Ma il fondamento economico della teoria politica in Rousseau non è a sua volta fondato su una teoria dei bisogni, degli appetiti, e degli interessi che potrebbe condurre ai principi etici del giusto e dell’ingiusto; esso è il correlativo della concettualizzazione linguistica, e pertanto non è né materialistico, né idealistico, né semplicemente dialettico, dal momento che il linguaggio è privo tanto di autorità rappresentativa quanto di autorità trascendentale. Il rapporto complesso tra il determinismo economico di Rousseau e quello di Marx potrebbe e dovrebbe essere affrontato solo da questo punto di vista. (al 171)

Come per Derrida, gli incontri teorici di de Man con il marxismo sembrano essere stati mediati principalmente da Althusser; de Man ne ammirava l’opera su Rousseau (sembra la ritenesse un fraintendimento interessante [al 241], più utile di quelle banali di matrice psicoanalitica, biografica, tematica e disciplinare). Bisogna riconoscere che in genere Rousseau ha rappresentato un impaccio per il marxismo (come per quasi tutti); l’assimilazione del materialismo settecentesco nel corpo della tradizione marxista non è stata accompagnata da una maggiore benevolenza nei confronti dell’”idealismo”, del “sentimentalismo” ecc., di Rousseau. Eppure, a rileggere Il contratto sociale si ha come l’impressione che la Convenzione risorga vividamente davanti ai nostri occhi, mentre le discussioni sull’elemento giacobino (qui espresso in maniera tanto profetica da Rousseau) nella successiva storia delle formazioni politiche di sinistra o marxiste non hanno di solito affrontato in maniera adeguata la persistente rilevanza del Contratto sociale rispetto ai problemi del partito e dello Stato, della “dittatura del proletariato” e della necessità di progettare una visione di una democrazia socialista più avanzata al di là delle forme della rappresentanza parlamentare borghese. L’acuta e preziosa proposta di de Man ci sollecita però a rimandare queste generalità comparative della filosofia politica e a intraprendere prima l’operazione più ardua di esaminare la trama linguistica di queste idee o «valori». Anzi, vedremo tra breve che non solo Il contratto sociale reclama una lettura del genere, ma che senza di essa risulta pressoché incomprensibile.

La problematica più immediata su cui marxismo e decostruzione demaniana coincidono si può comunque identificare, dalla prospettiva marxista, nella “teoria del valore”. La giustapposizione risulta meno sconcertante se si ricorda che in Marx «L’arcano di ogni forma di valore sta»107 nell’ancor più misterioso fenomeno dell’equivalenza, su cui si fondano in qualche modo il valore di scambio e la possibilità stessa di scambiare un oggetto con un altro diverso. (Onde evitare la confusione terminologica, occorre che il lettore rammenti che il «valore d’uso» abbandona subito la scena nella pagina di apertura del Capitale: esso segna il nostro rapporto esistenziale con le cose uniche – circostanza su cui tornerò tra un attimo –, ma non è soggetto in tal senso alla legge del valore o dell’equivalenza. Con una terminologia contemporanea, si potrebbe dunque dire che il «valore d’uso» è l’ambito della differenza e della differenziazione come tali, mentre il «valore di scambio», come vedremo, sarà descritto come l’ambito delle identità. Ma ciò che quest’uso terminologico significa in Marx è che d’ora innanzi valore in quanto tale e «valore di scambio» sono sinonimi).

L’analisi delle quattro forme del valore nel Capitale108 andrebbe peraltro distinta dalla “costruzione” della cosiddetta teoria del valore-lavoro che, a partire da Adam Smith, equipara il valore di una merce prodotta alla quantità di tempo lavorativo che essa contiene. Se questa teoria comporti un’antropologia, o vi equivalga (nel senso che potrebbero denunciare Althusser o lo stesso de Man), è una questione molto interessante, ma il problema della produzione si configura come l’altra faccia, l’altra dimensione, del fenomeno della «forma lavoro» che ci interessa qui. Essa è il fondamento del mercato e dello scambio e culmina nella comparsa di quella cosa particolare che si chiama denaro.

Considerata da un prospettiva linguistica o “retorica”, l’analisi di Marx spinge l’esplorazione dell’«identificazione metaforica» molto più in là – verso nodi e complessità di genere nuovo – rispetto a quanto fa quella di Rousseau (o di de Man, per il quale la metafora qui non è che il punto di partenza, l’atto che consente la sua interpretazione). Marx cerca di togliere familiarità – di “straniarlo”, se si preferisce – a quell’insieme apparentemente naturale in base al quale valutiamo oggetti di tipo diverso e ogni tanto li scambiamo come se per certi versi fossero uguali. Il mistero consiste pertanto nel tentativo di sondare che cosa possa mai avere in comune una libbra di sale con tre martelli, e come abbia senso affermare che essi sono in qualche misura “la stessa cosa”. Marx inasprisce il problema specificando due oggetti che in linea di principio sono connessi più strettamente tra loro, cioè «venti braccia di tela» e «un abito», presumibilmente quello in cui si è trasformata quella tela. Questa scelta è evidentemente volta a porre il problema piuttosto diverso della produzione di nuovo valore, che più avanti nel Capitale sarà la preoccupazione centrale di Marx.

Qui siamo palesemente di nuovo nell’ambito della metafora; è così infatti che dobbiamo indubbiamente chiamare questo tipo di identificazione tra due oggetti distinti se l’identificazione non è pensabile, se resta un mistero, o non si può giustificare per ragioni concettuali. Ho l’impressione che anche per Marx postulare l’equivalenza resti impensabile, benché si possa spiegare (teoria del valore-lavoro) secondo criteri strutturali e storici diversi, e sicuramente superiori, rispetto alle “spiegazioni” piuttosto mitiche di Rousseau e Adorno, espresse in termini di semplice paura e debolezza. Esiste dunque un senso in virtù del quale l’analisi marxiana dell’equivalenza è pienamente compatibile con la versione retorica di de Man: vedere questa violenza metaforica originaria, secondo cui si decreta che due merci sono “la stessa cosa”, nei termini della funzione linguistica del tropo costituisce sicuramente un arricchimento ben accetto dello schema di Marx. Quest’ultimo, però, indubbiamente aggiunge a sua volta dell’altro alla descrizione linguistica nella sua “spiegazione”, nella narrazione del processo di comparsa del valore (e quale posizione questo “altro” debba occupare nel progetto demaniano si può determinare esclusivamente mettendo a confronto la “narrazione” di Marx con il “racconto” operato da de Man della «nascita dell’allegoria dalla metafora originaria», che qui non ho ancora tracciato).

Esiste comunque un modo in cui in Marx la rappresentazione del «mistero» e della natura degli oggetti implicati espande ampiamente e modifica il punto di partenza di Rousseau, che dipendeva da due situazioni relativamente semplici: l’«identità» degli oggetti e la comprensione dell’altro come “la stessa cosa” rispetto a me (pietà, compassione). Anzi, l’interessante analisi che de Man conduce del secondo di questi momenti dell’atto metaforico (l’Altro, il gigante, l’«uomo») presenta lo svantaggio di trascurare il primo, o meglio di fondere in una certa misura il nostro rapporto con gli oggetti con quello con le altre persone. Ma in Marx non si tratta più di intendere come si possa giustapporre un determinato albero a un altro molto diverso affinché vengano così alla luce il “nome” e il “concetto” di albero; si tratta piuttosto di comprendere come due oggetti del tutto dissimili (il sale, i martelli, la tela, il cappotto) si possano in qualche modo considerare equivalenze. La più esaltante opera epistemologica marxiana segue così la lezione metodologica anticartesiana e dialettica di Marx, cioè che non dobbiamo costruire idee complesse a partire da quelle semplici, ma che al contrario è l’intuizione della forma complessa a fornirci la chiave per afferrare quella più semplice. Dalla legge del valore, il mistero dell’equivalenza di cose totalmente differenti, si può dunque tornare per una nuova via al problema più semplice dell’universale e del particolare. Oppure, se si preferisce, l’astrazione e il pensiero concettuale (la «concettualizzazione linguistica» di de Man) devono essere collocati nel più vasto campo operativo della legge del valore prima che se ne possano intendere le conseguenze filosofiche e linguistiche più specialistiche. O infine, per metterla in termini ancor più “volgari” (cioè più ontologici), l’astrazione filosofica e linguistica rappresenta essa stessa una conseguenza e un sottoprodotto dello scambio.

Nella descrizione che Marx effettua della maniera in cui, dei due termini dell’equivalenza, uno arriva a fungere da espressione dell’altro («la tela esprime il proprio valore nell’abito, l’abito serve da materiale di questa espressione di valore», mc 61), possiamo scorgere una più vivida anticipazione dialettica della teoria della metafora come tenore e veicolo. Per contro, la medesima irreversibilità dell’equazione in base alla quale si afferma che i due oggetti distinti nel valore sono “la stessa cosa” introduce in questa struttura un processo “temporale”, in maniera compatibile con la descrizione, fatta da de Man, del generarsi della “narrazione” dalla metafora e delle forme “allegoriche” susseguenti che derivano da quella tendenza strutturale. Non si deve tuttavia intendere che la parola temporale implichi qui la partecipazione del “vero” tempo vissuto o esistenziale, né di quello storico. Come ho suggerito, è possibile leggere la descrizione marxiana delle quattro forme del valore secondo un criterio genealogico, narrativo, “continuista” o storico; le prime equivalenze si formano alla confluenza tra due sistemi autonomi, due formazioni sociali autosufficienti. Nella nostra tribù il sale non dispone di «valore di scambio», ma noi non abbiamo metalli e, siccome i nostri vicini sembrano interessati al sale e disponibili a scambiare con esso degli oggetti metallici, nasce una forma “accidentale” di equivalenza. Allorché si traccia questo modo di mettere a confronto oggetti diversi e di assumerne le equivalenze all’interno di una formazione sociale autarchica, ne deriva un nuovo tipo di movimento, per il quale una serie di equivalenze ormai provvisorie afferra a sua volta una vasta gamma di oggetti. I momenti “metaforici” scaturiscono a intermittenza negli scambi puntuali e poi scompaiono di nuovo, per riemergere soltanto in punti distanti della rete sociale. È questa pertanto la «forma di valore totale o dispiegata», una sorta di catena infinita di equivalenze, e infinitamente provvisoria, che pervade il mondo oggettuale di una formazione sociale, in cui gli oggetti cambiano incessantemente luogo nei due poli dell’equazione del valore (che, come abbiamo visto, non è reversibile). Le persone effettuano incessantemente degli scambi, senza alcuna stabilità: «l’espressione relativa di valore della merce è incompleta, perché la serie che la rappresenta non ha termine. La catena nella quale un’equazione di valore si connette all’altra rimane continuamente prolungabile mediante ogni nuovo genere di merci che si presenti e che fornisca il materiale di una nuova espressione di valore» (mc 77). Naturalmente si può descrivere questo momento da una prospettiva diversa, che ponga l’accento sulla provvisorietà dei momenti e sull’ininterrotta dissoluzione del valore che li segue: la stessa “legge” del valore, non ancora istituzionalizzata e cristallizzata in un medium, si consuma dunque del tutto in ogni punto e finisce in fumo a ogni transazione. Una tale descrizione corrisponde a quello che Baudrillard denomina scambio simbolico (il momento utopico della sua personale visione della storia, il cui nome si è considerevolmente modificato a partire da Mauss: talvolta il sistema di scambio kula studiato da Malinowski è stato preso per una proiezione formalizzata di questo momento, benché lo si possa altrettanto agevolmente considerare la sua reificazione e trasformazione in altro; per contro, dovrebbe essere chiaro il rapporto della lettura di Baudrillard con la celebrazione antropologica dell’eccesso, della distruzione e del potlac operata da Bataille).

