2. Teorie del postmoderno

Il problema del postmodernismo – come debbano essere descritte le sue caratteristiche fondamentali; se, in primo luogo, esista; se il concetto stesso sia di qualche utilità o, al contrario, costituisca una mistificazione – è a un tempo un problema tanto estetico quanto politico. È sempre possibile dimostrare che le varie posizioni che si possono ragionevolmente assumere in merito, quali che siano i termini in cui sono espresse, articolano visioni della storia nelle quali la valutazione del momento sociale all’interno del quale viviamo oggi rappresenta l’oggetto di un’affermazione o di un rifiuto essenzialmente politici. La stessa premessa che dà avvio al dibattito dipende da una presupposizione iniziale e strategica circa il nostro sistema sociale: accordare a una cultura postmodernista una qualche originalità storica equivale implicitamente ad affermare una certa radicale differenza strutturale tra quella che viene talora denominata società dei consumi e le fasi precedenti del capitalismo dalle quali è venuta alla luce.

In ogni caso le varie possibilità logiche sono collegate necessariamente alla presa di posizione rispetto all’altra questione inscritta nella stessa designazione di postmodernismo, ossia la valutazione di cosa ormai deve essere chiamato modernismo avanzato o classico. In effetti, allorché si stila un primo inventario degli svariati artefatti culturali che si potrebbero verosimilmente classificare come postmoderni, è forte le tentazione di cercare la “somiglianza di famiglia” di questi stili e prodotti eterogenei non in essi stessi, bensì in qualche impulso comune, in una certa estetica del modernismo avanzato contro cui tutti, in un modo o nell’altro, si ergono in reazione.

Tuttavia il merito di rendere ineludibile la risonanza politica di tali questioni apparentemente estetiche, nonché di consentirne la visibilità nel dibattito delle altre arti, talvolta più codificato e dissimulato, va ascritto al dibattito architettonico, alle discussioni iniziali sul postmodernismo come stile. Nel complesso, dalla grande varietà dei recenti pronunciamenti in materia si possono estrapolare quattro posizioni generali sul postmodernismo, malgrado questo relativamente chiaro schema, o combinatoire, sia ulteriormente complicato dall’impressione che ciascuna di queste possibilità sia suscettibile di un’espressione politica tanto progressista quanto reazionaria (parlando ora da una prospettiva marxista, o più genericamente di sinistra).

Per esempio si può salutare l’avvento del postmodernismo da un punto di vista sostanzialmente antimoderno33. Qualcosa del genere sembra averlo già fatto una generazione di teorici appena precedente (in particolare Ihab Hassan), allorché affronta l’estetica postmodernista nei termini di una tematica più propriamente poststrutturalista (l’attacco di «Tel Quel» all’ideologia della rappresentazione, la «fine della metafisica occidentale» heideggeriana o derridiana), laddove ciò che spesso non si chiama ancora postmodernismo (vedi la profezia utopica alla fine di Le parole e le cose di Foucault) viene salutato come l’avvento di un modo di pensare e di stare al mondo interamente nuovi. Ma, siccome la celebrazione operata da Hassan arriva a includere anche un certo numero dei più estremi monumenti del modernismo avanzato (Joyce, Mallarmé), si tratterebbe di una posizione relativamente più ambigua, se non fosse per la connessa esaltazione di una nuova tecnologia avanzata dell’informazione, che segnala l’affinità tra tali evocazioni e la tesi politica di una società postindustriale propriamente detta.

