Introduzione

Il modo più sicuro per intendere il concetto di postmoderno è considerarlo come un tentativo di pensare storicamente il presente, in un’epoca che prima di tutto ha dimenticato come si pensa storicamente. Secondo quest’accezione, il postmoderno “esprime” un irrefrenabile impulso storico più profondo (sia pure in maniera distorta), oppure lo “reprime” o lo devia efficacemente, relativamente all’aspetto dell’ambiguità che si predilige. Quindi il postmodernismo, la coscienza postmoderna possono equivalere al massimo alla teorizzazione della propria condizione di possibilità, che consiste in primo luogo in una pura e semplice enumerazione di cambiamenti e di modificazioni. Anche il modernismo ha pensato il Nuovo in maniera compulsiva e ha cercato di osservarne la nascita (per questo ha inventato congegni di registrazione e di iscrizione analoghi alla fotografia storica al rallentatore), tuttavia il postmoderno ricerca delle fratture, degli eventi, piuttosto che mondi nuovi, l’istante rivelatore dopo il quale niente è più come prima; cerca l’istante in cui «è cambiato tutto»1, come scrive Gibson, o, meglio ancora, cambiamenti e mutamenti irrevocabili nella rappresentazione delle cose e del modo in cui esse si modificano. I moderni si sono interessati a ciò che probabilmente sarebbe scaturito da questi cambiamenti e dalla loro tendenza complessiva: pensavano alla cosa in sé, a livello sostanziale, in una prospettiva utopica o essenziale. A tale riguardo il postmodernismo è più formale e “distratto”, come avrebbe detto Benjamin; esso non fa che registrare le variazioni in sé e sa fin troppo bene che i contenuti sono semplicemente altre immagini. Nel modernismo, come cercherò di mostrare più avanti, sussistono ancora alcune zone residuali della “natura” o dell’”essere” del vecchio, dell’antico, dell’arcaico; la cultura può ancora influire su quella natura e tentare una trasformazione di quel “referente”. Il postmodernismo è ciò che ci si trova di fronte allorché il processo di modernizzazione si è compiuto e la natura è svanita per sempre. Rispetto a quello precedente, si tratta di un mondo più compiutamente umano, nel quale tuttavia la “cultura” è diventata un’autentica “seconda natura”. In effetti, quanto è accaduto alla cultura può valere come uno degli indizi più rilevanti per seguire le tracce del postmoderno: un’enorme dilatazione della sua sfera (quella delle merci), un’immensa e storicamente originale acculturazione del Reale, un grande balzo verso quella che Benjamin chiamava ancora «estetizzazione» della realtà (che riteneva fosse il fascismo, ma noi sappiamo che si tratta solamente di divertimento: una colossale euforia per il nuovo ordine di cose, una corsa alle merci, la tendenza delle nostre “rappresentazioni” delle cose a suscitare un entusiasmo e un mutamento dello stato d’animo non necessariamente ispirati dalle cose stesse). Così nel postmoderno la “cultura” è diventata un prodotto a sé e il mercato si è completamente trasformato nel surrogato di sé stesso, in una delle tante merci che contiene, mentre la modernità rappresentava ancora tendenzialmente la critica della merce, oltre che il tentativo di far sì che essa si trascendesse. Il postmodernismo è il consumo della pura mercificazione come processo. Lo “stile di vita” della superpotenza americana sta perciò in rapporto con il «feticismo» delle merci di Marx, come i monoteismi più progrediti rispetto all’animismo primitivo o al culto idolatrico più elementare. Di fatto, tra qualunque raffinata teoria del postmoderno e la vecchia nozione di «industria culturale» formulata da Horkheimer e Adorno deve darsi il medesimo rapporto che c’è tra MTV e le pubblicità frattali da una parte e le serie televisive degli anni Cinquanta dall’altra.

Frattanto anche la stessa “teoria” è mutata e offre a sua volta la propria pista per chiarire il mistero. Anzi, uno dei tratti più sorprendenti del postmoderno è che nel suo seno è confluita un’ampia gamma di analisi tendenziali di natura fino a un certo momento diversa: previsioni economiche, studi di mercato, critiche della cultura, nuove terapie, geremiadi – in genere ufficiali – a proposito delle droghe o del permissivismo, recensioni di mostre d’arte o di festival cinematografici nazionali, culti o “revival” religiosi. Il nuovo genere discorsivo che esse formano si potrebbe denominare “teoria del postmodernismo”, la quale merita di per sé una certa attenzione. Si tratta chiaramente di una categoria che a sua volta costituisce un componente della propria medesima categoria, e io non vorrei dover stabilire se i capitoli che seguono siano indagini sulla natura di tale “teoria del postmodernismo” o dei semplici esempi di essa.