Dato che questa catena infinita, in-terminabile di scambi si dimostra intollerabile, nasce la «forma generale del valore» per suggellare l’uniformità del processo attraverso la generazione, per così dire, del concetto di sé (il «valore» quale idea generale, come proprietà universale), che incarna poi in un singolo oggetto destinato a fungere da “modello” per tutto il resto. Ma si tratta di un’operazione molto singolare e contraddittoria: «la nuova forma ottenuta esprime i valori del mondo delle merci in un unico e medesimo genere di merci, da esso separato» (mc 79). L’oggetto così scelto ha un ruolo impossibile da adempiere, in quanto è sia una cosa nel mondo, con un valore potenziale come tutte le altre cose, sia qualcosa di separato dal mondo oggettuale, sollecitato dall’esterno a mediare il nuovo sistema di valori di quest’ultimo. Non è tanto sorprendente trovare mucche selezionate in tal modo (la classica descrizione dei Nuer fatta da Evans-Pritchard); almeno loro posso accompagnarci sulle loro zampe alla loro velocità, ma è anche evidente la terribile goffaggine del procedimento. Gayatri Spivak ha proposto di ripensare la formazione del canone letterario nei termini della dialettica di queste fasi del valore; idea invero affascinante109. Ma io stesso sarei tentato di mettere in correlazione questa specifica terza fase, in cui un oggetto del mondo interiore arriva a svolgere un compito duplice come equivalente universale nascente, con il simbolo e il momento simbolico del pensiero: culturalmente, nei vari tentativi da parte del modernismo di attribuire a una certa rappresentazione sensibile di una visione del mondo una sorta di forza universale (quei nuovi «miti» universali che il signor Eliot riteneva di veder affiorare in Joyce); filosoficamente, invece, nella svolta universalizzante della pensée sauvage sul punto di raggiungere l’astrazione concettuale, come nei presocratici, che postulano un singolo elemento interiore («tutto è acqua, tutto è fuoco») quale fondamento dell’essere.

Ciò che ne consegue, quindi, non sarà soltanto l’astrazione; sarà l’allegoria, e il tentativo disperato di pervenire al “concetto” che necessariamente fallisce e perciò si definisce come fallimento per riuscire malgrado sé stesso. In Marx questa è naturalmente la forma del denaro e le celebri pagine sul feticismo della merce che seguono sono l’esposizione plateale proprio di questo successo e fallimento delle particolari conseguenze che da essa derivano. Per le finalità del presente lavoro sarà utile transcodificare «il feticismo della merce» in un ampio processo di astrazione che fermenta attraverso l’ordine sociale. Se si rammenta la notevole definizione dell’immagine proposta da Guy Debord, quale «forma finale della reificazione» (in La società dello spettacolo), si garantisce immediatamente la rilevanza della teoria per la società contemporanea, per i media e per lo stesso postmodernismo. Per contro, se è plausibile la mia ipotesi, secondo la quale sussiste un’affinità profonda tra l’indagine demaniana delle conseguenze del momento metaforico inaugurale e la rappresentazione della nascita del valore operata da Marx, tale affinità apre allora anche un possibile rapporto tra le riflessioni di de Man sulla testualità e quelle preoccupazioni, più postmoderne, verso la peculiare dinamica della significazione mediatica che a prima vista appaiono tanto lontane da lui.

In ogni caso questo ripasso delle «fasi» della nozione di valore dovrebbe inoltre consentire di affermare che la Darstellung di Marx non è esattamente una narrazione: infatti le prime fasi non rientrano, per così dire, nella narrazione e vengono ricostruite soltanto a livello genealogico. In questo il «valore» possiede una dinamica paragonabile a quella attribuita al linguaggio da Lévi-Strauss: siccome per quest’ultimo è un sistema, il linguaggio non può venire alla luce poco a poco. O esiste tutto in una volta oppure non esiste affatto, il che vuol dire soltanto che è scorretto (ma inevitabile) trasferire termini che hanno senso soltanto per un sistema linguistico ai frammenti aleatori, ai grugniti e ai gesti che con il senno di poi sembrano prepararlo.

È un peccato che de Man non insista con maggiore forza sulla replica di questo dramma dell’universale e del particolare nel Secondo Discorso sulla più ampia arena “politica” del Contratto sociale (sembra avere avuto il timore che la parola metaforico, da lui adoperata in maniera tanto caratteristica in tali contesti, degenerasse in uno stereotipo “organico” più debole studiato per avvalorare i comuni fraintendimenti di questo testo). Ma la situazione risulta del tutto confrontabile, come lascia intendere di sfuggita la sua interessante descrizione della «struttura metaforica del sistema numerico» (al 275) (l’Uno dello Stato, il Molto del popolo). In questa fase successiva della propria Darstellung, de Man è tuttavia passato a quella che si potrebbe chiamare “indeterminazione” del linguaggio giuridico, cioè alla sua capacità di funzionare con un significato in nuovi contesti totalmente imprevedibili, circostanza dipinta da un lato come una «promessa» e, dall’altro, come la tensione tra le due funzioni del linguaggio, la constatativa e la performativa («la logica grammaticale può funzionare solo se le sue conseguenze referenziali sono lasciate da parte», al 289).

Ma sicuramente non esiste esempio più appariscente della nascita artificiale dell’astrazione metaforica e dell’universale concettuale a partire dall’ambito della particolarità e dell’eterogeneità come l’apparizione della volontà generale (per Rousseau si tratta piuttosto del suo svelamento, in quanto è sempre stato l’atto primigenio che ha assicurato in primo luogo l’esistenza della “società”). Giustamente de Man sostiene che a livello sociale gli effetti strutturali di questo atto primigenio di unificazione sono completamente diversi, in termini testuali, da quanto si trova nel Secondo Discorso. Tuttavia il dilemma è, semmai, ancor più grave, dal momento che in Rousseau è assai arduo ridiscendere dall’universalità della legge sul piano della volontà generale alle decisioni contingenti mediante le quali la legge si adegua in qualche modo a dei conflitti specifici o, come avrebbe detto lui, alle circostanze referenziali. Eppure questo è un altro passaggio in cui si sarebbe dimostrato fecondo l’incrocio con il marxismo: le lamentele sul sottosviluppo della dimensione politica nel marxismo devono certamente condurre infine a una nuova attenzione verso il rapporto tra l’astrazione “economica” (il valore) e quell’altra istanza astratta o universale rappresentata dallo Stato o dalla volontà generale.

Nel rappresentare quest’ampia confluenza tra gli interessi di Allegorie della lettura e la problematica marxista, occorre dire infine qualcosa a proposito di tali codici quali strumenti terminologici che consentono o escludono certi tipi di lavoro. Il vantaggio del codice marxiano del «valore» – rispetto alla «retorica» demaniana o alla nozione di «identità», di «concetto» di Adorno – sta nel fatto che sposta o trasforma il problema filosofico dell’«errore», che ci è stato d’impaccio nel corso di tutta questa esposizione. Benché non sia sbagliato, è troppo semplicistico sostenere che, per come configurano le posizioni di de Man e di Adorno, le concezioni dell’errore presuppongono logicamente qualche fantasia antecedente circa la “verità” – l’adeguamento del linguaggio o del concetto ai loro rispettivi oggetti –, la quale, come avviene in un amore non corrisposto, si perpetua nelle sue conclusioni d’ora in avanti disilluse e scettiche. Nulla di questo genere può insorgere nel campo terminologico retto dalla parola valore. Il lessico dell’errore suggerisce sempre, suo malgrado, che potremmo sbarazzarcene grazie a un ultimo sforzo della mente. In effetti, buona parte del carattere tortuoso della prosa demaniana e adorniana deriva dalla necessità di aggirare questa implicazione indesiderata e di insistere ripetutamente sulla “oggettività” di questi errori, di queste illusioni, che costituiscono parte integrante del linguaggio o del pensiero e in tal senso non possono essere rettificati, per lo meno non qui e non ora. In questo de Man ci appare alla massima distanza non soltanto da Adorno ma anche da Derrida, in cui abbondano le allusioni a una trasformazione radicale del sistema sociale e della storia stessa che potrebbe dischiudere la possibilità di pensare nuovi tipi di concetti e di pensieri. Nella visione del linguaggio propria di de Man, questo è davvero inconcepibile. La nozione di valore cessa tuttavia proficuamente di comportare tutte queste problematiche relative all’errore e alla verità: le sue istanze si possono giudicare in altri modi (così, sia Lukács che Gramsci vedevano lo scopo essenziale della rivoluzione nell’abolizione della legge del valore), ma le astrazioni sono oggettive, storiche e istituzionali, e pertanto riconducono le nostre critiche dell’astrazione verso nuove direzioni.

Un’altra maniera per dire tutto ciò è comprendere come l’apparato concettuale di de Man – a volte denominato «retorica» – assolva anche una funzione di mediazione. L’analisi del singolare uso che egli fa del termine metafora, per designare la concettualizzazione in genere, suggerisce che qui sia in atto qualcosa di un po’ più complicato di una semplice (o adeguatamente elaborata) riscrittura dei materiali testuali secondo i criteri della tropologia, cosa che potrebbe definire meglio l’operato di Hayden White, di Lotman o del Gruppo ì (da cui de Man ha sempre cercato strategicamente di distanziarsi). Al contrario, il più ampio impiego mediatore della nozione di metafora permette che la tropologia si connetta sul piano terminologico a una serie di oggetti e di materiali diversi (politici, filosofici, letterari, psicologici, autobiografici), dove diviene poi autonoma una certa descrizione dei tropi e del loro movimento. La metafora è così il luogo cruciale di quella che ho chiamato transcodifica in de Man: sulle prime non è un concetto strettamente tropologico, bensì piuttosto il luogo in cui si dichiara che la dinamica dei tropi è “la stessa cosa” rispetto a una gamma di fenomeni identificati da altri codici, da altri discorsi teorici secondo modalità non correlate e non correlabili (l’astrazione è il linguaggio che ho impiegato qui). Pertanto la metafora in de Man si configura essa medesima come un atto metaforico, come il violento abbinamento di oggetti distinti ed eterogenei.

Qualcosa di analogo si può dire, d’altro canto, a proposito degli altri tipi di strumenti linguistici o retorici adoperati saltuariamente in tutto Allegorie della lettura. In particolare, si è spesso osservato che il termine onnicomprensivo retorica (o quello alternativo di lettura) non nasconde affatto l’incompatibilità tra la terminologia dei tropi e quella molto diversa di John Langshaw Austin, che distingue tra vari generi di atti discorsivi performativi e constatativi. Ma certamente la notevole fortuna di Austin nella teoria più recente si deve almeno in parte ai limiti strutturali della stessa linguistica, che deve istituirsi escludendo qualunque cosa si trovi al di fuori dell’enunciato (l’azione, la “realtà” e così via). Austin inventa improvvisamente un modo di parlare di quella realtà extralinguistica esclusa in termini “linguistici”, come una sorta di nuovo “altro” all’interno della filosofia del linguaggio, che, mentre sembra garantire un posto all’azione dentro la nuova terminologia linguistica, giustifica ormai l’estensione di quella stessa terminologia a “tutto”. Si è visto come de Man replichi l’opposizione austiniana secondo le categorie della «grammatica» e della «retorica»: in tal modo si riconosce la tensione, ma la si incorpora di nuovo nel linguaggio senza “risolverla” (non vorrei tuttavia essere frainteso: non sto asserendo che si possa risolvere). Anche qui, dunque, rinveniamo una specie di transcodifica strategica, ancorché di tipo diverso: l’assimilazione dell’altro strutturale, dell’escluso da un dato sistema, dotandolo di un nome tratto dal campo terminologico del sistema medesimo.

