9. Nostalgia per il presente
C’è un romanzo di Philip K. Dick, pubblicato nel 1959, che rievoca gli anni Cinquanta: l’infarto del presidente Eisenhower; la Main Street; Marilyn Monroe; un mondo fatto di vicini e di appartenenti all’Associazione Genitori-Insegnanti; le piccole catene di negozi al dettaglio (con i prodotti portati da fuori con i camion); i programmi televisivi preferiti; il blando corteggiamento della casalinga della porta accanto; i giochi a premi televisivi; gli sputnik in orbita in alto nel cielo, semplici luci intermittenti nel firmamento, difficili da distinguere dagli aerei di linea o dai dischi volanti. Se foste interessati a costruire una capsula temporale o un compendio del genere “era soltanto ieri” oppure ancora un documentario nostalgico sugli anni Cinquanta, il libro di Dick potrebbe servire come inizio. Vi si potrebbero aggiungere i capelli corti, il primo rock and roll, le gonne lunghe e così via. La lista non elenca fatti o realtà storiche (benché gli elementi che la compongono non siano inventati e siano in un certo senso “autentici”), ma piuttosto degli stereotipi, idee di fatti e realtà storiche. E suggerisce parecchi interrogativi fondamentali.
In primo luogo, quel “periodo” vedeva sé stesso in questo modo? La preoccupazione essenziale della letteratura dell’epoca era questo tipo di vita, tipica della provincia americana; e in caso negativo, perché? Quali altre preoccupazioni parevano più importanti? A dire il vero, in retrospettiva gli anni Cinquanta sono stati riassunti sul piano culturale come tante forme di protesta contro gli “stessi” anni Cinquanta; contro l’era di Eisenhower e il suo autocompiacimento, contro il chiuso contentarsi della piccola città americana (bianca e borghese), contro l’etnocentrismo conformista incentrato sulla famiglia di un paese prospero, gli Stati Uniti, che imparava a consumare nel primo grande boom dopo la penuria e le privazioni della guerra, la cui durezza era ormai lontana. I primi poeti beat; l’”antieroe” per caso con connotazioni “esistenzialiste”; alcuni audaci stimoli di Hollywood, il rock and roll nascente; l’importazione per compensazione di libri, movimenti e film europei; un ribelle politico, o un teorico, come C. Wright Mills, solitario e prematuro: sembra essere questo, in retrospettiva, il bilancio della cultura degli anni Cinquanta. Tutto il resto è Peyton Place, bestseller e serie televisive. E sono in primo luogo proprio queste ultime – commedie da salotto, case unifamiliari minacciate da un lato dalla Twilight Zone (Ai confini della realtà), dai gangster e dagli evasi dal mondo di fuori, dall’altro – a fornirci il contenuto della nostra immagine positiva degli anni Cinquanta. Se, in altre parole, esiste un “realismo” in quel decennio, va probabilmente rintracciato qui, nella rappresentazione della cultura di massa, l’unico genere di arte disposta (e capace di farlo) ad affrontare la realtà soffocante dell’epoca di Eisenhower, della famiglia felice che vive nella cittadina di provincia, della normalità e del conformismo della vita quotidiana. A quanto pare l’arte elevata non è in grado di trattare questo tipo di argomento se non per contrasto: la satira di Lewis, il pathos e la solitudine di Hopper o di Sherwood Anderson. A distanza di tempo, del naturalismo i tedeschi dicevano che «puzzava di cavolo», cioè che trasudava lo squallore e il tedio del proprio argomento, la povertà. Anche in questo caso il contenuto sembra contaminare la forma, solo che qui lo squallore è quello della felicità, o quanto meno dell’appagamento (che in realtà è autocompiacimento), ossia della «falsa» felicità di Marcuse: le gratificazioni di un’auto nuova, della cena davanti alla TV e del programma preferito sul divano. Tutto questo rappresenta ormai a sua volta uno squallore, un’infelicità che non sa il proprio nome, che non ha modo di distinguersi dalla soddisfazione e dall’appagamento autentici, perché presumibilmente non vi si è mai imbattuta.
Tuttavia, quando a metà degli anni Ottanta è stata contestata la nozione di opposizione, abbiamo conosciuto un revival degli anni Cinquanta che ha riportato in auge, per una possibile rivalutazione, molta di questa “cultura di massa degradata”. Per quanto concerne gli anni Cinquanta, però, è ancora la cultura elevata quella autorizzata a emettere un giudizio sulla realtà, a dire che cos’è la vita vera e che cos’è, dall’altro lato, la mera apparenza; e l’arte elevata formula evidentemente i propri giudizi trascurando, ignorando, passando sotto silenzio, con il disgusto che si potrebbe provare per gli stereotipi noiosi delle serie televisive. Faulkner e Hemingway, sudisti e newyorkesi passano accanto a questa materia prima della provincia americana facendo una deviazione considerevolmente più lunga del proverbiale bastone con il quale non toccheremmo qualcosa o qualcuno che ci fa ribrezzo. Anzi, tra i grandi scrittori dell’epoca, viene alla mente soltanto lo stesso Dick come potenziale poeta laureato di questo materiale, fatto di coppie litigiose e drammi coniugali, di negozianti piccolo borghesi, di vicini, di pomeriggi davanti al televisore e così via. Ma naturalmente Dick trasforma tutto ciò, e comunque si trattava già della California.
Nel periodo postbellico questo contenuto proprio della provincia non era più veramente “provinciale” (come in Lewis o in John O’Hara, per non parlare di Dreiser): si voleva partire, si poteva ancora desiderare la grande città, ma era accaduto qualcosa – forse qualcosa di semplice come la televisione e gli altri media – che aveva cancellato la pena, il tormento di essere assenti dal centro, dalla metropoli. D’altro canto oggi non esiste più nulla di tutto questo, anche se ci sono le cittadine di provincia (il cui centro è ormai in rovina, ma lo stesso vale per le grandi città). È successo che è svanita l’autonomia della cittadina (nel periodo provinciale fonte di claustrofobia e di angoscia; negli anni Cinquanta terreno di un certo benessere e persino di una certa rassicurazione). Quello che un tempo era un punto distinto sulla mappa è diventato un addensamento impercettibile in un continuum di prodotti identici e di spazi standardizzati che va da una costa all’altra. Eppure si ha l’impressione che l’autonomia della piccola città, la sua compiaciuta indipendenza fungessero anche da espressione allegorica della situazione dell’America di Eisenhower rispetto a tutto il mondo esterno: soddisfatta di sé, sicura della propria radicale diversità a confronto con altre popolazioni e culture, isolata dalle loro vicissitudini e dai difetti della natura umana messi in scena con tanta evidenza nelle loro storie violente ed estranee.
