6. L’utopismo dopo la fine dell’utopia

Spesso è parso che una certa attitudine spaziale offrisse i criteri più fecondi per distinguere il postmodernismo dal modernismo vero e proprio, la cui esperienza della temporalità – il tempo esistenziale, insieme alla memoria profonda – viene ormai vista comunemente come una dominante del moderno avanzato. Con il senno di poi, la “forma spaziale” delle grandi manifestazioni del modernismo (descrizione che si deve a Joseph Frank) rivela di avere più cose in comune con gli emblemi mnemonici unificanti dei teatri della memoria di Frances Yates che con l’esperienza spaziale discontinua e le confusioni del postmoderno. Per contro, la sincronicità urbana dell’Ulisse, basata su una singola giornata, oggi suona più che altro come la registrazione di ricordi associativi intermittenti che trovano il proprio adempimento temporale nel teatro onirico della sezione culminante della Città notturna.

Si distinguono dunque due forme di interrelazione fra tempo e spazio, invece che tra queste due categorie inscindibili: questo nonostante la visione postmoderna dello schizofrenico ideale o eroico (come in Deleuze) segni lo sforzo impossibile di immaginare una sorta di esperienza pura del presente spaziale al di là della storia passata, del progetto o del destino futuri. Eppure l’esperienza dello schizofrenico ideale è ancora un’esperienza del tempo, anche se dell’eterno presente nietzscheano. Nell’evocarne la spazializzazione si intende piuttosto la volontà di utilizzare il tempo e metterlo al servizio dello spazio, ammesso che questa sia ancora la parola giusta.

E in effetti le parole e i vocaboli hanno la loro complicità con le due rispettive epistemi: se paiono ancora in larga misura adeguate nella sfera culturale del moderno, l’esperienza e l’espressione risultano del tutto anacronistiche e fuori luogo nell’era postmoderna, nella quale, mentre la temporalità detiene ancora il proprio posto, sarebbe meglio parlare della sua scrittura, più che di un’esperienza vissuta.

La scrittura del tempo, la sua registrazione: è questa, per esempio, la lezione dell’indimenticabile Le voci del tempo di J.G. Ballard83. Qui la visione apocalittica della fine imminente dell’universo, che si ferma come un orologio scarico, e della razza umana che si estingue nel sonno (le prime vittime del narcoma costituiscono l’«avanguardia di un immenso esercito di sonnambuli che si adunava per l’ultima marcia», 292), di primo acchito può assomigliare al modernismo wagneriano fin de siècle oppure a qualche grandiosa sociobiologia musicale. Ma di fatto Ballard elabora a livello linguistico le molteplici firme del Tempo stesso, che la sua scrittura legge: come negli esemplari e nei campioni esposti nello zoo temporale, nel laboratorio terminale del suo eroe. Non solo lo scimpanzé deforme, ma anche le mutazioni dell’anemone di mare (non più sensibile alla luce bianca, bensì ai colori), il moscerino della frutta, l’enorme ragno dagli occhi ciechi («O meglio, la loro sensibilità ottica è mutata drasticamente, le retine percepiscono soltanto le radiazioni gamma. Il suo orologio ha le lancette luminose. Quando l’ha mosso davanti alla finestra l’animale ha iniziato a pensare», 299), le rane dotate di scudo antiradiazioni, il girasole che vive ormai la long durée delle ere geologiche («vede letteralmente il tempo. Più è antico l’ambiente circostante, più pigro è il suo metabolismo», 301) e infine soprattutto lo stesso DNA, quella scrittura estrema che letteralmente si va deteriorando: «Gli stampi di acido ribonucleico che dipanano le catene proteiche in tutti gli organismi viventi si stanno logorando, le matrici che incidono l’impronta protoplasmatica si sono smussate. Dopo tutto hanno funzionato per oltre mille milioni di anni. È tempo di rinnovare l’attrezzatura» (305).

Non è soltanto nell’orologio interno dell’organismo che si può leggere il tempo: le stesse galassie letteralmente lo parlano, come quando dei «misteriosi inviati di Orione» incontrano sulla Luna gli astronauti della Mercury 7 e li avvertono «che l’esplorazione dello spazio profondo era inutile, che erano giunti troppo tardi, poiché la vita dell’universo è ormai praticamente al termine!» (312). Frattanto dei segnali numerici provenienti da Canes Venatici

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irradiano verso la Terra un conto alla rovescia. «Le grandi spirali lassù sono in disgregazione, e loro ci dicono addio. […] è stato calcolato che quando la serie toccherà zero l’universo avrà appena avuto fine» (318-319). «Gentili a farci sapere l’esatta scadenza», ribatte un altro personaggio.

La generale fascinazione della teoria contemporanea (poststrutturalista o postmoderna) nei confronti del DNA – exemplum del concetto di “codice” per Jean Baudrillard, per esempio, il quale a sua volta è un lettore entusiasta di Ballard – non deriva solamente dal suo essere una specie di scrittura (circostanza che sposta la biologia dal modello della fisica a quello della teoria dell’informazione), ma anche dalla sua forza attiva e produttiva come struttura portante, come programma informatico: una scrittura che ci legge, invece del contrario. Il DNA si configura quindi come «la carta perforata di una pianola» (298); il racconto di Ballard è anche, e in maniera assai specifica, un racconto sull’arte “futura” o sull’estetica postmoderna. Anzi, si tratta dell’opposizione tra due nuovi generi di arte spaziale, cioè il mandala degli anni Sessanta costruito dall’eroe nelle ultime fasi del proprio narcoma, al centro del quale spirerà, e la “mostra delle atrocità” di quell’altra figura byroniana che preconizza l’opera successiva dello stesso Ballard, con la sua concezione dell’arte nuova che sembra una versione di quella forma emergente delle mostre creative degli attuali musei postmoderni. In questo caso è una raccolta di tracce riproduttive tecnologicamente avanzate – dai raggi X alle stampe del computer – dei traumi più atroci del mondo postcontemporaneo, da Hiroshima al Vietnam, dal Congo fino ai molteplici incidenti stradali dai quali per un po’ è stato ossessionato lo stesso Ballard (specialmente nel romanzo Crash). Tuttavia, nel quadro di una periodizzazione del postmodernismo, queste molteplici figure della scrittura o dell’iscrizione vanno straniate e ricollocate all’interno di una concezione ampliata dello spazio.

L’approccio iniziale a questa “grande trasformazione” particolare – la dislocazione del tempo, la spazializzazione della temporalità – spesso registra le proprie novità mediante un senso di perdita. Sembra anzi possibile che il pathos dell’entropia in Ballard possa proprio essere questo: l’affetto sprigionato dall’esplorazione minuziosa, e non priva d’entusiasmo, di tutto questo nuovo mondo della spazialità, e il dolore acuto della morte del moderno che l’accompagna. In ogni caso, da tale prospettiva nostalgica e regressiva – quella del vecchio moderno e delle sue temporalità – a essere rimpianto è il ricordo della memoria profonda; a essere rappresentata è una nostalgia per la nostalgia, per le grandi questioni estinte dell’origine e del telos, del tempo profondo e dell’inconscio freudiano (liquidato d’un colpo da Foucault nella Storia della sessualità), per la dialettica, nonché per tutte le forme monumentali lasciate in secca dalla marea del moderno, forme i cui Assoluti per noi non sono più intelligibili, illeggibili geroglifici del demiurgico in un mondo tecnocratico.

Per cogliere quanto c’è di storicamente originale nel postmoderno e nel suo spazialismo, occorre dunque compiere una diversione attraverso il moderno. In effetti questa lezione di storia rappresenta la cura migliore per il pathos nostalgico e come minimo ci insegna, per mezzo della Necessità, che la via di ritorno verso il moderno è sbarrata per sempre. Ovviamente nelle pagine che seguono è data per presupposta la correlazione tra la transizione dal moderno al postmoderno da una parte, e la trasformazione economica o sistemica del vecchio capitalismo monopolistico (la cosiddetta epoca dell’imperialismo) nella sua nuova mutazione multinazionale e ipertecnologica dall’altra. Da queste descrizioni economiche si possono dedurre aspetti sempre più spaziali di un nuovo tipo, ma qualunque descrizione concreta della nuova estetica spaziale e del suo mondo esistenziale esige determinati passi intermedi, quelle che la dialettica chiamava di solito mediazioni.