Tutto ciò si chiarisce ampiamente in Maledetti architetti di Tom Wolfe, un libro mediocre sul recente dibattito architettonico scritto da un autore peraltro appartenente al New Journalism, che a sua volta costituisce una delle varietà del postmodernismo. Quanto si rileva di interessante e sintomatico in questo libro è comunque l’assenza di una qualunque celebrazione utopistica del postmoderno e, cosa ancor più sconcertante, l’astio veemente contro il moderno che emana dal sarcasmo per il resto forzatamente camp della retorica; e non si tratta di una passione nuova, bensì datata e arcaica. È come se l’orrore originario dei primi spettatori borghesi della nascita del moderno – le prime opere di Le Corbusier, bianche come le prime cattedrali appena edificate del XII secolo, le prime teste scandalose di Picasso, con due occhi sullo stesso profilo come una sogliola, la sbalorditiva “oscurità” delle prime edizioni dell’Ulisse o della Terra desolata –, questo disgusto dei primi filistei, Spießbürger, borghesi e conformisti, sia improvvisamente tornato in vita, infondendo ai più recenti critici del modernismo uno spirito ideologicamente molto diverso, il cui effetto, nel complesso, è quello di risvegliare nel lettore una simpatia parimenti arcaica per gli impulsi protopolitici, utopici e antiborghesi di un modernismo avanzato ormai a sua volta estinto. La diatriba di Wolfe offre pertanto un esempio da manuale del modo in cui un rifiuto teorico del moderno, ragionato e contemporaneo – buona parte della cui forza progressiva scaturisce da un nuovo senso dell’urbano e da un’esperienza ormai considerevole della distruzione delle vecchie forme di vita comunitaria e urbana in nome dell’ortodossia del modernismo avanzato –, possa essere abilmente sottoposto a una riappropriazione che lo pone al servizio di una politica culturale esplicitamente reazionaria.

Tali posizioni – antimoderne, filopostmoderne – trovano il loro omologo e il loro capovolgimento strutturale in un gruppo di controaffermazioni che hanno l’obiettivo di screditare la mediocrità e l’irresponsabilità del postmoderno in genere, mediante una riaffermazione dell’impulso autentico di una tradizione del modernismo avanzato considerata ancora viva e vegeta. Nei manifesti gemelli del numero inaugurale della sua rivista «The New Criterion», Hilton Kramer esprime tali opinioni con forza, ponendo in contrasto la responsabilità morale dei «capolavori» e dei monumenti del modernismo classico con l’irresponsabilità e la superficialità di fondo di un postmodernismo associato al frivolo e alla «scherzosità» di cui lo stile di Wolfe rappresenta un esempio compiuto ed evidente.

Paradossalmente, sul piano politico Wolfe e Kramer hanno molto in comune, un tratto che si potrebbe individuare nell’incoerenza con la quale Kramer si sforza di estirpare dall’”elevata serietà” dei classici del moderno la loro posizione fondamentalmente antiborghese e la passione protopolitica che informa il rifiuto, da parte dei grandi modernisti, dei tabù vittoriani e della vita familiare, della mercificazione e della crescente asfissia di un capitalismo desacralizzante, da Ibsen a Lawrence, da Van Gogh a Jackson Pollock. Malgrado sia tutt’altro che convincente, l’ingegnoso tentativo compiuto da Kramer – assimilare questa posizione apparentemente antiborghese propria dei grandi modernisti a una «opposizione leale» alimentata in segreto dalla borghesia stessa per mezzo di fondazioni e riconoscimenti – deve senz’altro la propria esistenza alle contraddizioni della politica culturale del modernismo propriamente detto, le cui negazioni dipendono dalla persistenza di ciò che ripudiano e al contempo alimentano, ossia un rapporto simbiotico con il capitale. E quando non lo fanno (cosa che in effetti accade assai di rado, come in Brecht), si raggiunge una certa autentica autocoscienza politica.

È tuttavia più agevole comprendere la mossa di Kramer se si chiarisce il progetto politico di «The New Criterion»: l’obiettivo del periodico è chiaramente quello di cancellare gli anni Sessanta e quanto resta della loro eredità, di consegnare l’intero periodo a quel tipo di oblio che gli anni Cinquanta furono capaci di concepire per i Trenta, o gli anni Venti per la ricca cultura politica del periodo antecedente la prima guerra mondiale. «The New Criterion» si inscrive pertanto nel tentativo, oggi in atto dovunque, di istituire una nuova controrivoluzione culturale conservatrice, il cui raggio d’azione va dall’estetica alla suprema difesa della famiglia e della religione. Risulta quindi paradossale che tale progetto, essenzialmente politico, possa esplicitamente deplorare l’onnipresenza della politica nella cultura contemporanea, una piaga largamente diffusa negli anni Sessanta, che però Kramer ritiene responsabile dell’insensatezza morale del postmodernismo della nostra epoca.