Chiaramente ciò significa passare dalle realtà degli anni Cinquanta alla rappresentazione di una cosa piuttosto diversa, “gli anni Cinquanta”, passaggio che ci obbliga per di più a sottolineare le fonti culturali di tutti gli attributi ascritti a quel periodo, molti dei quali sembrano derivare precisamente dai programmi televisivi. Si tratta, in altri termini, della rappresentazione che l’epoca fa di sé stessa. Tuttavia, benché non si debba confondere una persona con quello che pensa di sé, queste autorappresentazioni sono sicuramente molto rilevanti e costituiscono una parte essenziale della descrizione, o della definizione, più oggettiva. È nondimeno possibile che le realtà più profonde di quell’epoca – lette per esempio sulla scala molto diversa della diacronia, i ritmi economici secolari, o della sincronia, le interrelazioni del sistema globale – abbiano poco a che vedere con i nostri stereotipi culturali degli anni che abbiamo etichettato così e definito in termini di decenni generazionali. Il concetto di “classicismo”, per esempio, riveste un preciso significato funzionale nella storia culturale e letteraria tedesca, il quale viene meno se ci spostiamo verso una prospettiva europea, in cui quei pochi anni chiave svaniscono senza lasciare traccia nel più ampio contrasto tra illuminismo e romanticismo. Questa è però una speculazione che presuppone la possibilità che al limite l’idea che le persone hanno di sé e del proprio momento storico possa in ultima analisi non avere nessun legame con la realtà, che si possa distinguere in maniera assoluta l’importanza esistenziale, come una sorta di suprema “falsa coscienza”, da quella strutturale e sociale di un fenomeno collettivo. Certamente si tratta di una possibilità che la circostanza dell’imperialismo globale rende maggiormente plausibile, perché grazie a esso il significato che chiunque altro sul pianeta attribuisce a un determinato Stato nazionale potrebbe non corrispondere affatto alle vicende e alla vita quotidiana dei suoi abitanti. Per noi Eisenhower sfoggiava un celebre sorriso, ma per gli stranieri al di là dei nostri confini un cipiglio altrettanto celebre, come attestavano platealmente i ritratti ufficiali appesi in quegli anni in ogni consolato statunitense.
Esiste però una possibilità ancor più radicale, cioè che le nozioni di periodo alla fine non corrispondano ad alcuna realtà e che – formulate secondo criteri di logica generazionale, per nomi di monarchi regnanti, o secondo qualche altra categoria, un certo sistema tipologico e classificatorio – le realtà collettive delle innumerevoli vite abbracciate da questi termini siano inconcepibili (ovvero non totalizzabili, per usare un’espressione attuale), né si possano mai descrivere, caratterizzare, etichettare o concettualizzare. Suppongo che si possa denominare come nietzscheana questa posizione, per la quale non esistono i “periodi”, né sono mai esistiti. Naturalmente in tal caso non esiste nemmeno una cosa come la “storia”, il che probabilmente rappresenta la tesi filosofica di fondo che queste argomentazioni cercavano soprattutto di avanzare.
È comunque il momento di tornare al romanzo di Dick e di registrare la svolta che lo trasforma in fantascienza: dal progressivo accumularsi di dettagli minuscoli eppure anomali, trapela infatti che l’ambiente del romanzo, nel quale osserviamo i personaggi muoversi e agire, dopo tutto non è quello degli anni Cinquanta (non so se Dick faccia mai ricorso a questa parola precisa). È un villaggio Potëmkin di genere storico: una riproduzione degli anni Cinquanta – che comprende strutture caratteriali e ricordi indotti nella popolazione umana – edificato (per motivi su cui in questa sede non è necessario indugiare) nel 1997, nel mezzo di una guerra civile atomica interstellare. Noterò soltanto che attraverso il personaggio principale si gioca una duplice determinazione, pertanto esso deve essere letto secondo un’ermeneutica contemporaneamente negativa e positiva. Il villaggio è stato costruito allo scopo di persuaderlo con l’inganno, contro la sua volontà, a svolgere un compito bellico essenziale per il governo. In questo senso egli è vittima di tale manipolazione, che ridesta tutte le nostre fantasie sul controllo della mente e lo sfruttamento inconscio, la predestinazione anticartesiana e il determinismo. In base a questa lettura il romanzo di Dick si configura dunque come un incubo, quale espressione delle paure collettive profonde, inconsce, riguardo alla nostra vita sociale e al suo andamento.
Eppure Dick si affanna a chiarire che il villaggio degli anni Cinquanta è anche in concreto l’esito di una regressione infantile da parte del protagonista, il quale in un certo senso ha scelto inconsciamente la propria illusione ed è sfuggito alle angosce della guerra civile per le comodità domestiche e rassicuranti della propria infanzia, che si è svolta nel periodo in questione. In quest’ottica il romanzo rappresenta quindi l’appagamento di un desiderio collettivo, l’espressione di un’aspirazione inconscia a un sistema sociale più semplice e umano, un’utopia da cittadina perfettamente in linea con la tradizione nordamericana della frontiera.
Occorre inoltre rilevare che la stessa struttura del romanzo esprime la posizione dell’America di Eisenhower nel mondo, pertanto va letta come una forma distorta di cartografia cognitiva, come proiezione inconscia e figurata di una versione più “realistica” della nostra situazione com’è stata descritta prima: la realtà della cittadina degli Stati Uniti accerchiata dalla minaccia implacabile del comunismo mondiale (e, in misura molto minore in questo periodo, dalla povertà del Terzo Mondo). Ovviamente questa è anche l’epoca dei classici della fantascienza cinematografica, contrassegnati da rappresentazioni più manifestamente ideologiche di minacce esterne e di imminenti invasioni aliene (ambientate in genere in qualche cittadina). Il romanzo di Dick si può interpretare così – la “realtà” più sinistra che si rivela dietro un’apparenza affabile e ingannevole – oppure lo si può assumere come un determinato approccio all’autocoscienza delle stesse rappresentazioni.
