5. La lettura e la divisione del lavoro

Si può rileggere Claude Simon – un romanzo pubblicato nel 197167 resta, dopo tutto, “nella memoria viva” – soltanto per scoprire che in aggiunta ai problemi vecchi (di interpretazione) ne insorgono di nuovi e imbarazzanti (di valutazione), senza che i primi scompaiano. I problemi nuovi scaturiscono dalla disgregazione del canone, o almeno dalla sua crisi, e comprendono questi interrogativi: che relazione c’è tra moda e letteratura alta? Se il nouveau roman è finito, può essere stato una moda passeggera e tuttavia detenere ancora oggi un valore estetico o letterario? Il femminismo può avere reso illeggibili certi libri? (La neutralità delle descrizioni sessuali di Simon – nella sostanza inquadrature del pube prive del sadoestetismo di Robbe-Grillet, di cui in ogni caso l’autore si fa beffa – non è in effetti una riprova, e non finisce dunque per risolversi in un voyeurismo essenzialmente maschile dell’oggetto parziale?) Il rapporto dei lettori maschi con testi del genere cambierebbe se scoprissero che i piaceri estetici di Simon non sono universali, bensì limitati specificamente a un singolo gruppo contrassegnato da interessi particolari (magari ampio quanto i lettori maschi in genere)? Percepiamo oggi il carattere francese di quest’opera con maggiore forza e più oppressivamente rispetto ai decenni precedenti (quando scrittori come Simon rappresentavano semplicemente un prodotto d’avanguardia internazionale della Letteratura in quanto tale)? La scissione che associamo ai “nuovi movimenti sociali”, micropolitica e microgruppi, si applica oggi alle tradizioni nazionali, al punto che la “letteratura francese” è divenuta l’etichetta di appartenenza a un gruppo ristretto, come la poesia contemporanea, la letteratura omosessuale o la fantascienza? Al contempo la concorrenza dei media e dei cosiddetti studi culturali non segnala oggi una trasformazione del ruolo e dello spazio della cultura di massa, più vasta di una sua semplice estensione, che potrebbe progressivamente non lasciare spazio alcuno ai “classici” letterari di questo tipo? Le peculiarità sperimentali del nouveau roman precorrevano già il postmodernismo (oppure rappresentavano una tardiva e già sorpassata ripetizione di un modernismo agonizzante)? L’estinzione dello stesso nouveau roman ha qualcosa da dirci sulla sopravvivenza, o il declino, degli anni Sessanta (con le loro teorie alla moda, per di più in larga misura francesi!)? L’alta letteratura sperimentale di questo genere ha un qualche valore sociologico, ci dice qualcosa sul proprio contesto culturale, sull’evoluzione del tardo capitalismo o sulla sua cultura? La sua lettura ha nulla da dirci sulla trasformazione del ruolo e della condizione degli intellettuali? L’apparente gratuità di un discorso su Simon o persino della sua lettura conferma la condanna indiscriminata formulata da Bourdieu nei confronti dell’estetico quale mero segnale di classe, quale consumo cospicuo? Da ultimo, queste sono domande “angosciate” o semplici questioni di oziosa curiosità accademica?

Alcuni ricorderanno quel che significa leggere un campione del nouveau roman. Les Corps conducteurs inizia con delle vetrine in una strada del centro; qualcuno, appoggiato su un idrante antincendio, sembra essere disgustato e nauseato; i conquistadores combattono nella giungla; un aereo vola tra il Nord e il Sudamerica; un uomo (lo stesso?) cerca invano di convincere per telefono una donna a continuare la loro relazione (più oltre li vediamo a letto, probabilmente durante la notte precedente); un uomo (lo stesso?) va in uno studio medico (ma a Manhattan o in una città sudamericana?); un uomo (ancora lo stesso?) partecipa a un congresso di scrittori sudamericani in cui si discute il ruolo sociale dell’arte, e negli intervalli vengono descritte o citate varie opere d’arte (l’Orione di Poussin, una stampa di Picasso); tuttavia non siamo in grado di stabilire se il “protagonista” le abbia viste davvero da qualche parte. Impariamo a stilare un inventario di tali sequenze dell’intreccio e a coordinarle – cosa che si realizza in due operazioni contraddittorie – imparando a narrarle separatamente, congetturandone le interrelazioni più ampie (l’anonimo protagonista maschile deve essere un singolo personaggio, perciò deve essere in viaggio dal Nord al Sudamerica ecc.). Su queste operazioni tornerò più avanti. Basti per il momento sottolineare la peculiarità storica di una lettura nella quale ci affanniamo a identificare quel che accade sotto i nostri occhi (è seduto per strada?) aspettando nervosamente il successivo mutamento senza preavviso verso una diversa sequenza dell’intreccio, circostanza che può accadere a metà frase, benché nella maggior parte dei casi si verifichi nello spazio tra l’una e l’altra. Si apre così, su entrambi i lati di ciascun enunciato, un silenzio più profondo di quello che si realizza in Flaubert.

Secondo buona parte dei critici, Les Corps conducteurs nacque nel quadro di un importante periodo di transizione nell’opera di Claude Simon, nella cesura tra quelli che Celia Britton68 chiama romanzi personali e impersonali, rispettivamente del periodo di mezzo e dell’ultimo, tra le opere rappresentative e quelle “testuali” o “linguistiche”, tra uno stile incentrato sulla memoria e l’evocazione espressiva da un lato e, dall’altro, una pratica neutra e combinatoria preminentemente caratteristica di quello che denominiamo nouveau roman. La linea di frattura viene spesso collocata nel romanzo precedente, La battaglia di Farsalo, che inizia in maniera “personale” e finisce in modo “impersonale”. Qui, in Les Corps conducteurs, gli attributi “personali” dello stile sono quasi del tutto cancellati, tuttavia persistono una specie di protagonista e i resti di un racconto unitario; nei due romanzi successivi, invece, Triptique e Il senso delle cose, scompare persino quel residuo. Stranamente, l’opera più ambiziosa degli ultimi anni di Simon, Les Géorgiques, nel complesso ritorna alla cosiddetta modalità personale.

Questa particolare alternanza all’interno dell’opera di Simon deve servire da punto di partenza, dal momento che non sembra trattarsi di una questione di sviluppo o di evoluzione, ma della disponibilità opzionale di due distinte matrici narrative. Questo lascia intendere quanto Simon sia fondamentalmente distante da entrambe le estetiche, verso ciascuna delle quali nutre una pari affinità, ancorché irrelata e disgiunta. Propongo pertanto l’idea che il suo rapporto con ambedue sia il pastiche, un’imitazione virtuosistica esatta a tal punto da contenere la riproduzione quasi inavvertibile della stessa autenticità stilistica, di una dedizione completa del soggetto autoriale alle precondizioni fenomenologiche delle pratiche stilistiche in questione. È questo, in senso lato, il postmoderno di Simon: la manifesta vacuità di quel soggetto al di là di ogni fenomenologia, la sua capacità di abbracciare un altro stile come se fosse un altro mondo. I moderni hanno tuttavia dovuto per prima cosa inventare da sé i loro mondi personali, e almeno la prima delle opzioni stilistiche di Simon, quella cosiddetta personale, proviene chiaramente dal modernismo, giacché riproduce con grande sistematicità i procedimenti della scrittura faulkneriana.

Lo stile di Faulkner trae i propri presupposti formali dalla situazione della memoria: l’azione o il gesto violento del passato; una visione che affascina e ossessiona dei narratori che non possono fare altro che commemorarla nel presente e devono tuttavia proiettarla come una scena compiuta; “immobile” quanto “furiosa”, “ansante” nella fissità della propria agitazione, che impone “stupore” e “meraviglia” all’osservatore. Il linguaggio ritorna dunque incessantemente a questo gesto fuori dal tempo, accumulando disperatamente aggettivi e avverbi nel tentativo di evocare dall’esterno quella che è quasi una gestalt impenetrabile a sé, che non può più essere costruita dal movimento delle frasi. Così lo stesso Faulkner esibisce un presagio profondamente radicato del necessario fallimento del linguaggio, il quale non coinciderà mai con i suoi oggetti, dati a priori. Tale fallimento rappresenta senza dubbio la via d’accesso al pastiche di Faulkner operato da Simon (o da chiunque altro), in quanto nasconde una struttura in cui la “spontaneità” del linguaggio letterario si è già scissa nell’instaurazione di un contesto visivo, extraverbale da un lato, e in un’evocazione retorica pressoché interminabile dall’altro. Nulla appare più lontano dall’etica linguistica del cosiddetto nuovo romanzo, con la sua esclusione della retorica, del soggetto e del calore corporeo, a meno che non si pensi alla straordinaria funzione del faulkneriano «ora», che (in genere accompagnato dal tempo passato) passa dal presente traumatico della memoria ossessiva del passato, attraverso la situazione degli ascoltatori, al presente della frase faulkneriana del tempo in cui leggiamo. Di colpo, in uno spazio diverso dal tempo profondo e dalla memoria profonda di Faulkner (e dalla retorica che vi si associa), prende forma, qui, un meccanismo linguistico e testuale paragonabile strutturalmente a ciò che nel nouveau roman sarà specializzato e sviluppato a un livello avanzato.