Così anche l’”arte concettuale” rientra sotto il segno della spazializzazione, nel senso che, si sarebbe tentati di dire, ogni problematizzazione, ogni dissoluzione delle forme ereditate dal passato lascia in secca anche noi stessi. L’arte concettuale si può definire come una procedura kantiana per mezzo della quale, nella circostanza di quello che a prima vista sembra essere un incontro con un’opera d’arte di qualche tipo, le categorie della mente – in genere non coscienti, e inaccessibili ad alcuna diretta rappresentazione, ad alcuna consapevolezza di sé o riflessività tematizzabili – si contraggono sotto forma di quelle particolari esperienze mentali che Lyotard denomina paralogismi, mentre la loro presenza strutturante viene percepita ormai dall’osservatore in maniera laterale, come la muscolatura o i nervi a cui di solito restiamo insensibili. In altri termini, si tratta di paradossi percettivi che non possiamo pensare o sciogliere mediante le astrazioni della coscienza e che ci costringono ad affrontare bruscamente le occasioni visive. Le installazioni di Bruce Nauman, per fare un esempio, oppure anche le rappresentazioni di rappresentazioni di Sherrie Levine, sono macchine infernali per generare queste antinomie irrisolvibili, per quanto concretamente visive e percettive, le quali sospingono nuovamente la mente dell’osservatore verso i livelli sconcertanti del processo paralogico. Il vocabolo “concettuale” designa qui il soggetto supremo del procedimento (in senso sperimentale), cioè le categorie percettive della mente, purché si intenda che queste non possono mai diventare visibili in quanto oggetti a sé stanti, e che in ogni fase del processo di osservazione tutto ciò di cui disponiamo sono delle occasioni materiali, sotto forma di quelle che si pensavano come “opere d’arte”. È questo il senso in cui l’operazione concettuale spazializza, dal momento che ci insegna ripetutamente che il campo spaziale costituisce l’unico elemento nel quale ci muoviamo, l’unica “certezza” di un’esperienza (ma non nel senso che questi pretesti spaziali – che chiamiamo opere concettuali – sono essi stessi forme piene di significato materializzato, come pretendeva di essere l’opera d’arte classica). Il rapporto tra la vocazione dell’arte concettuale e alcuni testi classici della decostruzione (che si potrebbero descrivere più o meno nella stessa maniera) sembra chiaro, tuttavia suscita l’ulteriore questione del rapporto tra questa nuova lettura e la stessa spazializzazione. Per esempio, la lettura chiusa di un “saggio” teorico o filosofico non è in qualche modo analoga ai confini formali dell’opera d’arte tradizionale, tanto che la problematizzazione decostruttiva della lettura in sé tende ad aprire la struttura e a lasciarci altrove? Pare evidente che la testualizzazione diffusa del mondo esterno propria del pensiero contemporaneo (il corpo come testo, lo Stato come testo, il consumo come testo) debba essere a sua volta considerata come una forma fondamentale della spazializzazione postmoderna; questo è il presupposto di ciò che segue.

Per quanto riguarda l’arte concettuale e la sua evoluzione, vale comunque la pena aggiungere che la sua variante politica più tarda – nell’opera di Hans Haacke, per esempio – rimanda la decostruzione delle categorie percettive specificamente verso le istituzioni strutturali. Qui i paralogismi dell’”opera” arrivano a includere il museo, attraendone lo spazio dentro il pretesto materiale e rendendo inevitabile un itinerario mentale attraverso l’infrastruttura artistica. Anzi, in Haacke non ci si ferma esclusivamente allo spazio museale; piuttosto il museo stesso, in quanto istituzione, dà accesso alla sua rete di amministratori, ai loro legami con le multinazionali e infine al sistema globale del tardo capitalismo vero e proprio, tanto che quello che era il limitato progetto kantiano di un’arte concettuale ristretta arriva ad ambire alla cartografia cognitiva (con tutte le sue specifiche contraddizioni riguardanti la rappresentazione). In ogni caso in Haacke le tendenze alla spazializzazione immanenti sin dall’inizio all’arte concettuale divengono manifeste e ineludibili nell’inquieta alternanza gestaltica tra un’”opera d’arte” che si abolisce per rivelare la struttura museale che la contiene e una che estende la propria autorità fino a comprendere non soltanto quella struttura istituzionale, ma anche la totalità istituzionale in cui essa medesima è sussunta.

Menzionare Haacke a questo punto significa ovviamente sollevare uno dei problemi fondamentali presentati dal postmodernismo in generale (non meno che dalle tendenze alla spazializzazione in questione), vale a dire il possibile contenuto politico dell’arte postmodernista. Il fatto che tale contenuto politico sarà necessariamente molto diverso, a livello strutturale e dialettico, da quanto era formalmente possibile nel modernismo precedente (per non parlare del realismo) è già sottinteso pressoché in tutte le descrizioni alternative del postmoderno. Tuttavia si può raffigurare con un semplice problema di estetica politica che si è presentato in un capitolo precedente: il perché le bottiglie di Coca-Cola e le lattine di Campbell’s Soup di Andy Warhol – rappresentazioni tanto evidenti della merce o del feticismo del consumo – non paiono funzionare come dichiarazioni di carattere critico o politico. Quanto alle descrizioni sistematiche del postmoderno, compresa la mia, nel momento in cui riescono falliscono. E più si è in grado di sottolineare con forza e di isolare i tratti antipolitici della nuova dominante culturale – la perdita della storicità, per esempio –, più ci si infila in una situazione inestricabile e si rende qualunque ripoliticizzazione di tale cultura un a priori inconcepibile. Eppure la descrizione totalizzante del postmoderno ha sempre incluso uno spazio per varie forme di cultura oppositiva: quelle dei gruppi marginali, dei linguaggi culturali residui o emergenti, radicalmente distinti, dall’esistenza già implicita nello sviluppo necessariamente irregolare del tardo capitalismo, dove il Primo Mondo a causa delle proprie dinamiche genera un Terzo Mondo al proprio interno. In tal senso il postmodernismo è “solamente” una dominante culturale. Descriverlo in termini di egemonia culturale non vuol dire ipotizzare una solida e uniforme omogeneità culturale in ambito sociale; significa invece, precisamente, indicarne la coesistenza con altre forze eterogenee e resistenti che esso ha la vocazione ad assoggettare e incorporare. Il caso di Haacke suscita però un problema completamente diverso, perché si tratta di un tipo di prodotto culturale palesemente postmoderno e altrettanto chiaramente politico e oppositivo, circostanza che non rientra nel paradigma e che quest’ultimo sembra non avere previsto sul piano teorico.

La portata di questo saggio è tuttavia più ristretta: se, come ho appena fatto, occorre precisare le coordinate politiche essenziali del problema della valutazione del postmodernismo, l’argomento in questione è quello più circoscritto delle spinte utopiche da individuare nelle varie forme del postmoderno attuale. Bisogna insistere con forza sulla necessità della reinvenzione della visione utopica in qualunque politica contemporanea: questa lezione, impartitaci per primo da Marcuse, fa parte dell’eredità degli anni Sessanta e non deve mai essere trascurata in qualsiasi rivalutazione di quel periodo, oltre che del nostro rapporto con esso. D’altro canto si deve riconoscere che le visioni utopiche in sé non rappresentano affatto una politica.

L’utopia però pone i suoi problemi specifici per qualunque teoria del postmoderno e per una sua qualsivoglia periodizzazione. Secondo l’opinione comune, infatti, il postmodernismo è tutt’uno con la definitiva “fine delle ideologie”, sviluppo annunciato (insieme alla “società postindustriale”) dagli ideologi conservatori degli anni Cinquanta (Daniel Bell, Lipset ecc.), drammaticamente “smentito” dagli anni Sessanta, e “inveratosi” solamente negli anni Settanta e Ottanta. “Ideologia” in questo senso significava marxismo e la sua “fine” è andata di pari passo con la fine dell’utopia, peraltro già garantita dalle grandi distopie postbelliche antistaliniste, come 1984. Ma “utopia” in quel periodo era anche una parola in codice che voleva dire semplicemente “socialismo” o qualunque tentativo rivoluzionario di dare vita a una società completamente diversa, che gli ex radicali dell’epoca identificavano quasi esclusivamente con Stalin e il comunismo sovietico. Questa “fine dell’ideologia e dell’utopia” generalizzata, decantata dai conservatori degli anni Cinquanta, era anche il nucleo dell’Uomo a una dimensione di Marcuse, che la deplorava da una prospettiva radicale. Per contro, nella nostra epoca quasi tutti i manifesti significativi del postmodernismo celebrano un tale sviluppo, dall’”ironia” di Venturi alla “deideologizzazione” di Achille Bonito Oliva, termine che ormai è arrivato a significare l’eclisse della “fede”, nonché dei duplici Assoluti del modernismo avanzato propriamente detto e del “politico” (vale a dire del marxismo).