Dalla prospettiva attuale, però, ad avere maggiore rilievo è il valore paradigmatico di questo romanzo in relazione alle questioni della storia e della storicità in generale. Uno dei modi di pensare il sottogenere a cui esso appartiene – quella “categoria” denominata fantascienza, che si può estendere e nobilitare aggiungendovi tutta la letteratura classica, satirica e utopica, a partire da Luciano, oppure si può circoscrivere e degradare al livello della tradizione dei romanzacci d’avventura – vi legge una forma storicamente nuova e originale che presenta delle analogie con la nascita del romanzo storico nel primo Ottocento. Lukács ha interpretato quest’ultimo come un’innovazione formale (operata da Walter Scott) che ha fornito una raffigurazione al nuovo e parimenti nascente senso della storia dei ceti medi trionfanti (ossia della borghesia), in quanto quella classe cercava di proiettare la propria visione del passato e del futuro, di articolare il proprio progetto sociale e collettivo in una narrazione temporale formalmente distinta da quelle dei precedenti “soggetti della storia”, come la nobiltà feudale. In quella forma il romanzo storico – e le relative emanazioni, come il film in costume – è caduto in discredito ed è diventato una rarità, non soltanto perché, in epoca postmoderna, non ci raccontiamo più la nostra storia in quella maniera, ma anche perché non la sperimentiamo più così, anzi forse non la sperimentiamo affatto.
Più che sull’esperienza esistenziale della storia dei popoli di un certo momento storico, vorrei brevemente mettere l’accento sulle condizioni di possibilità di una forma del genere – della sua comparsa e della sua eclissi – nella struttura stessa del loro sistema socioeconomico, nella sua relativa opacità o trasparenza e nell’accesso fornito dai suoi meccanismi a un maggiore contatto, tanto cognitivo quanto esistenziale, con la cosa stessa. Tale è il contesto entro il quale è interessante sondare l’ipotesi che la fantascienza come genere intrattenga una relazione dialettica e strutturale con il romanzo storico, relazione che è a un tempo di affinità e di rovesciamento, di opposizione e di omologia (come si è detto spesso di commedia e tragedia, lirica ed epica, satira e utopia, secondo l’analisi di Robert C. Elliott). Ma il tempo medesimo esercita un ruolo essenziale in questa opposizione tra generi, che rappresenta peraltro una sorta di compensazione evolutiva. Se infatti il romanzo storico “corrispondeva” alla nascita della storicità, di un senso della storia nella forte accezione moderna, post-settecentesca, allo stesso modo la fantascienza corrisponde al dissolvimento, allo stallo di quella storicità e, soprattutto nel nostro tempo (cioè nell’era postmoderna), alla sua crisi, alla sua paralisi, al suo indebolimento e alla sua repressione. Soltanto mediante una violenta dislocazione formale e narrativa potrebbe venire alla luce un apparato narrativo in grado di ridare vita e sensibilità a quell’organo funzionante soltanto a intermittenza che è la nostra capacità di organizzare e vivere storicamente il tempo. Né si deve affrettatamente pensare che le due forme siano simmetriche, per il fatto che il romanzo storico mette in scena il passato e la fantascienza il futuro.
In effetti la storicità non è né una rappresentazione del passato, né una rappresentazione del futuro (malgrado le sue varie forme ricorrano a tali rappresentazioni). Essa si può anzitutto definire come la percezione del presente in quanto storia, vale a dire come un rapporto con il presente che in una certa misura lo strania e ci consente quella distanza dall’immediatezza che alla fine si caratterizza come una prospettiva storica. In altri termini, è giusto insistere sulla componente storica dell’operazione, che costituisce il nostro modo di concepire la storicità in questa particolare società e in questo preciso modo di produzione; ed è altrettanto giusto osservare che a essere in gioco è sostanzialmente un processo di reificazione, grazie al quale arretriamo di fronte all’immersione nell’hic et nunc (non ancora identificato come “presente”) e lo intendiamo come un certo tipo di cosa: non solo un “presente”, ma un presente che si può datare e chiamare anni Ottanta o anni Cinquanta. Il presupposto è stato che oggi tutto ciò è più difficile da realizzare che all’epoca di Walter Scott, quando la contemplazione del passato sembrava capace di rinnovare la lettura del presente quale seguito, se non proprio come culmine, di quella serie genetica.
Rispetto all’apparato di Walter Scott, Tempo fuor di sesto presenta però una macchina per produrre la storicità molto diversa: è quello che in un’accezione forte si potrebbe chiamare tropo del futuro anteriore, lo straniamento e il rinnovamento come storia della nostra lettura del presente, gli anni Cinquanta, mediante l’interpretazione di quel presente come passato di uno specifico futuro. Il futuro stesso – il 1997 di Dick – non è tuttavia sostanzialmente importante in quanto rappresentazione o anticipazione: è il mezzo narrativo di un fine diverso, ossia la trasformazione violenta in ricordo e in ricostruzione di una rappresentazione realistica del presente, dell’America di Eisenhower e della cittadina degli anni Cinquanta. La reificazione è qui incorporata nel romanzo, è per così dire disinnescata e recuperata come una forma della prassi: gli anni Cinquanta sono una cosa, ma una cosa che possiamo costruire, così come lo scrittore di fantascienza costruisce il proprio modello in scala ridotta. A quel punto la reificazione cessa così di essere un processo deleterio e alienante, un dannoso effetto collaterale del nostro modo di produzione, se non addirittura la sua dinamica fondamentale, e si sposta invece dalla parte delle energie e delle possibilità umane. (Ovviamente la riappropriazione ha molto a che vedere con la specificità delle tematiche e dell’ideologia di Dick, in particolare con la nostalgia del passato e la valorizzazione “piccolo borghese” del piccolo artigianato, come della piccola impresa e del collezionismo).