In ogni caso la modalità del modernismo faulkneriano in Simon non si alterna con la pratica di un altro stile (personale nel senso che è preminentemente un fenomeno modernista), ma invece con qualcosa di alquanto diverso, che sarebbe opportuno designare come la codificazione delle norme di un nuovo genere “artificiale”. Il genere resta in un certo senso un fenomeno dotato di un “nome”, ma se Robbe-Grillet ne è l’inventore, Jean Ricardou può esserne in teoria considerato l’Ejzensˇtejn; si tratta di un sistema di regole relativamente impersonali di esclusione, che presenta l’aspetto peculiare (come avviene nell’ingegneria genetica) di un genere del tutto realizzato dalla “mano dell’uomo”, concepito da cima a fondo a imitazione di quelli “naturali”, che si sono organicamente evoluti nel corso del tempo storico69. Nel modo in cui, come anche in Robbe-Grillet, il contenuto è dato anticipatamente e le frasi si limitano a tracciarlo e imitarlo a fatto compiuto, si rileva qui, nondimeno, una lontana caricatura della struttura faulkneriana. Però in Robbe-Grillet quel contenuto già preformato costituisce la materia prima degli stereotipi culturali – situazioni, personaggi, allusioni di ogni sorta alla cultura di massa – che le abitudini del consumo ci consentono di identificare a prima vista (come un tema musicale del quale abbiamo udito soltanto alcune note). La materia prima di Faulkner disponeva di una propria dignità filosofica, conferitagli non solo dalla sua condizione di memoria in un’epoca ossessionata dalla temporalità, ma anche dalle ideologie implicite della percezione in quanto tale, che hanno molto spesso pervaso le varie estetiche del modernismo, a cominciare (strategicamente per lo sviluppo personale dello stesso Faulkner) dall’impressionismo di Conrad («prima di tutto farvi vedere!»). Il periodo postmoderno, per contro, elude la temporalità in favore dello spazio e si è fatto scettico nei confronti dell’esperienza fenomenologica profonda in generale, e in particolare della stessa nozione di percezione (si veda Derrida). Sotto questo profilo, oggi i manifesti di Robbe-Grillet si possono leggere più come un rifiuto radicale della percezione fenomenologica in quanto tale che come un’affermazione della vista sugli altri sensi. Se le cose stanno così, come sostiene l’ottimo libro su Simon di Celia Britton70, cioè che il vecchio “discepolo” di Robbe-Grillet è di fatto lacerato tra le spinte incompatibili della visione e della testualità, allora questa tensione inconciliabile spiegherebbe l’alternarsi tra un’evocazione faulkneriana della percezione e una pratica neoromanzesca della testualizzazione (a meno che non sia il contrario, come amavano ripetere i formalisti, per cui le scelte storico-letterarie predeterminano i tratti caratteriologici delle inclinazioni autoriali).

Frattanto, la diffusa impressione che il nouveau roman avesse qualcosa a che vedere con le cose (e quindi con le descrizioni)71 può condurre oltre Simon o Robbe-Grillet, a un nuovo senso storico della loro situazione linguistica in generale, purché esso non venga riformulato in una nuova estetica né diagnosticato in termini personali, psicoanalitici o “stilistici”. La sua “descrizione” delle cose mostra invece, soprattutto, il dissolvimento della descrizione e l’incapacità, da parte del linguaggio, di realizzare alcune delle cose più ovvie che si ritiene possa fare. Per esempio, la comparsa di un’attenzione implacabile allo specifico e al particolare – già presente nei moderni più atipici come Raymond Roussel, presso cui lo sforzo di descrizione degli oggetti nei dettagli più minuti viene condotto con un’implacabilità alla lunga stranamente intollerabile per la maggior parte dei lettori – qui si capovolge immediatamente nel suo opposto, in una maniera dialettica praticamente da manuale.

L’«involto» non è isolato (non più di quanto lo sia la “scatola da scarpe”, specialmente perché quest’ultima si trasforma senza preavviso nella “scatola dei biscotti”, ricordandoci il persistere del referente – Venere o la stella mattutina! – nel famoso saggio di Frege su Sinn und Bedeutung); tanto meno la sua posizione («sotto il braccio sinistro» del soldato, «in un cassetto della scrivania del medico») risulta utile nel persuadere il lettore che in entrambi i casi ha di fronte lo stesso oggetto: «nel suo involucro di carta scura», a dire il vero, ma, d’altro canto, «la neve, asciugandosi, vi ha lasciato delle macchie più scure, tracce dai contorni arrotondati e frangiati di festoni minuscoli; lo spago, allentato, è scivolato verso uno degli angoli»72. Anzi, la stessa complessità dell’attributo («des cernes plus foncés, traces aux contours arrondis, franges de minuscules festons»), chiaramente intesa a fornire la massima specificità a tale oggetto, come se l’unicità fosse una funzione della molteplicità, non fa che precorrere la dialettica a venire: questi plurali astratti – Robbe-Grillet al massimo della formalizzazione – finiscono infatti per non evocare alcuna superficie dotata di una certa granulosità; l’elemento più concreto si trasforma sotto i nostri occhi nel più generico; la pluralità sta dalla parte dell’universale invece che del particolare. Ma in ultima analisi – “non si può uscire dal linguaggio per mezzo del linguaggio!” – tutte le possibilità finiscono nell’identico vicolo cieco: un singolo attributo per la scatola («scura», «di cartone») non sarebbe servita più di qualche proprietà più palesemente accessoria (una «lacerazione» o uno «strappo», per esempio) nella misura in cui tutte quelle parole nella loro sostanza profonda restano generiche. Soltanto l’articolo determinativo (la scatola, come se non ce ne potesse mai essere un’altra) e il tempo presente cercano di riancorare questi nomi e questi aggettivi non molto soddisfacenti al loro posto adeguato nel “testo”, vale a dire, nel nostro caso, questo romanzo stampato, da leggere secondo delle specifiche di genere. Si avverte tuttavia la possibilità di altri tipi di slittamento: «delle bollicine agglutinate in una schiuma beige lungo la parete concava»73. Lasciando da parte la questione delle dimensioni dell’osservatore e dell’osservato (ma la tazzina da caffè potrebbe essere gigantesca quanto quella galattica del Godard di Due o tre cose che so di lei), è solamente il colore ad avvertirci di non assimilare tale descrizione a quella successiva della bottiglia di vino: «Sulla superficie del liquido, raggruppate contro le pareti, s’agglutinano delle piccole bolle rosa». (bf 174). Ciò non vuol dire che il colore sia in qualche misura più affidabile di qualsiasi altra caratteristica: «È d’un grigio opaco adesso» (bf 210). Il soggetto della frase precedente era l’asfalto, fino a qui umido e luccicante di riflessi di colore appena percettibili; in quella successiva si tratta invece della pelle del soldato nudo e ubriaco, grigia per la caduta sul pavimento sporco: «Dalle sbucciature sotto lo strato di polvere grigia che ricopre tutto il lato sinistro del corpo incominciano a filtrare delle piccole gocce di sangue». Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma sono inutili se non siamo in grado di eludere la nostra tendenza apparentemente irresistibile a inventare un’entità corrispondente alla nostra percezione verbale o ideativa. La sequenza della frase non lascia alcun oggetto alla mente del lettore, che dunque per propria comodità se lo procura da sé, sotto forma di un referente letterario ideale o immaginario, una sorta di immagine subliminale o archetipica nella quale una superficie incolore oscilla avanti e indietro nel tempo tra una indifferenziazione monotona e la percezione acuita di punti variegati. Al livello di questo minimo comune denominatore, sia il selciato che la pelle ricoperta di polvere si corrispondono come tante possibili manifestazioni superficiali. Ma questa immagine – la cui elaborazione potrebbe proseguire con l’ipotesi logicamente implicita di una soggettività inconscia nella quale si è formata – non esiste; è frutto del processo interpretativo, il segno dell’estremo malfunzionamento della posizione soggettiva generata dalle frasi appena lette. Di fatto il lettore appare incapace di desumere che il linguaggio è venuto meno (circostanza che lo o la lascerebbe senza una qualunque posizione soggettiva), pertanto – come in una sequenza cinematografica mandata al contrario – costruisce una specie di nuovo oggetto immaginario per giustificare la persistenza della posizione soggettiva già acquisita. Tale oggetto immaginario – che rappresenta soltanto una delle tante tentazioni interpretative offerte, come si scoprirà, dall’opera di Simon – genera dunque il miraggio secondario della soggettività dalla parte di quell’oggetto parimenti immaginario, l’Autore, del quale questo specifico oggetto immaginario si presume sia il pensiero. Si verificano così uno scambio e una moltiplicazione dialettica di entità immaginarie tra soggetto e oggetto, o piuttosto tra posizione soggettiva e quella che dovremmo ormai denominare posizione dell’oggetto, il che conferma la scelta di Foucault, in Le parole e le cose, di Las Meniñas quale potenziale allegoria della costruzione del soggetto (che include peraltro quel “punto di fuga” costituito dalla presunta “soggettività” dello scrittore o dell’artista). Da tutto ciò occorre evincere la necessità di rovesciare la deduzione trascendentale di Kant: non è l’unità del mondo a esigere di essere postulata sulla base dell’unità del soggetto trascendentale; al contrario, l’unità o l’incoerenza e la frammentazione del soggetto – cioè l’accessibilità di una posizione soggettiva praticabile o la sua assenza – rappresentano esse medesime un correlativo dell’unità o della mancanza di unità del mondo esterno. Certamente il soggetto non è un mero “effetto” dell’oggetto, ma non sarebbe affatto sbagliato sostenere che la posizione soggettiva è precisamente questo effetto. Bisogna d’altro canto comprendere che qui per oggetto non si intende un ammasso percettivo di cose concrete, bensì una configurazione sociale, un complesso di rapporti sociali (dal momento che persino la percezione fisica e le esperienze apparentemente più basse del corpo e della materia vengono mediate dall’elemento sociale). Da questo ragionamento non si deduce che il soggetto “unitario” è irreale o indesiderabile e inautentico, ma che, per la sua costruzione e la sua esistenza, dipende da un certo tipo di società e che altri assetti sociali lo minacciano, lo compromettono, lo problematizzano o lo frammentano. È comunque più o meno questa quella che ritengo sia la lezione allegorica dei romanzi di Simon (o almeno della sua fase del nouveau roman) in relazione alle questioni della soggettività. Gli oggetti sono comunque, qui, ancora in larga misura una funzione del linguaggio, la cui incapacità specifica di descriverli o addirittura di designarli conduce in una direzione diversa e porta in primo piano la crisi imprevista di una funzione del linguaggio che normalmente diamo per scontata, cioè un certo rapporto privilegiato tra le parole e le cose che qui cede davanti all’abisso tra la genericità delle parole e la specificità sensoriale degli oggetti.