Che dire infine dell’argomento ontologico impiegato tanto spesso per rafforzare il primato di un codice sull’altro (che cosa viene prima, il linguaggio o la produzione?)? Si può ammettere che il linguaggio è unico e sui generis, malgrado sia arduo vedere quanto esseri essenzialmente linguistici come noi possano avere la possibilità di raggiungere quell’idea limitata; inoltre è evidente come de Man si sia spinto più in là di tanti altri nel suo tentativo instancabile e autodistruttivo di afferrare la meccanica del linguaggio nel momento stesso del suo funzionamento. Ma in tal modo non è garantito il primato di un codice o di un’ermeneutica di matrice linguistica, se non altro per il motivo nietzscheano che non si può mai garantire il primato di alcun codice. «Se ogni linguaggio tratta del linguaggio» (al 166), cioè se «Ogni linguaggio è linguaggio sulla denominazione, vale a dire un metalinguaggio concettuale, figurato, metaforico» (al 165-166), non ne consegue affatto che un codice teorico organizzato attorno al tema, all’argomento del linguaggio, detenga un’assoluta supremazia ontologica. Tutto il linguaggio può in tal senso parlare «del linguaggio», ma parlare del linguaggio in ultima istanza non è diverso dal parlare di qualunque altra cosa. Ovvero, come direbbe Stanley Fish, da queste “scoperte” a proposito del carattere profondamente disfunzionale di tutti gli usi delle parole non scaturisce alcuna conseguenza pratica. Ma non tutte le contraddizioni dell’opera di de Man (nemmeno le più interessanti) provengono dal suo tentativo di trasformare l’analisi in metodo e di generalizzare un’ideologia operativa – e persino una metafisica – a partire dalle sue straordinarie letture di singoli testi e di singole frasi.

Per esempio, questi interrogativi sostanzialmente filosofici sul primato del linguaggio vanno nettamente distinti da quelli di natura metodologica, in cui si difende un certo approccio al linguaggio di una molteplicità di testi diversi. A differenza di quanto si è dimostrato riguardo al neostoricismo, e diversamente anche rispetto a certi sporadici passaggi di Derrida (specialmente quelli che flirtano con dei motivi psicoanalitici), le omologie non svolgono alcun ruolo in de Man, poiché implicano analogie tra oggetti, contenuto e materie prime all’interno del discorso, mentre in de Man si assiste, per così dire, al manifestarsi del discorso stesso. Così non si può nemmeno dire che tale contenuto sia presente per essere verificato (e quando viene alla luce, alla maniera della “motivazione del procedimento” propria dei formalisti russi, la nostra prospettiva specifica esigerà che lo si intenda piuttosto come il pretesto del discorso in questione, come la sua proiezione: il “senso di colpa” è il miraggio generato dal discorso della confessione). Tanto meno sarebbe corretto dire che le varie modalità secondo le quali si manifesta il discorso sono omologhe l’una rispetto all’altra, benché sia forte la tentazione di leggere le molteplici allegorie di de Man come altrettante variazioni su una struttura. Piuttosto, come nel caso dell’evoluzione plurilineare della tradizione marxista, siamo stimolati a vedere le svariate e singolari modalità in cui il linguaggio lotta con il problema insolubile della denominazione come nodi e fili provvisori, come tante formazioni testuali circoscritte, distinte e specifiche, che non si possono teorizzare e ordinare secondo una norma (sebbene talvolta de Man faccia esattamente questo).

La funzione della teoria – e ciò che le conferisce l’aspetto di un metodo trasportabile da un tipo di oggetto verbale a un altro – sembra risiedere piuttosto nel tentativo di screditare l’autonomia delle discipline accademiche, e quindi la classificazione dei testi che esse perpetuano secondo le categorie di filosofia della politica, speculazione storica e sociale, romanzo e dramma, filosofia e scrittura autobiografica, ognuna delle quali rivendicata da una distinta tradizione. Ecco infine l’altra ragione profonda per la quale Rousseau si fa oggetto di studio privilegiato: come pochi altri scrittori, non solo egli ha praticato una grande varietà di generi e di forme discorsive (ma allora, in tal caso, lo stesso “Settecento” è privilegiato, in quanto si reputa ancora che questa varietà appartenga nella sua interezza alla categoria delle “belles lettres”, e tutti gli intellettuali la praticano indistintamente), sennonché, come una specie di autodidatta, sembra che abbia creduto di reinventare tutti quei generi ex nihilo, al punto che le sue straordinarie produzioni autarchiche paiono fornirci l’accesso alle vere origini del genere. L’imperialismo che qui riannette i testi filosofici e politici agli studi letterari (o piuttosto a quel genere assai speciale di lettura retorica che de Man aveva in mente) – così come il garbo con cui egli manifesta il proprio disprezzo verso la grettezza delle altre discipline che hanno fin troppo avventatamente trasformato delle strutture verbali in idee vaghe e generali (al 243) – appariranno sotto una luce lievemente diversa se si ricorda che aveva le stesse opinioni riguardo a buona parte delle analisi “letterarie”. Si tratta di lezioni terapeutiche dall’utilità variabile a seconda dello stato della disciplina in questione; la più tempestiva e sorprendente non è indirizzata tanto a un ambito preciso, quanto piuttosto a una tendenza, quella psicologica e psicoanalitica. Il capitolo dedicato al Pigmalione smantella risolutamente le nozioni dell’“io” (al 254), mentre quello su Julie si sbarazza efficacemente dell’”autore”. La demolizione qui è stata tanto completa che paradossalmente, allorché si giunge alle Confessioni, resta assai poco da realizzare di quel programma particolare, al punto che de Man si concede la propria versione di un’interpretazione psicoanalitica (nella lettura, a dire il vero soltanto possibile o opzionale, del profondo desiderio di mettersi a nudo provato da Rousseau, al 306). Qui, nella sostanza, a essere in gioco è la trasformazione dell’elemento esistenziale – sentimento, emozione, istinto, pulsioni – in un “effetto” del testo: dato che tale intento è condiviso anche da Lacan (e in un altro modo da Althusser), questo capitolo finale emette risonanze e interferenze particolari, fino a che l’inattesa introduzione della macchina (al 315) non genera un’illusione ottica quasi deleuziana; la macchina non è tuttavia quella di Deleuze, bensì quella del materialismo settecentesco, come si vedrà tra breve. La distanza tra l’analisi iniziale del Secondo Discorso e questa conclusiva sembra davvero molto grande e suggerisce due interpretazioni opposte: da un lato si ipotizza un certo intervallo di tempo nella composizione di questi capitoli e il graduale manifestarsi di una serie di interessi nuovi; dall’altro si scorge qui una sorta di progressione dialettica in cui il contenuto determina delle modificazioni radicali nella forma e nel metodo. Sarebbe tuttavia un po’ più coerente adottare il modo in cui lo stesso de Man utilizza la narrazione. Torniamo nuovamente al capitolo sul Pigmalione, dove la tesi riguardo all’esistenza o alla non esistenza di un io stabile (e di un “altro” stabile) viene verificata rispetto a un racconto il cui problema principale per il lettore (o lo spettatore) è se vi accada veramente qualcosa oppure no (cioè se vi abbia luogo un mutamento). De Man conclude che non accade nulla e che quella che sembra una progressione è poco più di un’iterazione, di una ripetizione: si può presumere che ciò valga anche per la sua sequenza su Rousseau.

Ciò non vuol dire affatto che in ogni capitolo accada la stessa cosa, in quanto ciascuno di essi espone, in maniera diversa e con esiti diversi, la nascita dell’allegoria dal dilemma metaforico primigenio. Sarebbe un errore credere che dal libro si possa dipanare un’unica teoria coerente dell’allegoria (benché l’opera sia sottesa da un’unica teoria coerente della metafora): de Man è come minimo postcontemporaneo nella sua convinzione che una teoria trascendente sia indesiderata e indesiderabile. Non è un fine in sé, ma una distanza concettuale che consente al lettore di comprendere un linguaggio che ha già trasformato; così la teoria qui è proprio quel tentativo di “porsi al di fuori” del testo, e anche del linguaggio, deplorato da Knapp e Michaels; però lo è soltanto per momento.

Quest’asserzione si può dimostrare con la circostanza che, quando si giunge alle conseguenze della metafora, esse non vengono specificate come allegoria, bensì designate, più in generale, come narrazione: «Se l’io non è, in linea di principio, una categoria privilegiata, il seguito di ogni teoria della metafora sarà una teoria del racconto imperniata sulla questione del senso referenziale» (al 203). L’atto metaforico comporta per sua natura l’oblio o la repressione di sé stesso: i concetti generati dalla metafora occultano subito le proprie origini e si rappresentano come veri o referenziali; rivendicano di essere linguaggio letterale. L’elemento metaforico e quello letterale sono dunque uniti, almeno nella misura in cui sono gli inevitabili momenti identici dello stesso processo. Quest’ultimo genera pertanto una certa varietà di illusioni; tra di esse merita un accenno quella eudemonica (piacere o dolore; ma vi ritornerò), così come l’idea del pratico e dell’utile («La progressione o regressione dall’amore alla dipendenza economica è una caratteristica costante di ogni sistema morale o sociale basato sull’autorità di sistemi metaforici incontestati», al 257).

Tuttavia, rispetto alla fase successiva del processo – la narrazione –, chiunque abbia una minima familiarità, attraverso i media, con la “decostruzione” avrà supposto che tale fase implica un “annullamento” di questo primo momento illusorio. Le complicazioni insorgono quando ci accostiamo ai casi concreti della stessa decostruzione e anche allorché veniamo alle prese, in de Man, con la tentazione evidente – cui peraltro resiste – di plasmare una nuova tipologia e tracciare una teoria “semiotica” del tipo indefessamente denunciato nei primi capitoli di Allegorie della lettura.