Ho cercato di evitare che la mia personale versione del postmodernismo – che mette in scena una serie di caratteristiche e di aspetti semiautonomi e relativamente indipendenti – si ricombinasse a sua volta nel sintomo unico ed eccezionalmente privilegiato di una perdita di storicità, circostanza che di per sé difficilmente potrebbe connotare in maniera infallibile la presenza del postmodernismo, come stanno a testimoniare contadini, esteti, bambini, economisti liberisti o filosofi analitici. È tuttavia arduo esaminare la “teoria del postmodernismo” in senso generale senza fare ricorso alla questione della sordità storica, condizione esasperante (purché se ne sia consapevoli) che determina una serie di spasmodici e intermittenti, sebbene disperati, tentativi di recupero della storia. La teoria del postmodernismo è uno di questi tentativi: lo sforzo di misurare la temperatura dell’epoca senza strumenti, nel quadro di una situazione nella quale non siamo nemmeno sicuri che esista ancora qualcosa di coerente come un’”epoca”, uno Zeitgeist, un “sistema” o una “situazione attuale”. La teoria del postmodernismo è dunque dialettica, per lo meno nella misura in cui dispone dell’ingegno per cogliere al volo quella stessa incertezza come un primo indizio e restare aggrappata al proprio filo di Arianna nel percorso all’interno di quello che potrebbe rivelarsi non essere un labirinto, ma un gulag o magari un centro commerciale. Nondimeno, un enorme termometro alla Claes Oldenburg, lungo quanto l’intero isolato di una città, potrebbe fungere da misterioso sintomo del processo, caduto dal cielo senza preavviso come un meteorite.

Parto infatti dall’assioma secondo cui la “storia modernista” è la prima vittima, la prima assenza misteriosa, del periodo del postmodernismo (questa è in sostanza la versione della teoria del postmodernismo propria di Achille Bonito Oliva2). In effetti, almeno nell’arte la nozione di progresso e di telos è rimasta viva fino a tempi assai recenti, nella sua forma più autentica, meno sciocca e caricaturale: ogni opera autenticamente nuova avrebbe scavalcato in maniera imprevista eppure logica quante l’avevano preceduta (non si trattava di una “storia lineare”, bensì piuttosto della «mossa del cavallo» di Sˇklovskij, di quell’azione a distanza, del salto quantico, che fa balzare alla casella non sviluppata o sottosviluppata). A dire il vero la storia dialettica affermava che tutta la storia procede in questo modo, avanzando per così dire sul piede sinistro, come ha scritto una volta Henri Lefebvre, per mezzo di catastrofi e disastri; tuttavia coloro che lo ascoltarono furono meno di quelli che credettero al paradigma estetico modernista, il quale, sul punto di essere confermato quale doxa pressoché religiosa, è inaspettatamente scomparso senza lasciare traccia. («Un mattino uscimmo e il Termometro non c’era più»).

Mi sembra, questa, una versione più interessante e plausibile di quella riferita da Lyotard circa la fine delle «grandi narrazioni» (schemi escatologici che per prima cosa non sono mai stati effettivamente delle narrazioni, sebbene di tanto in tanto io stesso possa essere stato abbastanza incauto da adoperare quell’espressione). Tuttavia essa ci dice oggi almeno due cose a proposito della teoria del postmodernismo.

In primo luogo, la teoria appare necessariamente imperfetta o impura3: in questo caso per via della “contraddizione” secondo la quale l’intuizione da parte di Bonito Oliva (o di Lyotard) di quanto c’è di rilevante nella scomparsa delle grandi narrazioni dev’essere espressa anch’essa in forma narrativa. Se sia possibile dimostrare, come nel caso della prova di Gödel, l’impossibilità logica di qualunque teoria del postmoderno coerente al proprio interno – un antifondazionalismo che rifugge da tutti i fondazionalismi, un inessenzialismo privo dell’ultimo briciolo di essenza – costituisce una questione speculativa. La risposta empirica sta nel fatto che fino a oggi non è comparsa alcuna teoria, che tutte replicano al proprio interno una mimesi del loro titolo, così come sono parassitarie di un altro sistema (spesso il modernismo stesso) le cui tracce residuali, i valori e gli atteggiamenti riprodotti inconsciamente divengono quindi un prezioso indice della mancata nascita di una cultura interamente nuova. Malgrado il delirio di alcuni dei suoi celebratori e apologeti (la cui euforia rappresenta comunque di per sé un interessante sintomo storico), una cultura davvero nuova potrebbe venire alla luce soltanto attraverso la lotta collettiva per la creazione di un nuovo sistema sociale. L’impurità costitutiva di ogni teoria del postmodernismo (che, come lo stesso capitale, deve tenersi a una certa distanza interna da sé stessa, deve includere il corpo estraneo del contenuto alieno) conferma quindi l’idea di una periodizzazione su cui occorre insistere ripetutamente, vale a dire che il postmodernismo non è la dominante culturale di un ordine sociale completamente nuovo (che, sotto il nome di “società postindustriale”, alcuni anni or sono è circolato come una chiacchiera nei media), bensì soltanto il riflesso e la concomitanza di un’ennesima modificazione sistemica del capitalismo medesimo. Non sorprende, dunque, che perdurino i brandelli delle sue incarnazioni precedenti – persino del realismo, tanto come del modernismo –, rivestiti dalle lussuose bardature del loro presunto successore.

Ma questo imprevedibile ritorno della narrazione quale narrazione della fine delle narrazioni, questo ritorno della storia nel momento della prognosi della fine del telos storico, indica un secondo aspetto della teoria del postmodernismo che merita attenzione, vale a dire che pressoché ogni osservazione circa il presente può essere messa al servizio della ricerca del presente stesso, utilizzata come sintomo e indicatore della logica più profonda del postmoderno, il quale si converte impercettibilmente nella propria teoria e nella teoria di sé stesso. Come potrebbe essere altrimenti, laddove non esiste più una “logica più profonda” da manifestare alla superficie e laddove il sintomo è diventato la sua stessa malattia (e senza dubbio viceversa)? Ma la frenesia in virtù della quale oggi praticamente tutto viene chiamato a testimoniare dell’unicità dei tempi recenti e della radicale diversità rispetto a quelli precedenti della storia umana colpisce invero perché talvolta dà ricetto a una patologia nettamente autoreferenziale, come se il nostro completo oblio del passato si fosse esaurito nella contemplazione distratta, e nondimeno ipnotica, di un presente schizofrenico, quasi per definizione incomparabile.