In questi passaggi il linguaggio viene costretto a fare qualcosa che ho ipotizzato essere in pratica la sua funzione primaria, ma che ormai – spinto a una sorta di limite assoluto – esso si rivela incapace di fare. Occorre sapere di che cosa si tratti, prima di tentare di comprendere in primo luogo perché sia stato condotto questo esperimento controproducente. Appare chiaro che in questo caso ai sostantivi si chiede di funzionare da nomi, poiché il nome proprio è evidentemente l’unico termine di cui disponiamo per il tentativo di abbinare una parola specifica a un oggetto unico. Tuttavia, pressoché in simultanea con il nouveau roman, abbiamo appreso da Lévi-Strauss che il “nome proprio” è esso stesso una specie di termine improprio, in quanto i singoli nomi propri sono anche elementi di sistemi linguistici più vasti che variano a seconda dei loro oggetti generici (cani, cavalli da corsa, persone, gatti). Così persino questa possibilità linguistica apparentemente più concreta – nella quale le parole pervengono a un livello di specificità negato loro in quanto semplici sostantivi universali – si dilegua a priori come un miraggio. In Les Corps conducteurs, comunque, la pista falsa e il vicolo cieco della promessa dei nomi propri causa ripetutamente una proliferazione linguistica che dispiega vanamente in ogni direzione delle liste tassonomiche: parti del corpo, tavole degli uccelli tropicali, elenchi delle costellazioni74.

Per contro, l’altra alternativa teorica – alle cose stesse si arriva non mediante i nomi, ma grazie all’indicazione, alla deissi – non risulta così tanto esclusa dall’impersonalità generica del nouveau roman: i vezzi dell’interpolazione propri di Robbe-Grillet – «o così potrebbe sembrare», «forse», «come già si è detto» – assolvono una specie di funzione deittica che è anche una tecnica di modulazione o di variazione. Piuttosto, il fallimento della deissi medesima deriva anche dall’irriducibile genericità di quelle parole, insieme a tutto il resto, come ha dimostrato Hegel, nel capitolo di apertura della Fenomenologia dello spirito, per le espressioni “ora”, “qui”, “questo” e “quello”: uno spazio filosofico pressoché identico a quello del successivo nouveau roman, nel quale si trovano enumerati i dubbi più essenziali circa la capacità del linguaggio di sciogliere l’opposizione filosofica fondamentale tra l’universale e il particolare, tra il generico e lo specifico. Si asserisce sovente che la concezione hegeliana della dialettica è in una certa misura prelinguistica (o quanto meno poststrutturalista, per ricorrere a un anacronismo), e soprattutto che essa sembra chiamare in causa le antinomie, le contraddizioni logiche o concettuali come se queste, in qualche modo, precedessero il linguaggio e fossero persino più “fondamentali” delle prerogative linguistiche. Può darsi che sia così, ma questo giudizio ignora la rilevanza della sezione iniziale della Fenomenologia, dedicata alla coscienza (certezza sensibile, percezione, forza e intelletto), che ha l’intento di regolare i conti con il linguaggio sin dal principio, nonché di fondare la necessità della dialettica proprio sull’incapacità, da parte del linguaggio, di coordinare universale e particolare. Del resto, quale che sia lo statuto ontologico che lo strutturalismo si è sentito in grado di conferire al linguaggio, è importante che tale tradizione (dalle analisi di Lévi-Strauss citate prima ai misteri interpretativi del nouveau roman) trovi il proprio punto di partenza in una meditazione proprio su queste inadeguatezze del linguaggio.

Hegel mostra che non può darsi un’identità immediata tra il linguaggio e la nostra esperienza sensibile del presente, del qui e ora nella loro unicità (che chiama anche «certezza sensibile»). «Se [certi filosofi] volessero realmente dire questo pezzo di carta di cui hanno opinione, se la loro volontà fosse proprio quella di dirlo, allora ciò sarebbe impossibile: il Questo sensibile che è in gioco nell’opinione, infatti, è inaccessibile al linguaggio, il quale appartiene alla coscienza, all’universale in sé»75. L’«universale» qui è tortuosamente definito come un concetto vuoto che può presiedere a molteplici contenuti di genere diverso: l’«Ora» in quanto «molteplicità di Ora raccolti insieme» costituisce per Hegel l’«esperienza che l’Ora è un universale»76. Non è certo questa la “lezione” che può riservarci il nouveau roman, ma l’inadeguatezza del linguaggio adoperato da Hegel per insegnarla è sicuramente parte di quella lezione romanzesca:

Noi enunciamo come un universale anche il sensibile. Noi diciamo: «questo», cioè il Questo universale; oppure diciamo: «esso è», cioè l’essere in generale. In tal modo, non ci rappresentiamo certo il Questo universale o l’essere in generale, ma, semplicemente, enunciamo l’universale. In altri termini, quando parliamo non esprimiamo affatto ciò che crede di esprimere l’opinione di questa certezza sensibile.

Come vediamo, dunque, il linguaggio costituisce una verità superiore. Nel linguaggio, infatti, noi confutiamo immediatamente proprio la nostra opinione, e poiché l’universale è il vero della certezza sensibile, e il linguaggio esprime solo questo vero, allora ci è del tutto preclusa la possibilità di dire un essere sensibile nel modo in cui lo opiniamo.77

In tale situazione di inadeguatezza linguistica, la fine del rapporto tra parole e cose rappresenta per Hegel una caduta fortunata, in quanto reindirizza il pensiero filosofico verso nuove forme degli universali. Tuttavia per Simon, e per il nouveau roman in genere, essa spalanca uno spazio provvisorio nel quale tale fine viene ripetutamente esperita come processo, come uno scrutinio temporaneo tra il consueto inizio della fiducia linguistica e l’inevitabile degradazione del significato nel suo significante materiale, o del segno stesso in una mera immagine.