Per noi questo romanzo è diventato necessariamente storico: infatti il suo presente – gli anni Cinquanta – si è trasformato nel nostro passato in un senso alquanto diverso da quello proposto dal testo medesimo. Quest’ultimo “funziona” ancora: si può ancora percepire e riconoscere la trasformazione e la reificazione del presente dei suoi lettori in periodo storico; per analogia, se ne può addirittura estrapolare qualcosa di analogo che valga per il nostro momento. Ma se oggi tale processo si possa realizzare completamente, in un prodotto culturale, costituisce una questione piuttosto diversa. L’accumulazione di libri come Lo choc del futuro, l’assimilazione dei vezzi della “futurologia” nella nostra vita quotidiana, il modificarsi della nostra percezione delle cose fino a includere la loro “tendenza”, e della nostra lettura del tempo per avvicinarsi a un’esplorazione di probabilità complesse: tutto questo nuovo rapporto con il nostro presente comprende elementi già incorporati nell’esperienza del “futuro” e al contempo ostacola o previene qualunque visione globale di quest’ultimo come sistema totalmente trasformato e distinto. Se le visioni catastrofiche del “prossimo futuro”, che prevedono per esempio sovrappopolazione, carestia e violenza anarchica, non fanno più effetto come alcuni anni fa, l’indebolimento di questi effetti e delle forme narrative concepite per generarli non si deve necessariamente soltanto alla loro sovraesposizione, all’eccessiva familiarità che abbiamo acquisito con essi. Quest’ultima, al contrario, va forse vista come un mutamento nel nostro rapporto con quell’immaginario futuro prossimo, che non ci fa più impressione per l’orrore dell’alterità e della diversità assoluta. Qui agisce un certo nietzscheanesimo per allentare l’inquietudine e persino la paura: la convinzione, per quanto appresa e acquisita con gradualità, che esiste soltanto il presente, sempre il “nostro”, è una specie di saggezza a doppio taglio. È sempre stato chiaro, infatti, che il terrore di questo prossimo futuro – come il terrore analogo del vecchio naturalismo – ha un fondamento di classe ed è fortemente radicato nei privilegi e negli agi di una determinata classe. Il naturalismo consente per un attimo di sperimentare la vita e l’universo delle varie classi subalterne, per poi tornare con sollievo ai nostri salotti e alle nostre poltrone: quindi le buone risoluzioni che potrebbe avere stimolato hanno sempre rappresentato una forma di filantropia. Allo stesso modo, il terrore di ieri verso le conurbazioni sovraffollate dell’immediato futuro si può leggere agevolmente come un pretesto per l’autocompiacimento del nostro presente storico, nel quale non dobbiamo ancora vivere a quel modo. In entrambi i casi, comunque, la paura è quella della proletarizzazione, di una discesa lungo la scala sociale, della perdita di un benessere e di un insieme di privilegi che sempre più si tende a pensare in termini di spazio: privacy, stanze vuote, silenzio, esclusione degli altri grazie alle mura, protezione contro la massa e i corpi altrui. La saggezza nietzscheana ci dice dunque di lasciar perdere quel tipo di paura e ci ricorda che, indipendentemente dalla forma sociale e spaziale che assumerà, la nostra sofferenza futura non sarà aliena, giacché per definizione sarà nostra. Dasein ist je mein eigenes: lo straniamento, il trauma dell’alterità sono soltanto un puro effetto estetico, una menzogna.
Forse, però, è sottinteso semplicemente un definitivo esaurimento storicistico in virtù del quale non possiamo più immaginare il futuro, sotto qualsiasi forma, utopica o catastrofica. Di fronte a tali circostanze, nelle quali una fantascienza un tempo futurologica (come il cosiddetto cyberpunk di oggi) si fa puro “realismo”, schietta rappresentazione del presente, lentamente si esclude la possibilità offertaci da Dick, cioè un’esperienza del presente come passato e come futuro. Eppure tutto nella nostra cultura lascia intendere che, malgrado tutto ciò, non abbiamo smesso di preoccuparci della storia; anzi, nel momento stesso in cui lamentiamo, come qui, l’eclissi della storicità, diagnostichiamo anche universalmente la cultura contemporanea come irrimediabilmente storicista, nel senso negativo di un desiderio onnipresente e indiscriminato di mode e di stili morti, o meglio ancora di tutti gli stili e le mode di un passato morto. Frattanto è divenuta universale una certa caricatura del pensiero storico – che non si può più neppure chiamare generazionale, tanto è divenuto rapido il suo slancio –, la quale comprende per lo meno la volontà di tornare sulle condizioni attuali per pensarle – come gli anni Novanta, per dire – e trarre le opportune conclusioni di marketing e di previsione. Perché questa non è per nulla storicità? E che differenza c’è tra questo approccio ormai generalizzato al presente e quello di Dick a un’”idea” dei suoi anni Cinquanta, più sperimentale, rudimentale e impacciato?
A mio avviso, è la struttura delle due operazioni a essere istruttivamente diversa: una chiama in causa una visione del futuro allo scopo di determinarne il ritorno a un presente ormai storico; l’altra mette in campo, sia pure secondo una nuova maniera allegorica, una visione del passato, o di un certo momento del passato. Parecchi film recenti (qui citerò soltanto Qualcosa di travolgente e Velluto blu) inducono a considerare il nuovo processo secondo i criteri di un incontro allegorico; eppure nemmeno questa possibilità formale può essere intesa adeguatamente se non se ne inquadrano le precondizioni nello sviluppo del cinema della nostalgia in genere. È infatti attraverso il cosiddetto cinema della nostalgia che si rende possibile un trattamento propriamente allegorico del passato: la possibilità di forme, di enunciati “postnostalgici” di tipo nuovo e più complesso, è assicurata dal fatto che l’apparato formale di tali pellicole ci ha preparato a consumare il passato sotto forma di immagini patinate. Ho cercato in un’altra sede di identificare la materia prima privilegiata, ossia il contenuto storico, di questa particolare operazione di reificazione e di trasformazione in immagine nella cruciale antitesi tra anni Venti e anni Trenta, oltre che nel revival storicistico della stessa espressione stilistica di quell’antitesi nell’art déco. L’elaborazione simbolica di quella tensione – tra Aristocrazia e Lavoratori, per così dire – implica evidentemente una sorta di reinvenzione, di produzione simbolica di una nuova Borghesia, una nuova forma di identità. Ma, come l’iperrealismo fotografico, nella loro eleganza visiva i prodotti stessi sono neutri, mentre le strutture dell’intreccio di questi film soffrono di una schematizzazione (o una tipizzazione) che appare inerente al progetto. Per quanto se ne possa prevedere un aumento in futuro, dunque, e laddove la predilezione verso di essi corrisponde ad aspetti e bisogni più durevoli nella nostra attuale conformazione economico-psichica (fissazione dell’immagine combinata alla brama storicista), forse c’era da aspettarsi soltanto che si sviluppasse rapidamente un nuovo capitolo formale, più complicato e interessante.
