10. Elaborazioni secondarie
1. Prolegomeni ai confronti futuri tra moderno e postmoderno
Marxismo e postmodernismo: di solito l’accostamento appare bizzarro o paradossale, e in qualche modo estremamente precario, tanto che alcuni sono indotti a concludere che, nel mio caso, essendo io “diventato” un postmodernista, devo avere smesso di essere un marxista in ogni senso rilevante (ossia, in altre parole, stereotipato). Infatti, i due termini (in pieno postmodernismo) recano con sé una carica nostalgica di immagini pop: il “marxismo” magari si riassume nelle fotografie d’epoca ingiallite di Lenin e della rivoluzione sovietica, mentre il “postmodernismo” suggerisce immediatamente la veduta dei più vistosi alberghi appena edificati. Quindi l’inconscio fin troppo avventato mette rapidamente insieme l’immagine di un piccolo ristorante nostalgico scrupolosamente riprodotto – decorato di vecchie fotografie, con i camerieri sovietici che servono pigramente cattivo cibo russo –, nascosto dentro qualche nuova fantasmagoria architettonica, luccicante di rosa e di azzurro.
Se mi si concede una nota personale, dirò che mi è già capitato in precedenza di essere curiosamente e comicamente identificato con un oggetto di studio. Un libro sullo strutturalismo che ho pubblicato anni fa suscitò delle lettere, alcune delle quali si rivolgevano a me come al «principale» portavoce dello strutturalismo, altre come a un «eminente» critico e avversario di quel movimento. In realtà non ero nessuna delle due cose, ma devo concludere che il mio essere “nessuna delle due cose” dev’essere stato relativamente complicato e insolito, tanto che è parso difficile intenderlo. Per quanto concerne il postmodernismo, e malgrado lo sforzo che ho compiuto nel saggio principale per spiegare come non sia possibile – sul piano intellettuale e politico – semplicemente esaltare o “negare” il postmodernismo (qualunque cosa esso significhi), i critici d’arte d’avanguardia hanno presto individuato nel sottoscritto un rozzo sicario marxista, mentre alcuni dei compagni più candidi hanno concluso che, seguendo l’esempio di tanti illustri predecessori, ero uscito di senno e mi ero trasformato in un “postmarxista” (il che, per un certo linguaggio, equivale a rinnegato, voltagabbana, e per un altro uno che invece di lottare svicola).
Molte di queste reazioni paiono confondere gusto (ossia opinione), analisi e valutazione, tre cose che avrei pensato fosse di qualche interesse tenere separate. Il “gusto”, nel senso più ampio che gli attribuiscono i media, cioè quello delle preferenze personali, corrisponderebbe a quanto un tempo si designava nobilmente e filosoficamente come “giudizio estetico” (il mutamento dei codici e la diminuzione barometrica di dignità lessicale rappresenta, come minimo, un indice della destituzione che ha subito l’estetica tradizionale e della trasformazione della sfera culturale in epoca moderna). L’”analisi” ritengo sia quella particolare e rigorosa combinazione di analisi storica e formale che costituisce il compito specifico degli studi letterari e culturali. Descriverla come l’indagine delle condizioni storiche di possibilità di forme specifiche forse spiega perché si può dire che queste due prospettive speculari (spesso ritenute in passato inconciliabili o incommensurabili) costituiscono il proprio oggetto, e sono in tal modo inseparabili. In questo senso l’analisi può essere vista come un insieme di operazioni molto diverso da un giornalismo culturale incentrato sul gusto e sull’opinione. Sarebbe importante, adesso, fissare la differenza tra tale giornalismo – con le sue indispensabili funzioni recensorie – e quella che denominerò “valutazione”. Questa non dipende più dalla “bellezza” di un’opera (alla maniera del vecchio giudizio estetico), ma cerca invece di tener vive (o di reinventare) le valutazioni di carattere sociopolitico che interroghino la qualità della stessa vita sociale attraverso il testo o la singola opera d’arte, oppure azzardino una valutazione degli effetti politici delle correnti o dei movimenti culturali con meno utilitarismo e una maggiore comprensione per la dinamica della vita quotidiana che per gli imprimatur e gli indici delle tradizioni precedenti.
Per quello che riguarda il gusto (come avranno avvertito i lettori dei capitoli precedenti), dal punto di vista culturale scrivo da consumatore relativamente entusiasta del postmodernismo, o quanto meno di alcuni suoi aspetti. Mi piacciono l’architettura e gran parte delle nuove opere visive, in particolare la nuova fotografia. La musica non è male da ascoltare, né la poesia da leggere; il romanzo è il più debole di questi nuovi ambiti culturali ed è superato di gran lunga dai suoi equivalenti narrativi del cinema e del video (ciò vale almeno per il romanzo della letteratura alta; le narrazioni di sottogenere sono tuttavia assai buone davvero; e naturalmente nel Terzo Mondo tutto questo si verifica in maniera molto difforme). Anche il cibo e la moda sono molto migliorati, così come la vita in genere. La mia opinione è che questa sia essenzialmente una cultura visiva, collegata dal suono, nella quale però l’elemento linguistico è fiacco, inerte, e mancherà di interesse se non vi si applicano ingegno, audacia e un’intensa motivazione (per questo elemento occorre inventare un termine più forte di “standardizzazione”; per di più esso risulta venato della peggior specie di linguaggio spazzatura, come «stile di vita» o «predilezione sessuale»).
Questi sono gusti, che danno origine a opinioni; hanno poco a che fare con l’analisi della funzione di una tale cultura e del modo in cui essa è arrivata a diventare quella che è. In ogni caso, forse nemmeno le opinioni sono soddisfacenti in questa forma, dal momento che la seconda cosa che le persone vogliono sapere, per l’ovvio motivo contestuale, è come questo si paragoni al vecchio canone modernista. In genere l’architettura rappresenta un grande miglioramento; i romanzi sono molto peggio. Fotografia e video sono incomparabili (il secondo per una ragione più che ovvia); inoltre oggi siamo fortunati ad avere nuovi dipinti da guardare e poesie interessanti da leggere.
Tuttavia la musica (secondo Schopenhauer, Nietzsche e Thomas Mann) dovrebbe indurci a qualcosa di più interessante e complesso della pura e semplice opinione. Per prima cosa, essa resta fondamentalmente un contrassegno di classe, l’indice di quel capitale culturale che Pierre Bourdieu chiama «distinzione» sociale: di qui le passioni che suscitano ancora i gusti musicali alti e bassi, elitari o di massa (e le teorie che a essi corrispondono, con Adorno da una parte e Simon Frith dall’altra). Contemporaneamente, la musica include la storia in maniera più profonda e irrevocabile, giacché, quale sfondo e stimolo dello stato d’animo, essa media il nostro passato storico con quello privato ed esistenziale, e quasi non la si può più districare dalla memoria.
Il rapporto più essenziale della musica con il postmoderno passa comunque attraverso lo spazio (secondo la mia analisi uno dei tratti distintivi o addirittura costitutivi della nuova “cultura”, o dominante culturale). Soprattutto MTV si può intendere come una spazializzazione della musica ovvero, se si preferisce, come il segno rivelatore che nel nostro tempo la musica si è già, in primo luogo, profondamente spazializzata. Le tecnologie legate alla musica – produzione, riproduzione, ricezione o consumo – puntavano già a modellare un nuovo spazio sonoro attorno all’ascoltatore individuale o collettivo: anche in musica la “figuratività” – nel senso di disporre le fauteuil e contemplare lo spettacolo che si dispiega davanti agli occhi – ha conosciuto una crisi e una concreta disintegrazione storica. Non si dà più un oggetto musicale da contemplare e gustare: si connette il contesto e si rende musicale lo spazio attorno al consumatore. In questa situazione, la narrazione offre mediazioni molteplici e proteiformi tra i suoni nel tempo e il corpo nello spazio, coordinando un frammento visivo narrativizzato – un lacerto d’immagine contrassegnato come narrazione, che non deve provenire da una qualunque storia già sentita – con un evento della colonna sonora. Specialmente nel postmoderno è fondamentale distinguere tra la narrativizzazione e qualsiasi segmento narrativo specifico in quanto tale: se non lo si fa si finisce per fare confusione tra i racconti e i romanzi “realistici vecchio stile” e quelli antinarrativi, putativamente moderni o postmoderni. Il racconto è però soltanto una delle forme che può assumere la narrazione, la narrativizzazione; e vale la pena contemplare la possibilità che oggi possa essere sufficiente la semplice intenzione di produrre un racconto, come nelle recensioni di libri immaginari scritte da Lem (quando gli hanno chiesto perché fosse passato a MTV, Ken Russell ha predetto che nel XXI secolo nessun film durerà più di quindici minuti). L’effetto che MTV provoca sulla musica non è tanto di invertire quella forma novecentesca ormai estinta che si chiama musica a programma, ma piuttosto di inchiodare i suoni (adoperando i chiodi di Lacan, senza dubbio) allo spazio visibile e ai segmenti spaziali. Qui, come più in generale nella forma del video, il vecchio paradigma è la stessa animazione, che da una prospettiva genealogica si illumina a posteriori come precorritrice del video (ma non come sua principale influenza). Soprattutto nelle sue varianti più deliranti e surreali, il cartone animato è stato infatti il primo laboratorio dentro il quale il “testo” ha collaudato la propria inclinazione a mediare tra la vista e il suono (si pensi all’ossessione da incolto dello stesso Walt per la musica colta) e ha finito per spazializzare il tempo.
Pertanto si comincia a fare qualche progresso verso la trasformazione dei gusti in una “teoria del postmodernismo” se si fa un passo indietro e si guarda al “sistema delle belle arti”: al rapporto di proporzione tra le forme e i media (anzi, all’aspetto che gli stessi “media” hanno assunto, soppiantando in pari misura la forma e il genere), al modo in cui il sistema dei generi, come ristrutturazione e nuova configurazione (per quanto la modificazione sia stata minima), esprime il postmoderno e attraverso di esso tutte le altre cose che ci accadono.
Tuttavia descrizioni come questa non paiono comportare soltanto il paragone obbligato con il moderno, ma reintroducono anche certe questioni suscitate dal “canone”: sicuramente solo un critico o un giornalista culturale davvero antiquato sarebbe interessato a dimostrare l’evidenza, cioè che Yeats è “più grande” di Paul Muldoon, oppure Auden rispetto a Bob Perelman; a meno che il vocabolo grande non sia nient’altro che un’espressione di entusiasmo e in tal caso ci sono occasioni in cui forse si vorrebbe dimostrare il contrario. Qui la replica è alquanto diversa: non si può realisticamente “paragonare” la “grandezza” dei “grandi scrittori” dentro un paradigma o un periodo unico. L’idea di Adorno del conflitto intestino tra le singole opere, monadi estetiche che si respingono tra loro, è certamente quella che meglio corrisponde all’esperienza estetica della maggior parte delle persone, e spiega perché sia intollerabile che ci si chieda di decidere se Keats è più grande di Wordsworth, o di misurare il valore del Centro Pompidou in proporzione al Guggenheim, oppure ancora la superiorità di Dos Passos rispetto a Doctorow, per non dire della questione di Mallarmé e Ashbery.
Paragoni del genere li facciamo comunque, e sembra che la cosa ci piaccia, per quanto possa essere insensata; perciò se ne può semplicemente dedurre che confronti e classifiche tanto irresistibili devono significare qualcos’altro. In effetti, altrove140 ho sostenuto che nell’inconscio politico di un’epoca questi paragoni – tra opere singole oppure più in generale tra stili culturali – sono in realtà la raffigurazione, la materia prima espressiva di un paragone più profondo tra modi di produzione, che si confrontano e si giudicano a vicenda mediante il contatto individuale tra lettore e testo. L’esempio della coppia moderno/postmoderno dimostra però che questo vale anche per delle fasi diverse all’interno di un unico modo di produzione, in questo caso per il raffronto tra la fase modernista (imperialistica o monopolistica) del capitalismo e quella postmoderna (o multinazionale).