Il problema di tale operazione – ovviamente indispensabile dal punto di vista conservatore – sta nel fatto che, quale che sia la ragione, la cartamoneta della sua retorica pare non abbia potuto contare sull’oro massiccio del potere statale, com’è avvenuto per il maccartismo o durante il periodo dei Palmer Raids contro la sinistra. Almeno per il momento, il fallimento della guerra del Vietnam sembra avere reso impossibile il puro e semplice esercizio del potere repressivo34, oltre ad avere dotato gli anni Sessanta di un carattere persistente nella memoria e nell’esperienza collettive che alle tradizioni degli anni Trenta o del periodo prebellico non è stato dato di conoscere. La “rivoluzione culturale” di Kramer tende perciò assai spesso a scivolare in una debole e sentimentale nostalgia degli anni Cinquanta e dell’era di Eisenhower.

Alla luce di quanto si è mostrato rispetto a un primo insieme di posizioni sul modernismo e sul postmodernismo, non sorprenderà che, a dispetto della sua ideologia apertamente conservatrice, questa seconda valutazione della scena culturale contemporanea possa essere suscettibile di un’appropriazione da parte di una linea sicuramente molto più progressista. Siamo in debito con Jürgen Habermas35 per questo spettacolare rovesciamento e riarticolazione di quella che resta l’affermazione del supremo valore del moderno, oltre che il rifiuto della teoria e della prassi del postmodernismo. Per Habermas, tuttavia, il vizio del postmodernismo consiste principalmente nella sua funzione politicamente reazionaria, in quanto tentativo generalizzato di screditare un impulso modernista che lo stesso pensatore associa all’illuminismo borghese e al suo spirito ancora universalizzante e utopico. Insieme ad Adorno, Habermas tenta di salvare e celebrare nuovamente quello che entrambi vedono come il potere essenzialmente negativo, critico e utopico delle grandi espressioni del modernismo avanzato. D’altro canto, il tentativo di associare quest’ultimo allo spirito dell’illuminismo settecentesco segna una frattura davvero decisiva con la cupa Dialettica dellIlluminismo di Adorno e Horkheimer, nella quale l’ethos scientifico dei philosophes viene rappresentato come una sconsiderata volontà di potenza e di dominio sulla natura, così come il loro programma di dissacrazione viene visto quale prima fase dello sviluppo di una visione del mondo puramente strumentale che avrebbe portato dritto ad Auschwitz. Si può spiegare tale sconcertante divergenza con la visione della storia propria di Habermas, che tenta di mantenere la promessa del “liberalismo” e il contenuto essenzialmente utopico della prima, universalizzante ideologia borghese (uguaglianza, diritti civili, umanitarismo, libertà di espressione e di stampa) contro il fallimento di quegli ideali da realizzare nello sviluppo del capitalismo stesso.

Quanto ai termini estetici del dibattito, non sarebbe comunque sufficiente rispondere alla resurrezione del moderno operata da Habermas con qualche semplice attestato empirico della sua estinzione. Bisogna tener conto della possibilità che la situazione nazionale nella quale pensa e scrive Habermas sia piuttosto diversa dalla nostra: maccartismo e repressione sono, tanto per cominciare, realtà dell’odierna Repubblica Federale Tedesca, così come l’intimidazione intellettuale della sinistra e l’imbavagliamento della cultura di sinistra (in larga misura associata, dalla destra tedesca, al “terrorismo”) sono state nel complesso operazioni più riuscite che altrove in Occidente36. Il trionfo di un nuovo maccartismo, della cultura degli Spießbürger e dei filistei evoca la possibilità che in questa particolare situazione nazionale Habermas possa benissimo avere ragione e che le vecchie forme del modernismo avanzato possano ancora conservare qualcosa della forza sovversiva altrove perduta. In tal caso, un postmodernismo che cerchi di indebolire e minare quella forza può dunque meritare la diagnosi ideologica di Habermas a livello locale, purché il giudizio non venga generalizzato.