Come dimostrerò più avanti, tuttavia, se ci troviamo di fronte a una frattura o a una continuità – cioè se il presente vada visto nella sua originalità storica oppure come il semplice prolungamento della stessa cosa sotto panni diversi – non è una decisione giustificabile empiricamente, né argomentabile sul piano filosofico, dal momento che si tratta dell’atto narrativo inaugurale che fonda la percezione e l’interpretazione degli eventi da narrare. Per ragioni pragmatiche che rivelerò al momento opportuno, nelle pagine che seguono ho finto di credere che il postmoderno sia originale quanto pensa di esserlo, e che costituisca una frattura di ordine culturale ed esperienziale che vale la pena di indagare in maniera più dettagliata.

Non si tratta semplicemente o volgarmente di un procedimento fine a sé stesso; o meglio, potrebbe anche esserlo, ma procedimenti di questo genere non sono affatto casi e possibilità frequenti quanto suggerisce la loro formula (perciò abbastanza prevedibilmente divengono oggetti di studio storici). Infatti il nome medesimo – postmodernismo – ha cristallizzato una schiera di sviluppi fin qui indipendenti, i quali, così designati, dimostrano di averlo contenuto in embrione e ora avanzano in abbondanza per documentarne le molteplici genealogie. Ne deriva così che non soltanto in amore, nel cratilismo o in botanica l’atto supremo della nominazione esercita un impatto materiale e, come un fulmine che dalla sovrastruttura penetra fino alla base, fonde i suoi insoliti materiali in un grumo scintillante o in una superficie lavica. Il richiamo all’esperienza, altrimenti dubbio e inaffidabile – benché possa davvero sembrare che siano cambiate parecchie cose, forse in meglio –, recupera ora una certa autorità in quanto ciò che, in retrospettiva, il nuovo nome ha consentito di pensare di percepire, perché oggi abbiamo qualcosa per denominare ciò che altri sembrano riconoscere con l’uso di quella parola. La storia del successo della parola postmodernismo deve ancora essere scritta, senza dubbio sotto forma di best-seller; tali nuove evenienze lessicali, per cui il conio di un neologismo possiede tutto l’effetto di realtà di una fusione aziendale, sono tra le novità della società dei media che esigono non soltanto uno studio, bensì anche l’instaurazione di una sottodisciplina completamente nuova legata al lessico mediatico. Perché avessimo bisogno della parola postmodernismo ben prima di conoscerlo, perché un’accozzaglia davvero eterogenea di strani compagni di letto si sia affrettata ad abbracciarla al momento in cui è apparsa sono misteri destinati a restare oscuri finché non saremo in grado di intendere la funzione filosofico-sociale del concetto, impresa a sua volta impossibile fino a quando in un modo o nell’altro non sapremo intendere l’identità più profonda tra i due. Nel caso presente appare chiaro quanto una serie di formulazioni concorrenti (“poststrutturalismo”, “società postindustriale”, questa o quella nomenclatura alla McLuhan) risultasse insoddisfacente nella misura in cui esse erano precisate in maniera troppo rigida e segnate dal loro ambito di provenienza (rispettivamente filosofia, economia e mezzi di comunicazione). Per quanto stimolanti, dunque, esse non potevano occupare la necessaria posizione mediatrice tra le varie dimensioni specialistiche della vita postcontemporanea. Il termine “postmoderno” sembra comunque essere stato in grado di farsi accettare nei settori giusti della vita quotidiana; la sua risonanza culturale, più vasta di quella meramente estetica o artistica4, distoglie opportunamente dalle circostanze economiche, e consente frattanto che sotto la nuova insegna vengano ricatalogati nuovi materiali e innovazioni economiche (nel marketing e nella pubblicità, per esempio, ma anche nell’organizzazione d’impresa). Né si deve pensare che la questione della ricatalogazione e della transcodifica non abbia una sua particolare rilevanza: la funzione attiva – l’etica e la politica – di siffatti neologismi sta nella nuova impresa che propongono, cioè nella riscrittura di tutte le cose familiari in termini nuovi e quindi nella proposta di modificazioni, di nuove prospettive ideali, del rimescolamento di sentimenti e valori canonici. Se il “postmodernismo” corrisponde a quanto intendeva Raymond Williams con la sua fondamentale categoria culturale della «struttura del sentimento» (la quale, per adoperare un’altra delle categorie essenziali di Williams, è divenuta a sua volta «egemonica»), allora non può godere di tale status se non a forza di una profonda autotrasformazione collettiva, della rielaborazione e della riscrittura di un sistema precedente. Questo garantisce la novità e assegna a intellettuali e ideologi compiti nuovi e socialmente utili: qualcosa di segnato dal nuovo termine, con la sua vaga promessa, minacciosa o esaltante, di sbarazzarci di quanto nel moderno, nel modernismo e nella modernità riteniamo limitante, insoddisfacente o noioso (quale che sia il senso che attribuiamo a queste parole). In altri termini, si tratta di un’apocalisse assai modesta o lieve, di una semplicissima brezza marina (che ha l’ulteriore vantaggio di essersi già manifestata). Questa colossale operazione di riscrittura, però – la quale può condurre a prospettive interamente nuove sia sulla soggettività che sul mondo oggettivo –, reca con sé un esito supplementare già accennato in precedenza, cioè che tutto fa brodo e che analisi come quella proposta in questa sede vengono facilmente riassorbite nel progetto come un insieme di rubriche di transcodifica utilmente insolite.