Tutta l’enumerazione di aspetti puramente culturali si riduce a questa catacresi, ossia a una metafora a quattro termini: inventiamo una certa tesi sulla superiorità qualitativa della produzione musicale dei principati tedeschi del Settecento soltanto allo scopo di censurare o esaltare le creazioni tecnologico-commerciali della musica di oggi. Quel paragone manifesto è il pretesto, lo strumento di un paragone latente, nel quale cerchiamo di elaborare una sensibilità rispetto alla vita quotidiana nell’ancien régime, in modo tale da ricostruire, in una fase successiva, una sensibilità per quanto c’è di peculiare, di specifico, di originale e storico nel presente. Sotto la veste della storia specialistica si continua a fare storia generale o universale, destinata a sfociare nella teoria del postmodernismo, come rende evidente la serie di operazioni di straniamento brechtiano delineata prima. Perciò sono questi i termini e le condizioni a partire da cui si può sostenere la rispettiva “grandezza” di Mahler e di Philip Glass, di Ejzensˇtejn e di MTV, condizioni che tuttavia si estendono al di là del fattore estetico o culturale in sé, e divengono significative e intelligibili solamente quando giungono al terreno della produzione della vita materiale, ai limiti e alle potenzialità che essa impone (dialetticamente) alla prassi umana, compresa quella culturale. A essere in gioco è ormai la relativa alienazione sistemica, il rapporto dialettico tra i limiti della base e le possibilità della sovrastruttura all’interno di un dato sistema o di un momento sistemico: il coefficiente interno di sofferenza e la potenzialità determinata di trasfigurazione fisica e spirituale che esso genera o conquista.
Per il modernismo, si tratta di tutta un’indagine a parte, a proposito della quale appongo qui soltanto alcuni appunti iniziali. Quanto alla sensazione della “fine del moderno” accarezzata nel postmoderno, è tutta un’altra questione, per di più essenziale (che non necessariamente riguarda da vicino il modernismo storico, o la modernità storica). Un secondo insieme di appunti delinea pertanto questo argomento, che a volte viene confuso con il “paragone” etico ed estetico tra modernismo e postmodernismo, e a maggior ragione non genera il paragone socioeconomico proposto nelle pagine che seguono.
2. Appunti per una teoria del moderno
Sicuramente i “classici” del moderno possono essere postmodernizzati, o trasformati in “testi”, se non in antesignani della “testualità”: le due operazioni sono relativamente dissimili, in quanto gli antesignani – Raymond Roussel, Gertrude Stein, Marcel Duchamp – si adattano sempre con difficoltà al canone modernista. In certi casi rappresentano il prototipo, la prova provata dell’identità tra modernismo e postmodernismo, dal momento che in essi la modificazione più lieve, il minimo accenno di ostinazione a cambiare di posto alle cose, trasforma quelli che dovrebbero essere i valori estetici più classici del modernismo avanzato in qualcosa di sgradevole, di lontano (ma più vicino a noi!). È come se essi costituissero una sorta di opposizione nell’opposizione, una negazione estetica della negazione; contro l’arte minoritaria già antiegemonica del moderno, essi hanno inscenato la propria ribellione privata ancor più minoritaria, che naturalmente diviene a sua volta canonica allorché il moderno si congela e si trasforma in una serie di musei pieni di spifferi.
Per quanto concerne i moderni del canone dominante, quelli che pazientemente fanno la coda per ottenere una sala in questo museo, sembra in ogni caso possibile sottoporne molti a una completa riscrittura nel testo postmoderno (sono restio a equiparare questo processo all’adattamento di un romanzo per lo schermo, soprattutto perché una delle caratteristiche del cinema postmoderno è la crescente scarsità di adattamenti di questo tipo). Ma mi sembra fuor di dubbio che oggi si stia riscrivendo il modernismo avanzato secondo nuove modalità, per lo meno in relazione ad alcuni autori cruciali. È storia nota che, oltre a essere un realista, Flaubert si è mutato in un modernista quando Joyce lo ha imparato a memoria, per poi diventare all’improvviso, nelle mani di Nathalie Sarraute, una sorta di postmodernista. Quanto allo stesso Joyce, Colin MacCabe ce ne ha progettato oggi uno nuovo, un Joyce femminista, creolo o multietnico, assai in linea con i tempi, che saremmo disposti a celebrare come postmoderno. Per contro, ho cercato a mia volta di invocare un Joyce del Terzo Mondo, antimperialista, più coerente con un’estetica contemporanea che con una modernista141. Ma tutti i classici di ieri sono riscrivibili in questa maniera? Il Proust di Gilles Deleuze è un Proust postmoderno? Il Kafka dello stesso Deleuze è certamente un postmoderno, un Kafka dell’etnicità e dei microgruppi, davvero un Kafka terzomondista, da minoranza dialettale in accordo con la politica postmoderna e i “nuovi movimenti sociali”. Ma T.S. Eliot è recuperabile? Cos’è accaduto a Thomas Mann e André Gide? Frank Lentricchia ha mantenuto vivo Wallace Stevens per tutta questa notevolissima trasformazione climatologica, ma Paul Valéry è svanito senza lasciare traccia, quando a livello internazionale è stato una figura centrale del movimento modernista. Nella questione, e negli interrogativi che suscita, c’è qualcosa di sospetto: è la fortissima rassomiglianza con le consuete analisi della natura del classico, testo “inesauribile” in grado di essere reinventato e utilizzato in modo nuovo dalle generazioni successive. È come una specie di grande maniero che si tramanda per generazioni di eredi, i quali lo decorano di volta in volta installandovi l’ultima moda di Parigi o l’ultimo ritrovato della tecnologia giapponese. Al contempo, coloro che non sopravvivono rappresentano la prova che la “posterità” esiste davvero, persino nella nostra epoca mediatica postmoderna; i perdenti sono una componente primaria del ragionamento, perché attestano il necessario carattere di passato del passato medesimo, mostrando come non tutti i suoi “grandi libri” siano ancora di qualche interesse per noi. Questo approccio dissimula opportunamente quelle parti del problema che lo identificano di nuovo con il vecchio dilemma storicista, e inoltre ci impedisce di apprendere qualcosa sulla postmodernità attraverso la noia che ispirano i “classici” del moderno avanzato che non possiamo più leggere. La noia costituisce però uno strumento molto utile con il quale esplorare il passato e allestire un incontro tra esso e il presente.
Invece quelli che sono sopravvissuti – al prezzo di un certo rinnovamento, di una «immacolazione»142, di un certo Umfunktionierung (per esempio, Flaubert deve essere letto molto più lentamente, in modo da disfarne il filo del racconto e trasformare le frasi in momenti di un “testo” postmoderno) – avranno evidentemente qualcosa da dirci su una condizione di “modernità” che condividiamo ancora. In effetti occorre declinare l’aggettivo radice in tre sostantivi distinti – oltre al “modernismo” vero e proprio, il meno consueto “modernità” e poi “modernizzazione” – non soltanto per cogliere le dimensioni del problema, ma anche per poter valutare con quale diversità lo abbiano concepito tanto le varie discipline accademiche quanto le diverse tradizioni nazionali. A noi nordamericani il termine “modernismo” è arrivato soltanto di recente dalla Francia, mentre “modernizzazione” appartiene ai sociologi. Lo spagnolo dispone di due parole distinte per i movimenti artistici (“modernismo” e “vanguardismo”), e così via. Un lessico comparativo presenterebbe quattro o cinque dimensioni, che registrerebbero contemporaneamente l’ordine cronologico di apparizione di questi termini nei vari gruppi linguistici, così come lo sviluppo ineguale che si può osservare tra loro143. Una sociologia comparata del modernismo e delle sue culture (che, come quella di Weber, restasse impegnata a misurare lo straordinario impatto del capitalismo sulle culture fino a oggi tradizionali, il danno sociale e psichico arrecato alle vecchie forme ormai irrevocabili della vita e della percezione umane) offrirebbe da sola un quadro idoneo per ripensare il “modernismo” oggi, a condizione che facesse il doppio gioco e scavasse il proprio tunnel da entrambe le direzioni. In altre parole, non solo si deve dedurre il modernismo dalla modernizzazione, ma esaminare anche le tracce sedimentate della modernizzazione dentro il lavoro estetico.
Dovrebbe peraltro essere evidente che a contare è la circostanza del rapporto di per sé, e non il suo contenuto. Le varie espressioni del modernismo hanno costituito delle violente reazioni contro la modernizzazione tanto spesso quanto ne hanno replicato i valori e le tendenze con la loro insistenza formale sulla novità, l’innovazione, la trasformazione delle vecchie forme, l’iconoclastia terapeutica e l’elaborazione di nuove e prodigiose tecnologie (estetiche). Se, per esempio, la modernizzazione ha qualcosa a che vedere con il progresso industriale, la razionalizzazione, la riorganizzazione della produzione e dell’amministrazione secondo criteri di maggiore efficienza, così come con l’elettricità, la catena di montaggio, la democrazia parlamentare e i giornali popolari, di conseguenza se ne deve concludere che almeno una tendenza del modernismo artistico è antimoderna e nasce come protesta violenta o velata contro la modernizzazione, che si concepisce ormai quale progresso tecnologico nel senso più ampio. Pur comportando talvolta delle visioni pastorali o dei gesti luddisti, questo modernismo antimoderno è comunque per lo più simbolico e, specialmente alla svolta del secolo, implica quella che a volte viene definita una nuova ondata di reazioni antipositiviste, spiritualistiche e irrazionali contro il trionfale progresso della ragione illuministica.
Perry Anderson mi rammenta però che, a tale riguardo, l’aspetto più profondo ed essenziale condiviso da tutte le espressioni del modernismo non è da rintracciare tanto nella loro ostilità verso una tecnologia che alcuni (come i futuristi) in realtà hanno esaltato, quanto piuttosto nell’ostilità nei confronti del mercato. La conferma della centralità di tale aspetto viene poi dal suo rovesciamento nelle varie forme del postmodernismo, le quali, ancor più difformi l’una dall’altra rispetto alle varie espressioni del modernismo, condividono tutte per lo meno una sonora affermazione, quando non addirittura un’aperta esaltazione, del mercato in quanto tale.
Il fatto che in ogni caso l’esperienza della macchina sia qui un indicatore cruciale lo si può dedurre, secondo me, dal ritmo del succedersi delle ondate del modernismo estetico: una prima onda lunga alla fine dell’Ottocento, incentrata sulle forme organiche ed esemplificata in maniera privilegiata dal symbolisme; una seconda che prende avvio all’inizio del nuovo secolo e si caratterizza per il duplice marchio dell’entusiasmo per la tecnologia della macchina e dell’organizzazione in avanguardie di tipo paramilitare (di tale momento il futurismo sarebbe la forma più forte). A queste occorrerebbe aggiungere il modernismo del “genio” isolato, che a differenza dei due movimenti del periodo (con la loro insistenza sulla trasformazione organica della vita da una parte e sull’avanguardia e la sua missione sociale dall’altra) si articola intorno alla grande Opera, al Libro del Mondo – scrittura secolare, testo sacro, definitiva messa rituale (il Livre di Mallarmé) per un nuovo ordine sociale inimmaginabile. Probabilmente bisognerebbe fare posto (ma non tardivamente come ha fatto lui) anche a quello che Charles Jencks ha denominato «tardo modernismo»: gli ultimi resti di una visione dell’arte e del mondo propriamente modernista dopo la grande frattura politico-economica della Depressione, quando, con lo stalinismo o il Fronte Popolare, Hitler o il New Deal, una nuova concezione del realismo sociale assurge al rango di momentanea dominante culturale grazie all’angoscia collettiva e alla guerra mondiale. I tardomoderni di Jencks sono coloro che durano fino al postmodernismo. Dal punto di vista dell’architettura l’idea ha senso, ma in un quadro di riferimento letterario vengono fuori nomi come Borges, Nabokov e Beckett, poeti come Olson o Zˇukovsky e compositori come Milton Babbit, i quali hanno avuto la sventura di abbracciare due epoche e la fortuna di trovare la capsula temporale dell’isolamento o dell’esilio dentro la quale prolungare delle forme fuori tempo.