Maggiormente inattesa – ma invero assai “dialettica”, in maniera quasi da manuale – è stata la nascita di questa nuova forma dall’incrocio, se non proprio dalla sintesi, tra le due modalità filmiche che finora sono state immaginate antitetiche, cioè la somma eleganza del cinema della nostalgia da un lato e le simulazioni di serie B degli iconoclastici film punk dall’altro. Non si è visto che entrambi erano fortemente impregnati di musica, perché nei due casi i significanti musicali erano piuttosto diversi: da una parte c’erano le sequenze di dance music d’alta classe e dall’altra l’attuale proliferazione di gruppi rock. Nel frattempo, qualunque manuale “dialettico” del tipo cui ho fatto riferimento avrebbe potuto avvertirci della probabilità che un ideologema dell’”eleganza” dipende in una certa misura da un suo contrario, da una negazione che nel nostro tempo sembra essersi spogliata del proprio contenuto di classe (ancora debolmente vivo quando si pensava che i beat intrattenessero un rapporto di opposizione speculare con la rispettabilità della borghesia e la sensibilità estetica del moderno avanzato) ed essersi gradualmente trasferita in quel nuovo complesso di significati che reca il nome di punk.
Perciò i nuovi film saranno innanzi tutto delle allegorie di tutto questo, del loro manifestarsi come sintesi di nostalgia-déco e punk; in un modo o nell’altro racconteranno le loro storie come la necessità e la ricerca di questo “connubio” (essendo il dato meraviglioso dell’estetica – a differenza della politica, ahimè – che la “ricerca” diventa automaticamente la cosa stessa; per definizione, avviarla significa realizzarla). Eppure questa risoluzione di una contraddizione estetica non è gratuita, poiché la stessa contraddizione formale ha di per sé una rilevanza socialmente e storicamente simbolica.
Adesso occorre tuttavia riassumere brevemente la trama di questi due film. In Qualcosa di travolgente un giovane “uomo dell’organizzazione” viene rapito da una ragazza strampalata, che gli insegna a prendere scorciatoie e a frodare le carte di credito, finché non salta fuori il marito, un ex detenuto, il quale, deciso alla vendetta, perseguita la coppia. In Velluto blu, d’altro canto, un giovane diplomato scopre un orecchio mozzato che lo mette sulle tracce di una cantante di night misteriosamente vittimizzata da uno spacciatore di droga del luogo, dal quale il protagonista la salva.
Questi film invitano in qualche modo a tornare alla storia: la scena centrale di Qualcosa di travolgente – o per lo meno quella su cui si impernia decisamente l’intreccio – è una festa di ex compagni di scuola, il genere di avvenimento che richiede specificamente un giudizio storico sui suoi partecipanti: narrazione delle traiettorie storiche, valutazione di momenti del passato rievocati con nostalgia ma necessariamente respinti o ribaditi. È la crepa, il varco attraverso il quale una narrazione filmica fino a quel momento tanto movimentata quanto priva di scopo sprofonda all’improvviso nel passato (o viceversa); la festa del decennale in realtà ci riporta indietro di più di vent’anni, a un’epoca in cui inaspettatamente, dietro le spalle, compare il “cattivo”, caratterizzato come “familiare” in tutta la sua estraneità rispetto allo spettatore (si tratta di Ray, il marito dell’eroina). Certamente “Ray” costituisce in un certo senso l’ennesima rielaborazione di quel paradigma noioso e consumato che è il gotico, nel quale – a un livello individualizzato – una donna dalla vita protetta viene terrorizzata e vittimizzata da un maschio “malvagio”. Ritengo sia un grosso errore leggere questo genere di letteratura come una sorta di denuncia protofemminista della società patriarcale e, in particolare, quale protesta protopolitica contro lo stupro. Senza dubbio il gotico smuove delle inquietudini nei confronti della violenza carnale, ma la sua struttura fornisce l’indicazione di un aspetto più essenziale del suo contenuto, che ho cercato di mettere in rilievo facendo ricorso alla parola “protetta”.
Le storie gotiche rappresentano in ultima analisi delle fantasie (o degli incubi) di classe, in cui si esercita la dialettica di privilegio e protezione: i privilegi isolano dagli altri, ma analogamente costituiscono un muro di protezione attraverso il quale non si può vedere e dietro il quale si possono quindi immaginare forze invidiose d’ogni genere nell’atto di radunarsi, tramare e prepararsi all’aggressione. Si tratta, se si preferisce, della sindrome da tenda della doccia (alludo a Psycho di Hitchcock). Il fatto che la forma classica del gotico si incentri sul contenuto privilegiato della condizione delle donne borghesi – l’isolamento, ma anche l’ozio domestico, loro imposto dalle nuove forme del matrimonio borghese – aggiunge tali testi, in quanto sintomi, alla storia della condizione femminile, ma non conferisce loro un particolare significato politico (a meno che tale significato non consista semplicemente nel pervenire all’autocoscienza degli svantaggi del privilegio). Ma in determinate circostanze la forma può essere riorganizzata attorno a degli uomini giovani, ai quali si attribuisce una distanza ugualmente protettiva: gli intellettuali, per esempio, o i giovani burocrati “protetti” con la ventiquattrore, come nel caso di Qualcosa di travolgente. (Questa sostituzione di genere rischia di destare tutta una serie di ulteriori connotazioni sessuali, circostanza che nel film viene deliberatamente rappresentata nella scena in cui l’accoltellamento, visto da dietro – e dalla visuale della donna –, sembra una abbraccio appassionato tra i due uomini). Il vero salto formale si verifica tuttavia quando alla “vittima” individuale – maschio o femmina – si sostituisce la collettività, gli spettatori statunitensi, i quali vivono oggi le inquietudini dei propri privilegi economici e del loro “eccezionalismo” ben protetto in una versione pseudopolitica del gotico, sotto la minaccia di folli e “terroristi” stereotipati (per una certa ragione in maggioranza arabi o iraniani). Più che in base a una crescente “femminilizzazione” dell’io pubblico americano, queste fantasie collettive si spiegano con il suo senso di colpa e con la dinamica del benessere cui ho già accennato. E come la versione privata del romanzo gotico tradizionale, per i loro effetti esse dipendono dal rilancio dell’etica come insieme di categorie mentali, dal rinvigorimento artificiale di quella trita e antiquata opposizione binaria tra virtù e vizio, che il Settecento ha mondato dei suoi residui teologici per sottoporla a una completa sessualizzazione prima di tramandarcela.