Se si inseriscono gli anni Sessanta in questa narrazione storica, cambia tutto. “Marcuse” diviene in pratica il nome di tutto un rinnovamento esplosivo del pensiero e dell’immaginazione utopici, di una rinascita della vecchia forma narrativa. I reietti dellaltro pianeta di Ursula K. LeGuin (1974) ha rappresentato la più ricca reinvenzione letteraria del genere, mentre Ecotopia di Ernest Callenbach (1975) ha fornito una summa di tutte le disparate spinte utopistiche degli anni Sessanta, e inoltre ha ravvivato l’ambizione (di per sé propriamente utopica) a scrivere un libro attorno al quale si possa concretizzare un intero movimento politico, come è avvenuto nel caso di Guardando indietro di Edward Bellamy e del movimento di massa creatosi attorno al suo Partito Nazionalista in un’analoga fase precedente dell’utopismo politico nordamericano. Gli impulsi utopistici degli anni Sessanta non si sono tuttavia fusi in quella maniera, al contrario hanno generato una serie vitale di movimenti micropolitici (di quartiere, razziali, etnici, ecologici e di genere) contrassegnati dal denominatore comune dalla rinascente problematica della Natura in una molteplicità di forme, spesso anticapitalistiche. È indubbio che si possono rileggere tali sviluppi sociopolitici nel quadro del nostro primo paradigma, giacché costituiscono il rifiuto della politica tradizionale della sinistra e quindi, alla loro maniera, rappresentano un’altra “fine dell’ideologia”. Ma non è chiaro fino a che punto questi molteplici impulsi utopistici si siano prolungati negli anni Settanta e Ottanta; per esempio, Il racconto dellancella di Margaret Atwood (1985) è stato giudicato come la prima “distopia” femminista, e dunque la fine del ricchissimo contributo femminista all’interno del genere utopico. D’altro canto, sembra plausibile ritornare al fenomeno della spazializzazione già menzionato e vedere in tutte queste visioni utopiche variegate uscite dagli anni Sessanta lo sviluppo di un’intera gamma di utopie propriamente spaziali, nelle quali la trasformazione dei rapporti sociali e delle istituzioni politiche si proietta sulla visione dello spazio e del paesaggio, fino a comprendere il corpo umano. Al di là di ciò che può toglierci nella capacità di pensare il tempo e la storia, la spazializzazione apre quindi una porta su tutto un nuovo campo di investimento libidico di tipo utopico e persino protopolitico. In ogni caso, nelle pagine che seguono cercherò almeno di scrutare attraverso questa porta socchiusa, se non di spalancarla.

L’installazione di Robert Gober mi pare un ottimo luogo dal quale intraprendere questa ricerca, in quanto presenta per lo meno il vano vuoto di una porta. Inoltre ci spinge a porci – ma contribuisce anche a rispondervi – l’ovvio interrogativo riguardo alla pertinenza del concetto di spazializzazione allorché si ha a che fare con quelle che sono già, evidentemente, delle arti dello spazio. Ma qui la spazializzazione postmoderna si gioca nel rapporto e nella rivalità tra i vari media spaziali, nelle rivendicazioni e nelle capacità formali del video nei confronti del film, per esempio, oppure della fotografia nei confronti del medium pittorico. Anzi, in questo caso si può parlare della spazializzazione come del processo mediante il quale le belle arti tradizionali vengono mediatizzate: esse sono ormai giunte a una consapevolezza di sé in quanto media all’interno di un sistema mediatico, dove la loro produzione interna costituisce anche un messaggio simbolico, nonché una presa di posizione riguardo allo statuto del medium in questione. L’installazione di Gober – che incorpora ciò che un tempo si sarebbe chiamato pittura, scultura, scrittura e persino architettura – ricava quindi i propri effetti da un luogo non al di sopra dei media, bensì dentro il loro sistema di rapporti; si tratta di una circostanza che sembra più opportuno definire come una sorta di riflessività, invece che con la nozione più comune di “mixed media”, la quale in genere implica che da tale sintesi o combinazione emerga un superprodotto o un oggetto trascendentale, la Gesamtkunstwerk. Ma questa installazione, chiaramente, non è un oggetto d’arte in quel senso.

In primo luogo non esiste alcuna “rappresentazione” a cui guardare. La porta, il dipinto, il tumulo, il testo, nessuno di questi elementi è in sé l’oggetto della nostra attenzione indivisa; ma quasi lo stesso si potrebbe dire, per esempio, degli elementi di un’installazione di Haacke, oppure, al di là di essa, delle dislocazioni essenzialmente postmoderne di Nam June Paik, nelle quali soltanto il visitatore più incauto di un museo cercherebbe l’“arte” nel contenuto delle immagini video in sé. Eppure tra Haacke (o anche l’arte “concettuale” apolitica di Paik) e questo spazio specifico – il quale a sua volta evoca, in un certo senso, un “concetto” – sembra darsi una profonda differenza di carattere metodologico, quasi un rovesciamento delle operazioni in questione. Com’è stato detto, l’opera di Haacke è specifica di una situazione. Porta in primo piano il museo in quanto tale, nella sua istituzionalità: si tratta di qualcosa che, del tutto assente in Gober, si può dire che rivela l’utopismo cattivo o apolitico della sua installazione, se non addirittura che conferma le peggiori perplessità circa l’idealismo implicito del progetto.

Haacke decostruisce: questa parola alla moda sembra proprio inevitabile quando si pensa al suo lavoro (e in tale contesto recupera una parte del suo significato originario, forte, politico e sovversivo). La sua arte possiede una corrosività politico-culturale tipicamente europea; quella di Gober è americana quanto gli Shakers o Charles Ives, la sua comunità assente, il suo “pubblico invisibile” è costituito da lettori di Emerson invece che di Adorno. Sarei tentato di dire che questa forma di arte concettuale – perché di questo si tratta – si differenzia dal suo omologo in base a ciò che costruisce: non un concetto già esistente del tipo di quelli smontati da Haacke e da altri, bensì piuttosto l’idea di un concetto che ancora non esiste.

Ma come si è già visto nell’analisi dell’architettura, il valore utopico di una modificazione meramente culturale è un giudizio ambiguo, i cui segni e sintomi si possono leggere in un senso o nell’altro, cioè come segni sia di una ripetizione sistematica che di un cambiamento imminente. Avviene così che lo spazio del modernismo si presenta come il novum, come la conquista di nuove forme di vita, l’emergenza radicale, quell’«aria di altri pianeti» (Stefan George) che Schönberg, e Marcuse dopo di lui, amavano evocare, il primo indizio dello spuntare di una nuova era. Oggi, con il senno di poi degli insuccessi dell’architettura moderna, lo spazio modernista dimostra di avere semplicemente riprodotto la logica del sistema stesso a un livello maggiore di intensificazione, correndo avanti e trasferendo il proprio spirito di razionalizzazione e di funzionalismo, di positivismo terapeutico e di standardizzazione, allo spazio costruito non ancora nemmeno sognato. Le alternative sarebbero decidibili solamente tramite la relativa questione storica del modernismo, se abbia cioè compiuto davvero il proprio progetto e la propria missione, oppure si sia interrotto e sia rimasto sostanzialmente incompiuto e inadempiuto.