Il fondamentale compito ideologico del nuovo concetto deve nondimeno restare quello di coordinare nuove forme di prassi e abitudini sociali e mentali (in ultima analisi, penso sia questo ciò che aveva in mente Williams con la sua nozione di «struttura del sentimento») con le nuove forme della produzione e dell’organizzazione economica portate alla luce dal mutare del capitalismo negli ultimi anni, cioè la nuova divisione globale del lavoro. Si tratta di una versione relativamente ridotta e circoscritta di ciò che altrove ho voluto sintetizzare con l’espressione «rivoluzione culturale» sulla scala del modo di produzione medesimo5; alla stessa maniera l’interrelazione tra cultura ed economia qui non ha una direzione univoca, ma si configura invece come una continua interazione reciproca, come una retroazione ciclica. Tuttavia, così come (secondo Weber) dei nuovi valori religiosi, più ascetici e indirizzati all’interiorità, produssero gradualmente «individui nuovi», capaci di svilupparsi nella ritardata soddisfazione del nascente processo lavorativo “moderno”, allo stesso modo il “postmoderno” va visto quale prodotto di individui postmoderni in grado di operare in un mondo socioeconomico davvero assai particolare. Se ne avessimo un’adeguata nozione, la struttura, i tratti oggettivi e le esigenze di questo mondo costituirebbero la situazione alla quale risponde il “postmodernismo”, e ci darebbero qualcosa di un po’ più decisivo della semplice teoria del postmodernismo. Naturalmente in questo libro non ho fatto questo, e occorre peraltro aggiungere che la “cultura”, nel senso di ciò che aderisce troppo alla pelle dell’economia perché lo si possa strappare ed esaminare separatamente, è essa stessa uno sviluppo postmoderno non diversamente dalla scarpa-piede di Magritte. Purtroppo, dunque, la descrizione infrastrutturale che richiamo in questo libro è necessariamente in sé già culturale, una versione anticipata della teoria del postmodernismo.

Ho ristampato la mia analisi programmatica del postmoderno (“La logica culturale del tardo capitalismo”) senza modifiche di rilievo, giacché l’attenzione che essa ricevette all’epoca (nel 1984) le conferisce l’interesse aggiuntivo di un documento storico; nella conclusione vengono discussi altri aspetti del postmoderno che paiono essersi imposti da allora. Ugualmente non ho modificato il seguito, ampiamente ristampato, che offre una combinatoire di posizioni sul postmoderno, a favore e contro, in quanto, malgrado le molte prese di posizione espresse fin da allora, lo schieramento resta sostanzialmente inalterato. Il mutamento più rilevante della situazione odierna riguarda chi un tempo, per principio, era in grado di evitare l’uso della parola: non ne restano molti.

Il resto di questo volume si incentra essenzialmente attorno a quattro tematiche: l’interpretazione, l’utopia, i residui del moderno e i “ritorni del represso” della storicità, nessuna delle quali, in questa forma, era presente nel saggio originario. A sollevare il problema dell’interpretazione è il carattere stesso della nuova testualità, che sembra non lasciare spazio alcuno all’interpretazione vecchio stile, sia quando è soprattutto visiva, sia laddove si presenta come eminentemente temporale nel suo “flusso totale”. In tal caso i documenti sono il videotesto in quanto tale e anche il nouveau roman (l’ultima innovazione di rilievo in campo romanzesco, che, come mostrerò, nella nuova riconfigurazione delle “belle arti” del postmodernismo non rappresenta più una forma o un segnale particolarmente significativi); d’altro canto, il video può accampare il diritto di essere il nuovo medium più caratteristico del postmodernismo, medium che, nelle sue espressioni migliori, rappresenta una forma interamente nuova di per sé.

L’utopia è una questione di natura spaziale della quale si potrebbe pensare che conosce un potenziale mutamento di fortuna in una cultura tanto spazializzata come quella postmoderna; se tuttavia quest’ultima è così destoricizzata e destoricizzante come talvolta affermo qui, diventa più arduo individuare la catena sinaptica che potrebbe portare l’impulso utopico a esprimersi. Le rappresentazioni utopiche hanno conosciuto uno straordinario revival negli anni Sessanta; se il postmodernismo è il surrogato di quegli anni e la compensazione del loro fallimento politico, la questione dell’utopia sembrerebbe porsi come una verifica essenziale di ciò che resta della nostra stessa capacità di immaginare il cambiamento. Questa, almeno, è la domanda rivolta qui a uno degli edifici più interessanti (e meno caratteristici) del periodo postmoderno, la casa di Frank Gehry a Santa Monica, in California; essa è indirizzata anche – per così dire, attorno al visivo e dietro di esso – alla fotografia contemporanea e all’arte dell’installazione. In ogni caso, nel postmodernismo del Primo Mondo, utopico è diventato un efficace termine politico (di sinistra), invece che il suo contrario.