In altre parole, il gotico moderno – sia nella forma della vittima dello stupro sia in quella politico-paranoica – per il suo funzionamento essenziale dipende assolutamente dalla costruzione del male (notoriamente le forme del bene sono più difficili da costruire, e in genere traggono luce dal concetto più oscuro, come se il sole traesse la propria luminosità riflessa dalla luna). Qui il male è tuttavia la forma più vuota della pura e semplice Alterità (dentro la quale si può riversare a piacimento qualsiasi contenuto sociale). Sono stato tanto spesso rimproverato per le mie argomentazioni contro l’etica (sia in politica che nell’estetica) che mi pare valga la pena osservare di sfuggita che l’Alterità è una categoria molto pericolosa, di cui sarebbe meglio fare a meno; per fortuna, però, in letteratura e nella cultura essa è divenuta piuttosto tediosa. Alien di Ridley Scott può ancora riuscirci (ma allora, nel caso della fantascienza, tutta l’opera di Lem – in particolare il recente Il pianeta del silenzio – si può leggere come un ragionamento contro l’uso di questa categoria persino in quell’ambito), tuttavia Ray di Qualcosa di travolgente e Frank Booth di Velluto blu sicuramente non spaventano più nessuno; tanto meno dovrebbe essere necessario farsi venire la pelle d’oca prima di giungere a una decisione lucida e politica riguardo alle persone e alle forze che nel mondo contemporaneo rappresentano collettivamente il “male”.
D’altro canto è più che giusto dire che Ray non è raffigurato in maniera demoniaca, come una rappresentazione del male in quanto tale, bensì piuttosto come la rappresentazione di qualcuno che gioca a fare il cattivo, che è cosa assai diversa. In effetti, nulla di Ray risulta particolarmente autentico: la sua cattiveria è falsa come il suo sorriso, mentre i vestiti e la pettinatura forniscono un ulteriore indizio che spinge verso una direzione diversa da quella dell’etica. Infatti Ray non si presenta soltanto come una simulazione del male, ma anche come una simulazione degli anni Cinquanta, il che mi pare molto più significativo. A dire il vero parlo degli anni Cinquanta antagonistici, quelli di Elvis e non di Ike, ma non sono sicuro che si possa davvero percepire ancora la differenza, dal momento che scrutiamo attraverso la distanza storica cercando di mettere a fuoco il paesaggio del passato con occhiali tinti di nostalgia.
A questo punto, comunque, cadono gli ornamenti gotici di Qualcosa di travolgente e si chiarisce che siamo alle prese con una narrazione sostanzialmente allegorica nella quale gli anni Ottanta incontrano i Cinquanta. Che genere di conti debba regolare l’attualità con questo particolare spettro storicista (e se riesca a farlo) per il momento è meno essenziale di come, prima di tutto, si è combinato l’incontro. È accaduto sicuramente grazie all’intermediazione e ai buoni uffici degli anni Sessanta, buoni uffici a dire il vero involontari, giacché Audrey/Lulu ha davvero scarsi motivi per desiderare il legame, o di farsi ricordare il proprio passato, oppure quello di Ray (il quale è appena uscito di prigione).
Dunque tutto si incentra, così almeno si vorrebbe pensare, sulla distinzione tra gli anni Sessanta e i Cinquanta, i primi desiderabili (come una donna affascinante), i secondi terribili e sinistri, inaffidabili (come il capo di una banda di motociclisti). Come indica il titolo, è in gioco la natura di “qualcosa di travolgente”: la sua esplorazione è messa a fuoco quando Audrey intravede per la prima volta il carattere anticonformista di Charley (che scappa prima del conto del pranzo). Anzi, il fatto stesso di non pagare il conto sembra avere la funzione di principale indice della “lealtà” di Charley, del suo essere “alla moda”. Resta inteso che nessuna di tali categorie (né quelle di conformismo/anticonformismo adoperate prima) corrisponde alla logica di questo film, che si può considerare molto precisamente come il tentativo di costruire categorie nuove con le quali sostituire le vecchie, storicamente datate e vincolate a un periodo (non contemporanee, non postmoderne). Si potrebbe descrivere questa “prova” particolare come se implicasse un delitto da impiegato, in contrasto con il crimine “vero”, quello delle classi subalterne – rapina a mano armata e lesioni –, praticato da Ray. Si tratta soltanto di un reato da impiegato piccolo borghese (persino l’uso illecito che Charley fa della carta di credito della propria azienda è a malapena commensurabile con la criminalità autentica che quasi per definizione ci si può aspettare che implichi la stessa azienda). Questi contrassegni di classe non sono tuttavia presenti nel film, che in un altro senso si può considerare esattamente come il tentativo di rimuovere il linguaggio, le categorie e le differenziazioni di classe, e di sostituire a essi altri tipi di opposizioni semiche ancora da inventare.
Queste ultime si manifestano per forza di cose nella struttura del personaggio di Lulu, all’interno dell’allegoria degli anni Sessanta (una specie di “scatola nera” di questa peculiare trasformazione semica). Gli anni Cinquanta rappresentano la ribellione autentica, con una violenza e delle conseguenze altrettanto autentiche, ma implicano anche le rappresentazioni romantiche di tale ribellione dei film di Brando e di James Dean. Così in questa narrazione specifica Ray funge da cattivo gotico, mentre a livello allegorico si configura come la pura e semplice idea dell’eroe romantico, protagonista tragico di un altro genere di film che non si può più realizzare. A sua volta Lulu non è una possibilità alternativa, a differenza dell’eroina di Cercasi Susan disperatamente. Qui la struttura resta esclusivamente maschile, come attesta il deplorevole finale – Lulu che mette giudizio e si ammansisce –, insieme all’importanza dell’abbigliamento, che considererò tra un attimo. Perciò tutto dipende da un nuovo tipo di eroe, quello che Charley è messo in qualche modo nella condizione di diventare grazie a Lulu, in virtù della composizione semica di quest’ultima (dal momento che lei è molto di più di un feticcio, di un corpo femminile).