Qualcosa ancora va detto sulla più canonica di queste quattro tendenze, o momenti, quella dei profeti, dei grandi demiurghi – Frank Lloyd Wright con mantella e cappello, Proust nella sua stanza rivestita di sughero, la “forza della natura” Picasso, il “tragico” Kafka eccezionalmente predestinato (tutti stravaganti ed eccentrici come i migliori investigatori dei gialli classici). Questo per scoraggiare l’opinione che, alla luce dell’esperienza della moda e della commercialità postmoderne, il modernismo sia stato comunque un tempo di giganti e di potenze leggendarie di cui non possiamo più disporre. Ma se il tema poststrutturalista della “morte del soggetto” significa qualcosa a livello sociale, questa è la fine dell’individualismo imprenditoriale e orientato verso l’interno, con il suo “carisma” e la sua panoplia categoriale di pittoreschi valori romantici che lo accompagna, a cominciare dal “genio”. Vista così, l’estinzione dei “grandi moderni” non costituisce necessariamente un’occasione di pathos. Il nostro sistema sociale è più ricco di informazioni e più colto, e almeno socialmente più “democratico”, nel senso dell’universalizzazione del lavoro salariato (ho sempre ritenuto che il termine brechtiano «plebeizzazione» sia politicamente più idoneo e sociologicamente più esatto per designare questo processo di livellamento, che certamente le persone di sinistra non possono non gradire). Sia nella produzione culturale che in politica, questo nuovo sistema non ha più alcun bisogno di profeti, di veggenti del genere carismatico del modernismo avanzato. Figure siffatte non esercitano più alcun fascino, nessuna magia sui soggetti di un’epoca aziendale, collettivizzata e postindividualista; così, possiamo dirgli addio senza rimpianto. Come avrebbe detto Brecht, sventurata la terra che ha bisogno di geni, profeti, Grandi Scrittori o demiurghi!
Dal punto di vista storico, quel che deve restare è che il fenomeno una volta è comunque esistito; una prospettiva postmoderna dei “grandi” creatori modernisti non dovrebbe spazzare via la specificità storico-sociale di questi “soggetti centrati” ormai incerti, bensì fornire nuove vie per la comprensione delle loro condizioni di possibilità.
Un passo avanti in questa direzione si compie se si intendono i nomi celebri di un tempo non più come personaggi sovradimensionati rispetto alla realtà, oppure come grandi anime, ma invece – senza antropomorfismo, in antitesi con esso – come carriere, vale a dire come situazioni oggettive nelle quali un giovane artista ambizioso attorno all’inizio del secolo intravedesse la possibilità oggettiva di trasformarsi nel “maggiore pittore” (poeta, romanziere o compositore) “dell’epoca”. Tale possibilità oggettiva si dà ormai non nel talento soggettivo, nella ricchezza interiore o nell’ispirazione, ma in strategie di carattere pressoché militare, fondate sulla superiorità della tecnica e sul terreno, sulla valutazione delle forze contrarie, su un’accorta massimizzazione delle proprie risorse specifiche e idiosincratiche. Tale approccio al “genio”, che ormai si associa al nome di Pierre Bourdieu144, va comunque distinto nettamente dal ressentiment demistificante e demolitore sul genere di quello che Tolstoj sembra aver provato nei riguardi di Shakespeare e, mutatis mutandis, verso il ruolo dei “grandi uomini” della storia in genere. Nonostante Tolstoj, penso che si continui ad ammirare i grandi generali (insieme ai loro equivalenti, i grandi artisti145), però l’ammirazione si è spostata dalla loro innata soggettività al loro intuito storico, alla loro capacità di valutare la “situazione del momento” e stabilirne su due piedi il potenziale sistema di permutazione. Mi pare che questa sia una revisione propriamente postmoderna della storiografia di carattere biografico, che in maniera caratteristica sostituisce il verticale con l’orizzontale, lo spazio con il tempo, il sistema con la profondità.
Tuttavia la scomparsa del Grande Scrittore nel postmodernismo obbedisce a una ragione più profonda. Si tratta semplicemente di ciò che a volte prende il nome di “sviluppo ineguale”: in un’epoca di monopoli (e di sindacati), di una collettivizzazione sempre più istituzionalizzata, c’è sempre un ritardo. Alcuni settori dell’economia continuano a essere delle enclave arcaiche, artigianali, mentre altri sono più moderni e avveniristici, più dello stesso futuro. A questo riguardo, l’arte moderna traeva la propria forza e le proprie possibilità dal fatto di essere uno spazio separato, un residuo arcaico all’interno di un’economia in corso di modernizzazione; essa glorificava, celebrava e metteva in scena vecchie forme di produzione individuale che altrove il nuovo modo di produzione era sul punto di soppiantare e cancellare. La produzione estetica offriva così la visione utopica di una produzione generalmente più umana e nel mondo della fase monopolistica del capitalismo esercitava un certo fascino grazie all’immagine che offriva di una trasformazione utopica della vita umana. Nelle sue stanze di Parigi Joyce realizza un intero mondo da solo, senza debiti con nessuno, ma gli esseri umani sulle strade al di fuori di quelle stanze non hanno un analogo senso di potere, controllo e produttività umana, quel sentimento di libertà e di autonomia che si prova quando, come Joyce, si possono prendere da sé le proprie decisioni, o per lo meno vi si può partecipare. Quale forma di produzione, dunque, il modernismo (che comprende i Grandi Artisti e produttori) trasmette un messaggio che ha poco a che vedere con il contenuto delle opere individuali: è il dato estetico come pura autonomia, come soddisfazione dell’artigianato trasfigurato.
Occorre dunque considerare che il modernismo corrisponde in maniera unica a un momento ineguale dello sviluppo sociale, o a quella che Ernst Bloch chiamava «contemporaneità del non contemporaneo», o «sincronia dell’asincronico» (Gleichzeitigkeit des Ungleichzeitigen146). Si tratta della coesistenza di realtà provenienti da momenti totalmente diversi della storia: l’artigianato accanto ai grandi cartelli, i terreni agricoli con le industrie Krupp o gli stabilimenti Ford sullo sfondo. Ma una dimostrazione meno programmatica di discontinuità la presenta l’opera di Kafka, a proposito della quale Adorno una volta ha detto che rappresenta un inoppugnabile rimprovero verso chiunque intenda pensare l’arte in termini di piacere. Penso che avesse torto, per lo meno da una prospettiva postmoderna: si può formulare una confutazione molto più ampia rispetto alle descrizioni dall’aspetto perverso di Kafka come «umorista mistico» (Thomas Mann), come scrittore allegro e chapliniano, benché sia certo che se si rammenta Chaplin durante la lettura di Kafka, Chaplin non appare più lo stesso.
Pertanto bisogna dire qualcosa di più sul tema della piacevolezza e del carattere addirittura allegro degli incubi di Kafka. Una volta Benjamin osservò che c’erano almeno due interpretazioni correnti di Kafka delle quali occorreva sbarazzarsi per sempre: una era quella psicoanalitica (il complesso edipico di Kafka: certamente lo aveva, ma le sue opere sono a malapena psicologiche in quanto tali), l’altra era quella teologica (l’idea di salvezza è senza dubbio presente in Kafka, ma in essa, come nella salvezza in generale, non c’è nulla di ultraterreno). A queste oggi forse dovremmo aggiungere l’interpretazione esistenziale: la condizione umana, l’angoscia e cose del genere presentano tematiche e considerazioni fin troppo comuni che, come si sarà già avvertito, sicuramente non possono essere giudicate molto postmoderne. E inoltre dobbiamo riconsiderare brevemente quella che si concepiva come l’interpretazione “marxista”: Il processo quale rappresentazione della decrepita burocrazia di un impero austroungarico alla vigilia del crollo. Anche questa interpretazione contiene una buona dose di verità, tranne che per l’idea che l’impero austroungarico fosse in qualche modo un incubo. Al contrario, oltre a essere l’ultimo dei vecchi imperi arcaici, era anche il primo Stato multinazionale e multietnico. Comodamente inefficiente se paragonato alla Prussia, umano e tollerante a paragone degli zar, in ultima istanza tutt’altra cosa da una pessima organizzazione, modello affascinante nella nostra epoca postnazionale, ancora lacerata dai nazionalismi. La struttura “K. und K.” esercita un ruolo in Kafka, ma non esattamente quello che propone l’interpretazione della “burocrazia come incubo” (l’impero quale anticipazione di Auschwitz).
Tornando all’idea della contemporaneità del non contemporaneo, della coesistenza di momenti distinti della storia, la prima cosa che si avverte nella lettura del Processo è la presenza di una routine moderna, quasi aziendale, fondata sulla settimana lavorativa e sull’impresa. Joseph K. è un giovane bancario (un «impiegato in sottordine», un «procuratore») che vive per il proprio lavoro, uno scapolo che trascorre le proprie serate di libertà in un’osteria, le cui domeniche deprimenti divengono ancor più deprimenti quando i colleghi di lavoro lo invitano a insopportabili gite socioprofessionali. All’improvviso, nel tedio della modernità organizzata irrompe qualcosa di piuttosto diverso, ed è precisamente quella vecchia e arcaica burocrazia giudiziaria collegata alla struttura politica dell’impero. Così qui ci troviamo davanti a una coesistenza davvero singolare: un’economia moderna, o quanto meno in via di modernizzazione, e una struttura politica antiquata, circostanza che il grande film di Orson Welles tratto dal Processo ha colto vividamente mediante lo spazio stesso. Joseph K. vive in una moderna abitazione anonima della peggior specie, ma va in un tribunale ospitato nella logora magnificenza barocca (quando non in stanze simili a quelle dei vecchi caseggiati popolari), mentre gli spazi intermedi sono occupati dalle macerie vuote e dalle aree sfitte che preannunciano un futuro sviluppo urbano (alla fine morirà in uno di questi spazi bombardati). I piaceri di Kafka, i piaceri dell’incubo in Kafka, scaturiscono dunque dal modo in cui l’arcaico ravviva la routine e la noia; così nella settimana lavorativa vuota dell’età dell’impresa penetra un’antiquata paranoia giuridica e burocratica, e almeno fa succedere qualcosa! La morale sembrerebbe essere che il peggio è meglio del nulla in assoluto e che gli incubi rappresentano un sollievo gradito rispetto alla settimana lavorativa. In Kafka c’è una brama del puro evento in sé, in una situazione in cui esso appare raro quanto un miracolo; nel linguaggio dello scrittore, una bramosia di registrare, secondo una notazione economica pressoché musicale, i fremiti più lievi della vita che potrebbero tradire la minima presenza di qualcosa che “accade”. Questa appropriazione del negativo da parte di una forza positiva, anzi utopica, che si veste dei panni del lupo, non è affatto psicologicamente insolita. Per esempio, per citare una malattia soprattutto postcontemporanea, è ben noto che la profonda soddisfazione generata dalla paranoia, nonché dalle sue varie manie di persecuzione e di spionaggio, poggia sulla rassicurante certezza che tutti ci guardano di continuo!
In Kafka come altrove, è dunque il singolare sovrapporsi di futuro e passato, in questo caso la resistenza delle arcaiche strutture feudali alle tendenze irresistibili della modernizzazione – dell’organizzazione tendenziale e la residua sopravvivenza di quel che in un altro senso non è ancora “moderno” –, a rappresentare la condizione di possibilità del modernismo avanzato, della sua produzione di forme e di messaggi estetici che potrebbero non avere più nulla in comune con la discontinuità da cui esso soltanto deriva.
La conseguenza è paradossalmente che in questo caso il postmoderno dev’essere descritto come una condizione nella quale è stato spazzato via quanto permane di residuale e di arcaico. Nel postmoderno è dunque scomparso il passato medesimo (insieme al ben noto “senso del passato”, alla storicità, o alla memoria collettiva). Dove ne restano ancora gli edifici, il rinnovo e il restauro consentono di spostarli per intero nel presente come quelle altre cose postmoderne, tanto dissimili, che si chiamano simulacri. Ormai tutto è organizzato e pianificato; la natura è stata trionfalmente cancellata, insieme ai contadini, al commercio piccolo borghese, all’artigianato, alle aristocrazie feudali e alle burocrazie imperiali. La nostra è una condizione modernizzata in maniera più omogenea: non abbiamo più gli impacci del non contemporaneo e dell’asincrono. Tutto è giunto a segnare la stessa ora sul grande orologio dello sviluppo e della razionalizzazione (almeno dal punto di vista dell’”Occidente”). È in questo senso che si può affermare che il modernismo è contrassegnato da una situazione di modernizzazione incompiuta, o che il postmodernismo è più moderno dello stesso modernismo.