Questo processo provvisorio e ripetitivo corrisponde a quella che si chiamava lettura; quello che intendo dire in questa sede è che nel nouveau roman la lettura subisce una particolare specializzazione esattamente come è accaduto al vecchio artigianato all’inizio della rivoluzione industriale: si disgrega in una molteplicità di processi separati, secondo la norma generale della divisione del lavoro. Questa differenziazione interna, la progressiva autonomia di rami un tempo congiunti del processo produttivo, conosce poi un secondo salto qualitativo con la taylorizzazione, vale a dire con la separazione analitica pianificata dei vari momenti produttivi in unità indipendenti. Quella vecchia ma ben poco tradizionale attività chiamata lettura si può ormai considerare come un processo di tale genere, suscettibile di un analogo sviluppo storico. A questo proposito appare davvero assai pertinente la più generale teoria della differenziazione proposta da Niklas Luhmann (che a sua volta si configura come la riflessione teorica sinora più evoluta e specializzata su tale processo):

La differenziazione sistemica si può concepire come una replica, all’interno di un sistema, della differenza tra un sistema e il suo ambiente. La differenziazione si intende così come una forma riflessiva e ricorsiva della costruzione del sistema. Essa replica lo stesso meccanismo, utilizzandolo per amplificare i propri risultati. Di conseguenza, nei sistemi differenziati si ritrovano due tipi di ambiente: l’ambiente esterno comune a tutti i sottosistemi e un ambiente interno distinto per ciascun sottosistema. Tale concezione implica che ogni sottosistema ricostruisca e, in un certo senso, sia l’intero sistema, nella forma particolare di una differenza tra il sottosistema e il suo ambiente. La differenziazione riproduce quindi il sistema in sé, moltiplicando le versioni specialistiche dell’identità del sistema originario mediante la sua scissione in diversi sistemi interni con i loro relativi ambienti. Non si tratta semplicemente di una scomposizione in porzioni più piccole, ma piuttosto di un processo di crescita per disgiunzione interna.78

A partire da Ricardou, si è prodotta una gran mole di finissime analisi delle procedure particolari e dei modelli di Simon, le quali finiscono per affermare soprattutto una specie di ideologia estetica “testualista”, che sarebbe forse più interessante riscrivere oggi, passata ormai la novità, seguendo gli schemi di Luhmann. Io stesso sostengo che nei nouveaux romans di Simon (rispetto a quelli suoi più faulkneriani) siano in atto due processi generali, in larga misura corrispondenti alla distinzione di Luhmann tra la riproduzione di un ambiente esterno all’interno del sistema (ossia del testo) e la ripetizione di ambienti interni distinti per ciascun sottosistema. Questi ultimi corrispondono a quella che in precedenza ho definito come degradazione del significato nel suo significante materiale o, se si preferisce, all’eclissi dell’illusione della trasparenza, all’inattesa trasformazione di un significato in un oggetto o, meglio ancora, al suo disvelarsi come qualcosa di già reificato, già opaco a priori. Quell’opacità può manifestarsi sia come il suono e la fisionomia delle parole, sia come la loro riproduzione stampata, con la spazialità priva di senso delle singole lettere. Sotto tale aspetto la trasparenza è una sorta di illusione di autonomia dell’organismo o del sottosistema: il richiamo della sua materialità ristabilisce pertanto ciò che Luhmann denomina ambiente interno (nell’ordine dei processi chimici in atto nel cervello, per esempio). Nel complesso in Simon tale differenziazione dei vecchi sensi e significati assume due forme generali. La prima si può descrivere come la lettura della “lettura”, un momento in cui qualcosa nelle parole («che orgia di colori…») ci avverte della possibilità che si possa trattare di una citazione, e che dunque stiamo leggendo la lettura di qualcun altro. Nella seconda forma, le stesse parole si fanno mera tipografia, come accade nel caso degli inserti da lingue straniere o della riproduzione di lettere stampate con caratteri diversi:

Il secondo insieme dei processi di Luhmann, incentrato sull’ambiente esterno – ossia su quello che in letteratura in genere si chiama contesto oppure referente – si esemplifica soprattutto in quei momenti, caratteristici anche di Robbe-Grillet, nei quali una narrazione a cui siamo stati indotti a credere (in letteratura, infatti, ciò che si definisce fittizio equivale al referenziale di altre forme di linguaggio) improvvisamente si rivela essere stata fin dall’inizio una semplice immagine, che questa immagine sia un dipinto (animato, per così dire, dalla pseudonarrazione precedente) o si riveli essere un film, come nel caso della spedizione tropicale in Les Corps conducteurs. Qui, dunque, la materializzazione del significato mediante la citazione descritta prima si replica in forma diegetica o narrativa a livello del segno nel suo insieme, con esiti nuovi e inattesi: questi passaggi ci spostano ormai dall’ambito della problematica linguistica e della filosofia del linguaggio a quello della società dell’immagine e dei media. (Anzi, la compresenza, nel nouveau roman, di queste due aree microscopiche e macroscopiche del senso e dell’interpretazione, nettamente diverse, non fa che convalidare in larga misura la nostra richiesta di forme di differenziazione all’interno dell’interpretazione stessa, storicamente originali e intensificate). Quanto alla seconda permutazione logicamente possibile su questo livello del segno, quella che si potrebbe designare come posizione del non-segno:

sembrerebbe consistere in sostanza nell’inevitabile presenza del rumore in quanto tale all’interno di qualunque sistema comunicativo. Nel caso di Simon questo rumore corrisponde in genere all’inserimento aleatorio o casuale di riferimenti estranei (come, per esempio, le tracce lasciate da Orion aveugle, il libro illustrato che l’autore cannibalizza per costruire Les Corps conducteurs come romanzo), ma nell’opera in questione viene per così dire emblematizzato o allegorizzato come un enigmatico cumulo di macerie in movimento attraverso le sequenze delle singole frasi («qualcosa di grigiastro, immateriale e formidabilmente pesante che avanzerebbe senza tregua, una valanga al rallentatore che pialla il pavimento, i muri, in moto da miliardi di anni, paziente e insidiosa», cc 88). Siccome l’episodio evidentemente ha la funzione paradossale, davvero contraddittoria e impossibile, di dar senso a ciò che non ne ha, di comunicare l’intenzione di un’assenza di intenzione, non è “indecidibile” se ciò vada considerato come una condizione oculare patologica, una disintegrazione del film all’interno del proiettore o come una sorta di essere fantascientifico.

Questi effetti localizzati si possono comunque intendere anche quali semplici mutamenti nella materia prima del processo di produzione, invece che come indizi di una radicale trasformazione strutturale all’interno di quest’ultimo; in sostanza, quali nuovi oggetti particolari da affrontare tramite la lettura, piuttosto che come una qualche differenziazione all’interno della lettura in sé. Allorché si intraprende la lettura di un nouveau roman, qualsiasi verifica dei nostri processi mentali rivela la presenza di nuove operazioni, nonché di quella fissione e di quella riproduzione per moltiplicazione che Luhmann attribuisce ai suoi sottosistemi differenzianti. L’atto dell’identificazione, per esempio, inevitabilmente chiamata in causa dalle pagine di apertura del romanzo, qui si suddivide in due nuove operazioni mentali ancora senza nome. In una maniera che ricorda le possibilità del codice proairetico di Barthes, ci vengono forniti i componenti anonimi del segmento non identificato di un’azione o di un gesto, i quali, al pari di frammenti ingranditi di una fotografia perduta, devono essere rimessi insieme in una certa forma riconoscibile. In altre parole, l’oggetto della rappresentazione (un uomo seduto su un idrante antincendio, probabilmente in preda alla sofferenza) deve essere nominato o rinominato. Nel romanzo tradizionale questa parte del lavoro non si deve compiere: è il romanziere a farlo per noi, etichettando chiaramente gli elementi e i fondamenti della storia a venire. Nella lettura del romanzo tradizionale, il nostro compito è riunire quegli elementi all’interno di un’azione più vasta, non ancora dotata di un “nome” (la narrazione stessa). Ma questo dobbiamo continuare a farlo anche nel nouveau roman, perché oltre a decidere che cosa sia l’oggetto (l’uomo sull’idrante), dobbiamo decidere pure “chi” sia, cioè in che posizione vada collocato nell’intreccio più ampio. Nondimeno tale processo si è differenziato al proprio interno. In Les Corps conducteurs esso si è suddiviso in due operazioni distinte: 1) decidere se la pausa sull’idrante venga prima o dopo la visita allo studio medico (o la sosta al bar); 2) ricerca delle prove che potrebbero stabilire l’identità tra l’uomo sull’idrante e quello che assiste al congresso degli scrittori latinoamericani, per non parlare di quello della relazione amorosa infelice. Dunque l’operazione dell’identificazione a un tempo si combina con – e si differenzia da – quella di riordino dei segmenti sul piano cronologico e quell’altro processo che incrocia e mette in relazione le serie di eventi. Ciò a sua volta reintroduce dappertutto tutte le altre operazioni (se pure l’uomo sull’idrante magari ha fatto un viaggio in Sudamerica, lo ha fatto prima o dopo la propria crise de foie?).