Il dato interessante di tale composizione è che innanzi tutto essa, per così dire, ci fa vedere gli anni Sessanta attraverso il decennio precedente (o gli Ottanta?): l’alcol invece delle droghe. Il lato schizofrenico degli anni Sessanta, la cultura della droga, qui è sistematicamente escluso insieme al fattore politico. In altri termini, il pericolo non è rappresentato da Lulu al massimo della frenesia, ma da Ray: non dagli anni Sessanta con le loro controculture e i loro “stili di vita”, bensì dai Cinquanta con le loro ribellioni. Eppure la continuità tra i due decenni poggia su quello contro cui ci si ribellava, sullo stile di vita rispetto al quale gli stili di vita “nuovi” costituivano un’alternativa. È peraltro arduo rinvenire un contenuto nel comportamento eccitante di Lulu, che appare incentrato sul mero capriccio, vale a dire sul valore supremo del restare imprevedibile, immune alla reificazione e alla categorizzazione. Echi dei Sotterranei del Vaticano di André Gide, oppure di tutti quei personaggi sartriani che tentano disperatamente di sfuggire all’oggettivazione definitiva dello Sguardo dell’altro (è impossibile, ed essi finiscono per essere etichettati semplicemente come “capricciosi”). I mutamenti d’abito conferiscono a questa imprevedibilità, che altrimenti sarebbe puramente formale, un determinato contenuto visivo: lo traducono nel linguaggio della cultura dell’immagine e generano un piacere meramente speculare nelle metamorfosi di Lulu (che non sono effettivamente psichiche).
Tuttavia spettatori e protagonisti devono sentire comunque di essere partiti per chissà dove (almeno finché la comparsa di Ray non dà al film una direzione diversa); elettrizzante e improvvisato come sembra, il rapimento di Charley da New York da parte di Lulu ha come minimo una forma vuota che risulterà istruttiva, giacché costituisce una discesa archetipica nella Middle America, nei “veri” Stati Uniti, quelli dell’intolleranza e dei linciaggi ma anche della sana vita di famiglia e degli autentici ideali americani. Davvero non si sa in quali Stati Uniti. Nondimeno, come quegli intellettuali populisti russi che nell’Ottocento si mettevano in viaggio a piedi per scoprire “il popolo”, qualcosa di analogo a questo viaggio è o è stata la scène à faire di qualunque allegoria americana degna della propria vocazione: quel che rivela questo viaggio, però, è che alla fine della strada non c’è più nulla da scoprire. La famiglia di Audrey/Lulu – ridotta in questo caso alla sola madre – non rappresenta più, infatti, la borghesia di sinistra memoria: né la repressione sessuale e la rispettabilità degli anni Cinquanta, né l’autoritarismo johnsoniano dei Sessanta. Questa madre suona il clavicembalo, “capisce” sua figlia ed è un tipo stravagante esattamente come chiunque altro. In questa cittadina americana non è più possibile una ribellione edipica, e con essa si spegne tutta la tensione della dinamica sociale e culturale di quell’epoca. Eppure, se nel cuore dell’America non esiste più un “ceto medio” da scoprire, c’è qualcos’altro che può fungere da sostituto, almeno nella dinamica della struttura narrativa: alla riunione dei compagni di classe di Lulu (insieme al suo passato e a Ray) troviamo appunto un collega di lavoro di Charley, un burocrate yuppie con la moglie incinta. Sono indiscutibilmente questi i genitori malefici che cercavamo, ma di un futuro lontano, non del tutto immaginabile, e non appartenenti al vecchio passato tradizionale americano. Essi occupano lo spazio semico degli “allineati”, senza però una base o un contenuto sociale (difficilmente si possono leggere come incarnazioni dell’etica protestante, per esempio, oppure del puritanesimo, del razzismo bianco o del patriarcato). Ma essi contribuiscono quanto meno a identificare la profonda finalità ideologica di questa pellicola, quella di distinguere Charley dagli yuppie come lui trasformandolo in un eroe, in un protagonista di un genere diverso rispetto a Ray. Imprevedibilità, come abbiamo visto, in fatto di moda (abbigliamento, taglio di capelli e linguaggio del corpo in genere): lo stesso Charley deve pertanto passare attraverso questa matrice particolare e la sua metamorfosi si realizza concretamente, in maniera abbastanza adeguata, allorché si toglie giacca e cravatta per indossare una maschera più distesa, da turista (maglietta, calzoncini, occhiali scuri ecc.). Naturalmente alla fine del film si sbarazza anche del lavoro nell’azienda, ma probabilmente sarebbe troppo chiedersi che cosa diventi, o possa diventare, in luogo di questo, tranne che nella “relazione”, in cui diventa padrone e superiore. L’organizzazione semica di tutto questo andrebbe schematizzata come segue (la simmetria si preserva ravvisando nella moglie yuppie, arcigna e incinta, il concreto manifestarsi del termine neutro):

Non ho ancora menzionato le manette, che possono servire per passare a un analogo tipo di allegoria narrativa, dalle combinazioni e dall’atmosfera assai diverse rispetto a questa. In effetti Velluto blu cerca di collocare esattamente il sadomasochismo sulla mappa della cultura di massa con una gravità che manca del tutto nel film di Demme (lì la scena d’amore con le manette è tanto sexy quanto “frivola”). Il sadomasochismo diviene così l’ultimissima novità, l’ultima nella lunga lista di quelle forme tabù del contenuto che, a partire dalle ninfette di Nabokov degli anni Cinquanta, affiorano una dopo l’altra alla superficie dell’arte pubblica, in quel progressivo allargamento delle trasgressioni che un tempo si chiamava controcultura, o anni Sessanta. In Velluto blu, però, esso viene esplicitamente correlato alle droghe, e quindi al crimine – anche se non esattamente alla criminalità organizzata, più che altro a una comunità di spostati e di eccentrici –, mentre il ripetersi delle oscenità (da parte del personaggio interpretato da Dennis Hopper) rafforza noiosamente il carattere trasgressivo di questo complesso di cose.
Se però in Qualcosa di travolgente si evoca e si invoca discretamente la storia, in Velluto blu è invece il suo contrario – la Natura – a darsi come cornice complessiva, come prospettiva inumana e transumana nella quale contemplare gli eventi. Il colpo apoplettico del padre, che apre il film come una catastrofe incomprensibile – un evento superiore che rappresenta stranamente un atto di violenza scandalosa in questa tranquilla cittadina americana –, viene collocato da David Lynch (regista anche di Eraserhead e Dune) nell’orizzonte più fantascientifico della violenza darwiniana di tutta la natura. Dall’inquadratura del padre che giace paralizzato, la macchina da presa entra nella boscaglia che circonda la casa, e nel farlo aumenta la propria messa a fuoco microscopica, fino a che non ci si imbatte in un frullio spaventoso. Dapprima lo si scambia genericamente, nel formato del buon film horror, per la presenza nascosta di un maniaco, finché si rivela essere il rumore delle mandibole di un insetto insaziabile. Anche la successiva insistenza sui pettirossi con dei vermi che si contorcono disperatamente nel becco avvalora questa sensazione cosmica di violenza vertiginosa e nauseante di tutta la natura. È come se in questa ferocia senza limiti, in quest’incessante spargimento di sangue dell’universo che si consuma ovunque si arrivi a vedere o a pensare, il progresso dell’umanità, guidata da una qualche divina provvidenza, avesse conquistato una sola oasi di pace. Si tratta cioè della cittadina nordamericana, unica sia nel regno animale sia negli orrori della storia umana. In questa fragile e preziosa conquista di decoro civile strappata a un minaccioso mondo esterno, giunge dunque la violenza, sotto forma di un orecchio mozzato, di una cultura clandestina della droga, di un sadomasochismo a proposito del quale in definitiva non è davvero chiaro se sia un piacere o un dovere, una questione di appagamento sessuale o soltanto un altro modo di esprimersi.