Forse si potrebbe aggiungere che ciò che si è perso nel postmoderno è la modernità come tale, nel senso in cui la parola può essere assunta per intendere qualcosa di specifico e di distinto sia dal modernismo che dalla modernizzazione. A dire il vero sembrano fatalmente imporsi di nuovo due nostre vecchie conoscenze, la base e la sovrastruttura: se la modernizzazione si verifica nella base, e il modernismo è la forma assunta dalla sovrastruttura in reazione a quello sviluppo ambivalente, allora forse la modernità indica il tentativo di dare coerenza a questo rapporto. In tal senso la modernità descriverebbe che cosa pensano di sé i “moderni”; il termine sembra avere a che fare non con i prodotti (tanto culturali quanto industriali), ma con i produttori e i consumatori, con il loro modo di percepire la produzione delle merci e la vita in mezzo a esse. Tale sentimento moderno consisterebbe ormai nella convinzione che noi stessi siamo in qualche modo nuovi, che stia cominciando una nuova epoca, che tutto sia possibile e nulla possa più essere come prima. Tanto meno vogliamo che qualcosa sia di nuovo come prima, vogliamo “rinnovare”, sbarazzarci di tutto ciò che è vecchio – oggetti, valori, mentalità, modi di fare le cose – e in qualche maniera essere trasfigurati. «Il faut être absolument moderne», esclamò Rimbaud; noi dobbiamo essere assolutamente, totalmente moderni, il che (presumibilmente) vuol dire che anche noi stessi dobbiamo farci moderni. È una cosa che facciamo, non soltanto una cosa che ci accade. Ci sentiamo così oggi, in pieno postmodernismo? Di sicuro non pensiamo di vivere tra cose e idee polverose, tradizionali, noiose e antiche. Il grande attacco poetico di Apollinaire contro gli antichi edifici dell’Europa del 1910, e contro lo spazio dell’Europa medesima – «À la fin tu es las de ce monde ancien» – probabilmente non esprime il sentimento contemporaneo (postcontemporaneo) nei confronti del supermercato e della carta di credito. Il vocabolo nuovo sembra non avere più la stessa risonanza; la parola stessa non è più nuova o incorrotta. Che cosa suggerisce tutto ciò riguardo all’esperienza postmoderna del tempo, del cambiamento, della storia?
Implica in primo luogo che adoperiamo il “tempo”, l’”esperienza vissuta” storica e la storicità come elementi di mediazione tra la struttura socioeconomica e la valutazione culturale e ideologica che ne diamo, come tema provvisoriamente privilegiato attraverso cui mettiamo in atto il confronto tra i due momenti sistemici del capitale, quello moderno e quello postmoderno. Più avanti intendo sviluppare ulteriormente la questione in due direzioni: per prima cosa attorno a quel senso della differenza storica, unica rispetto ad altre società, che una certa esperienza del Nuovo (nel moderno) sembra stimolare e perpetuare; in secondo luogo, nell’analisi del ruolo delle nuove tecnologie (e del loro consumo) in una postmodernità manifestamente disinteressata alla tematizzazione e alla valorizzazione del Nuovo in quanto tale.
Per il momento, si può concludere che lo spiccato senso del Nuovo proprio del periodo moderno è stato possibile soltanto grazie al carattere eterogeneo, discontinuo, transitorio di quello stesso periodo, nel corso del quale il vecchio coesisteva con ciò che allora stava nascendo. La Parigi di Apollinaire racchiudeva sudici monumenti medievali e angusti caseggiati rinascimentali, ma anche automobili e aeroplani, e poi i telefoni, l’elettricità, le ultime mode in fatto di abbigliamento e di cultura. Questi ultimi si conoscono e si sperimentano come nuovi e moderni esclusivamente perché sono presenti anche il vecchio e il tradizionale. Uno dei modi di raccontare la transizione dal moderno al postmoderno sta dunque nel mostrare come alla fine la modernizzazione trionfi e faccia piazza pulita di tutto il vecchio: la natura viene abolita insieme alla campagna e all’agricoltura tradizionali; persino i monumenti storici sopravvissuti, ormai tutti ripuliti, divengono scintillanti simulacri del passato, e non le sue vestigia. Ora tutto è nuovo, ma per la stessa ragione la categoria del nuovo perde il proprio significato e si trasforma a sua volta in una specie di residuo del modernismo.
Tuttavia, chiunque dice “nuovo” o deplora la scomparsa del concetto di novità in epoca postmoderna, evoca fatalmente lo spettro della Rivoluzione, dal momento che tale concetto un tempo incarnava la visione estrema del Novum, divenuta assoluta ed estesa fino ai recessi e ai dettagli più minuti di una vita trasformata. Il ricorso inveterato a un lessico politico rivoluzionario, e l’ostentazione spesso narcisistica, da parte dell’avanguardia estetica, dei simboli dei suoi omologhi politici, lascia scorgere una certa politicità nella forma stessa delle varie espressioni del modernismo. Tale circostanza getta qualche ombra di dubbio sulle rassicurazioni delle loro ideologie accademiche, le quali ci hanno ripetutamente insegnato che i moderni non erano politici, né particolarmente consapevoli sul piano sociale. Anzi, si è detto che la loro opera rappresentava una nuova “svolta interiore”, il dischiudersi di una nuova soggettività, profonda e riflessiva: Lukács una volta lo ha definito «carnevale del feticismo interiorizzato». E indubbiamente nel loro assortimento e nella loro varietà i testi modernisti paiono dare l’impressione di tanti contatori Geiger che captano ogni genere di impulsi e di segnali soggettivi nuovi, registrandoli in maniera nuova, secondo nuovi “sistemi di trascrizione”.
Contro tale impressione si potrebbero peraltro addurre le prove empiriche e biografiche delle simpatie degli scrittori. Tanto per cominciare, Joyce e Kafka erano socialisti, persino Proust fu un dreyfusiano (malgrado fosse anche uno snob), Majakovskij e i surrealisti erano comunisti, Thomas Mann per certi aspetti fu quanto meno progressista e antifascista; soltanto gli angloamericani (insieme a Yeats) furono degli autentici reazionari della specie più cupa.
Tuttavia dallo spirito delle opere stesse si può dedurre qualcosa di ancor più essenziale, soprattutto da un rinnovato esame di quella celebrazione dell’io, propria del modernismo avanzato, addotta dai critici antipolitici a sostegno della nozione di soggettivismo modernista (e in questo si univano alla tradizione stalinista). Vorrei invece proporre un’ipotesi alternativa, cioè che l’indagine introspettiva degli impulsi profondi della coscienza, e finanche dell’inconscio, condotta dal modernismo, sia sempre stata accompagnata da un senso utopico dell’imminente trasformazione o trasfigurazione dell’”io” in questione. «Devi cambiare la tua vita»: il torso greco arcaico di Rilke lo dice in maniera paradigmatica; e D.H. Lawrence è colmo di presagi di questa nuova e importantissima svolta dalla quale nasceranno sicuramente degli individui nuovi. Ora, quel che occorre intendere è che quei sentimenti, espressi in relazione con l’io, potevano venire alla luce esclusivamente in rapporto a un sentimento analogo nei confronti della società e del mondo oggettuale. Proprio perché, nel travaglio dell’industrializzazione e della modernizzazione, il mondo oggettuale sembra fremere sull’orlo di una trasformazione parimenti importante e persino utopica, l’”io” può essere percepito anch’esso come sul punto di mutare. Questo infatti non è soltanto il momento della taylorizzazione e delle fabbriche nuove; segna anche l’avvio di buona parte dell’Europa verso il sistema parlamentare, entro cui per la prima volta esercitano il proprio ruolo i nuovi grandi partiti della classe operaia, i quali, soprattutto in Germania, si sentono sul punto di conquistare l’egemonia. Perry Anderson ha sostenuto in maniera persuasiva che il modernismo nelle arti (benché per altre ragioni egli rifiuti tale categoria) è intimamente connesso ai venti di cambiamento che spiravano dai nuovi grandi movimenti sociali di natura sovversiva147. Il modernismo avanzato non esprime direttamente quei valori; nasce piuttosto in uno spazio che essi aprono, mentre i suoi valori formali (il Nuovo, l’innovazione), insieme al senso utopico della trasfigurazione dell’io e del mondo, vanno in larga misura considerati, secondo criteri che restano da esplorare, quali echi e ripercussioni delle speranze e dell’ottimismo di quel grande periodo dominato dalla Seconda Internazionale. Quanto alle opere, i saggi esemplari di John Berger sul cubismo148 offrono un’analisi maggiormente dettagliata di come questa nuova pittura, apparentemente molto formalista, sia pervasa da uno spirito utopico che verrà annientato dagli impieghi spaventosi a cui verrà sottoposta l’industrializzazione sui campi di battaglia della prima guerra mondiale. Questo nuovo utopismo rappresenta soltanto in parte un’esaltazione della macchina, come avviene nel caso del futurismo; si esprime attraverso una gamma di impulsi e un entusiasmo che in ultima istanza toccano l’imminente trasformazione della società.
3. La reificazione culturale e la “liberazione” del postmoderno
Tutto questo assume un aspetto molto diverso se lo si esamina sincronicamente; in altre parole, la percezione che ha del moderno chi vive nel postmoderno inizierà ora a dirci molto di più sul postmodernismo stesso che sul sistema che ha soppiantato e rovesciato. Se il modernismo si concepiva come una prodigiosa rivoluzione nell’ambito della produzione culturale, il postmodernismo si pensa come un rinnovamento della produzione in sé, dopo un lungo periodo di fossilizzazione e di indugio tra monumenti morti. La stessa parola produzione – negli anni Sessanta segno premonitore molto tormentato, benché allora tendesse sempre a designare le imprese ascetico-formalistiche più vuote e astratte (come i primi “testi” di Sollers) – rivela a posteriori che dopo tutto ha avuto un significato, di avere indicato un autentico rinnovamento della cosa che si presumeva significasse.
Ritengo che si debba parlare adesso della liberazione del postmoderno in generale, cioè di un fragoroso scioglimento di un intoppo, della liberazione di una nuova produttività che nella seconda metà del periodo moderno si era in qualche modo irrigidita e congelata, bloccata come un muscolo in preda a un crampo. Questa liberazione è stata molto più rilevante di un puro e semplice avvicendamento generazionale (essendosi succedute, nel corso del regno progressivamente canonico del moderno vero e proprio, parecchie generazioni), malgrado abbia prima di tutto arrecato un cambiamento alla nozione collettiva di “generazioni”. Non si sottolineerà mai a sufficienza la portata simbolica del momento (nella maggior parte delle università statunitensi collocabile alla fine degli anni Cinquanta o all’inizio del decennio successivo) in cui i “classici” moderni sono entrati nel sistema scolastico e nelle liste di lettura delle università (prima di allora, leggevamo Pound per conto nostro, giacché i dipartimenti di Inglese arrivavano soltanto a malapena a Tennyson). A suo modo, questa è stata una specie di rivoluzione dagli esiti inattesi, che ha imposto il riconoscimento dei testi moderni nel momento stesso in cui li neutralizzava, come accade agli ex estremisti che approdano finalmente al governo.
Rispetto alle altre arti, però, la canonizzazione e l’influsso “corruttore” del successo acquisiranno forme manifestamente molto diverse. Nell’architettura, per esempio, risulta chiaro che l’equivalente dell’ingresso nell’accademia è l’appropriazione da parte dello Stato di forme e metodi del modernismo avanzato, il riadattamento, messo in atto da un’estesa burocrazia statale (talvolta identificata nello “stato sociale” o nella socialdemocrazia), di forme utopiche ormai degradate alla condizione di quelle anonime degli alloggi e degli uffici di grandi dimensioni. Gli stili del modernismo ricevono dunque il marchio di tale connotazione burocratica, tanto che rompere radicalmente con essa produce una certa sensazione di “liberazione”, benché a sostituirla non sia né l’utopia né la democrazia, ma semplicemente le costruzioni private-aziendali del postmoderno dello stato postassistenziale. La sovradeterminazione qui è presente al punto che la canonizzazione letteraria del moderno ha espresso negli anni Sessanta anche una straordinaria dilatazione burocratica del sistema universitario. In entrambi i casi, non si dovrebbero sottovalutare le pressioni attive esercitate su questi sviluppi dalle esigenze popolari (e dalla demografia) di taglio più autenticamente democratico o “plebeo”. È necessario concepire l’idea di una “sovradeterminazione nell’ambivalenza”, che attribuisca alle opere rapporti a un tempo “plebei” e “burocratici” con l’inattesa confusione politica inerente a tale ambivalenza.
Questa è però solamente una figura per ciò di cui occorre parlare in senso più generale, a un livello maggiormente astratto, cioè la reificazione. Probabilmente oggi la parola può volgere la nostra attenzione nella direzione sbagliata, perché quella “trasformazione dei rapporti sociali in cose” che sembra designare con maggiore insistenza è divenuta una seconda natura. Nel frattempo le “cose” in questione sono a loro volta mutate fino a diventare irriconoscibili, al punto che al giorno d’oggi si può addirittura trovare qualcuno che, nella nostra epoca amorfa, sostiene la desiderabilità di ciò che è cosale149. Le “cose” postmoderne non sono in ogni caso quelle che aveva in mente Marx, persino il cash nexus delle attuali pratiche bancarie è molto più affascinante di qualunque cosa Carlyle possa avere fatto oggetto di un “investimento libidico”.