Entrambe le posizioni appena esposte – antimoderno/filopostmoderno e filomoderno/antipostmoderno – sono caratterizzate dall’accettazione del nuovo termine, il che equivale a un consenso sulla natura fondamentale di una certa frattura decisiva tra il momento moderno e quello postmoderno, indipendentemente dalla loro valutazione. Rimangono tuttavia due ultime possibilità logiche, entrambe dipendenti dal rifiuto di ogni concezione relativa a tale frattura storica e che pertanto, implicitamente o esplicitamente, mettono in discussione l’utilità della stessa categoria di postmodernismo. Le opere che vengono associate a quest’ultimo saranno dunque riassimilate al modernismo classico vero e proprio, cosicché il “postmoderno” diviene poco più che la forma assunta nella nostra epoca da ciò che è autenticamente moderno, nonché una mera intensificazione dialettica della vecchia spinta all’innovazione peculiare del modernismo. (In questa sede sono costretto a omettere un’altra serie di dibattiti, per lo più accademici, nei quali la stessa continuità del modernismo, com’è riaffermata qui, viene messa in discussione dall’idea più ampia della profonda continuità del romanticismo, dalla fine del Settecento in poi, di cui sia il moderno che il postmoderno vengono visti come semplici tappe organiche).

Dunque le due posizioni estreme sulla questione logicamente si rivelano una valutazione positiva e una negativa, rispettivamente, di un postmodernismo ormai assimilato alla tradizione del modernismo avanzato. Jean-François Lyotard37 propone pertanto che il suo stesso impegno vitale verso il nuovo e l’emergente, verso una produzione culturale contemporanea o postcontemporanea ormai ampiamente classificata come “postmoderna”, venga colto quale parte integrante di una riaffermazione del vecchio e autentico modernismo avanzato particolarmente in linea con lo spirito di Adorno. La svolta ingegnosa, o lo scarto, della sua proposta implica l’asserzione che qualcosa denominato postmodernismo non segua il modernismo avanzato propriamente detto, come prodotto residuale di quest’ultimo, bensì, al contrario, precisamente lo preceda e lo prepari, tanto che le espressioni postmoderniste contemporanee che ci circondano possono essere viste come la promessa del ritorno e la reinvenzione, la ricomparsa trionfale di una sorta di nuovo modernismo avanzato dotato di tutta la sua forza precedente e pervaso di nuova vita. Si tratta di un atteggiamento profetico le cui analisi fanno perno sulla spinta antirappresentazionale del modernismo e del postmodernismo. Le posizioni estetiche di Lyotard non si possono tuttavia valutare adeguatamente in termini estetici, giacché ciò che le ispira è una concezione essenzialmente sociale e politica di un nuovo sistema sociale al di là del capitalismo classico (quella vecchia conoscenza denominata “società postindustriale”). In questo senso, la prospettiva di un modernismo rigenerato è inscindibile da una certa fede profetica nelle possibilità e nella promessa di una nuova società emergente.

L’inversione negativa di tale posizione implicherà dunque chiaramente un rifiuto ideologico del modernismo di una specie che, plausibilmente, potrebbe spaziare dalla vecchia analisi delle forme moderniste condotta da Lukács come replica della reificazione della vita sociale capitalista, fino ad alcune delle odierne critiche più articolate del modernismo avanzato. Ciò che distingue questa posizione estrema dall’antimodernismo già delineato sopra sta tuttavia nel fatto che essa non parla in base alla certezza dell’affermazione di una certa nuova cultura postmodernista, ma considera invece anche quest’ultima quale mera degenerazione del già stigmatizzato impulso del modernismo avanzato propriamente detto. Ci si può imbattere con chiarezza in questa particolare posizione, forse la più cupa di tutte, la più implacabilmente negativa, nelle opere dello storico dell’architettura veneziano Manfredo Tafuri38, che nelle sue analisi esaustive pronuncia una poderosa condanna di quelli che abbiamo denominato impulsi “protopolitici” del modernismo avanzato (la sostituzione “utopica” della politica culturale in luogo della politica vera e propria, la vocazione a trasformare il mondo con la trasformazione delle sue forme, dello spazio e del linguaggio). Tafuri è tuttavia non meno severo nella sua anatomia della vocazione negativa, demistificante e “critica” delle varie espressioni del modernismo, la cui funzione egli legge come una sorta di «astuzia della Storia» hegeliana, mediante la quale le tendenze alla strumentalizzazione e alla dissacrazione proprie del capitale stesso in ultima analisi si realizzano proprio attraverso questo lavoro di demolizione condotto da pensatori e artisti del movimento moderno. Il loro “anticapitalismo” finisce pertanto per gettare le basi dell’organizzazione burocratica e del controllo “totali” del tardo capitalismo; è dunque del tutto logico che Tafuri possa concludere ipotizzando l’impossibilità di una qualsiasi trasformazione radicale della cultura prima di una radicale trasformazione degli stessi rapporti sociali.