Frattanto in questa situazione, in cui le attività mentali sono colonizzate, miniaturizzate, specializzate e riorganizzate come in una moderna grande fabbrica automatizzata, si verificano attività mentali di altro tipo, che all’interno del processo di lettura conducono un’esistenza alquanto diversa, disorganizzata e marginale. Anzi, il piacere minimo di leggere Simon, un effetto mirabile che mi colpisce perché non ha equivalenti in letteratura, rappresenta quelli che si potrebbero chiamare primi momenti in cui sentiamo il treno muoversi. Siamo occupati dai nostri svariati compiti – identificare questo o quel frammento di un’azione, stilare un inventario preliminare delle sequenze degli eventi nel loro susseguirsi –, quando all’improvviso ci accorgiamo che accade qualcosa, che il tempo ha cominciato a muoversi, che gli oggetti, ancorché identificati in maniera imperfetta, hanno preso a mutare sotto i nostri occhi. Il libro dunque va avanti, si scrive, si conclude. Questa straordinaria sensazione di sollievo estetico ha però poco in comune con l’emozione aristotelica che accompagna la più tradizionale mimesi di un’azione compiuta.

Analogamente, anche l’interpretazione nella vecchia accezione sembra essere un residuo o una reliquia non più necessaria, benché non mi paia del tutto esatto attribuire a Simon quello che altrove si è spesso considerato come uno degli aspetti essenziali del postmoderno, cioè l’esclusione assoluta delle possibilità interpretative. Qui, come in Weber, il processo di razionalizzazione e la riorganizzazione del lavoro secondo criteri di utilità e di efficienza rendono obsoleti i precedenti ordini di valori. I vecchi valori interpretativi però sopravvivono come tentazioni residuali, che si rivelano tutte insoddisfacenti e frustranti. La tentazione del realismo implica naturalmente la ricomposizione di tutti i materiali grezzi in una singola azione unitaria, circostanza che, come si vedrà, non risulta frustrata soltanto per la presenza accidentale di altri materiali aleatori. Tuttavia esiste anche quella che si potrebbe definire tentazione interpretativa modernista, vale a dire leggere la forma profonda del romanzo quale flusso di percezioni. «Che orgia di colori quando uno stormo di ara, con le ali spiegate, vola nei raggi del sole! Lo stormo pigolante e gracchiante scompare, lasciandosi dietro nell’occhio abbacinato una lunga scia di colore» (cc 174). Oltre al fatto che tale tentazione interpretativa – resa innaturale nella grandiosa visione delle luci della città di notte (cc 83) e, più avanti, nel drammatico caos visivo delle immagini e degli apparati pubblicitari (cc 139) – non ha alcun modo di affrontare il contenuto delle percezioni come tali, essa nasconde peraltro una profonda complicità con quella medesima ideologia della percezione di cui ho parlato in precedenza. Ma la postmoderna cultura dell’immagine è postpercettiva: si incentra sul consumo immaginario piuttosto che su quello materiale. L’analisi della cultura dell’immagine (con i suoi prodotti estetici, come questo di Claude Simon) può pertanto avere senso esclusivamente se induce a ripensare l’”immagine” stessa in maniera non tradizionale e non fenomenologica.

Resta la tentazione strutturale, che fino a poco tempo fa costituiva l’opzione interpretativa più influente, per mezzo della quale, seguendo Robbe-Grillet e Ricardou, si era indotti a intendere il testo come un gioco contro l’automa di Benjamin e a interpretare la nostra lettura come un’esperienza combinatoria, che giunge alla conclusione soltanto quando le permutazioni sono finalmente tutte esaurite:

Con una delle braccia tese in avanti, brancolando nel vuoto, Orione avanza sempre in direzione del sole nascente, guidato nel cammino dalla voce e dalle indicazioni del piccolo personaggio appollaiato sulle sue spalle muscolose. Tutto indica però che non raggiungerà mai la propria meta, giacché, man mano che il sole si alza, le stelle che delineano il corpo del gigante si fanno più pallide, si cancellano, e il favoloso profilo immobile a grandi passi si attenuerà poco a poco fino a scomparire nel cielo dell’aurora. (cc 222)

Questo magnifico periodo, che fa oscillare freneticamente tutti i contatori Geiger dell’interpretazione, è del tutto svincolato dalle altre sequenze narrative (che al romanzo giungono invece dal libro illustrato collegato a quello di Simon, Orion aveugle). Al massimo un PREPARARSI A CONCLUDERE! analogo a quello del videotesto di cui ho parlato in precedenza, se letto come un climax piuttosto che come un evento testuale tra gli altri, sembrerebbe modulare nuovamente la lettura strutturalista su quella modernista e reinventare le ormai antiquate autodesignazioni e autoreferenzialità estetizzanti di quest’ultima.

Esiste tuttavia un’ultima possibilità, a dire il vero non meno improbabile delle altre, ossia la lettura del romanzo come una sorta di diario o di brogliaccio autobiografico dentro il quale, in un memoriale più soddisfacente di qualsiasi album fotografico, vengono riformulate e rimontate svariate esperienze di vita vissuta (anche se non è possibile dire se Simon le abbia “avute” davvero): il viaggio in America Latina, la sosta a New York, la relazione sentimentale, le choses vues sulla 42a Strada e la contemplazione di importanti dipinti nei musei (compreso forse il soffitto della Grand Central Station, che raffigura Orione). Si tratta di una possibilità che appaga il presente e lo spedisce trionfalmente nel passato in maniera più adeguata rispetto alla perentoria evocazione faulkneriana, eroica, vana e votata al fallimento, di quanto si è dissolto da tempo. In tal caso, però, l’apparente estetismo del nouveau roman si volge dialetticamente in una forma di tipo assai diverso, in grado di sfuggire alla colpa dell’estetico in genere – l’indicazione di Sartre79, secondo la quale non si può leggere un nouveau roman in un paese del Terzo Mondo, insieme all’elemento di “distinzione” (Bourdieu) della classe agiata che ne determina la lettura in un paese del Primo Mondo –, di proporre allo stesso momento un nuovo dispositivo per registrare i materiali grezzi della vita quotidiana, un nuovo “apparato libidico” per affrontare quegli shock caleidoscopici che Benjamin, a partire da Baudelaire, associava al moderno paesaggio industriale. In questo senso, la riproducibilità del nuovo genere inventato o artificiale diventa un indice della sua accessibilità democratica; e questi sono sempre stati il rovescio e il sottinteso progressista dei più celebri rimproveri filistei nei confronti della stessa arte modernista, come quello, per esempio, rivolto alla pittura astratta: «Chiunque potrebbe farlo!». E la risposta sarebbe: «Certo! Ma tu non vuoi, vero? Dovresti!».

A questo punto però l’interpretazione si è mutata in produzione, mentre la ricezione ha iniziato a riciclarsi come uso. Questa particolare inversione dialettica – che si potrebbe peraltro considerare come il vero contrario dei processi di infinita fissione e differenziazione individuati da Luhmann, in cui tutti quei nuovi sottosistemi microscopici vengono ora energicamente riuniti in una forma unitaria di prassi – è forse l’aspetto più interessante che il nouveau roman abbia da offrire, la più storicamente originale delle sue innovazioni (a tale proposito, il fatto che esse possano già essere passate alla storia come tante false partenze, come dei brevetti non riusciti, appare meno significativo). Sostengo in particolare che, nei “nuovi romanzi” di Simon, a rendere in maniera singolare – e per il lungo momento della loro lettura – la ricezione (o il consumo) indistinguibile dalla produzione è la centralità dell’elemento linguistico. Occorre leggerne le frasi parola per parola, circostanza già abbastanza insolita (e penosamente ignota) nella società dell’informazione, la quale premia l’istruzione e il riconoscimento immediati, al punto che le frasi vengono scorse rapidamente oppure preconfezionate per una rapida assimilazione come altrettanti segni. La disciplina del «parola per parola» (che per inciso è un’espressione di Simon) è imposta dalla pratica del montaggio incrociato, cioè dalla possibilità che il soggetto muti senza preavviso in qualsiasi momento. Non è in alcun modo possibile leggere velocemente libri di questo tipo: essi non hanno un contenuto o delle informazioni supplementari da offrire, nulla da mettere da parte e portare via, e nemmeno nulla da scoprire (come alla fine di un giallo), se non, prima di tutto, la semplice e tragica scoperta che non c’è nulla da scoprire.