Nondimeno, il postmoderno propone ora una possibilità supplementare, una sorta di terza lettura, che mette in primo piano l’idea di un’anticipazione utopica in maniera teorica, non figurativa. È nella prospettiva di questa possibilità – che pare rinunciare alla vocazione protopolitica di Le Corbusier a trasformare immediatamente il nostro spazio edificato contro tutti gli ostacoli di carattere economico e sociale – che si può intendere meglio il progetto di Gober. Prendendo a prestito un’espressione di Althusser, esso può essere considerato non tanto come la produzione di una certa forma di spazio utopico, quanto come la produzione del concetto di tale spazio. E anche ciò va inteso non nel senso in cui gli architetti contemporanei con sempre maggiore frequenza hanno disegnato progetti “inedificabili” (nell’accezione strettamente architettonica di piani, disegni e modelli) e pubblicato proiezioni grottesche e parodiche di edifici e complessi urbani inimmaginabili alla luce del sole, i quali assomigliano più agli archivi visivi delle fantasie di Piranesi che alle sue vedute di Roma o ai taccuini di Le Corbusier. Gober non è un architetto, neanche nel significato più ampio del termine, anche se le sue “sculture” derivano in modo particolare dallo spazio interno degli edifici e da quegli intermundia tra l’arredamento e lo scheletro della casa che, pensati talvolta come semplici impianti idraulici, costituiscono l’apparato visibile degli impianti della cucina e del bagno.

Questa installazione non cerca, come i “progetti” appena citati, di far scattare la rappresentazione di un nuovo tipo di dimora sullo schermo utopico della mente; e la sua caratterizzazione – la produzione di un concetto di spazio – funziona sistematicamente sia come criterio terminologico per diversificare tale operazione da rappresentazioni del genere, sia quale intervento sulle attuali nozioni di arte concettuale. In contrasto con l’operazione decostruttiva, essa intende porre l’accento sulla produzione di una nuova specie di entità mentale, ma allo stesso tempo è concepita per escludere l’assimilazione di quella entità a qualsivoglia rappresentazione positiva, e in particolare a qualunque abbozzo di architettura “affermativa”. L’operazione risulta pertanto davvero singolare, tanto da meritare una descrizione più accurata.

Quel che ci si presenta è una porta con il suo telaio (Gober), un tumulo (Meg Webster), un tradizionale dipinto di paesaggio americano (Albert Bierstadt) e quello che si potrebbe denominare un “testo postmodernista” (Richard Prince). Il combinarsi di questi oggetti come un’opera unitaria all’interno di uno spazio museale sicuramente desta aspettative e impulsi legati alla rappresentazione, ed emana in particolare un imperativo a unificare tali oggetti a livello percettivo, a inventare la totalizzazione estetica a partire dalla quale si possano intendere questi elementi disparati: se non come parti di un tutto, quanto meno come componenti di qualcosa di completo. Come ho già suggerito, si tratta di un imperativo sistematicamente frustrato dall’“opera” stessa (ammesso che si possa continuare ad adoperare questa parola), ma non, come è stato proposto, principalmente allo scopo di mettere in primo piano e biasimare la nostra nostalgia (kantiana) per la forma dell’“intero”, per l’“oggetto compiuto”, per l’“opera” o la “rappresentazione”, come accade per altre analoghe frustrazioni nella cosiddetta arte concettuale.

Tanto per cominciare, l’eterogeneità degli elementi di Gober non equivale esclusivamente alla differenziazione astratta di materiali grezzi o di contenuti non combinabili – come nel caso dei “testi” postmodernisti in genere –, ma è anche “duplicata” e “rafforzata”, a dire il vero, da un’eterogeneità autenticamente più concreta e finanche sociale, quella dell’opera collettiva. Le molteplici storie delle forme che allontanano questi elementi l’uno dall’altro – il “tumulo” con i suoi precursori estetici e il “testo” ironico con i suoi, alquanto diversi, per non parlare della scuola del fiume Hudson e della sua antica storia particolare –, tutti questi materiali artistici distinti, che emettono le loro voci formali e materiali discordanti, qui evocano la presenza spettrale, ma sociale, di collaboratori umani veri, i quali sollevano nuovamente le questioni del soggetto e dell’agente, i falsi problemi del soggetto collettivo e dell’intenzione individuale, insieme all’irresolutezza delle “firme”. Questo secondo livello dell’opera amplifica dunque e orchestra l’eterogeneità del primo problema puramente formale della ricezione e dell’unificazione estetiche, trasformandolo in uno di natura sociale, senza cancellare affatto il dilemma formale – come vedere tutte queste cose insieme e inventare un rapporto percettivo tra di esse –, il quale resta accanto a esso come un secondo, intollerabile scandalo. Per contro, la porta fuori dai cardini continua a esortarci a rimettere tutto insieme, inscrivendosi nel frattempo come disgiunta, mentre dentro la nostra testa afferriamo gradualmente che produrre un concetto è spiacevolmente diverso dall’averne semplicemente uno, o anche pensarlo.

Sul piano sociale, tuttavia, questa presenza collettiva dell’opera incomincia peraltro ad acquisire una determinata precisione storica e a differenziarsi, in maniera non meno sgradevole, dalle vecchie categorie del Mitsein, già esistenti ma forse non più funzionali. La famiglia, per dirne una – quale ur-nozione di un certo vivere collettivo fondamentale – è del tutto assente da questa idea di una stanza, che non sente nemmeno più il bisogno di sovvertire o decostruire i valori familiari. È questo dunque l’aspetto ultimo, il più decisivo, che separa la stanza utopica di Gober da qualunque progetto autenticamente architettonico (anche di tipo “utopico”), perché quest’ultimo deve necessariamente venire alle prese con il problema della famiglia e del persistere della struttura familiare, anche laddove si cerca di collettivizzarlo, come avviene in particolare nelle cucine e nelle sale da pranzo della comunità (preoccupazione presente nel discorso utopico da More fino agli appartamenti apparentemente borghesi del Bellamy di Guardando indietro – nei quali palesemente manca la cucina – e oltre, fino ai nostri giorni). L’assenza, qui, di qualunque problematica legata alla famiglia si può interpretare come un’affermazione di genere, ma sicuramente sposta la questione del collettivo dal piano domestico a quello del lavoro collettivo di per sé, in questo caso identificato nella collaborazione artistica.

A questo punto però sopraggiunge una seconda specificazione di carattere storico: quale che sia tale collaborazione, infatti, sicuramente non è più il progetto avanguardistico delle vecchie avanguardie moderniste, la cui scomparsa, o impossibilità, ovviamente è stata spesso assunta come il tratto costitutivo di tutte le espressioni del postmodernismo. In altri termini, questa installazione non progetta né una politica stilistica di un tipo più generalizzabile, né una particolare politica culturale, come hanno fatto un tempo soprattutto il surrealismo o le avanguardie architettoniche, cioè diffondendo il virus protopolitico mediante la forza di un nuovo stile, oppure invocando un programma universale di radicale trasformazione politico-culturale con una singola opera, con questo o quel testo, edificio o dipinto. Anche qui, come in altre forme del postmodernismo, ci troviamo al di là delle avanguardie, sia pure con la differenza che l’opera collettiva si afferma ancora come qualcosa di altro rispetto a una mera somiglianza tra periodi o come l’incontro aneddotico delle menti tra singoli pittori o architetti. Il senso ultimo di tale affermazione dell’elemento collaborativo – che evita l’organizzazione di un movimento o di una scuola, ignora la vocazione dello stile e trascura la liturgia del manifesto o del programma – non è l’enigma più piccolo che ci mette di fronte l’installazione di Gober, ma è un enigma che fa a dir poco tutt’uno con le nuove questioni più propriamente politiche poste all’ordine del giorno dai “nuovi movimenti sociali” o dalla “micropolitica” contemporanea.

Tornando alla “lettura” più formale dell’opera in sé, si dovrebbe in primo luogo osservare che essa implica un’altra questione che i futuri storici del nostro momento culturale e teorico sono tenuti a considerare significativa e sintomatica. Intendo il ritorno e il rinnovamento, se non addirittura la reinvenzione in una forma imprevista, dell’allegoria, oltre a tutti i complessi problemi teorici dell’interpretazione allegorica. La destituzione del modernismo da parte del postmodernismo si può infatti misurare e percepire anche nella crisi di quel vecchio assoluto estetico che è il Simbolo, mentre i suoi valori formali e linguistici si sono garantiti l’egemonia nel lungo arco di tempo che va dal romanticismo al New Criticism fino ai tardi anni Cinquanta, con la canonizzazione delle opere “moderniste” nel sistema universitario. Se il simbolo è stato (avventatamente) assimilato a diverse concezioni organiche dell’opera d’arte e della stessa cultura, allora il ritorno del represso dei suoi svariati contrari, e di tutta una serie di teorie dell’allegoria manifeste o velate, si può ascrivere alla sensibilità generalizzata della nostra epoca per le fratture e le discontinuità, per l’eterogeneo (e non solo nelle opere d’arte), per la Differenza piuttosto che per l’Identità, per i vuoti e i buchi invece che per le trame impenetrabili e per le progressioni narrative trionfali, per la differenziazione sociale piuttosto che per la Società in sé e la sua “totalità”, in cui si immergevano e si riflettevano i vecchi principi dell’opera monumentale e dell’”universale concreto”. Che si tratti di quella di de Man o di Benjamin, della rivalutazione dei testi medievali o extraeuropei, dello strutturalismo di Althusser o di Lévi-Strauss, della psicologia kleiniana o della psicoanalisi lacaniana, l’allegoria si può esprimere con una formula minima come la questione posta al pensiero dalla consapevolezza delle distanze incommensurabili all’interno dell’oggetto del pensiero stesso, come le nuove e varie risposte interpretative concepite per abbracciare fenomeni riguardo ai quali quanto meno si concorda sul fatto che nessun singolo pensiero, nessuna singola teoria possano abbracciarli. L’interpretazione allegorica si configura pertanto in primo luogo come un atto interpretativo che ha inizio con il riconoscimento dell’impossibilità dell’interpretazione nella vecchia accezione, e con l’inclusione di tale impossibilità nelle sue istanze provvisorie o persino aleatorie.