Mi sembra che qui si riaffermi l’ambivalenza politica messa in luce nelle due posizioni precedenti, tuttavia allinterno di entrambe le posizioni di questi assai complessi pensatori. A differenza di molti dei teorici menzionati in precedenza, Tafuri e Lyotard rappresentano delle figure esplicitamente politiche, apertamente legate ai valori di una tradizione rivoluzionaria antecedente. Chiaro, per esempio, che la tormentata assunzione del supremo valore dell’innovazione estetica propria di Lyotard va intesa come metafora di un certo tipo di atteggiamento rivoluzionario, mentre l’intera costruzione concettuale di Tafuri in larga misura concorda con la tradizione marxista classica. Entrambi gli autori, inoltre, sono implicitamente, e in determinati momenti strategici più apertamente, riscrivibili nei termini del postmarxismo, il quale a lungo andare diviene indistinguibile dall’antimarxismo vero e proprio. Lyotard, per esempio, assai di frequente ha cercato di distinguere la propria estetica “rivoluzionaria” dai vecchi ideali della rivoluzione politica, che egli considera stalinisti oppure arcaici e incompatibili con le condizioni del nuovo sistema sociale postindustriale. Mentre la nozione apocalittica della rivoluzione sociale totale propugnata da Tafuri implica una concezione del “sistema totale” del capitalismo che, in un periodo di spoliticizzazione e di reazione, è fin troppo fatalmente destinata a quel genere di demoralizzazione che ha portato tanto spesso dei marxisti a una totale rinuncia al politico (vengono in mente Horkheimer e Merleau-Ponty, insieme a molti degli ex trotskisti degli anni Trenta e Quaranta, o gli ex maoisti degli anni Sessanta e Settanta).

Lo schema combinatorio sopra delineato può dunque essere rappresentato graficamente come segue; i segni più e meno designano le funzioni politicamente progressiste o reazionarie degli atteggiamenti in questione:

Con queste osservazioni si chiude il cerchio e si può quindi tornare al potenziale contenuto politico più positivo della prima posizione, e in concreto alla questione di una certa inclinazione populista del postmodernismo, che Charles Jencks (ma anche Venturi e altri) ha avuto il merito di sottolineare, questione che peraltro consentirà di affrontare in maniera un po’ più adeguata il pessimismo assoluto del marxismo di Tafuri. In primo luogo occorre tuttavia rilevare che la maggior parte delle posizioni politiche che abbiamo scoperto improntare quello che spessissimo viene condotto come un dibattito estetico hanno in realtà un carattere moralizzante e cercano di sviluppare dei giudizi definitivi sul fenomeno del postmodernismo, che questo sia stigmatizzato in quanto corrotto oppure, per contro, salutato come una forma di innovazione culturalmente ed esteticamente sana e positiva. Nondimeno, una schietta analisi storica e dialettica di tali fenomeni – in particolare quando è in questione un presente temporale e storico in cui noi stessi viviamo e lottiamo – non può permettersi il misero lusso di questi giudizi assoluti moraleggianti: la dialettica è “al di là del bene e del male” nel senso di qualche facile partito preso, donde lo spirito glaciale e inumano della sua visione storica (aspetto del sistema originale di Hegel che ebbe a turbare già i suoi contemporanei). Il fatto è che siamo dentro la cultura del postmodernismo al punto che il suo rifiuto semplicistico è impossibile, così come ogni sua esaltazione parimenti semplicistica risulta compiacente e corrotta. Si potrebbe pensare che oggi il giudizio ideologico sul postmodernismo implica necessariamente un giudizio su noi stessi, oltre che sui prodotti in questione; né un intero periodo storico, come il nostro, si può intendere in maniera adeguata attraverso dei giudizi morali globali o mediante il loro equivalente piuttosto degradato, le diagnosi psicologiche popolari. Dal punto di vista marxiano classico, i semi del futuro esistono già nel presente e da esso devono essere concettualmente svincolati attraverso l’analisi e la prassi politica (i lavoratori della Comune di Parigi, disse una volta Marx con una frase sconcertante, «non hanno ideali da realizzare»; cercavano semplicemente di liberare le forme emergenti dei nuovi rapporti sociali dai vecchi rapporti sociali capitalistici in cui avevano già iniziato a muoversi). In luogo della tentazione di denunciare le compiacenze del postmodernismo quale sintomo estremo di decadenza o di salutare le nuove forme come precorritrici di una nuova utopia tecnologica e tecnocratica, pare più opportuno valutare la nuova produzione culturale nel quadro dell’ipotesi operativa di una generale modificazione della cultura medesima con la ristrutturazione sociale del tardo capitalismo in quanto sistema39.