La storia entra pertanto in Velluto blu nella forma dell’ideologia, se non del mito: il Paradiso Terrestre e il peccato originale, l’eccezionalismo americano, una cittadina di provincia amorevolmente preservata nei dettagli come un simulacro o una Disneyland sotto vetro molto più di qualunque altro luogo che i protagonisti di Qualcosa di travolgente sono stati capaci di trovare nei loro viaggi, completa di classifiche della scuola superiore, in linea con i più autentici film degli anni Cinquanta. Attorno a questa fiaba si può evocare persino una psicoanalisi popolare stile anni Cinquanta, in quanto, oltre che in una prospettiva mitica e sociobiologica della violenza della natura, gli eventi del film si inquadrano anche nella crisi del ruolo paterno, dal trauma che sospende il potere e l’autorità paterni nella sequenza di apertura, al recupero del padre stesso fino al suo ritorno dall’ospedale nell’idilliaca scena finale. Il fatto che l’altro padre sia un ispettore di polizia apporta una certa plausibilità a questo tipo di interpretazione, peraltro rafforzata dal rapimento e dalla tortura del terzo padre, assente, di cui vediamo soltanto l’occhio. Ciò nonostante, il messaggio non è particolarmente patriarcale-autoritario, soprattutto perché il giovane eroe riesce ad assumere molto facilmente il ruolo paterno; piuttosto, questa specifica esigenza di un ritorno agli anni Cinquanta indora la pillola con l’insistenza sulla discreta benevolenza di tutti questi padri e, per contrasto, sulla pura cattiveria dei loro omologhi.
Questo genere di gotico, infatti, sovverte sé stesso esattamente come accade in Qualcosa di travolgente, ma in maniera piuttosto dissimile. Là si sottolineava la natura simulata del male rappresentato da Ray, malgrado egli restasse una minaccia reale: la ribellione, la violazione della legge, la violenza fisica e gli ex detenuti sono tutte questioni serie e autentiche. Quello che Velluto blu ci dà a intendere a proposito degli anni Sessanta, per contro, è che, nonostante le scene grottesche e orrende di corpi mutilati, questo tipo di male è più ripugnante che spaventoso, più disgustoso che minaccioso: qui il male è infine diventato un’immagine, e la replica simulata degli anni Cinquanta si è generalizzata in un vero e proprio simulacro a sé stante. Ormai il ragazzo senza paura della fiaba può accingersi a smantellare questo mondo di funesti sortilegi, liberare la principessa (sposandone un’altra) e uccidere lo stregone. La lezione che tutto ciò implica – alquanto diversa da quella che trasmette – è che è meglio combattere le droghe dipingendole come pericolose e sciocche piuttosto che destare l’intera gamma tonale del giudizio etico e dell’indignazione, il che conferirebbe alle droghe il prestigio del resto affascinante del Male autentico, della Trasgressione nella sua augusta maestà religiosa. Anzi, su un altro livello metacritico questa particolare parabola sulla fine degli anni Sessanta è anche una parabola sulla fine delle teorie della trasgressione, che hanno affascinato tanto quell’intero periodo e i suoi intellettuali. In definitiva, i materiali sadomaso – per quanto contemporanei, nella nuova scena punk postmoderna – sono sollecitati ad annullarsi, ad abolire la stessa logica sulla quale era fondata in primo luogo la loro attrazione/repulsione.
Così questi film si possono leggere come sintomi duplici: mostrano un inconscio collettivo nell’atto di cercare di identificare il proprio presente, e nello stesso tempo illustrano il fallimento di tale tentativo, il quale pare ridursi alla ricombinazione di vari stereotipi del passato. Forse quanto fa seguito a un’autocoscienza fortemente generazionale, com’è stata quella percepita dal “popolo degli anni Sessanta”, è spesso una singolare mancanza di scopi. E se il tratto identificativo essenziale del prossimo “decennio” fosse per esempio l’assenza di una siffatta autocoscienza forte, vale a dire in primo luogo una costitutiva mancanza di identità? È quello che molti di noi hanno pensato degli anni Settanta, la cui specificità è parsa consistere il più delle volte nel fatto di non possedere una specificità, in particolare dopo l’unicità del periodo precedente. Le cose hanno iniziato a migliorare di nuovo negli anni Ottanta, e in tanti modi. Ma l’elaborazione dell’identità non è un processo ciclico, e in sostanza è proprio questo il dilemma. Rispetto al decennio che li ha preceduti, degli anni Ottanta si potrebbe dire che tirava un’aria politica nuova, che le cose avevano ripreso a muoversi, che sullo sfondo sembrava profilarsi un impossibile “ritorno degli anni Sessanta”. Ma in politica come in altri ambiti gli anni Ottanta in realtà non sono stati simili ai Sessanta, specialmente se si cercasse di definirli come un ritorno o una regressione. In un periodo astorico della storia non è nemmeno più probabile quella mascherata illusoria di cui parla Marx, l’uso dei costumi da parte dei grandi momenti del passato. La combinatoire generazionale sembra essersi spezzata nel momento in cui si è scontrata seriamente con la storicità e il concetto piuttosto diverso di “postmodernismo” ne ha preso il posto.
Dick adoperava la fantascienza per vedere il proprio presente come storia (passata); mentre sfuggiva del tutto il proprio presente, il cinema della nostalgia classico ha registrato la propria carenza di storicità perdendosi nell’incanto ipnotico di sontuose immagini di specifici passati generazionali. Per quanto non sperimentino una forma totalmente nuova (ossia un modo della storicità), nella loro complessità allegorica i due film del 1986 paiono nondimeno segnare la fine di tutto questo, nonché l’apertura di uno spazio a qualcosa d’altro.