Se una “teoria” del genere esiste (se, in altre parole, non si tratta semplicemente di una questione di opposizione utile e trasferibile), consiste nel postulare due momenti distinti della narrazione decostruttiva, con il secondo che subentra al primo e lo incorpora a un superiore livello dialettico di complessità. Per prima cosa si disfa la metafora iniziale, sovvertita non appena viene postulata da un sospetto profondo di questo particolare atto linguistico. Eppure in un secondo momento quel medesimo sospetto sormonta il primo e si generalizza: ciò che dapprima era soltanto un grave dubbio riguardo alla praticabilità di questa particolare somiglianza e di questo concetto specifico – un dubbio sul parlare e il pensare –, adesso si muta in uno scetticismo più profondo sul linguaggio in generale, sul processo linguistico o su ciò che de Man chiama lettura, termine che convenientemente esclude le idee generali sul Linguaggio:

Il paradigma di ogni testo consiste in una figura (o un sistema di figure) e nella sua decostruzione. Ma non potendo questo modello essere chiuso da una lettura definitiva, esso genera, a sua volta, una sovrapposizione figurale supplementare la quale racconta l’illeggibilità del racconto precedente. In contrasto con i racconti decostruttivi primari centrati sulle figure e in ultima analisi sempre sulla metafora, possiamo chiamare questi racconti di secondo (o di terzo) grado allegorie. I racconti allegorici narrano la storia del fallimento della lettura, mentre i racconti tropologici, come il secondo Discours, narrano la storia del fallimento della denominazione. La differenza è solo una differenza di grado e l’allegoria non cancella la figura. Le allegorie sono sempre allegorie della metafora e, in quanto tali, esse sono sempre allegorie dell’impossibilità di leggere – una frase in cui il genitivo «di» dev’essere «letto» anch’esso come una metafora. (al 221)

La terminologia talvolta è incerta: le allegorie qui alludono allo stesso oggetto che più avanti, in relazione alle Confessioni, «può essere chiamato un’allegoria della figura» (al 321)? Che cosa accade quando il processo allegorico si contiene o si reprime? Tali interrogativi hanno il merito di costringerci all’ovvia conclusione che, siccome il problema iniziale non si può risolvere (non esiste alcuna “soluzione” al dilemma metaforico), esso non ammette nemmeno un esito unico, ma produce molteplici tentativi di soluzione le cui modalità di insuccesso, sia pure logiche a fatto compiuto, non si possono prevedere o teorizzare in anticipo. Dato che non si può portare a termine, qui la teoria dell’allegoria ci rimanda nuovamente ai testi singoli, la cui lettura in-terminabile non fa che riconfermare la descrizione iniziale, mentre centra l’attenzione sul fallimento strutturale unico di ciascun testo specifico. Da qui, per esempio, la feconda confusione a proposito della natura del Contratto sociale:

È lo stesso Rousseau il «legislatore» del Contratto sociale, e il suo trattato il Deuteronomio dello Stato moderno? Se così fosse, il Contratto sociale diventerebbe un enunciato referenziale monologico. Non lo si potrebbe chiamare un’allegoria […]; al contrario, sollevando il sospetto che il Sermone della Montagna potrebbe essere l’invenzione machiavellica di un politico maestro, egli sovverte nettamente l’autorità del proprio discorso legislativo. Si dovrà allora concludere che il Contratto sociale è un racconto decostruttivo come il secondo Discours? Ma neppure questo è vero, perché il Contratto sociale è chiaramente produttivo e generativo, come anche decostruttivo, diversamente dal secondo Discours. Nella misura in cui non cessa di sottolineare la necessità della legislazione politica e di elaborare i principi sui quali una tale legislazione potrebbe appoggiarsi, il testo fa ricorso ai principi di autorità che sovverte. Sappiamo che questa struttura è caratteristica di quelle che abbiamo chiamato allegorie dell’illeggibilità. Una tale allegoria è metafigurale: è un’allegoria di una figura (la metafora, per esempio) che ricade nella figura che decostruisce. Il Contratto sociale cade sotto questa rubrica nella misura in cui è effettivamente strutturato come un’aporia: esso persiste nell’eseguire ciò di cui ha mostrato l’impossibilità. A questo titolo, esso merita il nome di allegoria. Ma è l’allegoria di una figura? Si può rispondere a questa domanda domandando che cosa esegua il Contratto sociale, che cosa continui a fare nonostante abbia stabilito che non potrebbe essere fatto. (al 295-296)

Come indica il titolo del capitolo (“Promesse”), quella nuova cosa impossibile che Il contratto sociale continua a fare è promettere, tanto che l’apparente eterogeneità dei capitoli conclusivi del libro di de Man qui si può giustificare nuovamente nei termini della gamma più vasta di “soluzioni” impossibili al dilemma testuale. La disparità tra la terminologia degli atti discorsivi (promesse, scuse) e quella di allegorie e figure si può ormai considerare come un ultimo tentativo ambizioso di aprire un codice di mediazione più esteso che abbracci infine la vita personale e la Storia («a questo livello di complessità retorica, le allegorie testuali generano la storia» [al 297], questa frase conclusiva pare segnare la fine provvisoria della personale ricerca di storicità condotta da de Man, com’è stata descritta prima).

Le molteplici versioni dell’allegoria che offre de Man sembrano dunque rientrare sotto l’intestazione generale di quelle che altrove ho denominato «narrazioni dialettiche», vale a dire narrazioni che grazie a dei meccanismi riflessivi si spostano incessantemente verso livelli superiori di complessità, trasformando nel contempo tutti i loro termini e i loro punti di partenza, che cancellano eppure continuano a incorporare (come rileva lo stesso de Man). Il problema cruciale, per queste narrazioni, soprattutto nella situazione intellettuale contemporanea, nella quale si sono drasticamente problematizzate le nozioni fenomenologiche di coscienza e di “io”, sta chiaramente nel momento della “riflessività” e nel modo in cui si rappresenta tale momento (che prima ho dato per scontato, designandolo in maniera neutra come meccanismo). Esso oggi risulterà convincente soltanto se si esclude la tentazione apparentemente inevitabile di tradurlo nuovamente in una certa forma di “autocoscienza”. Che l’incidenza della psicoanalisi e della linguistica da un lato o la fine dell’individualismo dall’altro siano o no spiegazioni soddisfacenti, è certo che la nozione di “autocoscienza” oggi è in crisi e non sembra più svolgere il compito di cui la si riteneva capace in passato; nessuno più la considera un fondamento adeguato di ciò che un tempo era solita fondare o completare. Se la dialettica sia essa stessa inestricabilmente legata a questa valorizzazione, ormai tradizionale, dell’autocoscienza (circostanza spesso espressa da coloro che rifiutano disinvoltamente Hegel, i quali ignorano i passaggi ove sembra che si dica qualcosa di molto diverso) è destinato a restare un problema aperto; né la perdita del concetto di autocoscienza (o anzi addirittura di quello di coscienza) è necessariamente fatale per la stessa concezione dell’agente. Nel caso dell’opera di de Man, però, ritengo che essa sia fatalmente minacciata in ogni suo punto dalla rinascita di una certa idea di autocoscienza che il suo linguaggio cerca attentamente di respingere. Indubbiamente la narrazione decostruttiva corre sempre il rischio di ricadere in quel racconto più semplice nel quale la figura iniziale, avendo dato inizio all’illusione, in qualche modo acquisisce una più intensa consapevolezza della propria attività; mentre l’allegoria della lettura, o dell’illeggibilità, in quest’opera di de Man si presenta davanti ai nostri occhi con un carico superiore di rinnovata coscienza dei propri procedimenti, coscienza che diviene sempre più vivamente consapevole di sé, «al secondo (o terzo) grado», in una progressione infinita. Tutto ciò si mette in maniera alquanto diversa in Derrida, dove l’accento sull’in-terminabilità e su quella che Gayatri Spivak ha etichettato come «impossibilità di un pieno annullamento»110 incontra direttamente il problema dell’autocoscienza riconoscendolo come un fine, un impulso necessariamente frustrato. In de Man tuttavia esso persiste come una sorta di spettrale “ritorno del represso”, un fraintendimento tanto potente che persino la sua negazione lo ridesta; e questa, nello “sviluppo ineguale” del sistema profondamente postcontemporaneo di de Man, non è l’unico singolare vestigio di una concettualità più vecchia.

Quella che chiamerò metafisica di de Man costituisce, da una certa prospettiva, esattamente tale vestigio – il più plateale, ma forse non quello di maggiore rilevanza –; ciò malgrado, in un altro senso, se sostituiamo la parola metafisica con ideologia, risulterà meno sorprendente asserire che un pensatore laico contemporaneo che spesso ha descritto le proprie posizioni come «materialistiche» aveva anche un’ideologia. Naturalmente non si “ha” precisamente un’ideologia; piuttosto, ogni “sistema” di pensiero (non importa quanto scientifico) è suscettibile di rappresentazione (de Man avrebbe detto «tematizzazione», in uno dei suoi passi terminologici più perspicaci) al punto che lo si può comprendere come una “visione del mondo” ideologica. Per esempio, è assai noto che persino gli esistenzialismi o i nichilismi più assoluti – che affermano l’insensatezza della vita o del mondo, nonché l’irragionevolezza delle questioni di “senso” – finiscono anch’essi per proiettare la propria significativa visione del mondo come qualcosa privo di significato.

Comunque in de Man questa predisposizione alla rappresentazione ideologica è correlativa alla sua immagine rigorosa del funzionamento, o della disfunzionalità sistematica, del linguaggio in quanto tale; suo malgrado e contro la propria volontà, l’attenzione per l’apparato linguistico finisce per evocare un quadro impossibile di ciò che non rientra nel linguaggio e che quest’ultimo non può assimilare, assorbire o elaborare. Quel mondo, per definizione inaccessibile (cioè inaccessibile al linguaggio, che resta l’elemento al di là del quale non ci è dato di pensare), non è mai presente nei testi di de Man, nonostante lo sia in Rousseau, specialmente nel più “religioso” e “filosofico” dei suoi scritti, la Professione di fede del vicario savoiardo, che perciò si trasforma quasi nella prova cruciale della lettura di de Man. Ma si tratta del correlativo dialettico di ciò che è presente e, per così dire (per impiegare un altro lessico), il suo non-dit, il suo impensé. L’affermazione di tale metafisica assente è implicita nelle mie prime osservazioni riguardo al modo in cui la pretesa pratica di possedere la chiave del funzionamento del linguaggio continui in genere a replicare, sia pure in maniera diversa, il più razionalista procedimento settecentesco di desumere una fase nella quale il linguaggio ancora non esisteva e ripartire da lì. Non ci sono precauzioni sufficienti che il teorico più sospettoso e vigile possa prendere per escludere questo slittamento nell’ideologia e nella metafisica. De Man doveva saperlo molto bene, come testimoniano i suoi frequenti avvertimenti sull’inevitabilità dell’illusione referenziale (e la sua sciocchezza: essendo la sciocchezza «associata profondamente con la referenza», al 225). D’altro canto, come si vedrà in seguito, la sua definizione strategica del «testo» cerca di evocare la scrittura ideologica come tale, a mio parere con non grande successo.