Per quanto riguarda la comparsa di tale modificazione, quale punto di partenza per un’analisi più generale può nondimeno servire l’asserzione di Jencks, secondo cui l’architettura postmoderna si distingue da quella del modernismo avanzato grazie alle sue priorità populiste40. Con questo si intende che, nel contesto specificamente architettonico, mentre l’ormai classico spazio modernista di un Le Corbusier o di un Wright cercava di differenziarsi radicalmente dal tessuto della città degradata nel quale faceva la propria comparsa – con delle forme pertanto dipendenti da un atto di disgiunzione radicale dal proprio contesto spaziale (i grandi pilotis mettevano in scena la separazione dal terreno e salvaguardavano il novum del nuovo spazio) –, gli edifici postmodernisti, al contrario, celebrano il proprio inserimento nel tessuto eterogeneo della zona commerciale e nel paesaggio fatto di motel e fast food della città americana postautostradale. Frattanto, un gioco di allusioni e di echi formali (lo “storicismo”) assicura il legame tra questi nuovi edifici artistici con le icone e gli spazi commerciali circostanti, rinunciando così alla diversità e all’innovazione radicali rivendicate dal modernismo avanzato.

Se tale aspetto indubbiamente significativo dell’architettura più recente sia da qualificare come populista è un interrogativo destinato a restare aperto. Sembrerebbe essenziale distinguere le forme emergenti di una nuova cultura commerciale – che comincia con la pubblicità e si estende fino al packaging formale di ogni genere, dalle merci agli edifici, senza escludere i prodotti artistici come gli spettacoli televisivi (il “logo”), i best seller e i film – dalla cultura folk e genuinamente “popolare” di vecchio stampo, fiorita quando esistevano ancora le vecchie classi sociali dei contadini e dell’artigianato urbano, cultura che dalla metà dell’Ottocento in poi è stata gradualmente colonizzata e cancellata dalla mercificazione e dal sistema di mercato.

Ciò che si può quanto meno ammettere è la presenza più universale di questo aspetto particolare, che nelle altre arti appare con maggiore chiarezza come la cancellazione della precedente distinzione tra la cultura alta e la cosiddetta cultura di massa, distinzione dalla quale dipendeva la singolarità del modernismo, posto che la sua funzione utopica consisteva almeno in parte nell’assicurare un ambito di esperienza autentica contro l’ambiente circostante di una cultura commerciale di medio e basso livello. Anzi, si potrebbe asserire che la comparsa del modernismo avanzato sia essa medesima coeva della prima grande espansione di una cultura di massa riconoscibile (è in Zola che si può identificare colui che segna l’ultima coesistenza di romanzo d’arte e best seller dentro un singolo testo).

È tale differenziazione costitutiva a sembrare oggi sul punto di dissolversi: ho già menzionato il modo in cui, nella musica, dopo Schönberg e persino dopo Cage, le due tradizioni antitetiche del “classico” e del “popolare” comincino a mescolarsi nuovamente. Nelle arti visive il rinnovamento della fotografia quale mezzo di espressione di per sé significativo, nonché come “piano della sostanza” della pop art o dell’iperrealismo, rappresenta un sintomo cruciale della medesima dinamica. In ogni caso, è assolutamente evidente che i nuovi artisti non “citano” più i materiali, i frammenti e i motivi di una cultura popolare o di massa, come iniziò a fare Flaubert; essi in qualche modo li incorporano al punto che molte delle nostre vecchie categorie critiche e valutative (fondate esattamente sulla radicale differenziazione del modernismo rispetto alla cultura di massa) non paiono più funzionali.