Nondimeno, se ha ragione Michael Speaks, e quindi non esiste alcun postmodernismo puro, le tracce residuali del modernismo devono essere viste in un’altra luce, non tanto come anacronismi quanto come fallimenti necessari che reinscrivono lo specifico progetto postmoderno nel suo contesto e allo stesso tempo riaprono la questione del moderno medesimo affinché possa essere riesaminata. Non intraprenderò un tale riesame in questa sede, ma la residualità del moderno e dei suoi valori – più in particolare l’ironia (in Venturi e de Man) o le questioni della totalità e della rappresentazione – offre l’opportunità di elaborare una delle asserzioni del mio saggio iniziale che maggiormente hanno turbato alcuni lettori, vale a dire l’idea che quanto veniva variamente denominato “poststrutturalismo” o persino semplicemente “teoria” costituiva anche una sottofamiglia del postmoderno, o per lo meno si rivela tale con il senno di poi. Nella sua sporadica capacità di sfidare la gravità dello Zeitgeist e di generare scuole, movimenti e addirittura avanguardie laddove si presume che non esistano più, la teoria – qui prediligo la formula più ingombrante “discorso teorico” – è parsa unica, se non privilegiata, tra le arti e i generi postmoderni. Due capitoli molto lunghi e sproporzionati esaminano due delle avanguardie teoriche americane di maggiore successo, il decostruzionismo e il Neostoricismo, sulle tracce in eguale misura della loro modernità e postmodernità. Tuttavia anche il vecchio “nuovo romanzo” di Simon potrebbe essere oggetto di tale discriminazione, la quale non ci condurrebbe molto lontano, a meno che – per l’impulso a classificare gli oggetti una volta per tutte nel moderno o nel postmoderno, o anche nel «tardo moderno» di Jencks o in altre categorie “di transizione” – non si costruisca un modello delle contraddizioni messe in atto all’interno del testo da tutte queste categorie.

In ogni caso questo libro non costituisce un esame del “postmoderno”, né un’introduzione a esso (sempre ammesso, innanzi tutto, che una cosa del genere sia possibile); e nemmeno i suoi documenti testuali sono caratteristici del postmoderno, esempi fondamentali o “illustrazioni” dei suoi aspetti principali. Ciò ha a che vedere con le qualità del caratteristico, dell’esemplare e dell’illustrativo, ma ancor più con la natura stessa dei testi postmoderni, cioè, in primo luogo, con la natura del testo, categoria e fenomeno postmoderni, il quale ha rimpiazzato la vecchia idea di “opera”. Anzi, in una di quelle straordinarie mutazioni postmoderne in cui l’apocalittico si trasforma repentinamente in decorativo (o quanto meno si riduce bruscamente a “qualcosa di familiare”), la leggendaria «morte dell’arte» di Hegel – il concetto premonitore che ha segnato la suprema vocazione anti o transestetica del modernismo a essere qualcosa più dell’arte (o della religione, o persino della “filosofia”, in un senso più ristretto) – oggi si restringe modestamente alla “fine dell’opera d’arte” e alla comparsa del testo. Tuttavia ciò porta scompiglio tanto nel pollaio della critica quanto in quello della “creazione”: la fondamentale disparità e incommensurabilità tra testo e opera implica che scegliere testi campione e, tramite l’analisi, far loro sopportare il peso universalizzante di un particolare rappresentativo li trasforma impercettibilmente in quell’oggetto più antico, l’opera, che si suppone non esista nel postmoderno. Questo è, per così dire, il principio di Heisenberg del postmodernismo, nonché il problema di rappresentazione più difficile che possa affrontare qualsiasi commentatore, a meno che non lo si risolva per mezzo di un’interminabile proiezione di diapositive, con il «flusso totale» prolungato all’infinito.

Lo stesso vale per il penultimo capitolo, dedicato ad alcuni film degli anni Ottanta e ad alcune rappresentazioni della storia di un nuovo tipo allegorico. La parola nostalgia contenuta nel titolo non significa però quello che intendo in genere, perciò vorrei eccezionalmente commentare in anticipo l’espressione “film di nostalgia”, a proposito della quale devo lamentare alcuni fraintendimenti (altre obiezioni vengono invece affrontate con una certa ampiezza nella sezione conclusiva). Non ricordo più se sono o no il responsabile di tale espressione, che mi sembra comunque indispensabile, purché si comprenda che i film storici, in costume, che designa non devono affatto essere intesi quali espressioni appassionate di quel desiderio che un tempo si chiamava nostalgia, bensì piuttosto come l’esatto contrario; essi costituiscono una stranezza visiva spersonalizzata, un “ritorno del represso” degli anni Venti e Trenta “senza affetto” (in un’altra occasione ho voluto definirlo come «nostalgia-déco»). Tuttavia non si può modificare retroattivamente un termine come questo, così come non si può sostituire al postmodernismo stesso qualche parola del tutto diversa.

Il «flusso totale» delle conclusioni associative raccoglie, incidentalmente, alcune delle altre inveterate, ancorché più serie, obiezioni alle mie posizioni, alcuni fraintendimenti, nonché commenti sulla politica, la demografia, il nominalismo, i media, l’immagine e altre questioni che devono figurare in qualsiasi libro che si rispetti sull’argomento. In particolare ho cercato di porre rimedio a ciò che ha (giustamente) colpito alcuni lettori del saggio programmatico, cioè l’assenza di un qualunque esame dell’”agente”, di un qualche “equivalente sociale”, come preferisco chiamarlo seguendo il vecchio Plechanov, di questa logica culturale apparentemente incorporea.