In quest’ottica de Man è stato un materialista meccanicista settecentesco e buona parte di ciò che nella sua opera al lettore contemporaneo appare singolare e idiosincratico si chiarisce con l’accostamento alla politica culturale dei grandi philosophes dell’illuminismo, con il loro orrore della religione e la campagna contro la superstizione e l’errore (ossia la «metafisica»). In tal senso la stessa decostruzione, strettamente o lontanamente legata all’analisi ideologica marxiana quanto l’islam al cristianesimo, può essere considerata nella sostanza come una strategia filosofica settecentesca. Da ciò, come una “visione” del mondo materialistico-meccanicista, deriva una rappresentazione talmente delirante – contraddizione in termini – che può giungere alla figurazione linguistica soltanto mediante la rivelazione, come nel celebre sogno di d’Alembert: «Le monde commence et finit sans cesse; il est à chaque instant à son commencement et à sa fin; il nen a jamais eu dautre et nen aura jamais dautre. Dans cet immense océan de matière, pas une molécule qui ressemble à une molécule, pas une molécule qui se ressemble à elle-même un instant»111. Ma, sottolinea de Man, persino Diderot imbroglia, perché riscatta la propria visione dell’eterogeneità assoluta postulando la totalità della materia come una sorta di immenso essere organico. Rousseau è stato più coerente: «Tuttavia questo universo visibile è materia, materia sparsa e morta, che come un tutto non ha nulla della coesione, dell’organizzazione o del sentimento comune delle parti di un corpo vivente, perché è certo che noi, che siamo parti, non ci sentiamo affatto nel tutto» (Professione, citata in al 248). Questo è evidentemente incoerente con l’idea di un Rousseau pio e teista che in genere si associa alla Professione e ad altri scritti: la cancellazione di tale incoerenza è il tour de force di de Man nel capitolo dedicato a questo testo. Ciò si realizza spostando di luogo quella che è stata presa per una fede teistica, e in particolare l’idea di Dio, dall’ambito delle proposizioni ontologiche alla «funzione distintiva» del giudizio (al 246). “Dio” e la concettualità che lo accompagna non vanno dunque letti come una risoluzione dell’intollerabile visione della materia evocata poc’anzi, né come un intervento posteriore su di essa, che sostituisca al suo scandalo una visione del mondo più rassicurante (che i manuali di storia culturale designano come «teismo»). Al contrario, l’idea denominata “Dio” e le altre questioni collegate all’«assenso interiore» vengono trasferite, tramite una sorta di messa in parentesi, alla funzione della mente, o meglio ancora a quella del linguaggio stesso e della sua capacità di realizzare ciò che l’epistemologia designa come “atto di giudizio”. Spostare e riorganizzare il problema in questa maniera (de Man sostiene verosimilmente che è Rousseau a farlo, e non il suo lettore decostruttivo) significa riconoscere una nostra vecchia conoscenza, l’atto metaforico, l’affermazione linguistica della somiglianza e dell’identità. Ormai queste “credenze religiose” non sono più esattamente quelle di Rousseau: sono forme linguistiche e concettuali che si agitano nella sua mente con tutta l’oggettività disincarnata dei “concetti” generici e universali del linguaggio. La Professione ormai non argomenta più in loro favore, ma cerca solamente di esaminare qualcosa come le loro condizioni operative di possibilità (e così l’opera da neocartesiana si trasforma in un testo neokantiano, al 246).

Tuttavia in tal caso la concettualità “religiosa” viene lasciata sostanzialmente sospesa sopra l’ambito prelinguistico della materia priva di senso, così come effettivamente il concetto metaforico fluttua sui particolari o le entità individuali che si suppone debba sussumere, come ancora farà la volontà generale sulle passioni uniche e le violente particolarità che ne occupano il campo quali soggetti singoli. Il “teismo” di Rousseau è indecidibile (al 263-264) esattamente nella stessa maniera, poiché, lungi dal creare un ponte tra il territorio del particolare e quello degli universali e del linguaggio, l’intera operazione di Rousseau consiste precisamente nel problematizzare quel rapporto e nel metterne in discussione la stessa possibilità, mentre si continuano a “utilizzare” gli universali, i concetti, il linguaggio e persino il “teismo”.

Sono propenso a credere che tale visione materialistica o “pessimistica” (che alcuni preferiscono chiamare “nichilismo”) in effetti si possa ascrivere anche allo stesso de Man, grazie all’intermediazione dell’altro grande alter ego, cioè Kant (al di là del comune legame con Rousseau, ritengo che le affinità con de Man siano fondate precisamente sulla stessa duplice visione). Un brano come il seguente trasmette solo superficialmente l’orrore della “visione del mondo” di Kant:

Da ogni parte scorgiamo una catena di effetti e di cause, di fini e di mezzi, di regolarità nel nascere e nel perire; e poiché nulla si è immesso da sé nello stato in cui si trova, si ha un costante rimando a un’altra cosa quale causa ulteriore, la quale, da parte sua, rende necessaria la ripetizione dell’operazione. L’intero universo dovrebbe allora precipitare nell’abisso del nulla, se non si ammettesse qualcosa che, sussistendo per sé originariamente e indipendentemente, al di fuori di questa distesa infinita di contingenza, sorregga il tutto, assicurandone nel contempo la durata, come causa della sua origine.112

Eppure questo brano descrive ancora il mondo dei fenomeni, il mondo empirico della nostra esperienza. In Kant è piuttosto il mondo dei noumeni, delle cose in sé, a rappresentare la vera dimora del perturbante e a corrispondere più strettamente alla visione atomistica o materialistica presente nella filosofia precedente, con certe nuove svolte essenziali. La cosa in sé, per esempio, non è rappresentabile alla maniera di Diderot, in quanto non è rappresentabile in assoluto, per definizione; è una sorta di concetto vuoto che non può corrispondere ad alcuna forma dell’esperienza. Nondimeno, mi sembra talvolta che rispetto alla tradizione noi abbiamo qualche vantaggio, non tanto perché disponiamo di terminologie e concettualità nuove (come pensavano Lacan e Althusser a proposito della loro riscrittura di Freud e Marx), bensì piuttosto perché abbiamo nuove tecnologie. Il cinema in particolare ci può consentire la quadratura di questo cerchio specifico in un altro modo, nonché di rappresentare un po’ meglio ciò che fondamentalmente si definiva come qualcosa che sfugge del tutto alla rappresentazione. Se, stando alla grande intuizione di Stanley Cavell113, davvero il senso filosofico del film è mostrarci quale aspetto potrebbe avere il mondo in nostra assenza – «la nature sans les hommes», come diceva Sartre –, forse oggi il noumeno può presentarsi sotto i nostri occhi con una Unheimlichkeit propriamente filmica, come un insieme spaventoso di volumi sinistramente illuminati che proiettano una specie di visibilità interna al di fuori di sé, come una luce a infrarossi: è l’elemento del cinema horror e del fotomontaggio, del volo attraverso le dimensioni in 2001 di Kubrick, se non della ripugnanza del campo visivo di un Altro occulto. Con tutta la sua indecenza adeguatamente squallida, questa potrebbe essere la modalità contemporanea di eguagliare la vertigine che provavano i materialisti classici nel guardare dentro i pori della materia che sottendeva senza senso l’ambito dell’apparenza del mondo umano ordinario. La sfera noumenale di Kant non ha infatti nulla a che vedere con quel livello più profondo dell’essenza hegeliana, con quella dimensione più autentica al di sotto dell’apparenza fenomenica in cui Marx ci invita lasciando il mercato («Quindi, assieme al possessore di denaro e al possessore di forza-lavoro, lasciamo questa sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi, per seguire l’uno e l’altro nel segreto laboratorio della produzione, sulla cui soglia sta scritto: No admittance except on business», mc 193). Insieme all’universo materiale del Vicario di Rousseau e forse anche dello stesso de Man, le cose in sé di Kant non si possono frequentare in questa maniera, perché corrispondono a quanto si stende oltre l’antropomorfismo, al di là delle categorie e dei sensi dell’uomo. Insomma ciò che sta qui davanti a noi senza di noi, invisibile e intoccato, indipendente dalla centralità fenomenologica del corpo umano e soprattutto al di là delle categorie della mente umana (ossia, in de Man, delle azioni del linguaggio e dei tropi). Quanto alla “libertà” quale noumeno, essa segna la medesima “mancanza di prospettiva” adottata sull’io, sulla coscienza e l’identità umane, come una cosa mostruosa che non possiamo immaginare di vedere dall’esterno, quell’essere alieno senza nome che addomestichiamo per mezzo dei più banali concetti antropomorfi di ragione, scelta, movente, atto di fede, pulsione irresistibile e così via. Considerare Kant un pensatore che postula un mondo insuperabilmente dualistico in cui l’apparenza umana coesiste senza mai sovrapporsi con un mondo impensabile ed extraumano di cose in sé (compresi i nostri “io”) significa intendere un po’ meglio perché il filosofo tedesco possa offrire a de Man un utile complesso di coordinate. Le “categorie” linguistiche di de Man sostituiscono quelle cognitive di Kant e scartano efficacemente il compromesso etico kantiano, e allo stesso tempo chiudono la porta, con un certo gelido scetticismo, alla soluzione “teistica” di Rousseau, che è a malapena teismo nel tradizionale senso “religioso”.

Così, a differenza di Rousseau, de Man non tenta nemmeno di realizzare un collegamento del genere tra l’universale e il particolare (sebbene riconosca l’inevitabilità di presupporne l’esistenza, cioè di continuare a utilizzare il linguaggio). La sua pratica va dunque descritta, come hanno fatto alcuni in maniera disinvolta (soprattutto negli ultimissimi anni), come un “nichilismo”? De Man si è costantemente dipinto come un materialista, ma di certo non è la stessa cosa. Il nichilismo evoca una sorta di ideologia globale o di visione del mondo “pessimistica”, del tipo cui in generale egli era allergico. La designazione più precisa della sua collocazione “filosofica” è un’altra, e dietro quella del materialismo settecentesco, già apparentemente antiquata, dischiude una problematica ancor più arcaica e fuori tempo. De Man non era affatto un nichilista, bensì chiaramente un nominalista e l’accoglienza scandalizzata che ha salutato le sue opinioni sul linguaggio, allorché si sono finalmente chiarite ai suoi lettori, non è paragonabile a nulla se non al fermento dei chierici tomisti posti inaspettatamente di fronte alla mostruosità nominalista. Un’esplorazione di queste affinità filosofiche, compito che evidentemente non si può intraprendere in questa sede114, potrebbe produrre un altro de Man, con un’ideologia che in definitiva non sarebbe più quella del materialismo settecentesco. Ciò che nel contesto attuale risulta di maggiore interesse per noi è come possiamo inscrivere nuovamente il suo nominalismo nella logica profonda del pensiero e della cultura contemporanei, dai quali egli si è per lo più mantenuto distante, unico e inclassificabile. Per parte sua, Adorno ha già indagato i criteri secondo i quali l’arte moderna fa fronte sostanzialmente a una logica nominalistica nella propria situazione e nel proprio dilemma; ha preso in prestito la parola da Croce, che la adoperava per lo più per screditare il pensare per generi operante nella valutazione dell’arte della sua epoca, basato su generalizzazioni e classificazioni che egli riteneva incoerenti con l’esperienza della singola opera d’arte. In Adorno il nominalismo irrompe nella stessa produzione dell’opera moderna come un destino, e questa diagnosi formale è implicita anche nel suo lavoro sulla storia dei concetti filosofici moderni, ormai fatalmente ricacciati dalle possibilità universalizzanti della filosofia tradizionale (verso le quali egli non nutre una particolare nostalgia).

Quel che ci vuole oggi è una più ampia diagnosi sociale e culturale dell’imperativo nominalista nella contemporaneità: la tendenza verso l’immanenza, la fuga dalla trascendenza descritta nella prima parte, diviene sotto questa luce un fenomeno privato o negativo, e soltanto l’ipotesi del “nominalismo” quale forza sociale ed esistenziale di per sé ne svela il lato positivo (anche la politica postmoderna e l’inflessione postmoderna del vecchio concetto di “democrazia” si possono interpretare così, come una crescente sensazione che la realtà dei particolari e degli individui sociali sia per certi versi incompatibile con il vecchio modo di pensare la società e il sociale, compresa l’ideologia dell’”individualismo”). Entro tale contesto l’opera di de Man assume una risonanza alquanto diversa e meno eccezionale, come luogo nel quale una certa esperienza del nominalismo, nell’ambito specialistico della produzione linguistica, è stata, per così dire, vissuta fino all’assoluto e teorizzata con una purezza severa e inflessibile.