Se nondimeno le cose stanno così, allora sembra per lo meno possibile che ciò che indossa la maschera e compie i gesti del “populismo” nelle apologie e nei manifesti vari del postmodernismo sia in realtà un mero riflesso, il sintomo di una mutazione culturale (decisiva, occorre ammetterlo) in base alla quale ciò che veniva stigmatizzato come cultura commerciale o di massa viene ormai ammesso dentro i confini di un nuovo regno della cultura di maggiori dimensioni. Sarebbe comunque lecito aspettarsi che un termine tratto dalla tipologia delle ideologie politiche venga sottoposto a essenziali riadattamenti semantici, di fronte alla scomparsa del suo referente iniziale (quella coalizione di classe tipo Fronte Popolare formata da operai, contadini e piccolo borghesi denominata in genere “popolo”).

Forse, però, dopo tutto non si tratta di una storia così nuova: ci si rammenta, anzi, del piacere che Freud ebbe nella scoperta di un’oscura cultura tribale la quale, unica tra le innumerevoli tradizioni dell’analisi onirica, è riuscita a scoprire l’idea che tutti i sogni abbiano significati sessuali reconditi, con l’eccezione di quelli a sfondo sessuale, che significano altro! Qualcosa di analogo sembrerebbe verificarsi nel dibattito sul postmodernismo, e nella società burocratica e spoliticizzata alla quale esso corrisponde, dove tutte le posizioni apparentemente culturali si rivelano come forme simboliche di moralizzazione politica, fatta eccezione per la singola nota apertamente politica, che lascia intendere uno slittamento dalla politica di nuovo alla cultura.

In questo caso la solita obiezione – cioè che la classe include sé stessa e che la tassonomia non riesce a comprendere alcun luogo (abbastanza privilegiato) dal quale osservare sé stessa o condurre la propria teorizzazione – deve essere incorporata nella teoria come una specie di scarsa riflessività che si morde la coda senza mai quadrare il cerchio. La teoria del postmodernismo assomiglia anzi a un incessante processo di rotazione interna nel quale la posizione dell’osservatore si capovolge e la classificazione viene ripresa su scala più ampia. Il postmoderno ci esorta così a farci malinconicamente beffe della storicità in genere, per cui lo sforzo di autocoscienza con il quale la nostra situazione in qualche modo completa l’atto della comprensione storica si ripete monotonamente come nel peggiore dei sogni e giustappone, al proprio relativo rifiuto filosofico del concetto stesso di autocoscienza, un carnevale grottesco delle varie repliche di quest’ultima. A rammentarci tale interminabilità sta la forma dell’inevitabilità dei segni più e meno che affiorano dal loro spazio circoscritto per assillare l’osservatore esterno e insistere incessantemente su un giudizio morale escluso a priori dalla stessa teoria. L’atto provvisorio di prestidigitazione, mediante il quale anche questo giudizio morale va ad aggiungersi alla lista degli aspetti pertinenti per mezzo di una teoria capace per un istante di uscire da sé stessa e includere i propri confini esterni, difficilmente dura quanto occorre alla “teoria” per riformarsi e diventare serenamente un esempio di ciò a cui si presume assomigli la chiusura che propone e pronostica. Così la teoria del postmodernismo si eleva infine al livello del sistema stesso e della sua più intima propaganda, che celebrano la libertà innata di un’autoriproduzione sempre più assoluta.

Tali circostanze, che prevengono a priori qualsiasi teoria del postmoderno a prova di bomba, tale da essere raccomandata senza riserve quale arma o come cartina di tornasole, esigono qualche riflessione su un giusto uso approssimativo che non riconduca all’autoindulgenza di questo o quell’infinito regresso. In questo preciso nuovo regno incantato, tuttavia, il falso problema potrebbe essersi trasformato nell’unico spazio della verità, al punto che la riflessione sull’arduo problema del carattere di un’arte politica in condizioni che la escludono per definizione potrebbe non essere il modo peggiore per segnare il passo. Immagino infatti (e le pagine che seguono potranno più o meno confermarlo) che l’”arte politica postmoderna” possa rivelarsi proprio questo, cioè non arte nel senso precedente, bensì un’interminabile congettura sul modo in cui, innanzi tutto, potrebbe essere possibile.

