado in movimento nella tradizione mistica e utopica del modernismo, quella che in particolare fa capo a Malevicˇ; si tratta di una lettura che ci obbligherebbe a riscrivere la contraddizione fondamentale della casa come una contraddizione tra la vita tradizionale americana e l’utopismo modernista. Guardiamo un po’ più da vicino:
Ciò che assomiglia a un cubo difficilmente potrebbe essere più ingannevole. La superficie schiacciata contro il piano del muro esterno è rettangolare invece che quadrata, mentre la faccia posteriore del cubo è stata spinta di traverso e tagliata all’insù, di modo che nessuno degli elementi della costruzione forma un angolo retto con qualsiasi altro, fatta eccezione per il piano frontale. Di conseguenza, mentre i pannelli di vetro del piano frontale possono essere rettangolari, quelli delle altre facce sono tutti parallelogrammi.65
Di questa descrizione possiamo mantenere la sensazione di uno spazio che esiste a un tempo in due dimensioni distinte: in una conduce un’esistenza rettangolare, mentre in quell’altro mondo simultaneo e privo di rapporti con esso è un parallelogramma. Collegare questi mondi, o spazi, o fonderli in una sintesi organica è fuori questione: al massimo, la strana figura inscena il compito impossibile di tale rappresentazione, indicando per tutto il tempo la propria impossibilità (e pertanto, forse, a un certo livello secondario la rappresenta in qualche modo tutta in una volta).
Quale che ne sia l’esito, dunque, il problema avrà un carattere duplice: porrà come problema o dilemma il proprio contenuto interno, e susciterà inoltre la questione secondaria (che però è presumibilmente la “stessa cosa”) del rappresentarsi, in primo luogo, come problema. Mi si lasci dire ora a priori, in maniera dogmatica e allegorica, quale ritengo sia quel problema spaziale. Ho rifiutato l’interpretazione di Macrae-Gibson della maniera simbolica in cui la casa si ancora nel proprio spazio, cioè Santa Monica e il rapporto con il mare e la città dietro di esso, le distese di colline e gli altri prolungamenti urbani lungo la costa66. Il mio rifiuto teorico si basava sulla convinzione che, nel senso fenomenologico o topologico più semplice, negli Stati Uniti di oggi il luogo non esiste più o, meglio, esiste a un livello assai più tenue, sovraccaricato da tutt’altro tipo di spazi, più possenti ma anche più astratti. Con questi ultimi non intendo la sola Los Angeles, in quanto nuova configurazione iperurbana, bensì anche le reti sempre più astratte (e comunicazionali) al di là della realtà americana, la cui forma estrema è rappresentata dalla rete di potere del cosiddetto capitalismo multinazionale. Come individui, noi ci troviamo di continuo dentro e fuori da tutte queste dimensioni sovrapposte, circostanza che rende eccessivamente problematica la nostra vecchia posizione esistenziale nell’Essere (il corpo umano nel paesaggio naturale, l’individuo nel villaggio o nella comunità organica di un tempo, compreso il cittadino nello Stato-nazione). Per una fase precedente di tale dissoluzione storica del luogo, ho trovato utile fare riferimento a una serie di romanzi un tempo popolari che oggi si leggono appena, nei quali (specialmente per il periodo del New Deal) John O’Hara registra le progressive espansioni del potere attorno alla piccola città, ma anche lontano da essa, nel loro emigrare ai livelli dialettici superiori dello Stato e infine del governo federale. Se oggi si potesse immaginare questa migrazione proiettata e intensificata su una nuova scala globale, si potrebbe acquisire un’idea più accorta dei problemi della “cartografia” contemporanea e del posizionamento del vecchio individuo all’interno di tale sistema. Il problema è ancora quello della rappresentazione, nonché della rappresentabilità: sappiamo di essere impigliati dentro queste reti globali maggiormente complesse, in quanto ovunque, nella nostra quotidianità, subiamo chiaramente i prolungamenti dello spazio collettivo. E tuttavia non abbiamo modo di pensarli, o di modellarli, magari anche in astratto, con gli occhi della nostra mente. Dunque, questo “problema” cognitivo è la cosa da pensare, il rompicapo mentale o il paradosso impossibile esemplificato dal dado in movimento. E se si osserva che il cubo non è qui l’unico nuovo intervento di carattere spaziale, e che non ho ancora considerato in termini interpretativi il muro o la recinzione di lamiera, rileverò allora che i due aspetti di fatto caratterizzano il problema del pensiero sull’America contemporanea. Si potrebbe pensare che l’alluminio ondulato e la balconata in rete metallica al di sopra siano il ciarpame o la faccia da Terzo Mondo della vita americana di oggi: la produzione di povertà e miseria, gente che non solo è senza lavoro ma non ha nemmeno un posto dove vivere, mendicanti, scarichi e inquinamento industriale, squallore, rifiuti e apparecchiature obsolescenti. Tutto ciò rappresenta senza dubbio una verità assai realistica e un dato di fatto ineludibile degli anni più recenti del super-Stato. Il problema cognitivo e della rappresentazione si presenta allorché si tenta di combinare questa realtà tangibile con le altre rappresentazioni degli Stati Uniti, del pari incontestabili, che occupano uno scomparto diverso e separato della nostra mentalità collettiva: le straordinarie conquiste scientifiche e tecnologiche degli Stati Uniti postmoderni, il paese più “avanzato” del mondo in tutti i sensi, e le connotazioni da fantascienza dell’immagine, cui si accompagnano un sistema finanziario inconcepibile e una combinazione di ricchezza astratta e di potere reale in cui tutti crediamo, senza che molti di noi ne conoscano davvero i contorni. Sono questi oggi i due aspetti antitetici e incommensurabili dello spazio astratto americano, del super-Stato o del capitalismo multinazionale, che ci indicano il cubo e il muro (senza proporre altre rappresentazioni alternative).