Tuttavia la mia analisi del teismo di Rousseau resta incompiuta, in quanto non ho ancora menzionato il modo in cui la concettualità “teistica” – che abbastanza chiaramente non è riuscita ad “affrontare” l’ambito della materia – ha comunque conquistato una certa autonomia grazie alla catessi libidica. (Il linguaggio molto diverso di de Man descrive tale momento come «l’adozione di una valorizzazione eudemonica» [al 261], come la trasformazione del giudizio in una specie di «spettacolo» [al 260], d’ora in avanti predisposto al linguaggio del piacere e del dolore, e oltre a questo alla generale affettazione erotica e sentimentale che associamo al Settecento115). Ma quel che si deve fare di questa ripresa della questione del piacere apre la strada ai problemi dell’estetico come tale, più nell’opera di de Man che in quella di Rousseau.

Certamente si può considerare la forma della decostruzione di de Man come un’operazione di salvataggio in extremis dell’estetico – o anche come una difesa e una valorizzazione degli studi letterari, come un privilegio accordato al linguaggio specificamente letterario – nel momento in cui esso sembrava sul punto di scomparire senza lasciare traccia. De Man lo garantisce dapprima con una ridefinizione strategica del concetto di testo, che viene poi limitato nell’applicazione soltanto a quegli scritti che “si decostruiscono da sé”, per parlare in maniera un po’ sommaria. «Il paradigma di ogni testo consiste in una figura (o un sistema di figure) e nella sua decostruzione» (al 221): ormai si può intendere come questa formula, già incontrata nel tentativo di afferrare il momento metaforico iniziale del linguaggio, eserciti la funzione molto diversa della valorizzazione estetica. Da essa sono espulsi i volgarizzatori e gli ideologi – Herder e Schiller, per esempio –, i quali suppongono che Rousseau sia esclusivamente un filosofo, con delle “idee” che si possono prendere a prestito, adattare e sviluppare, oppure cui si può aggiungere qualcosa. Essi sono beatamente sprovvisti del “sospetto” profondo che pervade i due tipi fondamentali di scrittura – le allegorie della figura e le allegorie della lettura – compresi nella designazione più ampia di “testo”. Si tratta indubbiamente di un’affermazione di valore, se non addirittura di una specie di canonicità; si potrebbe in ogni caso obiettare che non si tratta precisamente di un’affermazione di valore estetico. È così possibile categorizzare e classificare i testi in quanto linguisticamente riflessivi, perché decostruiscono sé stessi e in qualche misura sono consapevoli delle loro operazioni. Non sarebbe meglio ascrivere questi giudizi, come sembra fare tanto spesso de Man, alla retorica invece che all’estetica? Ma qui c’è un giro di vite conclusivo, perché il testo in de Man diviene anche il termine che definisce il “linguaggio letterario” in quanto tale e a questo punto si ristabilisce trionfalmente qualcosa che assomiglia in maniera sospetta alla valutazione estetica e allo studio letterario.

Sulla base di questo sarebbe comunque errato concludere che l’operazione di de Man si rivela, dopo tutto, tradizionale in modo rassicurante; c’è infatti un altro pezzo in questo rompicapo, cioè l’inatteso intervento di quello che Geoffrey Galt Harpham ha denominato «imperativo ascetico»116. Infatti abbiamo spesso avuto occasione di osservare l’uso che de Man fa del lessico della «tentazione» e della «seduzione», in particolare, anche se non in maniera esclusiva, in relazione alle opzioni interpretative. È ormai giunto il momento di dire che questi non sono meri vezzi stilistici, ma corrispondono a un aspetto più essenziale della visione filosofica del linguaggio e dell’estetica propugnate da de Man. Inoltre, questo è il punto in cui si vede come la sua opera vada nella sostanza a intersecarsi con il dibattito attuale su modernismo e postmodernismo, termini che non avrebbe approvato in modo particolare, soprattutto quali criteri di periodizzazione come li intendo io. Se tirassimo una linea di demarcazione tra chi si impegna a postulare una certa continuità profonda tra romanticismo e modernismo e chi è intento a mettere in rilievo una frattura radicale tra loro, sicuramente de Man avrebbe parteggiato per i primi, benché a screditare i concetti più vasti intervenga la radicale diversità del singolo testo (o piuttosto del singolo auteur, poiché de Man resta vincolato alla teoria dell’auteur persino nella problematizzazione della funzione autoriale).

È come se la poesia romantica restasse per certi aspetti più vicina alle origini del sospetto di Rousseau nei riguardi del linguaggio (dopo Nietzsche, le affinità elettive di de Man con gli altri teorici tendono, com’è ben noto, verso Friedrich Schlegel); la portata del linguaggio dei moderni risulta perciò più ricca di menzogne e di inganni, di seduzioni, e per questo pare logico che la più straordinaria e completa decostruzione che de Man abbia dato del linguaggio poetico si eserciti su Rilke. Per il momento, dunque, la decostruzione della seduttività del linguaggio poetico è tutt’uno con la decostruzione del “modernismo” stesso.

«[…] dal momento che si ammette comunemente che nei testi cosiddetti letterari le seduzioni di valore sono tollerate (e perfino ammirate) in una maniera che non sarebbe accettabile negli scritti “filosofici”, il valore di questi valori è esso stesso legato alla possibilità di distinguere i testi filosofici dai testi letterari» (al 130). Le «seduzioni» di Rilke (al 29) sono articolate in una descrizione in quattro fasi, ognuna delle quali trova la propria eco in altre parti dello scritto di de Man. La prima, il risveglio della complicità nel lettore, viene sovente ritenuta paradigmatica del moderno in genere («hypocrite lecteur! mon semblable! mon frère!»); in un secondo momento viene identificata un’abbondanza di oggetti e la fascinazione nei confronti della loro apparenza, che in Rilke riveste una specifica forma tematica, ma in un modo o nell’altro è anche paradigmatica di una notevole intensificazione dell’elemento sensoriale nel moderno in generale. La terza fase converte tali profitti in quella che si potrebbe chiamare attuazione ideologica: «l’opera di Rilke osa affermare e promettere, come poche altre, una forma di salvezza esistenziale»; «Hiersein ist herrlich!». Non sorprenderà scoprire che questa operazione mette immediatamente in guardia de Man: in effetti, alla fine di questo studio monografico (scritto come introduzione a un’antologia francese di Rilke, occasione che ne spiega forse l’accessibilità relativamente inconsueta, nonché il carattere sistematico di indagine generale e di analisi totalizzante), le grandi poesie filosofiche, le Elegie duinesi e i Sonetti a Orfeo, sono state spostate, relegate in una posizione umile e marginale nel canone rilkiano. Sono state spodestate dai frammenti sparsi, quasi minimalisti, che paiono prefigurare Celan e, nel loro rifiuto della completezza, incarnare una sorta di estetica “decostruttiva”: «questa “teoria liberatrice del significato” implica anche un completo inaridirsi delle possibilità tematiche» (al 55).

Tuttavia gli altri aspetti della strategia seduttiva di Rilke sono in ultima analisi sospetti quanto questo; non lo è meno l’ultimo momento, il quarto, nel quale i tre passi precedenti si cristallizzano nel linguaggio poetico in sé. Si tratta della comparsa di un singolo canale sensoriale: l’eufonia, che «fa cantare il linguaggio come un violino» (al 45), un «fonocentrico Dio-orecchio su cui Rilke sin dal principio ha scommesso il risultato della sua riuscita poetica» (al 62). «Possibilità di rappresentazione ed espressione sono eliminate in un’ascesi che non tollera nessun altro referente oltre gli attributi formali del veicolo. Dal momento che la sonorità è la sola proprietà del linguaggio veramente immanente a esso e senza nessun rapporto con alcunché situato al suo esterno, essa resterà dunque la sola risorsa possibile» (al 39-40). È strano vedere questa straordinaria musicalità, familiare a ogni lettore appassionato di Rilke, descritta come un’ascesi. Il vocabolo intende mediare tra questa proprietà formale e la tematica religiosa di Rilke, che qui in effetti sono entrambe giustificate e messe in atto mediante quella rinuncia a tutti gli altri sensi che talvolta al poeta piace pensare come santità. Per contro, tale caratterizzazione penetra in profondità attraverso il fenomeno storico della reificazione e della separazione dei sensi nella modernità, e della susseguente autonomia di ciascuno di essi, che acquista un’intensità straordinariamente nuova nella pittura moderna. Il nuovo sensorio corporeo è stato celebrato per lo più dai lettori (e dagli scrittori) che sono pervenuti a un certo senso storico della sua novità: la fenomenologia e le più recenti ideologie del desiderio traggono il loro punto di partenza da questa frammentazione cui il corpo è andato incontro nella modernità. La singolare prospettiva di de Man risulta dunque straniante, in un senso che non può non essere gradito: sospendendo freddamente l’allettante ricchezza del senso nuovo (l’eufonia), egli insiste sul suo prezzo e su tutto ciò cui occorre rinunciare affinché i suoni del linguaggio si rendano autonomi.

Ma tutto ciò si deve sicuramente descrivere anche come un’ascesi da parte sua; e mai Allegorie della lettura è più feroce come nel commento beffardo all’apologia del supremo potere della musica fatta da Nietzsche:

Chi oserebbe ammettere, alla lettura di un tale passo, di non essere uno degli happy few tra gli «schietti musicisti»? La pagina potrebbe essere stata scritta con convinzione da Nietzsche solo se la sua identificazione personale facesse di lui il re Marco di una relazione triangolare. Essa ha tutti i tratti appariscenti dell’affermazione fatta in mala fede: domande retoriche parallele, un’abbondanza di luoghi comuni, la sollecitazione evidente del pubblico. Il potere «mortale» della musica è un mito che non può sostenere il ridicolo della descrizione letterale; tuttavia Nietzsche si vede costretto, dal modo retorico del suo testo, a presentarlo nell’assurdità della sua fatticità. (al 107)117

Vorrei sottolineare fino a che punto, al di là dell’identificazione specifica o dello smascheramento di una precisa seduzione linguistica (che in un modo o nell’altro rimettono in scena le illusioni referenziali – compreso il desiderio – generate dall’atto metaforico iniziale), l’opera di de Man si configura come unica tra quella dei critici e dei teorici moderni, in virtù del suo rifiuto ascetico del piacere, del desiderio e dell’ebbrezza dei sensi.