L’allegoria nuova è infatti orizzontale invece che verticale: se deve ancora fissare ai suoi oggetti le proprie etichette concettuali dirette alla maniera del Viaggio del pellegrino, lo fa nella convinzione che tali oggetti (insieme alle loro etichette) sono ormai divenuti profondamente relazionali, anzi si costruiscono proprio mediante i rapporti dell’uno con l’altro. E se a questo si aggiunge l’inevitabile instabilità di tali relazioni, si comincia a intravedere il procedimento dell’interpretazione allegorica come una sorta di scansione che, muovendo avanti e indietro attraverso il testo, riadatta i propri termini in costante trasformazione, di un tipo affatto diverso rispetto agli stereotipi legati a una certa decifrazione medievale o biblica, tipo che si sarebbe tentati di definire (se anche questa non fosse una parola antiquata!) come dialettico.

(Vale forse la pena osservare di sfuggita che il metodo allegorico evocato qui è esattamente quanto richiesto e indotto dallo schema periodizzante della frattura modernismo/postmodernismo in quanto tale. Ancora una volta dunque, come spesso accade, la teoria del postmodernismo rappresenta essa medesima un esempio di ciò che pretende di anatomizzare: le nuove strutture allegoriche sono postmoderne e non si possono esprimere senza l’allegoria del postmodernismo).

È comunque così che si impone la lettura dell’installazione di Gober, quale movimento costante da un oggetto all’altro, movimento entro il quale ogni termine, giacché sta di fronte a uno degli altri tre, vede il proprio valore e il proprio significato più o meno sottilmente modificati. Questo movimento si può descrivere sommariamente se resta inteso che sono possibili qualunque direzione e qualunque punto di partenza, e che quella che si presenta qui è solamente una delle svariate traiettorie e combinazioni logicamente possibili (e forse una delle più ovvie). Perciò è solo apparentemente “logico” e “naturale” incominciare con la struttura stessa – la casa, la dimora – che in quanto spazio edificato e abitazione, prodotto della società e della cultura, sta nell’opposizione più immediata con il tumulo, il quale contrassegna a sua volta il luogo della Natura in una molteplicità di sensi che si rifanno al gusto pastorale secentesco o a quello shakespeariano. Alla prima lettura, sia l’elemento sociale (il vano della porta) che quello naturale (il tumulo) vengono assunti come realtà, quali dimensioni ontologiche del mondo.

L’abbinamento dei significati suggerisce poi che il “mondo” stesso – in quanto combinazione di società, ovvero cultura, e natura – può essere contrapposto a quella questione piuttosto diversa che è la sua rappresentazione, l’ambito estetico, in cui tanto la natura quanto la cultura (l’elemento naturale e quello sociale) possono essere oggetti della rappresentazione. Anzi, sono entrambi termini presenti in un reciproco rapporto dialettico nella scuola pittorica del fiume Hudson, nella misura in cui un particolare tipo di paesaggio – meglio ancora, l’ideologia di un particolare tipo di paesaggio – emette allo stesso tempo una serie di messaggi ideologici precisi sulla “società” e sulle realtà storico-sociali, le quali, assenti in esso, costituiscono con intensità non minore l’oggetto implicito della sua costruzione. La tradizionale pittura di paesaggio in questa istanza trasforma retroattivamente le prime due realtà apparentemente ontologiche della società e della cultura nell’ideologia e nella rappresentazione.

Tuttavia, chi solleva oggi la questione della rappresentazione spalanca immediatamente un nuovo campo di forze in cui è chiaro che la vecchia pittura è essa stessa un documento storico, un momento tramontato della storia dell’evoluzione della cultura nordamericana. Con questo spostamento dell’attenzione sulla pittura di paesaggio, siamo già sulla via di stabilire un nesso storicistico e maggiormente scandaloso con l’ultimo pezzo della raccolta, vale a dire l’oggetto virulento proveniente dal presente, il testo di Richard Prince, segnato da una struttura “concettuale” e assai enigmatica che annuncia di colpo la presenza del postmoderno, trasforma tutti e tre i termini precedenti in oggetti nostalgici, curiosità americane da collezionisti, e li proietta inaspettatamente in un passato ormai lontano. Su questo resta l’interrogativo non meno imbarazzante se, in pieno tardo capitalismo postmodernista, con il suo eterno presente e le sue tante amnesie storiche, esso non abbia un’esistenza più autentica di quella di uno stereotipo o di una fantasia culturale.

A questo punto, però, la traiettoria della significazione non giunge a una battuta d’arresto, al contrario inizia per davvero. Adesso, infatti, possiamo spostarci dal testo postmodernista al tumulo altrettanto postmodernista e chiederci se esso – ben lungi dal contrassegnare il luogo della Natura – non costituisca invece una sorta di tomba della Natura, dal momento che questa è stata sistematicamente rimossa dal mondo oggettuale e dai rapporti sociali di una società ove il dominio tendenziale sull’Altro (ciò che non è umano o un tempo era naturale) è più completo che in qualsiasi altro momento della storia dell’uomo. Da tale prospettiva, come il lutto per un oggetto perduto che a stento si può ricordare come tale, il percorso a ritroso attraverso gli altri oggetti ce li mostra radicalmente modificati e trasformati. Il telaio della porta – metonimia dell’abitazione umana e dell’elemento sociale – adesso risulta non essere stato esclusivamente culturale, oltre che una rappresentazione, bensì la rappresentazione nostalgica di una forma più naturale dell’abitare. Adesso “apre la porta” a un’infinità di inquietudini economiche e sociali sulla speculazione immobiliare e sulla scomparsa dell’edilizia unifamiliare vecchio stile, che costituiscono l’altra faccia del “postmoderno” del nostro tempo. Così tali elementi traggono con sé il dipinto di paesaggio in una realtà sociale completamente nuova, dove esso, da documento di storia culturale, diventa pezzo d’antiquariato, merce, pezzo di arredamento yuppie, in tale misura non meno “contemporaneo” del suo omologo postmoderno. Quanto a quest’ultimo, nella nostra nuova traiettoria inizia a porsi in primo piano con maggiore insistenza come linguaggio e comunicazione (piuttosto che come prodotto artistico in una qualunque delle vecchie accezioni) e in tale nuova costruzione porta l’onnipresenza dei media in quanto tali, quello che a molti è parso costituire uno degli aspetti essenziali della società contemporanea.

Tuttavia a questo stesso punto la vittoria del postmoderno – il trionfo su quei vecchi oggetti apparentemente nostalgici che lo accompagnano – non è affatto certa. Il testo incorniciato è infatti il tocco di intensità, la nota stridente, il punctum di Barthes, nel senso dell’elemento più attivo che mette tutto il resto in un movimento disorientante; è anche il più fragile degli oggetti associati, e non soltanto perché nel contenuto del suo umorismo serba una specie di nostalgia e al proprio interno una etnicità di sapore antico. In uno di quei rovesciamenti caratteristici di qualunque “dominante” – come l’episteme attuale, in larga misura “strutturalista”, nella quale il Linguaggio in sé viene inteso come la sostanza, la realtà fondamentale, l’”istanza sommamente determinante” –, questo testo scritto giunge davanti a noi con una incorporeità che non fa che riconfermare e avvalorare la solida presenza visiva dei suoi vicini.