Gli economisti ci dicono che l’automazione va di pari passo con la dequalificazione. Allo stesso modo qui quella straordinaria specializzazione differenziale che si chiamava processo di lettura, del quale ho parlato in precedenza, cammina di pari passo con forme nuove di lavoro, più rudimentali e plebee, che chiunque può compiere: infatti in determinate condizioni – condizioni sociali o, anzi, condizioni del socialismo! – la dequalificazione si accompagna alla democratizzazione (alla plebeizzazione, come preferisco etichettarla). È quindi possibile che la lettura di un prodotto letterario d’élite così specialistico e altamente tecnico come Les Corps conducteurs possa offrire un’immagine, un analogon, del lavoro non alienato e dell’esperienza utopica di una società alternativa radicalmente diversa?

Si era soliti affermare che, nella nostra epoca, l’arte o la dimensione estetica offrivano l’analogia più vicina di cui si potesse disporre a un lavoro non segnato dall’alienazione, altrimenti inimmaginabile per noi, o che ne costituivano addirittura l’esperienza simbolica più adeguata. La tesi derivava a sua volta dalle speculazioni preindustriali della filosofia dell’idealismo tedesco, ove l’esperienza del gioco presentava un simile analogon di una condizione nella quale si potessero superare le tensioni tra lavoro e libertà, tra scienza e imperativi etici.

Esistono però delle buone ragioni in base alle quali tali affermazioni sulle idee, le anticipazioni o le esperienze simboliche del lavoro non alienato potrebbero non essere più persuasive. Per prima cosa, la stessa esperienza dell’arte odierna è alienata, si è resa “altra” e inaccessibile a troppe persone per servire da strumento utile alla loro esperienza immaginativa. Che si tratti di arte elevata o di cultura di massa fa lo stesso: in entrambi i casi infatti, ma per ragioni assai diverse, l’esperienza della produzione di queste forme d’arte è inaccessibile alla maggior parte degli individui (compresi i critici e gli intellettuali), che si ritrovano così in un’esperienza di ambedue i tipi di arte come mera ricezione (da cui l’attrattiva esercitata da quelle categorie sulla teoria contemporanea). Con tutto ciò che di esoterico le si accompagna (formazione speciale, divisione collettiva del lavoro, tecnologie uniche, mentalità corporativa o professionistica, insieme alla semplice indifferenza rivolta alle attività da cui siamo esclusi), la specializzazione caratterizza tanto l’arte elitaria quanto la cultura di massa. Le macchine elaborate della musica postelettronica contemporanea da un lato e, dall’altro, i sistemi di produzione televisiva non sono, per fare un esempio, condizioni nelle quali la maggior parte delle persone si sente a proprio agio; e in ogni caso ispirano uno scarso ottimismo nei confronti di quel controllo potenziale o di quella padronanza dei processi, di sé, della natura e del destino collettivo che il lavoro non alienato necessariamente comprende e progetta. E così la vecchia analogia romantica tende a restare lettera morta, perché la produzione artistica quale modello utopico di una vita sociale alternativa rappresenta essa stessa un libro chiuso.

Quanto al gioco, anch’esso non può più significare molto come esperienza alternativa, in una situazione in cui il tempo libero è mercificato quanto il lavoro, le vacanze sono organizzate e pianificate come il tempo trascorso in ufficio; esso è dunque l’oggetto di una nuova industria del divertimento di massa, dove ogni settore dispone delle proprie attrezzature e delle proprie merci altamente tecnologiche, sovraccarico a sua volta di processi di indottrinamento ideologico minuziosamente e completamente organizzati. Una volta il gioco era sinonimo di bambini, che nella vecchia società erano le controfigure di quei rappresentanti della Natura molto più lontani che erano i selvaggi. Ma dove gli stessi bambini vengono controllati e organizzati, integrati nella società dei consumi, l’infanzia può avere perduto la propria capacità di suggerire o di progettare idee come il gioco, pensate per comunicare la libertà in movimento, come forma di una determinazione e di una invenzione di sé attive.

In condizioni del genere, persino esperienze più degradate e marginali come l’hobby sono chiamate a trasmettere lontani barlumi di attività umanamente soddisfacenti, barlumi distorti e amputati dal loro medium. Nel caso dell’hobby, per esempio, quanto appare fortemente antiufficiale – il ruolo del dilettante, che realizza degli oggetti dopo l’orario di lavoro, decidendo di trascorrere e perdere deliberatamente il proprio tempo senza senso di colpa; la regressione a competenze artigianali più arcaiche – del resto esclude sistematicamente l’elemento collettivo in sé e offre una prospettiva a partire dalla quale, a differenza del piacere estetico, intendiamo tenere per noi queste soddisfazioni e non siamo desiderosi di condividerle e avvalorarle per mezzo dell’esperienza altrui (la dimensione sociale, come ha giustamente sottolineato Gadamer, dell’universalismo del valore estetico di Kant). D’altro canto, l’informalità dell’hobby rimprovera ed esclude utilmente la sacralità sviluppata da certe forme d’arte del tardo Ottocento, quale mezzo di separazione dell’estetico dalle attività mercantili mondane: le solitarie eccentricità dell’hobby soppiantano ormai quell’unzione sacerdotale e la rendono inutile, come nella produzione di Roussel o nel facteur Cheval tanto ammirato dai surrealisti. Nella nostra epoca (postmoderna), nella quale la socializzazione e l’istituzionalizzazione della vita individuale si è intensificata senza pari rispetto al capitalismo primonovecentesco, non sorprenderà comunque la paradossale scoperta che anche l’hobby si è organizzato e istituzionalizzato in gruppi come l’Oulipo. Anzi, quello straordinario romanzo del suo membro Georges Perec che si intitola La vita istruzioni per luso costituisce sicuramente non solo il monumento letterario più sorprendente prodotto da uno scrittore sperimentale dopo la fine del nouveau roman, ma anche un utile documento da contrapporre al trattamento simbolico dell’opera e dell’attività effettuato da Simon.

In effetti, in La vita istruzioni per luso il lavoro non alienato sotto forma di hobby appare esplicitamente tematizzato nell’ossessione grottesca che costituisce il filo centrale del romanzo. Si tratta della passione del milionario Bartlebooth, che si distrae dalla vuota insensatezza dell’esistenza grazie a un programma di vita rigorosamente calcolato: visitare cinquecento porti di tutto il mondo, uno ogni due settimane per vent’anni, e in ognuno dipingere un acquarello che poi viene applicato su legno, segmentato in un puzzle e depositato in una scatola. Questa verrà poi aperta nei vent’anni che seguiranno il periodo dei viaggi, il puzzle sarà rimontato, il legno reincollato, la carta riattaccata per magia, l’acquerello rimosso e il foglio bianco restituito al suo album originario. Se si obietta che questo hobby bizzarro è soltanto uno dei tanti portati avanti nelle pagine del romanzo, allora occorre intendere la totalizzazione globale che è in atto qui in un’altra maniera, nel condominio stesso (di proprietà dello stesso milionario) che ospita questo insieme di storie, di destini e di hobby, e che si ripresenta all’ultimissima pagina sotto forma di un modello in miniatura (la miniaturizzazione è in genere uno degli indizi e dei segni più considerevoli della presenza della produzione come processo). È come se il testo e i suoi modelli morti guardassero indietro tutto il fermento della storia umana dalla prospettiva di un’era geologica nella quale la vita umana si è estinta sul pianeta; ciò significa che per la raffigurazione nel nostro tempo del lavoro non alienato si è dovuto pagare un prezzo enorme.