Ma, dietro tali questioni contemporanee e un po’ alla moda, ce ne sono altre ben più cruciali, in particolare la grande preoccupazione tradizionale dell’estetica filosofica da Platone all’idealismo tedesco, cioè il problema dello statuto dello Schein, dell’apparenza estetica (nei dibattiti postcontemporanei ridotta al tema un po’ più limitato della rappresentazione). La posizione di ciascuno di fronte alla colpa dell’arte e alla condizione dell’intellettuale culturale (per non parlare dell’esteta come tale) dipende molto, come non si è mai stancato di mostrare Adorno, dall’atteggiamento personale nei confronti dell’apparenza estetica, che si può rifiutare per ragioni politiche come un lusso, un privilegio sociale, o in alternativa celebrare o razionalizzare secondo innumerevoli criteri ideologici (che a loro volta sono stati modificati dalla nascita della cultura dei mass media). De Man ha eccezionalmente combinato entrambe queste posizioni in una sintesi idiosincratica, attribuendo allo Schein e all’apparenza sensibile lo statuto negativo dell’ideologia estetica, della menzogna o della mala fede, ma contemporaneamente ha serbato all’arte (o almeno alla letteratura) il ruolo di campo privilegiato in cui il linguaggio si decostruisce e nel quale, di conseguenza, potrebbe essere ancora reperibile una versione molto tardiva della “verità”. Così l’esperienza estetica ne esce nuovamente valorizzata, senza però quegli allettanti piaceri estetici che sono sempre parsi la sua vera essenza, come se l’arte fosse una pillola da ingerire malgrado il suo rivestimento di zucchero, oppure, in termini più tradizionali, una valle relativamente wagneriana di illusione magica e di fantasmagoria necessarie.

Messo a confronto con uno come Roland Barthes, il puritanesimo di de Man assume proporzioni quasi platoniche (salvo che per i programmi sociali destinati dal filosofo greco all’arte), accanto a cui un Barthes arriva ad apparire come l’epitome dell’autoindulgenza irresponsabile e della resa all’illusione. Personalmente, temo di essere incapace di prendere sul serio i suggerimenti etici che accompagnano il testo di de Man (è indubbiamente un problema mio), però Allegorie della lettura sembra profetico rispetto agli anni Ottanta, non tanto per una presunta “moralità nuova”, quanto piuttosto per il giudizio di fallimento che pronuncia sulla complessa celebrazione della liberazione, del corpo, del desiderio e dei sensi che ha rappresentato una delle principali “conquiste”, dei terreni di scontro, degli anni Sessanta.

Eppure, come abbiamo già visto, questa notevole diagnosi rovinosa del moderno e della sua retorica dei sensi (non mi è possibile ricapitolare la minuziosa decostruzione delle figure di Rilke che ne deriva) è seguita pressoché immediatamente dalla restaurazione del primato del linguaggio poetico e letterario. Ciò è abbastanza plausibile, poiché, se l’obiettivo è l’annullamento delle illusioni sensoriali del linguaggio, queste devono essere risvegliate al massimo grado affinché possa aver luogo lo scontro decisivo.

Pertanto si deve leggere l’estetica di de Man sullo sfondo di un più ampio contesto storico, nel quale essa offre lo spettacolo di un modernismo liquidato in maniera incompleta: le posizioni e le argomentazioni sono dunque “postmoderne”, anche se non lo sono le conclusioni. Perché non si traggono queste conseguenze estreme è il nostro interrogativo finale, al quale non si può dare una risposta compiuta. In termini molto generali, tuttavia, come ho sostenuto nei capitoli precedenti, un postmodernismo pienamente autonomo, che si giustifichi da sé, è in definitiva impossibile come ideologia. Se si preferisce adoperare il linguaggio dell’antifondazionalismo (che però è soltanto uno dei codici, o dei temi, in cui si svolge il dramma), questo equivale ad affermare che la posizione antifondazionalista è sempre suscettibile di uno slittamento verso un nuovo tipo di ruolo fondazionale a sé stante. Ma la sopravvivenza in de Man di valori propriamente modernisti – su tutti il privilegio e il valore supremo del linguaggio estetico e poetico – è troppo perentoria e roboante perché la si possa spiegare soltanto in questo senso, specialmente accanto alla critica straordinariamente minuziosa di quasi tutti gli aspetti formali dell’estetica del modernismo.

Suppongo che si noti qui l’impressione che, a un certa distanza e con un certo spostamento di prospettiva, sul piano storico e culturale de Man fosse una figura davvero antiquata, legata a valori caratteristici dell’intellighenzia europea di prima della seconda guerra mondiale (circostanza in genere destinata a restare invisibile ai nordamericani contemporanei). Dunque ciò che va spiegato non è tanto l’imperfetta liquidazione dell’eredità moderna in de Man, quanto, in primo luogo, lo stesso progetto di liquidazione.

Fino a oggi non ho voluto pronunciarmi sulle ormai celebri “rivelazioni”, la scoperta del lavoro di de Man come giornalista culturale nei primi anni dell’occupazione tedesca del Belgio. Temo che buona parte del dibattito suscitato da questi materiali mi sia parso, come piace dire a Walter Benn Michaels, un «piagnisteo». Tanto per cominciare, non credo che gli intellettuali nordamericani abbiano avuto in genere un’esperienza della storia tale da qualificarli a giudicare le azioni e le scelte di persone che hanno subito un’occupazione militare (a meno che non si ritenga che la situazione della guerra del Vietnam offre una qualche grossolana analogia). In secondo luogo, l’accento esclusivo posto sull’antisemitismo trascura e neutralizza a livello politico l’altro tratto costitutivo del nazismo, ossia l’anticomunismo. Il fatto che la possibilità stessa del genocidio ebraico fosse assolutamente inseparabile dalla missione anticomunista dell’estrema destra rappresentata dal nazionalsocialismo è il tema principale di Soluzione finale, il nuovo e decisivo lavoro storiografico di Arno Mayer. Stando così le cose, risulta subito chiaro che de Man non era né di destra né anticomunista: se avesse assunto queste posizioni da studente (in un’epoca in cui i movimenti studenteschi d’Europa erano nella stragrande maggioranza conservatori o reazionari), la cosa sarebbe stata di pubblico dominio, giacché era il nipote di una delle più celebri figure del socialismo europeo. (Peraltro in questi testi, del tutto privi di una qualche originalità, una certa ideologia politica di fondo non fa che dare voce semplicemente al corporativismo generale dell’epoca, condiviso indiscriminatamente dal nazismo e dal fascismo italiano, dal New Deal e dalla socialdemocrazia postmarxiana di Henrik de Man, fino allo stalinismo118).

Come attestano gli articoli, si può tuttavia vedere che de Man era chiaramente un esemplare piuttosto irrilevante dell’allora comune esteta del modernismo avanzato, per giunta apolitico. È evidentemente una questione molto diversa da quella che riguarda Heidegger, benché appaia indiscutibile che i due “scandali” paralleli di Heidegger e de Man sono stati orchestrati con cura per delegittimare la decostruzione derridiana. Può essere che Heidegger sia stato “politicamente ingenuo”, come dicono alcuni, ma era sicuramente politicizzato, e per un certo lasso di tempo ha creduto che la presa del potere da parte di Hitler fosse un’autentica rivoluzione nazionale che sarebbe sfociata in una ricostruzione sociale e morale della nazione119. In qualità di rettore dell’università di Friburgo, e nel migliore spirito reazionario e maccartista, si diede da fare per purificare quel luogo dagli elementi dubbi (sebbene si debba ricordare che gli “elementi” autenticamente radicali o di sinistra erano molto rari nel sistema universitario tedesco degli anni Venti, a paragone della Hollywood degli anni Quaranta o della Repubblica Federale dei Settanta). La sua delusione definitiva nei confronti di Hitler fu condivisa da svariate persone appartenenti alla sinistra rivoluzionaria (anticapitalista) del nazionalsocialismo, che per un certo periodo non riuscirono a comprendere né l’atteggiamento pragmatico di moderato o centrista assunto dal Führer né i suoi rapporti cruciali con la grande impresa. So di essere frainteso se aggiungo che nutro un’ammirazione inconfessata nei confronti del tentativo di impegno politico di Heidegger, che trovo in sé moralmente ed esteticamente preferibile al progressismo apolitico (purché i suoi ideali restino irrealizzati).

Nulla di tutto ciò ha qualche rilievo per Paul de Man, per il quale la circostanza che chiamiamo drammaticamente “collaborazione” non fu nient’altro che un lavoro120, in un’Europa che nell’immediato futuro sarebbe stata unita e tedesca. Inoltre, per come l’ho conosciuto personalmente, de Man è stato semplicemente un buon progressista (e per di più estraneo all’anticomunismo). Malgrado ciò, è possibile seguire uno degli scenari classici dell’Ideologiekritik e sostenere che l’evoluzione di tutta una complessa linea di pensiero successiva sia stata in un certo senso determinata da un trauma iniziale che essa ha tentato di cancellare? Naturalmente a questo lessico terapeutico se ne può sostituire uno più tattico, come accade in Bourdieu, nella sua magistrale analisi di come la celebre Kehre di Heidegger (la svolta del suo esistenzialismo verso le questioni dell’essere) costituisca un deliberato disimpegno retorico dalla precedente affermazione politica della «rivoluzione» nazista121; tuttavia (a differenza di Blanchot) de Man non aveva, tanto per cominciare, simpatie del genere. In ogni caso tali deconversioni si possono verosimilmente analizzare anche nei termini del trauma, come esperienza della violenza e della paura assoluta; così, in Conversazione nella cattedrale (romanzo curiosamente premonitore della successiva apostasia dalla sinistra da parte dell’autore), Vargas Llosa mostra come l’esperienza di essere scottato dalla storia – in questo caso un pestaggio dopo una manifestazione studentesca, ma in altri casi più seri la stessa tortura – impianti una struttura paralizzante di autocensura e l’elusione quasi pavloviana di un futuro impegno politico (una specie di singolare inversione del liberatorio atto di violenza di Fanon).

Sarebbe ridicolo sostenere che tutti i complessi procedimenti della decostruzione demaniana vengano alla luce affinché in un certo senso l’autore possa espiare o cancellare un “passato nazista” che, tanto per cominciare, non è mai esistito. Di sicuro essi hanno annullato efficacemente i suoi valori estetici acriticamente modernisti (mentre, come abbiamo visto, per altri versi “salvavano il testo”). Quanto al celebre articolo “antisemita”122, ritengo che sia stato costantemente frainteso: mi appare come l’ingegnoso sforzo di resistenza di un giovane tutto sommato fin troppo sveglio. Il messaggio di questo “intervento” è infatti il seguente: «voi, antisemiti e intellettuali qualunque (lasceremo fuori l’altero antisemitismo “religioso” del Terzo Reich), in effetti rendete un cattivo servizio alla vostra causa. Non avete compreso che se la “letteratura ebraica” è dannosa e virulenta come proclamate, ne consegue che la letteratura ariana non è gran cosa, e che in particolare le manca il vigore per resistere a una cultura ebraica che, secondo altre versioni antisemite canoniche, si suppone priva di valore. Davanti a queste circostanze, fareste meglio a smettere completamente di parlare degli ebrei e a coltivare il vostro giardino».

È paradossale, ancorché assolutamente tipico, che questa ironia sia stata fraintesa e travisata in maniera tanto disastrosa (de Man sembra aver compreso subito che l’articolo era leggibile molto più agevolmente come un’espressione di antisemitismo, invece che come il suo sovvertimento). Forse i rigori della lettura decostruttiva – negli anni successivi perseguiti e insegnati con tanta passione – sono stati intesi a “cancellare” quel disastro, nel senso di formare lettori capaci almeno di resistere a un elementare abbaglio interpretativo di questo genere. Eppure sembra che la maggior parte dei suoi discepoli al primo confronto con questo “testo” sia incorsa in tale errore; e in ogni caso una certa ulteriore “ironia” si aggiunge per il fatto che la pedagogia di de Man, per altri versi tanto pregevole, ha lasciato i suoi studenti particolarmente impreparati ad affrontare una questione politica e storica di questo tipo, che sin dall’inizio si pone fra parentesi.