Comincia così ad accadere che, da semplici riflessi nostalgici, questi oggetti si caricano lentamente del valore attivo e positivo della resistenza cosciente, in quanto scelte e atti simbolici che rifiutano ormai la cultura dominante, strettamente decorativa, e pertanto si affermano come qualcosa di emergente, invece che di residuale. Quello che era il piacere di un passato di fantasia finisce ormai per assomigliare più che altro alla costruzione di un futuro utopico.

Quel che si è delineato qui sul piano speculativo non è però esclusivamente una traiettoria “in-terminabile” da una “interpretazione” a un’altra concorrente. Può assumere molte altre forme, e interrompere l’analisi a questo punto non implica che il “futuro utopico” sia stato in alcun modo assicurato, anche come immagine o come rappresentazione. Gli “oggetti” continuano ad abbinarsi l’uno contro l’altro in costellazioni instabili, mentre la qualità del “pensiero” ha alti e bassi, brilla e diviene di nuovo più oscura, in un mutamento incessante.

L’installazione emette inoltre un altro tipo di messaggio che, come si è già suggerito, concerne il sistema delle belle arti in quanto tale, ossia, in un linguaggio più attuale, i rapporti tra i vari media. Come la sinestesia in ambito letterario (Baudelaire), l’ideale della Gesamtkunstwerk rispettava il “sistema” delle varie arti e a esso rendeva omaggio nella nozione di una più ampia sintesi globale nella quale esse si potessero in qualche modo “combinare” (il parallelismo teorico e filosofico con la concezione superata dell’interdisciplinarità è sorprendente), generalmente sotto la “guida fraterna” di una di queste, nel caso di Wagner la musica. Come si è detto, l’installazione in esame non corrisponde a tutto questo, se non altro perché il “sistema” sul quale si fondava la vecchia sintesi si è fatto esso stesso problematico, insieme alla pretesa, da parte di ognuna delle singole arti, di una propria intrinseca autonomia o semiautonomia. In altre parole, i media accostati in questo caso non attingono alla coerenza interna di un linguaggio autenticamente scultoreo (in Gober come in Webster), né a quella di una tradizione pittorica ancora coerente al proprio interno (il paesaggio tradizionale, la “pittura” postmoderna), e neanche a un qualche primato dell’architettura quale insieme di forme. Se in un certo senso si tratta di “mixed media” (il corrispettivo contemporaneo della Gesamtkunstwerk, pur con tutte le differenze già enumerate), prima di tutto viene la “commistione”, che ridefinisce i media coinvolti mediante un’implicazione a posteriori.

Sembrerebbe nondimeno chiara, qui, la presenza di un messaggio secondario sulla pittura, che sarebbe esagerato delineare come la detronizzazione di quest’ultima, il quale sarà inevitabilmente letto a partire dalla situazione postcontemporanea e dal dibattito sulla condizione di una certa pittura propriamente “postmoderna”, divenuto così centrale nella sua pratica così com’è accaduto in passato a quelli intorno all’architettura. La differenziazione della pittura in “paesaggio” e “testo” problematizza le pretese di quest’arte specifica più brutalmente di qualsiasi cosa nei componenti scultorei o architettonici. Per contro, il fatto che qui è in questione lo slancio utopistico sarà evidente non solo dallo statuto della pittura in generale nel modernismo, ma, in particolare, dalla valutazione del cubismo operata da John Berger, cui ho già fatto cenno:

Nel corso del primo decennio di questo secolo è divenuto teoricamente possibile un mondo trasformato, e si poteva già riconoscere l’esistenza delle forze necessarie al cambiamento. Il cubismo è stato l’arte che rifletteva la possibilità di questo mondo trasformato e la fiducia che esso ispirava. Perciò, in un certo senso, esso ha rappresentato l’arte più moderna – oltre che la più complessa sul piano filosofico – che sia finora esistita.84

Berger chiosa esplicitamente questi tempi intendendo non soltanto che la vocazione utopica della pittura incarnata dal cubismo è stata troncata dalla guerra e dal fallimento della rivoluzione globale che l’ha seguita, ma anche che il cubismo fallito del passato costituisce altresì il nostro futuro, nella misura in cui esprime uno slancio utopistico che non siamo stati ancora capaci di reinventare. Pur tuttavia anche le altre avanguardie dispongono di un loro specifico momento utopico, che nel dada è una negatività esplosiva non meramente critica, ma che incarna la dinamica profonda della storia stessa, quale «ininterrotto sovvertimento delle forme di oggettualità che plasmano l’esistenza dell’uomo»85. La vocazione utopica del surrealismo sta invece nel tentativo di fornire al mondo oggettuale della società industriale guasta e compromessa il mistero e la profondità, le qualità “magiche” (per parlare come Weber o i latinoamericani) di un inconscio che sembra parlare e vibrare attraverso quelle cose.

Quindi è contro queste molteplici vocazioni utopiche della pittura modernista che si devono leggere le implicazioni della posizione di Gober (a sua volta collocata, come ho già detto, in un nuovo tipo di spazio utopico). Tuttavia il nuovo giro di vite della situazione contemporanea causa la trasformazione di qualsiasi valutazione della pittura postmoderna in un insieme di asserzioni sulle sue varie alterità mediatiche, in particolare sulla fotografia, la cui straordinaria reinvenzione odierna (nella teoria come nella prassi) rappresenta un dato di fatto e un sintomo fondamentali dell’era postmoderna. Si tratta di una circostanza che il segmento fotografico dell’installazione in discussione dimostra in maniera spettacolare, mentre allo stesso tempo ne garantisce la consonanza con il segmento dell’installazione rivelando una propria insospettata vocazione utopica. L’impressione è anzi che le varie correnti della fotografia contemporanee del movimento moderno in pittura tendessero ancora a mutuare le proprie giustificazioni estetiche e apologetiche da quel medium, considerando la propria funzione, nella migliore delle ipotesi, come una «redenzione della realtà fisica» (secondo la definizione del realismo filmico data da Kracauer) tramite una rivelazione del mondo visibile che ne costituiva anche, secondo modi e stili vari, lo smascheramento. La vocazione della fotografia contemporanea potrebbe essere alquanto diversa, come cercherò di mostrare. La dimostrazione esige un attraversamento dell’apologetica, parimenti trasformata, della pittura postmoderna, nella quale però la dialettica di costruzione e decostruzione che abbiamo trovato utile nella valutazione dell’installazione di Gober farà la propria inattesa ricomparsa entro un nuovo contesto.

In ogni caso, quel che è certo fin dal principio è che, al di là della tendenza specifica che promuovono nell’ambito di quel pluralismo che ne costituisce l’aspetto celebrato con maggiore entusiasmo, i portavoce della pittura postmoderna concordano sulla rinuncia, da parte dell’arte neofigurativa contemporanea, alle inclinazioni utopistiche della pittura precedente (cioè modernista). Essa non ha più a che vedere con nulla al di fuori di sé stessa (e tanto meno con la spinta transestetica delle grandi espressioni del modernismo). Con la perdita di questa missione ideologica, e con la liberazione dalla storia delle sue forme come una sorta di telos, la pittura è ormai libera di seguire «un atteggiamento nomade di reversibilità di tutti i linguaggi del passato» (it 686), concezione che vuole «privare di significato il linguaggio» e «tende a considerare la lingua della pittura interamente intercambiabile. Ciò mette al riparo da ogni fissazione e da ogni mania, a favore di una pratica della volubilità come valore. […] La continuità di stili diversi produce una catena di immagini operanti tutte sullo spostamento e sulla progressione, che non è mai progettata ma fluida» (it 18-20). «In tal modo il significato viene stordito, attenuato, reso relativo, relazionato ad altre sostanze semantiche che galleggiano dietro il recupero degli innumerevoli sistemi di segni. Da qui una sorta di dolcezza dell’opera che non parla più perentoriamente e non erge le proprie spoglie sulla fissità ideologica ma si scioglie nello strabismo di molte direzioni» (it 24). Queste definizioni assai interessanti sollevano in maniera ineguale due questioni relative alla nuova pittura. La prima è costituita da quello che talvolta viene individuato come il suo storicismo, vale a dire la separazione da una storia autentica, da una dialettica degli stili e dei contenuti delle sue forme, che la rende “libera” di recuperare «stili pittorici […] come una sorta di object trouvé, spaesati dai loro riferimenti semantici, da ogni rinvio metaforico. Essi sono macinati all’interno dell’elaborazione dell’opera che diventa il crogiuolo depurante la loro esemplarità. Per questo è possibile la ripresa di riferimenti inconciliabili tra loro e l’intreccio di diverse temperature culturali», attraverso «innesti inediti e diverse dislocazioni dei linguaggi rispetto alla loro collocazione storica» (it 58-60). «Qui subentra una sensibilità neo-manieristica che attraversa la storia dell’arte senza alcuna retorica e patetica identificazione, ma piuttosto con disinvolta lateralità, capace di tradurre la profondità storica dei linguaggi recuperati in un superficialismo disincantato e disinibito» (it 68). L’altro aspetto della condizione postmoderna sottinteso ma non affrontato in queste osservazioni è ovviamente una nostra vecchia conoscenza, la “morte del soggetto”, la fine dell’individualità, l’eclissi della soggettività in un nuovo anonimato che non corrisponde a un’estinzione o a una repressione puritane, ma probabilmente neanche a quel flusso schizofrenico e a quella liberazione nomadica per i quali è stata spesso celebrata.