L’altra definizione della reificazione che è risultata importante in tempi recenti è la “cancellazione delle tracce della produzione” dall’oggetto stesso, dalla merce così prodotta. Qui la questione è considerata dal punto di vista del consumatore: indica il senso di colpa dal quale le persone si liberano se sono capaci di non ricordare il lavoro entrato nei loro giocattoli o nei loro mobili. Anzi, il fatto di avere un proprio mondo oggettuale, i muri, il velo della distanza o un relativo silenzio attorno a sé ha per fine dimenticare tutti gli innumerevoli altri per un istante: non si vuole pensare alle donne del Terzo Mondo ogni volta che ci si accosta al proprio computer, né alla vita delle classi subalterne quando si decide di utilizzare altri prodotti di lusso. Sarebbe come avere delle voci dentro la testa; di fatto, questo “viola” lo spazio privato dell’intimità e del corpo esteso. Per una società che intende scordarsi delle classi, la reificazione, in questo senso relativo al consumo e alla confezione del prodotto, è davvero funzionale; il consumismo come cultura implica molto di più, ma questo tipo di “cancellazione” è senza dubbio la precondizione indispensabile sulla quale si può costruire tutto il resto.
La reificazione della cultura è evidentemente una questione un po’ diversa, giacché i prodotti culturali sono “firmati”: nel consumo di cultura non desideriamo – e tanto meno ne abbiamo bisogno – dimenticare il produttore umano T.S. Eliot, oppure Margaret Mitchell, Toscanini, Jack Benny, o persino Sam Goldwyn o Cecil B. DeMille. L’aspetto della reificazione sul quale vorrei porre l’accento in questo ambito dei prodotti culturali è quello che genera una netta separazione tra consumatori e produttori. Il termine specializzazione è troppo debole e adialettico, però assolve un certo ruolo nello sviluppo e nella perpetuazione della radicata convinzione, nel consumatore, che la produzione del prodotto in questione – senza dubbio attribuibile ad altri esseri umani in senso generico – vada nondimeno al di là dell’immaginabile; non è cioè qualcosa verso la quale il consumatore o fruitore prova una partecipazione sociale. Sotto questo profilo, è un po’ come il sentimento che i non intellettuali e i ceti sociali bassi hanno sempre nutrito nei confronti degli intellettuali e di ciò che fanno: si vede come si fa, e non sembra molto complicato, eppure non si riesce a intenderlo nemmeno con la migliore volontà del mondo. Non si capisce perché qualcuno voglia fare cose del genere, tanto meno ci si sente sicuri di potersi fare un’idea di quello che fanno effettivamente gli intellettuali. È questa l’autentica subalternità gramsciana: il profondo senso di inferiorità di fronte all’altro culturale, l’implicito riconoscimento della sua superiorità innata, rispetto a cui la rabbia puntuale, l’antintellettualismo, il disprezzo e il machismo della classe operaia rappresentano soltanto una reazione secondaria, una reazione in primo luogo contro la propria inferiorità, che viene poi spostata sull’intellettuale. Intendo dire che ormai proviamo nei confronti della cultura in generale una sorta di analoga subalternità; anni fa, in un contesto un po’ diverso, Günther Anders l’ha definita vergogna prometeica, complesso prometeico d’inferiorità di fronte alla macchina150.
Tale atteggiamento culturale è però meno drammatico dell’antintellettualismo, perché si riferisce alle cose e non alle persone; pertanto occorre ridurre il livello figurale. Una psicologia sociale marxiana deve innanzi tutto insistere sulle concomitanze psicologiche della produzione. Il motivo per cui la produzione (e quello che all’ingrosso si può chiamare elemento “economico”) è filosoficamente antecedente al potere (e a ciò che chiamiamo approssimativamente elemento “politico”) sta in primo luogo qui, nel rapporto tra produzione e sentimenti di potere. È tuttavia preferibile e più persuasivo dirlo al contrario (se non altro perché in tal modo ci aiuta a sfuggire alla retorica umanistica), cioè insistendo su quanto avviene agli individui se si bloccano i loro rapporti con la produzione, allorché essi non hanno più potere sull’attività produttiva. L’impotenza è prima di tutto questo, una cappa sulla psiche, la graduale perdita di interesse verso l’io e il mondo esterno, in forte analogia formale con la descrizione del lutto operata da Freud; la differenza è che dal lutto ci si riprende (Freud dimostra come), mentre la condizione di improduttività, in quanto indizio di una situazione oggettiva che non cambia, deve essere affrontata in un altro modo che, riconoscendone la persistenza e l’inevitabilità, nasconda, reprima, sposti e sublimi una persistente e sostanziale impotenza. Questo altro modo è ovviamente il consumismo, inteso quale compensazione di un’impotenza economica che è anche un’assoluta mancanza di potere politico: la cosiddetta apatia dell’elettore è visibile principalmente in quei ceti sociali che non dispongono dei mezzi per distrarsi attraverso il consumo. Aggiungerei che la maniera in cui (oggettivamente, se si vuole) questa analisi assume la parvenza dell’antropologia o della psicologia sociale va ricondotta al fenomeno che sto descrivendo. Non solo tale parvenza antropologica o sociologica è una funzione di un dilemma basilare della rappresentazione a proposito del tardo capitalismo (vi accennerò più avanti); essa è pure il risultato dell’incapacità delle nostre società di realizzare una trasparenza di qualunque sorta. Anzi è praticamente una cosa sola con questa incapacità. In una società trasparente, nella quale fossero chiare a noi e a chiunque altro le varie posizioni nella produzione sociale – così che, come i selvaggi di Malinowski, potessimo prendere un bastoncino e tracciare sulla sabbia della spiaggia un diagramma della cosmologia socioeconomica –, non suonerebbe né psicologico né antropologico riferirsi a quello che accade a degli individui che non hanno voce in capitolo nel loro lavoro. Nessun abitante di Utopia o di Nessunluogo penserebbe che si stanno mettendo in campo ipotesi sull’inconscio o la libido, o presupponendo in maniera fondazionale una sostanza o una natura umane. Forse la cosa avrebbe più un aspetto medico, come se si parlasse di una gamba fratturata o di una paralisi dell’intera parte destra. In ogni caso, è così che vorrei parlare della reificazione, come di una realtà di fatto, del modo in cui un prodotto ci preclude persino una partecipazione simpatetica alla sua produzione per mezzo dell’immaginazione. Giunge davanti a noi senza troppi interrogativi, come qualcosa che non potremmo nemmeno immaginare di realizzare con le nostre mani.
Tuttavia questo non significa affatto che non possiamo consumare il prodotto in questione, “trarne godimento”, assuefarci a esso ecc. Anzi, consumo in senso sociale è la parola adatta per ciò che in effetti facciamo a questo genere di prodotti reificati, che ci occupano la mente e fluttuano al di sopra di quel profondo vuoto nichilistico lasciato nel nostro essere dall’incapacità di controllare il nostro destino.
Adesso vorrei però restringere ancora una volta la prospettiva, in modo che la si possa comprendere chiaramente in relazione con il modernismo e con ciò che significava “in origine” il postmodernismo, quando si è svincolato dal modernismo. Direi che, di fatto, le “grandi opere moderniste” si sono reificate in questo senso, non solo perché sono divenute classici per la scuola. A causa del loro essere monumenti e imprese del “genio”, la distanza dai lettori ha avuto la tendenza a paralizzare la produzione di forme in genere, ad attribuire alla pratica di tutte le arti della cultura alta un requisito specialistico alienante che ha ostacolato l’intelligenza creativa con una scomoda autocoscienza, oltre a intimidire la nuova produzione in maniera profondamente modernista e autolegittimante. È stato soltanto dopo Picasso che le sue improvvisazioni straordinariamente disinvolte hanno ricevuto il marchio di attività uniche dello stile e del genio modernisti, inaccessibili agli altri. Pressoché tutti i “classici” modernisti intendevano tuttavia porsi quali prefigurazioni di una liberazione dell’energia umana: la contraddizione del modernismo stava nel fatto che quel valore universale della produzione umana poteva giungere alla rappresentazione soltanto mediante la firma unica e limitata del veggente o del profeta modernista, che così si annullava lentamente per tutti tranne che per i discepoli.
È questo dunque la liberazione del postmoderno, che ha spazzato via tutti i vari rituali del modernismo, mentre la produzione di forme si è riaperta a chiunque voglia concedersela. C’è però un prezzo, cioè la distruzione preliminare dei valori formali modernisti (ormai considerati “elitari”), così come di una serie di categorie fondamentali affini, come quelle di opera o di soggetto. Dopo l’“opera”, il “testo” è una liberazione, ma non si deve cercare di superarlo e utilizzarlo per produrre quella che dopo tutto è un’opera, dietro la parvenza della testualità. Un certo carattere ludico della forma, la produzione aleatoria di nuove forme o l’allegra cannibalizzazione di quelle vecchie non metteranno in una disposizione tanto rilassata e ricettiva dalla quale possa in qualche modo venire alla luce, grazie a un caso felice, una forma “grande” o “significativa”. (In ogni caso, è possibile che a pagare il prezzo di questa nuova libertà testuale siano il linguaggio e le arti linguistiche, che arretrano davanti alla democrazia del visivo e dell’auditivo). Affinché fossero garantite le nuove produttività, lo statuto dell’arte (e anche della cultura) si è dovuto modificare irrevocabilmente; e non lo si può mutare nuovamente a proprio piacimento.
4. I gruppi e la rappresentazione
Tutto questo va bene per la produzione della retorica populista del postmodernismo, il che vuol dire che qui si tocca il confine tra analisi estetica e ideologia. Come accade a tanti populismi, è qui che insorgono le confusioni più dannose sulla questione, precisamente perché le sue ambiguità sono reali e oggettive (o, come osservò Mort Sahl a proposito delle elezioni che videro in campo Nixon contro Kennedy, «dopo averci pensato bene, credo che nessuno dei due possa vincere»). Tutto quel che si è detto nella sezione precedente lascia infatti intendere che la dimensione culturale e artistica del postmodernismo è popolare (se non populista) e che essa smantella molti degli ostacoli al consumo culturale che il modernismo sembrava porre implicitamente. Il dato fuorviante in tale impressione è ovviamente l’illusione della simmetria, dal momento che, nell’arco della sua esistenza, il modernismo non è stato egemonico ed è stato ben lontano dal costituire una dominante culturale. Ha proposto una cultura alternativa, oppositiva e utopica, dal fondamento di classe problematico, la cui “rivoluzione” è fallita; o meglio, se si preferisce, quando (come i socialismi contemporanei) è finalmente giunto al potere, il modernismo aveva già fatto il suo tempo e l’esito di questa vittoria postuma è stato chiamato invece postmodernismo.
Tuttavia le affermazioni di popolarità e gli appelli al “popolo” sono notoriamente inattendibili, perché si troverà sempre qualcuno che rifiuta la definizione e nega qualunque coinvolgimento nella questione. Per questo i microgruppi e le “minoranze”, le donne o il Terzo Mondo di casa nostra, così come alcuni settori del Terzo Mondo vero e proprio, rifiutano frequentemente il concetto stesso di postmodernismo in quanto titolo giornalistico universalizzante di quella che nella sostanza è una operazione culturale di classe molto più circoscritta, al servizio delle élite bianche e maschili dei paesi avanzati. Chiaramente anche questo è vero, e più avanti analizzerò la base e il contenuto di classe del postmodernismo. Ma è non meno vero che la “micropolitica” che corrisponde alla comparsa di questa gamma di pratiche politiche dei piccoli gruppi, svincolate dalla classe, sia a sua volta un fenomeno profondamente postmoderno, altrimenti la parola non ha alcun significato. In tal senso la descrizione fondazionale e l’”ideologia operativa” della nuova politica (com’è esposta nel fondamentale Hegemony and Socialist Strategy di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe) sono apertamente postmoderne e vanno studiate nel contesto più ampio che ho proposto per questo termine. È vero che Laclau e Mouffe sono meno attenti alla tendenza alla differenziazione e al separatismo, all’infinita fissione e al “nominalismo” della politica dei piccoli gruppi (non sembra più molto corretto chiamarla settarismo, ma sicuramente c’è un parallelismo di gruppo rispetto ai vari esistenzialismi a livello di esperienza individuale). Ciò si deve al fatto che essi vedono nella passione per l’”uguaglianza” dalla quale scaturiscono i piccoli gruppi il meccanismo che li crea in alleanze e in blocchi egemonici gramsciani riunificati, mediante la «catena di equivalenze», il vasto potere delle equazioni di identità. Ciò che serbano di Marx è pertanto la diagnosi dell’originalità storica del suo tempo, quale momento in cui il principio dell’uguaglianza sociale era divenuto una realtà sociale irreversibile, ma, senza la spiegazione causale di Marx (cioè che questo sviluppo ideologico e sociale è la conseguenza dell’universalizzazione del lavoro salariato151), tale concezione della storia tende rapidamente a trasformarsi nella visione più mitica della “frattura” radicale della modernità e della differenza radicale tra le società occidentali e quelle precapitaliste, calde le une e fredde le altre.