L’opera di Simon, invece, non tematizza la produzione e l’attività in questa maniera (fino all’ultimissimo libro della serie di nouveau roman). Al massimo, si raggiunge un’approssimazione nel processo di traduzione (il latino nella Battaglia di Farsalo, lo spagnolo in Les Corps conducteurs), dove il prodursi di una frase è provvisto di una sorta di opacità e, per così dire, di resistenza della materia. I romanzi di Simon ci forniscono l’esperienza di questa produzione senza che quest’ultima si identifichi come tale, senza il suo nome astratto ufficiale. E resta aperto l’interrogativo se in letteratura la tematizzazione di un processo siffatto – la sua trasformazione in simbolo, in significato, in rappresentazione – non debba finire per trasformarla in qualcosa d’altro, in virtù di un misterioso principio di Heisenberg del linguaggio letterario. Il tema non compare però nell’ultimo nouveau roman, Il senso delle cose (1975), ove è inserito nel testo stampato come una specie di foglio volante:

Sensibile ai rimproveri formulati contro gli scrittori che trascurano i “grandi problemi”, l’autore qui ha cercato di affrontarne alcuni, come quelli dell’ambente, del lavoro manuale, del cibo, del tempo, dello spazio, della natura, del tempo libero, dell’istruzione, del discorso, dell’informazione, dell’adulterio, della distruzione e della riproduzione delle specie umane o animali. Vasto programma che le migliaia di opere che riempiono migliaia di biblioteche sono, a quanto pare, ancora lontane dall’avere esaurito.

Senza pretendere di addurre delle risposte precise, questo piccolo lavoro non ha altra ambizione se non di contribuire, alla sua maniera e nei limiti del genere, allo sforzo generale.80

Non sembra per nulla esatto interpretare queste parole in senso ironico, se non nel senso di un nuovo tipo di ironia vuota, una giustapposizione dalla quale non si traggono più, per una qualche ragione, le vecchie conclusioni ironiche; così come non pare giusto caratterizzare l’inserimento della conferenza dello scrittore come una questione satirica o come un attacco ai valori politici e alla letteratura impegnata di Sartre. Si tratta invece, certamente, del modo assai particolare, se non addirittura storicamente originale, di trattare una controversia ideologica: portarla dentro il testo in modo tale che divenga parte della superficie piatta sulla quale sono disposti ed esibiti gli altri materiali. Anzi, forse questo è il modo in cui termina l’ideologia, in una specie di replica postmoderna delle tesi sulla fine delle ideologie degli anni Cinquanta: non si dissolve nel generale crogiolarsi tra libere elezioni e beni di consumo, ma viene invece inscritta nell’anello di Möbius dei media in maniera tale che quelle che erano idee virulente, sovversive o quanto meno aggressive si sono ormai trasformate in tanti significanti materiali a cui si guarda per un attimo per poi passare oltre.

Ovviamente l’episodio non fa che invertire il commento sartriano citato prima: non si potrebbe leggere un nouveau roman in un paese del Terzo Mondo (questione in sé abbastanza discutibile, a partire da Sarduy e dalla “nuova ondata” degli altri scrittori postcoloniali), ma non si può leggere il Terzo Mondo senza questo specifico nouveau roman, i cui contenuti sono tratti con tanta sistematicità sia dal Terzo Mondo interno di Manhattan, sia da quello esterno dell’America Latina, come ad abbracciare tutto ciò e trattenerlo al proprio interno. In ogni caso si può dire che il rapporto di Simon con questa materia prima è più realistico, in qualunque accezione del vocabolo, rispetto a quello di Robbe-Grillet, le cui narrazioni da fumetto pop – postmoderne nel loro netto contrasto con il rapporto modernista e pittorico che Simon intrattiene con l’elemento visivo – sono per diversi aspetti più estetizzanti. Lo stereotipo rappresenta ciò che è stato già preconsumato, predisposto esteticamente per il consumo, laddove lo sforzo tangibile di introdurre i dati sensoriali nelle frasi lascia un residuo nel proprio insuccesso, fa intuire la presenza del referente al di fuori della porta chiusa.

Si tratta comunque di una porta verosimilmente destinata a restare chiusa per diverso tempo. Nel bene e nel male, nella nostra società l’arte non sembra offrire alcun accesso diretto alla realtà, alcuna possibilità di rappresentazione immediata o di quello che si chiamava realismo. Per noi oggi, ciò che in genere assomiglia al realismo al massimo consente un accesso immediato soltanto a ciò che pensiamo della realtà, alle nostre immagini e agli stereotipi ideologici che la riguardano (come in Doctorow). Naturalmente anche questo fa parte del Reale, e in una misura davvero notevole! Ma altrettanto tipico della nostra epoca è il fatto che siamo particolarmente restii a pensare così, e che nulla ci raffredda di più, o risulta più calcolato per interrompere il contatto, della scoperta che una certa visione delle cose è in realtà “solamente” la proiezione di qualcun altro. Occorre etichettarla come tale e bollarla come punto di vista “jamesiano”: soltanto nell’esplosione demografica del postmoderno sono venute alla luce troppe visioni del mondo private, troppi stili o punti di vista personali perché qualcuno li prenda davvero sul serio, com’è accaduto durante la modernità.

Perciò l’arte produce informazione sociale principalmente come sintomo. I suoi dispositivi specialistici (a loro volta evidentemente sintomatici della specializzazione sociale in genere) sono in grado di registrare e archiviare dati con una precisione di cui altre modalità dell’esperienza moderna non dispongono; nel pensiero, per esempio, o nella vita quotidiana. Tuttavia quei dati, una volta riassemblati, non modellano la realtà sotto forma di cose o essenze, oppure dell’ontologia sociale e istituzionale. Raccontano invece le contraddizioni come tali, che costituiscono la forma più profonda della realtà sociale della nostra preistoria e devono sostituire il “referente” per molto tempo ancora.

Così la stessa contraddizione menzionata di sfuggita in precedenza – la nostra peculiare opinione postmoderna sulla molteplicità delle soggettività e dei punti di vista –, cioè che siamo stufi e stanchi del soggettivo in sé nelle vecchie forme classiche (che comprendono il tempo profondo e la memoria) e che vogliamo vivere per un po’ sulla superficie, ebbene tale contraddizione è fondamentale nello sviluppo della narrativa moderna e postmoderna, le cui configurazioni consentono di misurare la temperatura della situazione attuale. In tal senso Les Corps conducteurs costituisce uno scandalo. Radicalizzando gli sviluppi già scandalosi ma ancora tendenziali della Battaglia di Farsalo, questo “romanzo” ci mette ormai di fronte a una scelta impossibile, a un’alternativa intollerabile: o leggiamo il tutto come un punto di vista elaborato, ricostruendo un protagonista immaginario al quale, con la massima ingegnosità, attribuiamo tutto (il viaggio a Manhattan, comprese le pinacoteche, sarebbe il ricordo di un viaggio precedente ecc.), oppure seguiamo il suggerimento dello stesso Simon e consideriamo queste pagine come un equivalente verbale delle grandi installazioni a collage di Rauschenberg81. La prima alternativa respinge il romanzo verso Nathalie Sarraute o peggio ancora; la seconda lo ritraduce nel già edito Orion aveugle e nelle fantasie aleatorie del libro illustrato. Ma da tale contraddizione non si dovrebbe ricavare una sorta di nuova estetica, che attribuisca al testo la nuova funzione di evitare ciascuna di queste strategie di contenimento e di portare in primo piano la contraddizione in sé: la trascrizione del sintomo non si può mai programmare a priori, deve giungere a fatto compiuto, per via indiretta, quale esito del fallimento o della deviazione misurabile di un progetto reale dotato di contenuto.