Surrealismo senza l’inconscio: così sarei tentato di caratterizzare la nuova pittura, nella quale emergono i generi più sfrenati di figurazione, con una mancanza di profondità che non è neppure allucinatoria, come le libere associazioni di un soggetto collettivo impersonale, senza la carica e l’investimento di un inconscio individuale o di gruppo. L’iconografia popolare di Chagall senza l’ebraismo o i contadini, i disegni a matita di Klee senza il suo particolare progetto personale, l’arte schizofrenica senza la schizofrenia, il “surrealismo” senza il proprio manifesto o la propria avanguardia. Ciò significa che quello che chiamavamo inconscio era esso medesimo una pura illusione storica generata da determinate teorie in una certa configurazione del campo sociale specifica di una situazione (che comprende un certo tipo di oggetti e di individui urbani)? Il punto sta tuttavia nel rintracciare una differenza storica radicale, e non nel prendere posizione o distribuire certificati di valore storico.

Colpisce che con questo spirito l’odierna pittura neofigurativa sia proprio quello spazio straordinario attraverso il quale si spandono e fluttuano casualmente tutte le immagini e le icone della cultura, come un ingorgo del visivo, che recano con sé tutto quanto proviene dal passato all’insegna della “tradizione”, giunta nel presente in tempo per essere reificata a livello visivo, fatta a pezzi e spazzata via con il resto. È questo il senso in base al quale ho associato questa pittura al termine decostruttiva, perché essa costituisce un’immensa dissezione analitica di tutto, oltre che un’incisione dell’ascesso visivo. Se l’operazione abbia una valenza terapeutica – nell’accezione proposta una volta da Susan Sontag, che evocava una sorta di “ecologia” delle immagini, un digiuno anticonsumistico o un’idroterapia per la società delle immagini87 – è ben lungi dall’essere chiaro. In ogni caso è difficile vedere la funzione di un concetto come “la cura” in assenza di un soggetto tanto individuale quanto collettivo. Eppure nei momenti migliori di questa pittura, come nell’opera di David Salle, si sprigiona un potente moto di interferenza: nubi di cortocircuiti elettrici, lo sfrigolare di carne bruciata speculare o persino scopofila. La categoria archetipica di quest’ultimo (giacché per la precisione non si tratta di una forma) sembra essere l’organizzazione vuota del dittico, del doppio riquadro, talvolta riscritto sotto forma di sovrapposizioni, esagerate e sovraccariche di ghirigori, dove però resta assente il contenuto che accompagna tradizionalmente un gesto del genere (“guarda questa immagine e adesso quest’altra”): autenticazione e deautenticazione, smascheramento, ridimensionamento di un sistema di segni nel nome di un altro, o della “realtà” stessa. E nello stesso tempo la fine dell’ideologia, in particolare la fine di Freud e della psicoanalisi, garantisce l’incapacità di qualunque sistema ermeneutico o interpretativo di addomesticare queste giustapposizioni e di volgerle in significati utilizzabili. Allorché sono in azione è dunque arduo distinguere tra lo shock che le attesta come “attive” e quella «dolcezza» di cui parla Bonito Oliva, la quale scaturisce dal fatto che l’oggetto artistico si astiene dal rivolgersi a noi e intimidirci con delle finalità ideologiche, ma anche dalla sua dissoluzione in uno «strabismo di molte direzioni».

Sotto questo profilo, appare utile e istruttivo giustapporre questa pratica della frammentazione nell’ambito della pittura – l’incorniciatura a dittico, il collage sequenziale, le immagini sforbiciate, procedure che sarebbe meglio denominare segmentazione dello schermo –, così come viene messa in atto in quelli che sarei tentato di chiamare aspetti da base e sovrastruttura di David Salle e nei fotografi qui esposti, ancorché secondo modalità varie: le immagini rifotografate e ricombinate di Wasow, le “iridi” e le didascalie illustrative di Simpson, le massime di Larry Johnson, gli oggetti anatomici su più pannelli di Cypis, le analisi letterali di Welling. Anche le trasparenze di Wall si possono considerare secondo tale criterio, se la foto vera viene separata dalla resa luminosa o stereoscopica cui è soggetta (come una dimensione di sotto, invece che, come in Salle, la sovrimpressione o l’affiancamento). Sarei tentato di dire che le parti e i segmenti di tali “opere” o “testi” non si demistificano reciprocamente, malgrado l’arte di Simpson vi si avvicini maggiormente, e le componenti “femministe” di quella di Cypis – cioè i pezzi di corpi femminili – garantiscano un certo sforzo obbligato di lettura radicale. La questione si può tuttavia affrontare meglio attraverso la percezione: ci si dice, per esempio, che la percezione fotografica dipende moltissimo dall’identificazione in sé, da un certo tentativo antecedente di riconoscere l’oggetto quanto meno in termini generici, dopodiché possiamo indagare quanto c’è di inatteso in questa sua particolare visione, in questa sua posa. Una determinata conoscenza preventiva, una nomenclatura o una terminologia generale: forse anche queste hanno esercitato un ruolo cruciale nei primi momenti dell’analisi della grande tradizione della pittura figurativa fino alla modernità, ma oggi paiono ormai trasferite nella fotografia contemporanea, nella quale occorre riconoscere e identificare i frammenti stilistici. Una volta effettuata, questa singola identificazione conduce alla separazione assoluta dagli altri elementi, donde la coesistenza e il conflitto di queste “essenze semiotiche”.

La mia impressione è che la segmentazione propria della fotografia contemporanea non operi necessariamente nella stessa maniera “decostruttiva” dei pittori, ma può mostrare i segni di strutture ancor più nuove, per le quali fino a oggi ci sono mancate le giuste categorie storiche e formali.

Una certa differenza di temperatura tra gli anni Sessanta e gli Ottanta si può rilevare riflettendo, per esempio, su quelli che il Ballard della Mostra delle atrocità avrebbe chiamato paesaggi spinali delle fotografie di Oliver Wasow. (Si veda la #146 riprodotta nel primo capitolo). Di fatto in Wasow risulta assente lo sfondo di violenza e dolore degli anni Sessanta, nei quali il Vietnam e il Congo richiamano alla mente Hiroshima sotto forma di incidenti stradali tra molti veicoli su un paesaggio lunare di palazzi e autostrade in rovina. Eppure la stratificazione della visione mostra delle singolari affinità con quanto evocato da Ballard nel “paragrafo” seguente, intitolato “La persistenza della memoria”:

Una spiaggia vuota con la sabbia fusa. Qui il tempo dell’orologio non conta più. Anche l’embrione, simbolo della crescita segreta, della possibilità, è prosciugato e debole. Queste immagini sono le vestigia di un momento del tempo che rimane nella memoria. Per Talbot gli elementi più inquietanti sono le sezioni rettilinee della spiaggia e del mare. Queste due immagini, dislocate nel tempo e legate indissolubilmente al suo continuum, si sono deformate trasformandosi nelle strutture rigide e inflessibili della sua coscienza. Più tardi, camminando sul cavalcavia, comprendeva che le forme rettilinee della sua realtà cosciente erano elementi deformati provenienti da un futuro tranquillo e armonioso.88