La comparsa dei “nuovi movimenti sociali” costituisce uno straordinario fenomeno storico mistificato dalla spiegazione che credono di poterne dare tanti ideologi del postmodernismo, cioè che i nuovi gruppuscoli vengono alla luce nel vuoto lasciato dalla sparizione delle classi sociali e sulle macerie dei movimenti politici organizzati attorno a esse. Non mi è mai stato chiaro come ci si possa aspettare che le classi scompaiano, se non nello scenario unico e speciale del socialismo, tuttavia a spiegare perché tante persone siano state disposte a pensarlo, magari per un momento, troviamo la ristrutturazione globale della produzione e l’introduzione di tecnologie totalmente nuove, le quali hanno estromesso dal lavoro gli operai delle fabbriche arcaiche, spostato industrie di tipo nuovo verso zone impensate del pianeta e reclutato una forza lavoro diversa da quella tradizionale per molti aspetti, dal genere alle competenze fino alla nazionalità. Così, tanto i nuovi movimenti sociali quanto il proletariato globale di recente apparizione sono frutto della prodigiosa espansione del capitalismo nella sua terza fase (quella “multinazionale”); entrambi sono in tal senso “postmoderni”, per lo meno nei termini della descrizione del postmodernismo offerta in questa sede. Allo stesso tempo diviene un po’ più chiaro perché l’opinione alternativa – cioè che i gruppi sono in effetti il surrogato di una classe operaia che sta scomparendo – rende disponibile la nuova micropolitica alle celebrazioni più indecenti della democrazia e del pluralismo capitalisti contemporanei: il sistema si congratula con sé stesso di produrre quantità sempre maggiori di soggetti strutturalmente inutilizzabili. Quel che occorre davvero spiegare qui non è lo sfruttamento ideologico, bensì la capacità di un’opinione pubblica postmoderna di concepire a un tempo due rappresentazioni così radicalmente incommensurabili e contraddittorie: il tendenziale immiserimento della società americana (archiviato sotto la rubrica delle “droghe”) e la retorica autocompiaciuta del pluralismo (che in genere si attiva a contatto con l’argomento delle società socialiste). Qualunque teoria adeguata del postmoderno dovrebbe registrare questo progresso storico nella coscienza collettiva schizofrenica, fenomeno del quale più avanti vorrei offrire una spiegazione.
Il pluralismo è dunque l’ideologia dei gruppi, un insieme di rappresentazioni illusorie che triangolano tre pseudoconcetti fondamentali: la democrazia, i media e il mercato. Non si può comunque modellare e analizzare opportunamente questa teoria senza prima rendersi conto che le sue condizioni di possibilità sono degli effettivi mutamenti sociali (in cui i “gruppi” esercitano ormai un ruolo più consistente), senza segnare e specificare la determinazione storica della nozione ideologica di gruppo (abbastanza diversa, per esempio, da quella del periodo di Freud o di Le Bon, per non parlare della vecchia “massa” rivoluzionaria). Come ha scritto Marx, il problema è che «il soggetto […] è dato, e […] quindi le categorie esprimono forme di esistenza, determinazioni dell’esistenza, spesso soltanto singoli aspetti di questa determinata società, di questo soggetto, e di conseguenza anche sul piano scientifico l’economia politica non comincia affatto solo dove si parla di essa come tale»152.
Così, la “realtà” dei gruppi va connessa alla collettivizzazione istituzionale della vita contemporanea. Questa era certamente una delle profezie fondamentali di Marx, che all’interno del «tegumento» dei singoli rapporti di proprietà (proprietà privata della fabbrica o dell’impresa) stava affiorando tutta una nuova rete di rapporti di produzione collettivi sproporzionata rispetto alla sua struttura, involucro o forma antiquata. Come i tre desideri della fiaba, o le promesse del diavolo, tale prognosi si è pienamente realizzata, solo con una minima modificazione che la rende irriconoscibile. In un capitolo precedente ho accennato di sfuggita ai rapporti di proprietà nel postmoderno: basti dire qui che di per sé la proprietà privata continua a essere quella cosa polverosa e uggiosamente antiquata la cui verità si intravedeva quando si viaggiava per i vecchi Stati nazionali e si osservava, con il «grigio orrore» del signor Bloom che avvizzisce la carne, le forme più vetuste del commercio britannico o le imprese familiari francesi (Dickens resta l’immagine residua più preziosa e imperitura dello sfaldamento giuridico di queste entità, inconcepibili escrescenze cristalline, come una specie di Antartide cancerosa). L’”immortalità” e la società per azioni non fanno nulla perché questo cambi, ma non si coglie lo spirito e l’impulso dell’immaginazione delle multinazionali nel postmodernismo (che in una nuova scrittura come il cyberpunk determina un’orgia di linguaggio e rappresentazione, un eccesso di consumo della rappresentazione) se non si concepisce questo aumento dell’intensità come una pura e semplice compensazione, come un modo per persuadersi, di fare della necessità, più che una virtù, un piacere autentico, una jouissance, trasformando così la rassegnazione in emozione e assuefacendo noi stessi alla minacciosa presenza del passato e della sua prosa. Oggi è sicuramente questo il terreno fondamentale della lotta ideologica, che si è spostata dai concetti alle rappresentazioni, nella quale l’emozione del commercio internazionale e la particolare opulenza del mondo degli yuppie esercita (per l’occhio libidico della mente) un’attrazione che supera di gran lunga il fascino ottocentesco delle argomentazioni di Hayek e Friedmann a proposito del mercato.
L’altro risvolto, quello sociale, di questa realtà tendenziale – l’organizzazione e la collettivizzazione degli individui, dopo un lungo periodo di individualismo, atomizzazione sociale e anomia esistenziale – forse si comprende meglio con l’ausilio della vita quotidiana. Intendo dire mediante le nuove strutture dei gruppi di opposizione e dei “nuovi movimenti sociali”, invece che nel luogo di lavoro o nell’impresa, il cui conformismo degli “uomini dell’organizzazione” e dei nuovi colletti bianchi fu registrato da Whyte e C. Wright Mills negli anni Cinquanta, quando erano temi di discussione pubblica e di “critica della cultura”. Tuttavia il processo risulta più visibile e più agevolmente percepibile nella sua qualità di tendenza storica oggettiva se si considera che riguarda indifferentemente tanto i ricchi quanto i poveri, nonché entrambi i versanti dell’arco politico. E lo dimostra a sua volta ancor più agevolmente il fatto che dalla società postmoderna sono scomparsi i vecchi tipi di solitudine: non solo non si trovano più i patetici disadattati e le vittime dell’anomia (abbondantemente collezionati e catalogati dal naturalismo fino a Sherwood Anderson) presenti un tempo nei recessi e nelle pieghe di un sistema sociale più naturale e capiente, ma sono svaniti pure i ribelli solitari e gli antieroi esistenziali che consentivano all’”immaginazione progressista” di attaccare il “sistema”. E insieme a loro si è dissolto anche lo stesso esistenzialismo, mentre le loro precedenti personificazioni sono oggi i “leader” di vari groupuscules. Nessun attuale tema mediatico illustra tutto ciò meglio dei “barboni” (noti anche, con un eufemismo dei media, come “senzatetto”). Non più eccentrici e solitari strampalati, ormai essi costituiscono una categoria sociologica riconosciuta e accreditata – oggetto di studio e di interesse da parte di esperti competenti – e sono chiaramente organizzabili, sul piano potenziale, se non lo sono già di fatto, nel migliore stile postmoderno. In questo senso, anche se il Grande Fratello non vede dappertutto, il Linguaggio sì: i media e i linguaggi specialistici cercano instancabilmente di classificare, di categorizzare, di trasformare l’individuo in un gruppo dotato di un’etichetta, di restringere e di espellere gli ultimi spazi per quello che, in Wittgenstein come in Heidegger, nell’esistenzialismo come nell’individualismo tradizionale, era l’unico e l’innominabile, la mistica proprietà privata dell’ineffabile e l’orrore indicibile dell’incomparabile. Sebbene non organizzato, chiunque oggi è per lo meno organizzabile; e la categoria ideologica che lentamente subentra per abbracciare gli esiti di tale organizzazione è il concetto di “gruppo” (che nell’inconscio politico si differenzia nettamente dall’idea di classe da una parte e da quella di status dall’altra). Una volta qualcuno ha detto che a Washington si incontrano soltanto apparentemente degli individui perché in ultima istanza risultano essere tutti dei gruppi di pressione; lo stesso si può dire ormai in generale della vita sociale dei paesi del capitalismo avanzato, salvo che ognuno “rappresenta” nello stesso tempo diversi gruppi. Si tratta della realtà sociale che le correnti psicoanalitiche di sinistra hanno analizzato in termini di “posizioni del soggetto”, ma in realtà queste si possono intendere solamente come le forme di identità che genera l’adesione a un gruppo. Analogamente, si avvalora anche l’altra intuizione di Marx, cioè che la comparsa delle forme collettive (universali o astratte) stimola lo sviluppo di un pensiero storico-sociale concreto in maniera più vigorosa di quanto non abbiano fatto le forme individuali o individualistiche (che operano per nascondere l’elemento sociale). Così comprendiamo di colpo che i “barboni” (e lo riportiamo nella definizione che diamo di essi) sono conseguenza del processo storico della speculazione fondiaria e dell’imborghesimento di alcuni quartieri verificatosi in un momento molto preciso della storia della città postcontemporanea, mentre i “nuovi movimenti sociali” si devono all’espansione del settore statale avvenuta negli anni Sessanta. Essi recano nella coscienza questa origine causale come un marchio di identità, come una mappa di strategia e lotta politica.
(Occorre comunque sottolineare che con la percezione ormai largamente condivisa della correlazione tra coscienza e adesione al gruppo si è acquisito qualcosa di essenziale; si tratta in effetti di una sorta di versione postmoderna di quella teoria dell’ideologia inventata o scoperta dallo stesso Marx, la quale postulava un rapporto costitutivo fra coscienza e adesione di classe. Nel nuovo sviluppo postmoderno continua anzi a esserci progresso, al punto da dissipare le ultime illusioni riguardo all’autonomia del pensiero, anche se la dissipazione di tali illusioni potrebbe rivelare un paesaggio totalmente positivista dal quale sia del tutto svanito il negativo, sotto la solida chiarezza di quella che è stata identificata come “ragione cinica”. Secondo me, il metodo grazie al quale si può impedire che una sana sociologizzazione del dato culturale e concettuale si disintegri nei più osceni pluralismi consumistici del tardo capitalismo consiste nella stessa strategia filosofica adottata da Lukács per sviluppare l’analisi dell’ideologia di classe. Vale a dire che occorre generalizzare l’analisi dei nessi costruttivi tra il pensiero e il punto di vista rispettivamente di una classe o di un gruppo, e progettare una compiuta teoria filosofica del punto di vista che ponga in primo piano il punto generativo di produzione o di passaggio tra la concettualità e l’esperienza collettiva).
Quello che a volte si chiama “professionalismo” è evidentemente un’ulteriore intensificazione di questo senso “storicamente nuovo” della relazione tra identità di gruppo e storia, che in un senso singolare trova in sé il proprio adempimento. Per esempio, un’analisi storica delle discipline compromette la loro pretesa di corrispondere alla verità, all’assetto del reale, in quanto tradisce l’opportunismo con il quale esse si riadattano alla svelta a questo o a quell’argomento scottante, che percepiscono come un problema o una crisi immediati (il soggetto del postmodernismo è proprio una di queste crisi). Così Arcipelago economia di Lester Thurow finisce per dipingere gli economisti quali professionisti che hanno dovuto precipitarsi da un problema attuale all’altro in maniera tale che lo stesso campo problematico è sembrato dissolversi nel mentre. Allo stesso tempo, Stanley Aronowitz e i suoi colleghi hanno scoperto che (nonostante il ritardo degli ordinamenti istituzionali accademici e la persistenza dell’illusione ontologica che, presi nel loro insieme, i dipartimenti scientifici modellino in qualche modo il mondo fisico) pressoché ogni ricerca nelle scienze esatte implica oggi questa o quella forma della fisica. Così, per esempio, le scienze della vita estranee alla biologia molecolare oggi sono diventate arcaiche quanto l’alchimia153.