Un progetto del genere si intravede per esempio dagli sforzi linguistici da cui sono partito, e in particolare nel tentativo di rendere concreto il linguaggio, di rendere in qualche modo le frasi strumento di quella che Hegel chiama certezza sensibile. Si tratta comunque di un progetto storico, peraltro non molto antico, in quanto a mio avviso prima della metà dell’Ottocento è possibile rinvenire pochi esempi di questa nuova vocazione del linguaggio letterario a registrare il sensibile. Perché questo comincia a verificarsi nella nuova “età dell’uomo” industriale, e perché si avanzano queste pretese impossibili sul linguaggio, le cui altre funzioni in modi di produzione diversi sembrano essersi espletate abbastanza bene e aver dato soddisfazione? Nel postmoderno tale questione di interpretazione storica e sociale si è evidentemente tanto esasperata quanto modificata, come testimonia l’esempio di Claude Simon. Per il periodo del moderno avanzato, i suoi paradossi sembrano avere risposto a quello che, in ambito artistico, Adorno chiamava nominalismo, cioè il tendenziale rifiuto delle forme generali o universali (compreso il genere) e la progressiva volontà dell’estetico di identificarsi sempre più strettamente con il qui e ora di questa situazione e di questa espressione uniche. Qui, nella difesa della tesi che l’opera d’arte esprime la logica dello sviluppo, della produzione e della contraddizione sociali secondo modalità utilmente più precise di quelle disponibili altrove, ho palesemente seguito Adorno82. Adesso, però, va operata una distinzione tra la sintomaticità dell’arte elevata della modernità (in cui essa sta in radicale opposizione rispetto alla nascente industria culturale e mediatica) e quella di una cultura elitaria residuale della nostra epoca postmoderna. In quest’ultima, in parte a causa della generale democratizzazione della cultura, queste due modalità (cultura alta e cultura bassa) hanno cominciato ad aprirsi l’una all’altra. Se all’epoca di Adorno voleva dire Schönberg e Beckett, nel postmoderno il nominalismo implica una riduzione al corpo in quanto tale, circostanza che, più che rappresentare il trionfo delle ideologie del desiderio, si configura come la verità segreta della pornografia contemporanea, così fedelmente registrata da Claude Simon (come abbiamo visto) insieme a qualsiasi sintomo linguistico o estetico più nobile. Eppure, come ci ha insegnato Deleuze, anche nel postmodernismo dobbiamo distinguere tra il corpo con gli organi e il corpo senza. Paradossalmente quest’ultimo, il corpo inautentico che costituisce un’unità visiva e rafforza la nostra impressione o la nostra illusione dell’unità della personalità – il corpo senza organi –, è l’oggetto della pornografia, il contenuto di tante immagini patinate o di molte sequenze filmiche. Il corpo dotato di così tanti organi da disintegrarsi in un insieme di “macchine desideranti” ricongiunte in maniera imperfetta, quel corpo è lo spazio autentico del dolore, dolore che non si può vedere o esprimere, ma che accompagna le frasi di Simon come un referente spettrale, come un sostituto del Reale medesimo: «Molto dopo che il dottore ha ritirato le mani, persiste la sensazione della pressione, o piuttosto quella di un corpo estraneo, enorme, conficcato come un cuneo» (cc 47).

C’è comunque un altro modo per dare una conclusione a questa analisi, e riguarda le conclusioni stesse. Allorché si tenta di pensare insieme i problemi dell’elemento proiaretico (identificando un’azione e le sue “pieghe” o componenti temporali), del realismo e della conclusione, viene alla luce tutto quello che c’è di eterogeneo, transitorio e inclassificabile in Simon. Di realistico in Les Corps conducteurs c’è la costante ricerca di azioni o di eventi compiuti sempre più ampi: se questo più piccolo possa essere collegato a uno più grande e in che ordine, e infine se l’intero testo imiti una singola azione di una certa grandezza. A essere appagante è dunque la virata in discesa, il «prepararsi a concludere!», l’aereo finalmente nell’atto di atterrare. Si tratta ovviamente di una valorizzazione della conclusione che dà a Simon un marchio relativamente tradizionale e riconosce l’esistenza, nella vita dell’uomo, di esperienze o di eventi compiuti. A tale riguardo è peraltro significativo, se non addirittura sintomatico, che l’aereo atterri, ma per una sosta intermedia; il volo non era diretto; i passeggeri devono attendere a lungo in un piccolo aeroporto locale in mezzo al nulla. Tanto meno era definitiva la relazione amorosa, per non parlare del congresso degli scrittori. Da questo punto di vista Les Corps conducteurs è un’immensa storia priva di senso che ci conduce risolutamente verso il completamento di una situazione incompleta. Sembra decisiva soltanto la sequenza finale: la caduta dell’uomo sofferente nella camera d’albergo, il corpo sul pavimento, un occhio ormai privo di vista aperto sulla trama e l’ordito del tappeto. Arrivare alla stanza d’albergo in tali condizioni equivale senza dubbio a realizzare qualcosa; chiudere l’occhio che percepisce alla fine del libro – altrove Simon è affascinato dallo schermo bianco del cinematografo, il che richiama Baudelaire, con il suo sipario che si alza sul palcoscenico vuoto della morte – significa inscrivere con eleganza e autoreferenzialità la forma all’interno di questo contenuto, ma si potrebbe anche ammettere che questa morte non è null’altro che un’interruzione insensata come qualunque altra delle mete scelte a caso.

67 C. Simon, Les Corps conducteurs, Parigi, Minuit, 1971; d’ora in avanti tutti i riferimenti saranno forniti all’interno del testo con la sigla CC seguita dal numero di pagina.

68 C. Britton, Claude Simon: Writing the Visible, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, p. 37. Oltre a questo notevole studio, al libro di Heath citato più avanti e alle analisi classiche di Jean Ricardou, cfr. R. Sarkonak, Claude Simon: les carrefours du texte, Toronto, Paratexte, 1986.

69 David Bordwell, Janet Staiger e Kristin Thompson offrono un esame paradigmatico del genere in The Classical Hollywood Cinema, New York, Columbia University Press, 1985, p. 6.

70 C. Britton, op. cit., cap. 2.

71 Notoriamente Barthes è stato, insieme ad altri, responsabile di tale prospettiva; i suoi saggi più celebri sul nouveau roman sono “Letteratura oggettiva”, “Letteratura letterale”, “Non c’è una scuola Robbe-Grillet” e “Il punto su Robbe-Grillet?” (in Essais critiques, Parigi, Seuil, 1963 [Saggi critici, trad. di L. Lonzi, Torino, Einaudi, 1966]).

72 A. Robbe-Grillet, Dans le Labyrinthe, Parigi, Minuit, 1959 [Nel labirinto, trad. di F. Lucentini, Torino, Einaudi, 1962, p. 37].

73 C. Simon, La Bataille de Pharsale, Parigi, Minuit, 1969 [La battaglia di Farsalo, trad. di D. Selvatico Estense, Torino, Einaudi, 1987, p. 108]. Tutti gli altri rinvii sono indicati nel testo con la sigla BF.

74 Per Foucault, la nominazione sembrerebbe essere un’operazione sostanzialmente settecentesca, “classica”: «È il nome a organizzare il discorso classico» (citato in S. Heath, The Nouveau Roman, Filadelfia, Temple University Press, 1972, p. 106). In tal caso, il capitolo iniziale delle Fenomenologia di Hegel a cui sto per rimandare segnerebbe lo scioglimento di questa episteme; tuttavia nel contesto attuale e con il senno di poi che ci fornisce la comparsa dello stesso nouveau roman, questa crisi sembrerebbe rappresentare l’inizio, invece della fine, di qualcosa (se non altro del postmoderno).

75 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Bamberg, Goebhardt, 1807 [Fenomenologia dello spirito, a cura di V. Cicero, Milano, Bompiani, 2000, p. 185].

76 Ivi, p. 181.

77 Ivi, pp. 173-175.

78 N. Luhmann, Soziologische Aufklärung 2, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1975 [The Differentiation of Society, trad. ingl. di S. Holmes e C. Larmore, New York, Columbia University Press, 1982, pp. 230-231.

79 “Jean-Paul Sartre s’explique sur Les Mots”, in «Le Monde», 18 aprile 1964, p. 13; per ulteriori ragguagli su questo, cfr. S. Heath, op. cit., p. 31.

80 «Sensible aux reproches formulés à lencontre des écrivains qui négligent les grands problèmes”, lauteur a essayé den aborder ici quelques-uns, tels ceux de lhabitat, du travail manuel, de la nourriture, du temps, de lespace, de la nature, des loisirs, de linstruction, du discours, de linformation, de ladultère, de la destruction et de la reproduction des espèces humaines ou animales. Vaste programme que des milliers douvrages emplissant des milliers de bibliothèques sont, apparemment, encore loin davoir épuisé. Sans prétendre apporter des justes réponses, ce petit travail na dautre ambition que de contribuer, pour sa faible part e dans les limites du genre, à leffort général».

81 C. Simon, “La fiction mot à mot”, in Nouveau roman: hier, aujourdhui, a cura di J. Ricardou e F. van Rossum-Guyon, Parigi, Union générale d’editions, 1972, vol. II, Pratiques, pp. 73-97, dove viene evocata l’installazione di Rauschenberg e dove Simon propone un certo numero di rappresentazioni grafiche (che ricordano la teoria delle catastrofi di René Thom) delle forme narrative di svariati suoi romanzi.

82 Cfr. l’analisi della Teoria estetica di Adorno nel mio Tardo marxismo, cit.