Tuttavia l’agente solleva la questione dell’altro elemento del mio titolo, il “tardo capitalismo”, del quale va detto qualcosa di più. In particolare, si è cominciato ad avvertire che tale concetto funziona come un certo tipo di segno e sembra recare un carico di intenti e conseguenze tutt’altro che chiari ai non iniziati6. Non si tratta certo del mio slogan preferito e per questo cerco di variare la formula con dei sinonimi appropriati (“capitalismo multinazionale”, “società dello spettacolo o dell’immagine”, “capitalismo mediatico”, “sistema-mondo” e persino “postmodernismo”). Ma poiché la destra ha individuato ciò che evidentemente considera un concetto e un modo di parlare nuovi e pericolosi (malgrado alcune delle diagnosi economiche coincidano con quelle della destra, e un’espressione come società postindustriale abbia indubbiamente una certa aria di famiglia), questo specifico terreno della lotta ideologica, che purtroppo di rado ci si sceglie, sembra solido e degno di essere difeso.

Da quel che posso vedere, l’uso generale del termine tardo capitalismo nasce con la Scuola di Francoforte7; si trova dappertutto in Adorno e Horkheimer, in alternanza con i loro sinonimi (per esempio, «società amministrata»). Ciò chiarisce che il termine riguardava una nozione assai diversa, dal carattere più weberiano, la quale, essenzialmente derivante da Grossman e Pollock, poneva in rilievo due aspetti fondamentali: 1) una rete crescente di controllo burocratico (nelle sue forme più terrificanti, un reticolo alla Foucault avant la lettre); 2) una compenetrazione di governo e grande impresa (il «capitalismo di Stato»), per cui nazismo e New Deal costituiscono sistemi connessi (e aggiungiamo anche alcune forme di socialismo, dal volto umano o stalinista che sia).

Nella sua ampia diffusione di oggi, l’espressione tardo capitalismo ha implicazioni molto diverse da quelle appena indicate. In particolare, nessuno rileva più l’espansione del settore statale e la burocratizzazione: sembra un dato di fatto semplice, “naturale” della vita. A segnare lo sviluppo del nuovo concetto al di là del vecchio (ancora approssimativamente conforme all’idea leninista di una «fase monopolistica» del capitalismo) non è semplicemente l’accento sulla comparsa di nuove forme di organizzazione d’impresa (multinazionali e transnazionali) al di là della fase monopolistica, bensì, soprattutto, la visione di un sistema capitalista mondiale fondamentalmente distinto dal vecchio imperialismo, il quale rappresentava poco più che una rivalità tra le varie potenze coloniali. I dibattiti accademici, starei per dire teologici, sulla coerenza delle varie nozioni di “tardo capitalismo” con il marxismo stesso (nonostante la ripetuta evocazione, da parte del Marx dei Grundrisse, del «mercato mondiale» quale orizzonte ultimo del capitalismo8) ruotano attorno alla questione dell’internazionalizzazione e della sua descrizione (e, più in concreto, se la componente della «teoria della dipendenza» o di quella del «sistema-mondo» di Wallerstein sia un modello di produzione, basato sulle classi sociali). A dispetto di tali incertezze ideologiche, sembra giusto dire che oggi abbiamo una qualche idea approssimativa di questo nuovo sistema, denominato “tardo capitalismo” per segnarne la continuità con ciò che lo ha preceduto, piuttosto che la frattura, la rottura e la mutazione che intendevano invece sottolineare concetti come “società postindustriale”. Oltre alle forme di impresa transnazionale menzionate poc’anzi, tra i suoi aspetti occorre includere la nuova divisione del lavoro a livello internazionale, una nuova vertiginosa dinamica delle attività bancarie e di borsa internazionali (compreso l’enorme debito dei paesi del Secondo e Terzo Mondo), nuove forme di interrelazione nelle comunicazioni (tra cui vanno certamente annoverati sistemi di trasporto come la containerizzazione), l’informatica e l’automazione, la fuga della produzione verso le aree più progredite del Terzo Mondo, tutto ciò insieme alle conseguenze sociali più note, come la crisi del lavoro tradizionale, l’ascesa degli yuppie e l’imborghesimento, ormai visibili su scala globale.