Ovviamente a nulla serve distinguere le origini dalla fondatezza e insistere con pazienza sul fatto che vedere la comparsa di qualcosa sul piano storico non è un buon argomento contro il suo contenuto di verità (non più di quanto la discesa nel borsino degli studi accademici ne attesta l’essenziale falsità). Non solo si percepisce ancora la storia (e il cambiamento) come l’opposto della natura e dell’essere, ma tutto quello che sembra avere avuto cause umane e sociali (assai spesso economiche) viene considerato il contrario dell’assetto della realtà o del mondo. Di conseguenza si sviluppa una sorta di pensiero storico che interpreta tutto ciò come una specie di panico che si avvalora da sé; ed è sufficiente menzionare l’innominabile – cioè che tutte le scienze attraversano un’evoluzione storica – perché si intensifichi l’andamento di quella modificazione storica, come se rilevare l’assenza di un fondamento ontologico equivalesse a sciogliere di colpo tutti gli ormeggi che tradizionalmente avevano tenuto le discipline al loro posto. Ora, improvvisamente, nel mezzo del dibattito sulla sua esistenza, nei dipartimenti d’Inglese il canone comincia a dissolversi impetuosamente, lasciandosi dietro un grosso cumulo di macerie della cultura di massa e di tutti i generi di letteratura estranea al canone e commerciale. È una specie di “rivoluzione tranquilla” persino più allarmante di quelle del Québec e della Spagna, dove, sotto l’effetto infiammante della società dei consumi, i regimi semifascisti e clericali si trasformarono da un giorno all’altro in vivaci spazi sociali sullo stile degli anni Sessanta (qualcosa del genere appare imminente anche nell’Unione Sovietica, il che mette di colpo in discussione tutte le nostre idee sulla tradizione, sull’inerzia sociale e sulla lenta crescita delle istituzioni sociali secondo Edmund Burke). Soprattutto incominciamo a mettere in dubbio la dinamica temporale di tutto questo, la quale o si è accelerata oppure è sempre stata più rapida della nostra vecchia capacità di registrarla.
Nel mondo delle arti è accaduto proprio questo, il che convalida la diagnosi di Bonito Oliva154, vale a dire della fine del modernismo come fine del paradigma evolutivo o storico modernista, dove ciascuna posizione formale si erigeva dialetticamente su quella precedente e creava una produzione totalmente nuova negli spazi vuoti, o a partire dalle contraddizioni. Dalla prospettiva del modernismo tale circostanza si può registrare con un certo pathos: tutto è stato già fatto, non è più possibile alcuna invenzione stilistica o formale, l’arte stessa è finita e va rimpiazzata con la critica. Dal lato postmoderno della linea di demarcazione non sembra così e la “fine della storia” in questo caso significa semplicemente che tutto è lecito.
Rimangono dunque i gruppi stessi e le identità che vi parevano corrispondere. Proprio perché l’economia, la povertà, l’arte e la ricerca scientifica sono diventate “storiche” in un certo senso nuovo (che si potrebbe definire meglio come neostorico), i barboni, gli economisti, gli artisti e gli scienziati non sono scomparsi; al contrario, la natura della loro identità di gruppo si è modificata al punto da risultare apparentemente più discutibile, come una scelta nel campo della moda. E in effetti è quasi certo che la neostoria, non avendo altro luogo verso cui convogliare le correnti sempre più rapide del suo flusso eracliteo, si volgerà verso la moda e il mercato, che si concepiscono ormai come una profonda realtà ontologica ed economica, misteriosa e irrevocabile quanto lo era un tempo la natura. La spiegazione neostorica lascia pertanto i gruppi al loro posto, si sbarazza delle forme ontologiche della verità e aderisce, ma solo a parole, a un’istanza più secolare, sommamente determinante, ancorando le proprie conclusioni al mercato invece che alle modificazioni del capitalismo. Il ritorno alla storia che si osserva oggi dappertutto esige un esame più ravvicinato alla luce di questa prospettiva “storica”; soltanto che non si tratta esattamente di un ritorno, giacché sembra piuttosto implicare l’assimilazione della “materia prima” della storia tralasciandone la funzione. È una sorta di appiattimento, di appropriazione (nel senso in cui di recente si è detto che gli artisti neoespressionisti tedeschi di oggi sono fortunati ad avere avuto Hitler). Eppure l’analisi più astratta e sistematica di tale tendenza – verso un’organizzazione collettiva che avvolge in pari misura l’attività economica e le sue sottoclassi – attribuisce l’estrema condizione di possibilità sistemica per ogni comparsa di questi gruppi (quelle che si chiamavano le vittime) alla dinamica del tardo capitalismo.
È una dialettica oggettiva che i populisti hanno spesso trovato sgradevole e che si è ripetuta, in maniera più ristretta, sotto forma di paradosso o di paralogismo: i gruppi emergenti come altrettanti nuovi mercati per nuovi prodotti, come tante nuove interpellanze per l’immagine pubblicitaria. L’industria del fast food non rappresenta l’insperata soluzione – come nella filosofia, il suo adempimento e la sua abolizione a un tempo – al dibattito sulla retribuzione del lavoro domestico? Le quote per le minoranze non vanno interpretate in primo luogo come l’assegnazione di segmenti del tempo televisivo? E la produzione di nuovi prodotti specifici per ciascun gruppo non costituisce il riconoscimento più autentico che una società basata sul profitto può recare ai suoi altri? Dunque, la stessa logica del capitalismo in ultima analisi non dipende dall’uguale diritto al consumo come un tempo dipendeva da un sistema salariale o da un insieme uniforme di categorie giuridiche applicabili a chiunque? O ancora, d’altra parte, se l’individualismo è davvero morto, il tardo capitalismo non è assetato della differenziazione luhmanniana, dell’interminabile generarsi e proliferare di nuovi gruppi, di neoetnicità di tutti i generi al punto da qualificarsi come l’unico modo di produzione veramente “democratico” e sicuramente “pluralistico”?
Qui vanno distinte due posizioni, entrambe errate. Da un lato, per una “ragione cinica” propriamente postmoderna (e nello spirito delle precedenti domande retoriche), i nuovi movimenti sociali sono semplicemente il risultato – le concomitanze e i prodotti – dello stesso capitalismo nella sua ultima fase, quella più libera da impedimenti. Dall’altro, per un populismo radical-progressista tali movimenti vanno sempre considerati come vittorie locali, realizzazioni e conquiste dolorose da parte di piccoli gruppi di persone in lotta (che a loro volta esprimono la lotta di classe in generale, dal momento che quest’ultima ha determinato tutte le istituzioni della storia, capitalismo compreso). In sostanza, per dirla tutta, i “nuovi movimenti sociali” rappresentano delle conseguenze e degli effetti collaterali del tardo capitalismo? Si tratta di unità nuove generate dal sistema nella sua interminabile autodifferenziazione interna e autoriproduzione? Oppure si tratta precisamente di nuovi “agenti della storia” che nascono resistendo al sistema, quali forme di opposizione a esso, e lo spingono in direzione contraria rispetto alla sua logica interna verso nuove riforme e modificazioni interne? Ma questa opposizione è falsa, e basterebbe dire che entrambe le posizioni sono giuste: la questione cruciale è il dilemma teorico, che entrambe replicano, di un’apparente scelta esplicativa tra le alternative dell’agente e del sistema. In realtà tale scelta non esiste ed entrambe le spiegazioni, o entrambi i modelli – assolutamente incoerenti l’uno con l’altro –, sono peraltro reciprocamente incommensurabili; pertanto vanno rigorosamente separati e a un tempo dispiegati simultaneamente.
Forse però l’alternativa tra agente o sistema è proprio il vecchio dilemma del marxismo – volontarismo contro determinismo – avvolto in un nuovo materiale teorico. Penso che sia così, ma il dilemma non è limitato ai marxisti, né la sua fatale ricomparsa risulta particolarmente avvilente o disonorevole per la tradizione marxista, giacché i limiti concettuali che tradisce paiono più prossimi a quelli kantiani dell’intelletto umano. Ma così come l’identificazione del dilemma base-sovrastruttura con il vecchio problema mente-corpo non ridimensiona il primo, anzi rimette in scena il secondo come un’anticipazione distorta e individualistica di quella che da ultimo si rivela un’antinomia sociale e storica, allo stesso modo anche qui l’identificazione delle prime forme filosofiche dell’antinomia tra volontarismo e determinismo le riscrive in termini genealogici come prime versioni di questa. Nello stesso Kant, questa “prima versione” è chiaramente offerta dalla sovrapposizione e dalla coesistenza dei due mondi paralleli del noumeno e del fenomeno, i quali sembrano rigorosamente occupare il medesimo spazio. Soltanto uno di essi, però, può essere “inteso” in qualunque punto dalla mente (come le onde o le particelle). Dunque in Kant libertà e causalità replicano una dialettica del tutto paragonabile a questa di agente e sistema, ossia – nella sua forma politica o ideologica pratica – di volontarismo contro determinismo. In Kant infatti il mondo fenomenico è «determinato» per lo meno nella misura in cui in esso le leggi della causalità regnano sovrane e non tollerano alcuna eccezione. Tanto meno la “libertà” potrebbe essere esattamente una di queste eccezioni, dal momento che evoca tutt’altra intelligibilità e semplicemente non ha senso all’interno del sistema causale, nemmeno come sua negazione o inversione. In tal senso la libertà, che caratterizza in pari misura il mondo umano e quello sociale se se ne concepiscono gli individui come cose in sé, può essere interpretata soltanto quale codice alternativo per le stesse realtà che – in un altro mondo – sono anche causali (in effetti sul piano concettuale gli individui non si possono intendere così, ma le risonanze kantiane del periodo esistenzialista di Sartre danno una sensazione di quello cui somiglierebbe la circostanza, benché il punto essenziale del noumeno sia proprio che non può “assomigliare” a nulla). Kant ha mostrato che non possiamo aspirare a impiegare tali codici assieme, né a coordinarli in maniera sensata, e soprattutto che sarebbe inutile (e metafisico) farli rientrare a forza in una “sintesi”. Non ha indicato esattamente, secondo me, che per questo siamo condannati a un’alternanza tra di essi, però sembrerebbe questa la sola conclusione possibile.
Un ulteriore antesignano di questa versione kantiana di quella che parrebbe l’antinomia tra mutamento storico e prassi collettiva riconduce la nostra attenzione verso un aspetto piuttosto diverso del dilemma, poiché tale versione – più attivamente etica di quella di Kant (che presuppone semplicemente l’esistenza e la possibilità di una giusta condotta) – cerca con un certo affanno di riconciliare la “causalità”, o il “determinismo”, con la possibilità stessa dell’azione. Certamente il dibattito sulla predestinazione155 presenta contraddizioni molto più drammatiche rispetto alle successive forme borghesi e proletarie, più laiche, che ho considerato in Kant e in Marx; per la mentalità moderna la goffaggine delle sue “soluzioni” risulta più imbarazzante. Nondimeno, una certa concezione della pansincronia divina, della previsione provvidenziale o della predestinazione assoluta di tutti gli atti della storia è sicuramente la prima forma sconcertante per mezzo della quale (in “Occidente”) si è cercato di concettualizzare la logica della storia nel suo complesso, di formularne le interrelazioni dialettiche e il telos. Quindi, chiedersi come si possa conciliare la necessità delle mie azioni future con il mio impegno attivo a lottare per far sì che esse si realizzino nella maniera giusta significa sfruttare la stessa angoscia che dovranno affrontare in seguito gli attivisti politici, quando il principio della necessità e dell’inevitabilità storica sembrerà sul punto di logorare la loro determinazione di militanti. L’equivalente della ben nota reductio ad absurdum di James Hogg (secondo cui uno degli eletti conclude di essere libero di commettere qualunque crimine, qualunque scelleratezza gli passi per la testa156) sarebbe dunque – mutatis mutandis – la figura apparentemente più rispettabile del Kathedersozialist, o forse i “rinnegati” e i revisionisti della Seconda Internazionale.