Quanto ai dualismi della coppia moderno/postmoderno, notevolmente più intollerabili della maggior parte dei dualismi comuni, e pertanto forse immunizzati a priori contro i cattivi usi di cui tali dualismi sono senz’altro tanto il segno quanto lo strumento, è possibile che l’aggiunta di un terzo termine – assente da questo lavoro, ma chiamato in causa altrove, in un altro testo collegato41 – possa servire a convertire questo disegno reversibile per la registrazione della differenza in uno schema storico più produttivo e maneggevole. Questo terzo termine – in mancanza d’altro chiamiamolo per il momento “realismo” – riconosce l’emergere del referente laico dalla purificazione effettuata dall’illuminismo a danno dei codici sacri, e al contempo accusa un certo primo consolidarsi del sistema economico, prima che sia al linguaggio che al mercato avvenga di conoscere declinazioni di secondo grado nel moderno e nell’imperialismo. Tale nuovo terzo termine, dunque, anteriore agli altri due, li tiene insieme con qualunque quarto termine si ipotizzi per i vari precapitalismi e fornisce un paradigma di sviluppo maggiormente astratto, il quale sembra ricapitolare la propria cronologia fuori da ogni ordine cronologico, come per esempio nel cinema, nella musica rock o nella letteratura nera. Ciò che salva il nuovo schema dalle aporie dei dualismi enumerati prima offre anche, perciò, una sorta di allenamento intellettuale a tralasciare le date, una specie di ascesi della diacronia in cui impariamo a rimandare la gratificazione finale della cronologia quale modalità di comprensione, gratificazione che in ogni caso implicherebbe l’uscita dal sistema stesso, il quale tuttavia vede nei due o tre termini ricordati i propri elementi interni, infinitamente sostituibili.

Finché non saremo in grado di fare questo – e dinanzi a una certa giustificata riluttanza a mettere in campo un terzo termine (esso stesso internamente contraddittorio quanto gli altri due messi insieme) –, l’unica cosa possibile è proporre la seguente raccomandazione, semplice e salutare: che il dualismo sia adoperato in un certo senso contro sé stesso, come una zona laterale del campo visivo che richiede di fissare un oggetto verso il quale non si prova interesse. In tal modo, rigorosamente condotta, un’indagine su questo o quell’aspetto del postmoderno si concluderà dicendo poco di utile sul postmodernismo medesimo, ma molto, contro la sua volontà e pressoché senza intenzione, riguardo al moderno propriamente detto. E forse si rivelerà vero anche il contrario, anche se i due termini non sono mai stati pensati come opposti simmetrici. Un’ancor più rapida alternanza tra di essi può quanto meno contribuire a far sì che l’atteggiamento celebrativo o il gesto moralizzante e l’invettiva vecchio stile non si fossilizzino.

33 L’analisi che segue non mi sembra applicabile al lavoro del gruppo di «boundary 2», il quale si è inizialmente appropriato del termine postmodernismo nel senso piuttosto diverso di una critica del pensiero “modernista” dell’establishment.

34 Queste parole sono state scritte nella primavera del 1982.

35 Si veda il suo Moderno contro post-moderno, in «Lettera internazionale», III, 1986, n. 8, pp. 45-49.

36 La specifica politica associata ai Verdi sembrerebbe costituire una reazione a tale situazione, invece che un’eccezione.

37 Cfr. J.-F. Lyotard, “Réponse à la question: qu’est-ce que le postmoderne?”, in Le Postmoderne expliqué aux enfants, Parigi, Galilée, 1986 [“Risposta alla domanda: che cos’è il postmoderno?”, in Il postmoderno spiegato ai bambini, trad. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1987]; in La condizione postmoderna Lyotard si concentra principalmente sulla scienza e sull’epistemologia piuttosto che sulla cultura.

38 Di M. Tafuri si vedano, in particolare, Progetto e utopia (Roma-Bari, Laterza, 1973) e, con Francesco Dal Co, Architettura contemporanea (Milano, Electa, 1976), nonché il mio “Architecture and the Critique of Ideology”, in The Ideologies of Theory, cit., vol. II.

39 Cfr. capitolo 1; un frammento di questa versione definitiva costituisce il mio contributo al volume collettivo The Anti-Aesthetic.

40 Si veda, per esempio, C. Jencks, Late-Modern Architecture and Other Essays (New York, Rizzoli, 1980); qui l’autore modifica comunque il proprio uso del termine: da una dominante culturale o uno stile di un periodo esso passa a designare il nome di uno dei tanti movimenti estetici.

41 Cfr. F. Jameson, “L’esistenza dell’Italia”, in Firme del visibile, cit.