Dunque il problema che la casa di Gehry tenta di considerare è il rapporto tra questa conoscenza astratta, le convinzioni o le credenze a proposito del super-Stato e la quotidianità esistenziale della gente nelle sue stanze e nelle sue case a schiera tradizionali. Deve esserci una relazione tra questi due ambiti o dimensioni della realtà, altrimenti saremmo tutti immersi nella fantascienza senza rendercene conto. Tuttavia la natura di tale relazione sfugge alla mente. L’edificio pertanto cerca di ponderare questo problema spaziale in termini spaziali. Quale sarebbe l’indizio, il segno, l’indice di una valida risoluzione a tale problema cognitivo ma anche spaziale? Si potrebbe pensare di poterlo individuare nella qualità del nuovo spazio intermedio, cioè il nuovo spazio abitativo generato dall’interazione degli altri poli. Se quello spazio è gravido di significato, se ci si può vivere dentro, se per certi versi è comodo, per quanto in maniera nuova, tale da dischiudere modalità dell’abitare storicamente nuove e originali – e genera, per così dire, un nuovo linguaggio spaziale utopico, un nuovo tipo di frase, un nuovo genere di sintassi, parole radicalmente nuove che vanno al di là della nostra grammatica –, allora si potrebbe pensare che il dilemma, l’aporia, siano stati risolti, se non altro a livello dello spazio medesimo. Non sarò io a stabilirlo, né mi azzarderò a valutarne gli esiti. Quel che mi sembra nondimeno certo è la tesi più modesta che la casa di Gehry deve essere considerata come il tentativo di pensare un pensiero materiale.
46 Cfr. A. Malraux, Les Voix du silence, Parigi, Gallimard, 1965 [Il museo dei musei, trad. di L. Magrini, Milano, Leonardo, 1994].
47 J. Deleuze — F. Guattari, Kafka: pour une littérature mineure, Parigi, Éditions de Minuit, 1975 [trad. it. di A. Serra, Kafka: per una letteratura minore, Milano, Feltrinelli, 1975]
48 Per una provocatoria rivalutazione di questo momento, cfr. D.N. Rodowick, The Crisis of Political Modernism, Urbana, University of Illinois Press, 1988.
49 R. Evans, “Figures, Doors and Passages”, in «Architectural Design», XLVIII, 1978, n. 4, pp. 267-278.
50 La fantascienza moderna si è spesso configurata come un laboratorio per tali esperimenti linguistici, come il modello della struttura sociale di una specie ermafrodita (per la quale l’autrice utilizza esclusivamente il genere maschile), elaborato da Ursula LeGuin in The Left Hand of Darkness, New York, Ace Books, 1969 [La mano sinistra delle tenebre, trad. di U. Malaguti, Milano, Nord, 1984]), oppure come la complessa “replica” di Samuel R. Delany in Stars in My Pocket Like Grains of Sand (New York, Bantam Books, 1984), libro nel quale (per esseri sessualmente differenziati del nostro stesso tipo) il pronome femminile è utilizzato universalmente per il soggetto psichico, mentre quello maschile è limitato a una persona che costituisce oggetto di desiderio (di qualunque sesso fisico).
51 B. Diamonstein, American Architecture Now, New York, Rizzoli, 1980, p. 46.
52 Ivi, pp. 43-44.
53 G. Macrae-Gibson, The Secret Life of Buildings, Cambridge (MA), MIT Press, 1985; cfr. anche l’utile rassegna di critiche e opinioni sulla casa che si trova in T. Marder, “The Gehry House”, in The Critical Edge, a cura di T. Marder, Cambridge (MA), MIT Press, 1985.
54 G. Macrae-Gibson, op. cit., pp. 16-18.
55 Ivi, p. 2.
56 Ivi, p. 5.
57 I materiali grezzi rappresentano inoltre un modo per evocare gli utensili in quanto tali e i biografi di Gehry fanno risalire questa fascinazione alle mansioni svolte da giovane nel negozio di ferramenta del nonno (The Architecture of Frank Gehry, a cura di H. Cobb, New York, Rizzoli, 1986, p. 12). L’unica altra opera genericamente tardo moderna o postmoderna che pone con tanta insistenza in primo piano utensili e materiali è Lezioni delle cose di Claude Simon (si veda, più avanti, il capitolo 5). Si tratta di una replica consapevole al “marxismo”, di un’opera che, insieme alla casa di Gehry, solleva la questione della capacità comparata rispettivamente del realismo e del postmodernismo di comunicare la realtà e l’essere del lavoro, ciò che Heidegger ha denominato Gestell (impianto).
58 G. Macrae-Gibson, op. cit., pp. 12, 14, 16.
59 Mi riferisco all’analisi di Portman condotta nel capitolo 1.
60 B. Diamonstein, op. cit., pp. 37, 40.
61 Ivi, p. 44.
62 Faccio riferimento al romanzo di Philip K. Dick, Now Wait for Last Year, New York, Doubleday, 1966 [Illusione di potere, trad. di G. Tamburini, Milano, Nord, 1971]; cfr. anche il capitolo 8.
63 The Architecture of Frank Gehry, cit., p. 12.
64 G. Macrae-Gibson, op. cit., p. 12.
65 Ivi, p. 27.
66 Per una cartografia cognitiva di tutto questo, cfr. il bellissimo volume di Reyner Banham, Los Angeles: The Architecture of Four Ecologies, Harmondsworth, Penguin, 1973.