L’ironia massima sta però nella sopravvivenza dell’ironia medesima – concetto e valore teorico supremo del modernismo tradizionale, luogo deputato della nozione di autocoscienza e dell’elemento riflessivo123 – nella débâcle, per lo più completa, del repertorio del modernismo nell’opera matura di de Man. Anzi, nell’ultima pagina di Allegorie della lettura, l’ironia risorge serenamente come culmine di quell’opera.

91 Berkeley, University of California Press, 1987; tutti gli ulteriori rimandi all’interno del testo sono contrassegnati dalla sigla GS.

92 In “Against Theory”, a cura di W.J.T. Mitchell, Chicago, University of Chicago Press, 1985, pp. 11-28. La seconda parte dell’articolo (dedicata a Derrida e Gadamer) è apparsa su «Critical Inquiry». Nel testo mi riferisco alla prima, siglata AT.

93 S. Greenblatt, Renaissance Self-Fashioning, Chicago, University of Chicago Press, 1980, p. 256.

94 T.W. Adorno, Negative Dialektik, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1966 [Dialettica negativa, trad. di C.A Donolo, Torino, Einaudi, 1980, p. 333].

95 K. Marx, The Civil War in France, Londra, Truelove, 1871 [La guerra civile in Francia, trad. di P. Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 42].

96 È la parola che utilizza Baudrillard.

97 S. Sontag, On Photography, New York, Farrar, Strauss & Giroux, 1977 [Sulla fotografia, trad. di E. Capriolo, Torino, Einaudi, 1992, p. 156].

98 Ma si veda oltre, il capitolo 8.

99 Probabilmente il lettore di questo particolare libro non ha bisogno che gli si dica che una costruzione come “la logica culturale del mercato (intorno al 1910)” racchiude implicazioni metodologiche e storiche ben diverse da “la logica del naturalismo”.

100 G. Stein, Four in America, New Haven, Yale University Press, 1947, p. VII.

101 P. de Man, Allegories of Reading, New Haven, Yale University Press, 1979 [Allegorie della lettura, trad. di E. Saccone, Torino, Einaudi, 1997, p. 3]. Nel testo ogni ulteriore rimando a quest’opera è contrassegnalo dalla sigla AL.

102 Id., The Rhetoric of Romanticism, New York, Columbia University Press, 1984, p. VII.

103 J.-J. Rousseau, Discours sur lorigine et les fondements de linégalité parmi les hommes, Amsterdam, Rey, 1755 [Discorso sullorigine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, in Scritti politici, trad. di M. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1994, vol. I, p. 140]. I rimandi nel testo sono siglati RD.

104 Cfr. I. Kant, The Critique of Pure Reason, trad. ingl. di J.M.D. Meiklejohn, Chicago, 1952, p. 180A. L’espressione inglese di Meiklejohn traduce il termine originale kantiano Aufheben, la cui fortuna nei decenni successivi avrebbe conosciuto una crescita spettacolare.

105 Cfr. J.-P. Sartre, Critique de la raison dialectique, Parigi, Gallimard, 1960 [Critica della ragione dialettica, trad. di P. Caruso, Milano, Il Saggiatore, 1963].

106 Per quanto attiene alla dialettica quale esperimento del linguaggio, ho sempre pensato che la seguente osservazione tratta dall’Emilio contenesse alcuni accenni essenziali riguardo alla sua ragion d’essere: «Ho riflettuto cento volte, scrivendo, che in un lungo lavoro è impossibile dar sempre lo stesso significato alle medesime parole. Non c’è nessuna lingua abbastanza ricca per fornire tanti termini, tante frasi, tante locuzioni, per esprimere tutte le modificazioni che le nostre idee possono avere. Il metodo di definire tutti i termini e di sostituire costantemente la definizione alla cosa definita è bello, ma impraticabile: poiché come si può evitare il circolo? Le definizioni sarebbero buone, se non si dovessero impiegare parole per farle. Ciò non ostante io son convinto che si può essere chiari anche nella povertà della nostra lingua, non dando sempre il medesimo significato alle medesime parole, ma facendo in modo che tutte le volte che si adopera la stessa parola, il suo significato sia ben determinato dalle idee che si riferiscono ad esso, e che ogni periodo nel quale tale parola si trova, gli serva, per dir così, di definizione. Un po’ io dico che i fanciulli sono incapaci di ragionare, un po’ dopo li faccio ragionare con discreta acutezza. Non credo con ciò contraddirmi nelle mie idee, ma devo convenire che mi contraddico nelle espressioni» (Émile ou de lÉducation [1762] [Emilio, a cura di G. Modugno, trad. di M. Castelnuovo Landini, Firenze, La Nuova Italia, 1987, p. 55n]).

107 K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Mosca, Verlagsgenossenschaft ausländischer Arbeiter in der UdSSR, 1932 [Il capitale. Critica delleconomia politica, trad. di D. Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 1972, vol. 1, t. 1, p. 61]. Nel testo tutti gli ulteriori rimandi recano la sigla MC.

108 Tali quattro forme vengono delineate nel primo volume del Capitale, cit., libro 1, parte 1, capitolo 1, sezione 3.

109 Cfr. G. Spivak, In Other Worlds, New York, Methuen, 1987, p. 154.

110 Ibid.

111 D. Diderot, Le Rêve de dAlembert, in Œuvres complètes, Parigi, Hermann, 1987, vol. XXVII, p. 128 [Il sogno di dAlembert, con una nota di D. Galateria, trad. it. di P. De Capua, Palermo, Sellerio, 1994, p. 40: «Il mondo comincia e finisce incessantemente; ad ogni istante, esso è all’inizio e alla fine; non ha mai avuto altro inizio, non avrà mai altra fine. In questo immenso oceano di materia, non una molecola che assomigli a un’altra, non una molecola che assomigli a sé stessa per un istante»].

112 I. Kant, Kritik der reinen Vernunnft, Riga, Hartknoch, 1781 [Critica della ragion pura, trad. di P. Chiodi, Milano, TEA, 1996, pp. 461-462].

113 S. Cavell, The World Viewed, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1979.

114 Sul nominalismo, cfr. il mio Tardo marxismo, cit.

115 Si ricorderà che l’eudemonico (piacere-dolore) svolge in Kant lo stesso ruolo di collegamento e di separazione: «Ma questa giustificazione dei principi morali come principi di una ragion pura, poteva esser addotta benissimo e con certezza sufficiente anche solo mediante il semplice riferimento al giudizio dell’intelletto umano ordinario; perché ogni elemento empirico che si potesse introdurre nelle nostre massime come motivo determinante della volontà, si dà a conoscere subito pel sentimento di piacere o di dolore che si unisce necessariamente ad esso, in quanto tale elemento muove il desiderio; ma ogni ragion pura pratica si oppone direttamente ad ammettere nel suo principio questo sentimento come condizione» (I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, Riga, Hartknoch, 1788 [Critica della ragion pratica, trad. di F. Capra, Roma, Bari, Laterza, 1989, p. 112]).

116 Se ne vedano le interessanti osservazioni su de Man in G.G. Harpham, The Ascetic Imperative in Culture and Criticism, Chicago, University of Chicago Press, 1987, pp. 266-268.

117 Mentre scrivo mi rendo conto che non ho idea di cosa pensasse lo stesso Paul a proposito della musica; un certo disprezzo satirico non è tuttavia affatto incompatibile con l’apprezzamento indiretto, come nel ritratto che fa Musil degli appassionati nietzscheani di musica: «Ogni volta che andava a visitarli li trovava al pianoforte. Pareva loro naturalissimo non badare alla sua presenza finché il pezzo non era finito. Questa volta si trattava dell’Inno alla Gioia di Beethoven; secondo la descrizione di Nietzsche, i milioni cadevano rabbrividendo in polvere, le barriere ostili erano infrante, il vangelo dell’armonia universale riconciliava, riuniva i disgiunti. Ed ecco che i suoi amici non sapevano più camminare e parlare e stavano per involarsi danzando nell’aria. I loro volti erano chiazzati, i corpi contorti, le teste si movevano a scatti su e giù, artigli tesi si piantavano nella massa sonora che s’impennava. Accadeva qualcosa d’incommensurabile; una bolla confusamente delimitata, piena di calde sensazioni, si tendeva fino a esplodere, e dalle dita in orgasmo, dalle contrazioni nervose della fronte, dai guizzi convulsi del corpo irradiava un sentimento sempre nuovo nell’immane tumulto individuale» (R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, in Gesammelte Werke, Amburgo, Rowohlt, 1952, vol. I [Luomo senza qualità, trad. di A. Rho, Torino, Einaudi, 1982, vol. I, p. 43]).

118 Un giudizio recente su Henrik de Man si trova in L. Niethammer, Posthistoire: ist die Geschichte zu Ende?, Reinbek, Rowohlt, 1989, pp. 104-115.

119 Cfr. in particolare V. Farias, Heidegger et le nazisme, Parigi, Verdier, 1987 [Heidegger e il nazismo, trad. di M. Marchetti e P. Amari, Torino, Bollati Boringhieri, 1988] e H. Ott, Martin Heidegger: Unterwegs zu seiner Biographie, Francoforte, Campus, 1988 [Martin Heidegger. Sentieri biografici, trad. di F. Cassinari, Milano, SugarCo, 1988].

120 Cfr. E. Colinet, “Paul de Man and the Cercle du Libre Examen”, in Responses: On Paul de Mans Wartime Journalism, a cura di W. Hamacher, N. Hertz e T. Keenan, Lincoln (Nebraska), University of Nebraska Press, 1989, pp. 426-437, in particolare p. 431.

121 Si veda P. Bourdieu, LOntologie politique de Martin Heidegger, Parigi, Minuit, 1988 [Führer della filosofia? Lontologia politica di Martin Heidegger, trad. di G. De Michele, Bologna, il Mulino, 1989] e J. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1985 [Il discorso filosofico della modernità, trad. di E. Agazzi, Roma, Bari, Laterza, 1987].

122 “Les Juifs dans la littérature actuelle”, in «Le Soir», 4 marzo 1941, in P. de Man, Wartime Journalism, 1939-1943, a cura di W. Hamacher, N. Hertz e T. Keenan, Lincoln (Nebraska), University of Nebraska Press, 1988, p. 45. A posteriori, la fiorita espressione conclusiva, che spedisce gli ebrei su un’isola lontana, è ovviamente davvero sinistra, ma si riferisce alla cosiddetta “soluzione” del Madagascar, discussa fino a che la guerra con la Gran Bretagna non chiuse le rotte marittime. Cfr. A. Mayer, Why Did the Heavens Not Darken?, New York, Pantheon, 1988 [Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, trad. di G. Panzieri Saija, Milano, Mondadori, 1990].

123 Si confronti il ruolo dell’ironia in Venturi, soprattutto nel suo Complexity and Contradiction (New York, Museum of Modern Art, 1966 [Complessità e contraddizioni nellarchitettura, trad. di R. Gorijux e M. Rossi Paulis, Bari, Dedalo, 1977]), ma anche in Imparando da Las Vegas, cit. Uno dei motivi dominanti del presente libro è la sopravvivenza di questi residui valori modernisti in pieno postmodernismo.