La frase del titolo va sicuramente letta in contrasto con quella dottrina (apparentemente pseudoscientifica) della “persistenza della visione”, la quale ha svolto un ruolo tanto grande ed emblematico nella teoria filmica, ove l’illusione della continuità viene generata dal sovrapporsi sulla retina di immagini residue statiche. Ballard proietta dunque tale sovrapposizione nella nostra esperienza del mondo e delle sue molteplici realtà, le cui discontinuità ricompaiono nel momento della crisi, del tracollo individuale e collettivo, separandosi nelle fasce stratificate della spiaggia e del mare. L’apparato dell’angoscia e del trauma, la strumentazione che consente il disastro storico e sociale, sembrano assenti dai raggi X di Wasow (a meno che per la generazione più recente questi elementi siano interiorizzati a tal punto che l’influsso di Ballard non è più individuabile). Tuttavia qui Ballard – caso unico nella sua opera, credo – invoca anche l’utopica «epoca di riposo» (William Morris), quel «futuro tranquillo e armonioso» che in qualche modo penetra, con i suoi messaggi e segnali inimmaginabili, nel nostro devastato ecosistema postatomico e fa sentire la propria presenza assente mediante la forma vuota di volumi striati, di livelli, di fasce sovrapposte di sostanze assenti spiccate quanto i colori primari, gli elementi originari dei Presocratici, o un certo sogno regressivo della semplicità estrema dello stato di natura. Nel momento culminante del racconto Le voci del tempo, inoltre, i componenti spaziali dell’universo parlavano al protagonista, ma lo facevano nelle emissioni, nei linguaggi distinti di vari ordini di entropia:

[…] Powers avvertì d’improvviso il peso tremendo della scarpata che s’innalzava nel cielo scuro come una scogliera di gesso luminoso […]. Non solo egli vedeva la scarpata, ma era consapevole della sua immensa età […]. Le creste frastagliate […] gli recavano tutti una distinta immagine di sé, tantissime voci che assieme testimoniavano il tempo complessivamente trascorso nella vita della scarpata […].

[…] distogliendo lo sguardo dalla parete collinare avvertì una seconda ondata temporale riversarsi sulla prima. L’immagine, più vasta ma prospetticamente meno profonda, [si irradiava] dall’ampio disco del lago salato […].

Chiudendo gli occhi, Powers si addossò allo schienale e guidò l’auto lungo il varco tra i due fronti temporali, sentendo nella mente approfondirsi e rafforzarsi le immagini.89

A queste si aggiungono poi le voci provenienti dallo spazio galattico, che alla fine convergono tutte sull’obiettivo ultimo, il corpo di Powers al centro del suo mandala. Eppure le rassicuranti fantasie di estinzione del primo Ballard, che nei cataclismi mondiali degli anni Sessanta non paiono più possibili, paradossalmente scambiano le formulazioni dell’entropia e il passato geologico per il fragile riconoscimento di un futuro e di un’utopia irraggiungibili, tanto più potenti per l’atmosfera tossica che devono penetrare. Con Wasow siamo ormai negli anni Ottanta e i colori cupi, allucinatori delle sue fasce spinali utopiche hanno qualcosa di quella conflagrazione quieta e soprannaturale dei tramonti sopra Santa Monica, contrassegnati da effetti ottici dovuti, si dice, all’estrema densità dell’inquinamento chimico dell’atmosfera.

Ho la sensazione che sia proprio tale differenziazione interna – fasce all’interno dell’immagine che entrano in risonanza l’una con l’altra – a garantire la disposizione utopica della nuova fotografia. Oltre alla rigida lucentezza dell’oggetto e alla sua incorporazione della macchina in quanto tale, i piaceri tradizionali della fotografia comprendono una referenzialità che la pittura ha tradizionalmente cercato di abolire. Come nella dialettica del nome90, che si separa dal proprio oggetto e sta ormai di fronte a esso, la foto ha sempre ostentato la propria indipendenza come riproduzione di un oggetto dal quale era “indistinguibile”. Nella pittura contemporanea si è tuttavia rilevato che, nella misura in cui la società moderna si “accultura” e la realtà sociale assume una forma più specificamente culturale – stereotipi, immagini collettive e così via –, la pittura postmoderna recupera una sorta di referenzialità e reinventa il “referente” proprio sotto forma di queste fantasie culturali collettive.

Nella sua versione contemporanea o finanche postmoderna, la fotografia sembrerebbe quindi essersi evoluta nella direzione opposta, rinunciando alla referenzialità per elaborare una visione autonoma priva di equivalenti esterni. La differenziazione interna si configura ormai come il segno, il momento di una dislocazione decisiva, in virtù della quale il precedente rapporto dell’immagine con il referente viene soppiantato da una relazione interna, interiorizzata (ove, di conseguenza, nessuna delle “fasce” delle immagini di Wasow dispone di una priorità referenziale sulle altre). Per parlare in termini più psicologici, l’attenzione dell’osservatore è assorbita da un’opposizione differenziale all’interno della stessa immagine, tanto che gli/le restano poche energie perché si possa concentrare sulla vecchia operazione della “rassomiglianza” e dell’”accostamento” che mette a confronto l’immagine con un presunto oggetto all’esterno. Paradossalmente, però, è proprio l’attenzione a quell’”esterno” – il quale penetra ormai nella coscienza nella forma delle realtà esterne delle fantasie collettive e dei materiali dell’Industria Culturale – a determinare l’originalità della pittura postmoderna come quella di Salle.

Resta da vedere se questa nuova fotografia utopica conoscerà il destino della vecchia fotografia d’arte di carattere sperimentale (astrazioni, ingrandimenti di gocce di latte irriconoscibili, trucchi meccanici di ogni genere), segnata da un’estetica che Barthes non è il solo ad aborrire. Contro quest’assimilazione c’è, tra le altre cose, lo stesso mutamento della nostra concezione dell’arte e della cultura; tra i messaggi ormai intollerabili emessi dalla vecchia fotografia d’arte c’era infatti la pretesa di essere “arte” (invece che fotogiornalismo), pretesa che le immagini recenti non paiono dover sostenere o enunciare. Pare abbastanza chiaro che questo utopismo è un’ideologia, anche un’ideologia estetica; ma nel momento in cui come minimo si concorda che tutto è ideologia, o meglio ancora che non c’è nulla al di fuori dell’ideologia, allora l’ammissione non sembra neanche troppo compromettente. Eppure nella nostra epoca, nella quale le istanze della politica ufficiale sembrano eccezionalmente affievolite e l’assunzione di posizioni politiche di vecchio tipo pare ispirare un disagio diffuso, si dovrebbe osservare che oggi – se non altro tra gli artisti e gli scrittori – si ritrova dappertutto una sorta di misconosciuto “partito dell’utopia”: un partito clandestino di cui è difficile determinare le dimensioni, con un programma non proclamato e forse addirittura nemmeno formulato, un partito dall’esistenza ignota alla cittadinanza e alle autorità nel loro insieme, anche se i suoi membri sembrano riconoscersi reciprocamente grazie a segreti segnali massonici. Si ha persino l’impressione che tra i suoi seguaci possano esserci alcuni degli artisti presentati qui.

83 I numeri di pagina citati nel testo si riferiscono a J.G. Ballard, Tutti i racconti 1956-1963, Roma, Fanucci, 2005, vol. I.

84 J. Berger, The Look of Things, New York, Viking Press, 1974, p. 161, corsivo mio.

85 G. Lukács, Geschichte und Klassenbewusstsein, Berlino, Der Malik, 1923 [Storia e coscienza di classe, trad. di G. Piana, Milano, Sugarco, 1991, p. 245].

86 D’ora innanzi tutti i riferimenti al testo di A. Bonito Oliva, The International Trans-avantgarde, Milano, Politi, 1982, saranno citati con la sigla IT.

87 Cfr. S. Sontag, On Photography, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1977 [Sulla fotografia, trad. di E. Capriolo, Torino, Einaudi, 1992, p. 156].

88 J.G. Ballard, Love and Napalm: Export U.S.A., New York, Glove Press, 1972 [La mostra delle atrocità, trad. di A. Caronia, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 31-32].

89 J.G. Ballard, Tutti i racconti 1956-1963, cit., pp. 323-324.

90 Cfr. M. Horkheimer — T.W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, New York, Social Studies Ass., 1944 [Dialettica dellilluminismo, trad. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1997, pp. 26 sgg].