Nel periodizzare un fenomeno del genere, bisogna complicare il modello con ogni sorta di epiciclo supplementare. È necessario distinguere tra il graduale instaurarsi delle varie precondizioni (spesso irrelate) della nuova struttura e il “momento” (non esattamente cronologico) in cui tutte prendono forma e vanno a combinarsi in un sistema funzionale. Più che di cronologia, questo momento è una questione di Nachträglichkeit quasi freudiana, ossia di retroattività: gli individui prendono coscienza della dinamica di un certo nuovo sistema, nel quale sono immersi, soltanto a posteriori e in maniera graduale. E tanto più la nascente consapevolezza collettiva di un nuovo sistema (essa stessa desunta in modo intermittente e frammentario da vari sintomi critici tra loro irrelati, quali la chiusura di alcune fabbriche o i tassi di interesse più alti) non corrisponde esattamente alla comparsa di nuove forme di espressione culturale (le «strutture del sentimento» di Raymond Williams finiscono per essere una modalità insolita di descrizione del postmodernismo sul piano culturale). Chiunque peraltro riconosce il fatto che le varie precondizioni per una nuova «struttura del sentimento» preesistono al momento del loro combinarsi e cristallizzarsi in uno stile relativamente egemonico; tuttavia quella preistoria non è in sincronia con quella economica. Perciò Mandel avverte che i prerequisiti tecnologici essenziali della nuova «onda lunga» della terza fase del capitalismo (qui denominata «tardo capitalismo») erano accessibili alla fine della seconda guerra mondiale, la quale ebbe tra l’altro l’effetto di riorganizzare le relazioni internazionali, di decolonizzare le colonie e gettare le basi per la nascita di un nuovo sistema economico mondiale. In ambito culturale, tuttavia, la precondizione va cercata (al di là di un’ampia gamma di aberranti “esperimenti” modernisti, ristrutturati sotto forma di antecedenti) nelle gigantesche trasformazioni sociali e psicologiche degli anni Sessanta, che, a livello di mentalités, spazzarono via buona parte della tradizione. Così i preparativi economici del postmodernismo o del tardo capitalismo ebbero inizio negli anni Cinquanta, dopo che si pose rimedio alla carenza di beni di consumo e di pezzi di ricambio propria del periodo bellico, e si poté aprire la strada a nuovi prodotti e nuove tecnologie (non ultime quelle dei media). D’altro canto, l’habitus psichico della nuova epoca esige una rottura assoluta, rafforzata da una frattura generazionale, raggiunta più propriamente negli anni Sessanta (resta inteso che lo sviluppo economico non conosce pausa in virtù di questo, ma al contrario continua sul proprio livello e secondo la propria logica). Se si preferisce un linguaggio ormai un po’ antiquato, la distinzione è esattamente quella su cui era solito insistere Althusser, tra una hegeliana «sezione di essenza» (coupe dessence) del presente, ove una critica della cultura vuole trovare un principio unico del “postmoderno” inerente agli aspetti più vari e ramificati della vita sociale, e la «struttura a dominante» althusseriana, in cui i vari livelli godono di una semiautonomia dell’uno rispetto all’altro, viaggiano a velocità diverse, si sviluppano in modo irregolare e ciò nonostante concorrono a generare una totalità. A tutto ciò si aggiunga l’inevitabile problema della rappresentazione, secondo cui non esiste un “tardo capitalismo in generale”, ma soltanto questa o quella specifica forma nazionale. Così i lettori non nordamericani inevitabilmente deploreranno l’americanocentrismo della mia versione, che si giustifica soltanto nella misura in cui è stato il breve “secolo americano” (1945-1973) a costituire il terreno di coltura del nuovo sistema, mentre si può dire che lo sviluppo delle forme culturali del postmodernismo si configura come il primo stile globale specificamente nordamericano.

Intanto, è mia opinione che entrambi i livelli in questione, l’infrastruttura e le sovrastrutture – il sistema economico e la «struttura del sentimento» culturale –, si siano in qualche modo cristallizzati nel grande trauma delle crisi del 1973 (la crisi petrolifera, la fine del sistema aureo, la fine a tutti gli effetti della grande ondata di “guerre di liberazione nazionale” e l’inizio della fine del comunismo tradizionale), le quali, ora che il polverone si è dissolto, svelano l’esistenza, già in atto, di un nuovo strano paesaggio, quello che i saggi di questo libro tentano di descrivere (insieme a un numero crescente di indagini e di considerazioni ipotetiche)9.

La questione della periodizzazione non è tuttavia del tutto estranea alle connotazioni dell’espressione “tardo capitalismo”, che ormai è chiaramente identificata come una sorta di logo della sinistra ideologicamente e politicamente esplosivo, al punto che l’atto stesso di adoperarla costituisce un tacito assenso verso una serie di proposizioni sociali ed economiche sostanzialmente marxiste, che la parte avversa non sarebbe disposta a sottoscrivere. In tal senso la parola capitalismo è sempre stata strana: il solo utilizzare questo termine – designazione abbastanza neutra di un sistema economico-sociale sulle cui proprietà concordano entrambe le parti – sembrava collocare un individuo in una posizione vagamente critica, sospetta, se non apertamente socialista; soltanto gli ideologi impegnati della destra e gli apologeti strepitanti del mercato la utilizzano con lo stesso entusiasmo.

L’espressione “tardo capitalismo” continua a fare un po’ questo effetto, sia pure con una differenza: il suo aggettivo in particolare raramente significa qualcosa di tanto banale come l’estrema senescenza, il tracollo e la morte del sistema in quanto tale (una prospettiva temporale che sembrerebbe appartenere più al modernismo che al postmodernismo). Quello che “tardo” comunica in genere è piuttosto la sensazione che sia cambiato qualcosa, che le circostanze siano diverse, che abbiamo attraversato una trasformazione della vita in qualche modo decisiva, ma incomparabile con le precedenti convulsioni della modernizzazione e dell’industrializzazione, meno percettibile e drammatica, ma più durevole, proprio perché più completa e onnipervasiva10.

Ciò significa che l’espressione “tardo capitalismo” reca con sé, al proprio interno, l’altra metà culturale del mio titolo; non solo essa vale come una sorta di traduzione letterale dell’altra espressione, “postmodernismo”, ma il suo indicatore temporale sembra già indirizzare l’attenzione ai mutamenti nel quotidiano e sul piano culturale. Dire che i miei due termini, “culturale” ed “economico”, si sovrappongono e affermano la stessa cosa, in una eclissi della distinzione tra base e sovrastruttura che ha sovente colpito quale caratteristica significativa del postmodernismo, equivale a sostenere che la base, nella terza fase del capitalismo, genera la propria sovrastruttura con una dinamica di tipo nuovo. E ciò potrebbe peraltro essere quanto (giustamente) preoccupa chi non si è convertito al termine: esso sembra obbligare in anticipo a parlare di fenomeni culturali per lo meno in termini imprenditoriali, se non in quelli dell’economia politica.

Quanto al postmodernismo stesso, non ho cercato di sistematizzare un’accezione o di imporre un significato sommario comodamente coerente, giacché il concetto non solo è contestato, ma è anche conflittuale e contraddittorio al proprio interno. Sosterrò che, nel bene e nel male, non possiamo non adoperarlo. Tuttavia le mie argomentazioni sottintendono che ogni volta che lo si utilizza abbiamo l’obbligo di enumerarne le contraddizioni interne e di mettere in luce le incoerenze e i dilemmi della rappresentazione; e occorre fare tutto questo ogni volta. Il “postmodernismo” non è qualcosa che possiamo fissare una volta per tutte e quindi utilizzare con coscienza serena. Qualora esista, il concetto deve giungere al termine dell’analisi, non all’inizio. Sono queste le condizioni – le uniche, penso, che impediscono il danno che può arrecare una chiarificazione prematura – secondo le quali si può continuare a utilizzare tale termine in maniera produttiva.

I materiali raccolti nel presente volume costituiscono la terza e ultima sezione della penultima suddivisione di un progetto più ampio intitolato The Poetics of Social Forms.

Durham, aprile 1990

1 In W. Gibson, Mona Lisa Overdrive, Toronto, New York, Bantam Books, 1988 [Monna Lisa cyberpunk, trad. di M. Pensante, Milano, Mondadori, 1994]. Mi duole per l’assenza da questo libro di un capitolo sul cyberpunk, d’ora innanzi, per molti di noi, massima espressione letteraria, se non del postmodernismo, quanto meno del tardo capitalismo.

2 Cfr. A. Bonito Oliva, La transavanguardia italiana, Milano, Politi, 1980.

3 Tale questione è sviluppata con una certa articolazione da Michael Speaks nella sua tesi dal titolo Remodelling Posmodernism(s): Architecture, Philosophy, Literature.

4 In tal senso l’esaustivo inventario della cultura degli anni Sessanta stilato da Jost Hermand (“Pop, oder die These vem Ende der Kunst”, in Stile, Ismen, Etiketten: Zur Periodisierung der modernen Kunst, Wiesbaden, Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion, 1978) include in anticipo pressoché tutte le innovazioni formali del cosiddetto postmoderno.

5 Cfr. F. Jameson, The Political Unconscious, Ithaca, Cornell University Press, 1981 [Linconscio politico, trad. di L. Sosio, Milano, Garzanti, 1990, pp. 104-108].

6 Cfr. J. Derrida: «Ogni volta che nei testi che trattano di letteratura e filosofia mi imbatto nell’espressione “tardo capitalismo”, mi risulta chiaro che un’asserzione dogmatica e stereotipata ha preso il posto della dimostrazione analitica» (“Some Questions and Responses”, in The Linguistics of Writing: Arguments Between Language And Literature, a cura di N. Fabb et al., New York, Methuen, 1987, p. 254.

7 Cfr. il mio Late Marxism: Adorno, or, the Persistence of the Dialectic, Londra, New York, Verso, 1990 [Tardo marxismo. Adorno, il postmoderno e la dialettica, trad. di P. Russo, Roma, manifestolibri, 1994]. La questione merita uno studio approfondito. Fino a oggi ho trovato soltanto brevi accenni, fatta eccezione per G. Marramao, “Political Economy and Critical Theory”, in «Telos», VII, 1974, n. 24, e H. Dubiel, Wissenschaftsorganisation und politische Erfahrung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1978 [Theory and Politics, trad. ingl. di B. Gregg, Cambridge (MA), MIT Press, 1985.

8 Cfr., per esempio, K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Mosca, Verlag für fremdsprachige Literatur, 1939 [Lineamenti fondamentali di critica delleconomia politica (Grundrisse), a cura di G. Backhaus, Torino, Einaudi, 1976, vol. I, pp. 91-93, 374-375, 514].

9 I resoconti e le versioni abbondano sempre più; tra questi raccomando D. Harvey, The Condition of Postmodernity, Oxford, Blackwell, 1989 [La crisi della modernità, trad. di M. Viezzi, Milano, Il Saggiatore, 1993]; A. Benitez Rojo, La isla que se repite: el Caribe y la perspectiva posmoderna, Hanover (N.H.), Ediciones del Norte, 1989; E. Soja, Postmodern Geographies, Londra, New York, Verso, 1989; T. Gitlin, “Hip-Deep in Postmodernism”, in «New York Times Book Review», 6 novembre 1988, p. 1; S. Connor, Postmodernist Culture, Oxford, Cambridge (MA), Blackwell, 1989.

10 In un’opera collegata (cfr. qui nota 7), mi sono “sentito capace”, come direbbe Hayden White, di adottare il termine tedesco Spätmarxismus per il tipo di marxismo che potrebbe essere adatto al momento del nuovo sistema.