Ciò malgrado, è possibile che gli ideologi del dibattito sulla predestinazione abbiano trovato una “soluzione” che, a pensarci bene, non è per niente risibile come si potrebbe ipotizzare a prima vista, e per di più mostra di essere autenticamente dialettica o, quanto meno, un balzo mirabilmente creativo dell’immaginazione filosofica. «I segni esterni e visibili dell’elezione interiore»: la formula ha il merito di includere e di riconoscere una libertà che a un tempo supera e aggira. Il suo sincero rigore concettuale risolve i propri problemi squalificandola ed elevandola al contempo a un livello più alto: la libera scelta dell’azione giusta non rende idonei all’elezione, né dà titolo alla salvezza, tuttavia costituisce il segno esteriore di quest’ultima. La libertà e la prassi vengono pertanto avvolte nel più ampio disegno “deterministico”, che prevede in primo luogo la disposizione dell’individuo a questo incontro angoscioso con la libera scelta. La successiva distinzione tra individuo e collettività può dunque far luce su questo antiquato meccanismo di chiarificazione, in quanto esplicita un po’ di più in che modo si dia, entro lo sviluppo della collettività, la stessa condizione di possibilità dell’impegno e dell’azione individuali. In tal senso non c’è mai un’alternativa tra volontarismo e determinismo (il che costituisce precisamente quello che hanno cercato di sostenere i teologi): l’impegno verso la prassi non è dunque la smentita del principio delle circostanze oggettive (sia o no “matura” la situazione), ma, al contrario, attesta quest’ultima dall’interno e la conferma, proprio come il volontarismo “infantile” o suicida la conferma in maniera opposta, essendo a sua volta un prodotto delle circostanze sociali come lo è la prassi collettiva. È evidente che dal punto di vista individuale o esistenziale la distinzione non risolve nulla, perché, come l’«astuzia della ragione» di Hegel o la «mano invisibile» di Adam Smith (per non parlare della Favola delle api di Mandeville), il punto essenziale è seguire prima di tutto la propria natura e la propria passione. Si può intravedere il momento in cui il “determinismo”, o una logica collettiva della storia, si muove a spirale attorno a queste scelte e a queste passioni e le include nuovamente a un livello superiore, se si considera non soltanto che le passioni e i valori sono anch’essi sociali, ma che è sociale pure la propensione a farsi demoralizzare e dissuadere da una logica delle circostanze, dall’assunzione di questa a titolo di scusa e di alibi per la passività e il temporeggiamento. Tale propensione rientra così in una prospettiva più ampia, mentre in senso individuale resta una libera scelta. In altre parole, la reazione del singolo alla necessità è essa medesima un’espressione di libertà.
Nello stesso tempo le due versioni esaminate, quella teologica e quella dialettica, paiono entrambe ingannare il presente e le sue scelte angoscianti spostando la prospettiva alla fine del tempo: la teologia dispiega tutto in avanti da un inizio in cui tutto è predetto; la dialettica «inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo» e si pronuncia sulla necessità storica di quanto ha già avuto luogo (se è accaduto in quella determinata maniera, è perché doveva accadere così). Ma quello che doveva accadere comprende tutte le forme dell’azione individuale, anche le convinzioni che tali forme albergavano rispetto alla propria libertà e alla propria efficacia. È una favola che forse si può applicare, all’incontrario, alla rivoluzione cubana, alla quale notoriamente il vecchio partito comunista cubano non partecipò fino all’ultimo momento, a causa della sua valutazione della “possibilità storica oggettiva”. Se ne può dedurre una facile lezione sull’effetto debilitante di una fede nell’inevitabilità storica e nelle capacità di stimolo di certi volontarismi. In un’ottica più ampia si è comunque sostenuto157 che, al di là delle valutazioni immediate e delle decisioni pratiche del partito nel fervore dell’evento, l’opera da esso condotta nei decenni precedenti tra i lavoratori cubani aveva svolto un ruolo di incalcolabile valore per la definitiva vittoria rivoluzionaria, della quale non fu immediatamente responsabile. La creazione di una cultura e di una coscienza rivoluzionarie – in linea con l’immagine marxiana della «talpa della storia» – costituisce una forma di azione non meno della lotta finale; tuttavia a sua volta fa parte delle circostanze oggettive e delle necessità storiche che da un’angolatura più immediata della prassi paiono incompatibili prima di tutto con l’azione e l’agente.
Naturalmente queste “soluzioni filosofiche”, che come si è detto procedono per differenziazione di codici e modelli incompatibili (e che ho cercato di riformulare nella teoria dei livelli in L’inconscio politico), stanno comunque anch’esse nel mondo fenomenico e si possono pertanto trasformare in alibi ideologici: ogni scienza è al contempo necessariamente ideologia, giacché non si può far altro che adottare la posizione del soggetto individuale rispetto a ciò che ha tentato invano di porsi al di là delle prospettive della soggettività individuale. Nondimeno la proposta racchiude chiaramente una rilevanza immediata per la questione dei “nuovi movimenti sociali” e del loro rapporto con il capitalismo, nella misura in cui offre la possibilità simultanea dell’impegno politico attivo unito a un realismo sistemico e a una contemplazione disillusi, in luogo di una sterile scelta tra le due cose.
Al contempo, se si obietta che il dilemma filosofico e l’antinomia così evocati valgono soltanto per la trasformazione assoluta (ossia la rivoluzione), e che tali problemi scompaiono se si abbassa il tiro alle riforme puntuali e alle lotte quotidiane di quella che si potrebbe definire, metafisicamente, come una sorta di politica locale (dove le prospettive sistemiche non tengono più), si è evidentemente individuata la questione cruciale della politica del postmoderno, oltre che la posta in gioco finale del dibattito sulla “totalizzazione”. La vecchia politica tentava di coordinare le lotte a livello locale con quelle globali, per così dire, e di attribuire all’immediata occasione di lotta locale un valore allegorico, cioè di rappresentare il conflitto generale e di incarnarlo in un qui e ora che in tal modo si trasfigurava. La politica funziona solo quando questi due livelli si possono coordinare; diversamente essi si distaccano e da una parte avremo una lotta astratta – disincarnata e presto burocratizzata – per lo Stato e attorno a esso, e dall’altra una serie propriamente interminabile di questioni di quartiere, la cui «cattiva infinità» nel postmodernismo (nel quale rappresenta l’unica forma di politica rimasta) arriva a essere investita da una sorta di darwinismo sociale alla Nietzsche, dall’euforia voluta di una rivoluzione permanente metafisica. Io stesso ritengo che tale euforia sia una formazione di compensazione, in circostanze nelle quali la politica autentica (“totalizzante”) per il momento non è più possibile; è necessario aggiungere che quel che si perde in sua assenza, la dimensione globale, è esattamente la dimensione dell’economia, del sistema, dell’impresa privata e del movente del profitto, che non si possono contestare a livello locale. Penso che, en attendant, sarà politicamente produttivo, e resterà di per sé una forma modesta di politica, prestare molta attenzione a questi sintomi (come il calo di visibilità di tale dimensione globale), alla resistenza ideologica nei confronti del concetto di totalità, così come a quel rasoio epistemologico del nominalismo postmoderno che taglia via astrazioni apparenti come il sistema economico e la totalità sociale, al punto che all’anticipazione del “concreto” si è sostituito il “puro particolare”, determinando l’eclissi del “generale” (sotto forma di modo di produzione).
Il fatto che i “nuovi movimenti sociali” siano postmoderni, in quanto conseguenze ed effetti del “tardo capitalismo”, è praticamente una tautologia senza alcuna funzione valutativa. È più probabile che quella che talvolta viene descritta come una nostalgia del vecchio tipo di politica di classe rappresenti semplicemente una “nostalgia” della politica tout court. Considerato il modo in cui i periodi di intensa politicizzazione e quelli successivi di spoliticizzazione e di ripiegamento si modellano sui grandi ritmi di crescita e di stagnazione del ciclo economico, descrivere questo sentimento come “nostalgia” è giusto più o meno quanto definire “nostalgia del cibo” la fame del corpo prima di cena.
5. L’angoscia dell’utopia
Il punto su cui si potrebbe dissentire dalle formulazioni programmatiche di certi ideologi della politica postmoderna va probabilmente individuato nel contenuto delle asserzioni, invece che nella forma. L’esemplare descrizione del funzionamento della politica delle alleanze proposta da Laclau e Mouffe – nello stabilire un asse di “equivalenza” lungo il quale si schierano i partiti – non ha nulla a che vedere, come sottolineano gli stessi autori, con il contenuto delle questioni attorno a cui si costruisce l’equivalenza. (Per esempio, essi ammettono la possibilità teorica che, in una congettura precisa e unica, «quanto accade a tutti i livelli della società [… possa essere] assolutamente determinato da ciò che accade al livello dell’economia»158). Ovviamente, l’equivalenza si fisserà molto spesso su problematiche non di classe come l’aborto o l’energia nucleare. Ciò che in tali circostanze sostengono i “nostalgici della politica di classe” non è che tali alleanze siano “sbagliate”, qualunque cosa significhi il termine, ma che in genere esse non sono durevoli quanto quelle organizzate attorno al fattore di classe, o, meglio ancora, che tali alleanze divengono forze e movimenti più duraturi se si sviluppano nella direzione della coscienza di classe. Dal momento che gli sventurati portabandiera del postmoderno di tanto in tanto mi hanno accusato di “disapprovare” i movimenti che non si basano sulla classe (caldeggiando, per contro, la Rainbow Coalition159), va osservato qui che l’esperienza di Jesse Jackson è esemplare a tale riguardo, giacché raramente egli tiene un discorso nel quale non “costruisca” l’esperienza dei lavoratori come mediazione attorno a cui l’equivalenza della coalizione trova la propria coesione attiva. Ma questo è precisamente ciò che si intende con la retorica della politica di classe e con il linguaggio della totalizzazione, operazione che Jackson ha pressoché reinventato per il nostro tempo in ambito politico.
Quanto alla “totalizzazione” – che i postmodernisti evidentemente considerano uno dei più sordidi vizi residui da estirpare dalla salute e dalla forma fisica populiste della nuova era – gli individui, proprio come Humpty Dumpty, non possono far sì che significhi ciò che vogliono loro. I gruppi invece sì, e alla luce della doxa corrente («“totalizzare” non vuol dire soltanto unificare, quanto piuttosto unificare senza perdere di vista il potere e il controllo; e, come tale, questo termine indica i rapporti di potere che stanno dietro i nostri sistemi umanistici e positivisti di unificazione di materiali disparati, che siano estetici o scientifici»160), si può soltanto passare pazientemente in rassegna la storia reale della parola – un po’ come si recuperano le storie delle minoranze o delle classi subalterne cadute nell’oblio – per poi lasciarla stare.
Il termine – un conio sartriano connesso al progetto della Critica della ragione dialettica – dovrebbe essere innanzi tutto nettamente distinto da quell’altro vocabolo stigmatizzato che è totalità, sul quale tornerò più avanti. In effetti, se talvolta la parola totalità pare suggerire l’idea che si possa disporre di una visione panoramica privilegiata del tutto, che è anche la Verità, allora il progetto della totalizzazione comporta esattamente il contrario e assume quale premessa l’impossibilità, per i soggetti umani individuali e biologici, di concepire una posizione del genere, e tanto meno di adottarla o conseguirla. «Di quando in quando», dice Sartre da qualche parte, «si fa una ricapitolazione parziale». Da una certa prospettiva o punto di vista, per quanto parziale tale ricapitolazione contrassegna il progetto della totalizzazione quale risposta al nominalismo (che analizzerò più oltre, con particolare riferimento a Sartre). Nelle totalizzazioni del modernismo e nelle “guerre alla totalità” del postmoderno, occorre per prima cosa evocare precisamente quella concreta situazione storico-sociale, prima di arrivare a delle possibili risposte a essa.
Se il senso di una parola sta nel suo uso, il modo migliore di intendere la totalizzazione secondo Sartre è attraverso la sua funzione: inglobare e trovare un minimo comune denominatore per le due parallele attività umane della percezione e dell’azione. Un Sartre più giovane aveva già combinato tali attività con l’ausilio di uno dei loro aspetti dominanti, sotto il concetto di negazione e di nientificazione (néantisation), dal momento che per lui percezione e azione erano entrambe forme attraverso le quali si negava e si trasformava in qualcos’altro il mondo realmente esistente (le complicazioni che comportano queste affermazioni sulla percezione – o cognizione – costituiscono parte dell’argomento di fondo del suo primo grande libro, L’immaginazione, nel quale, per esempio, la percezione sensoriale si caratterizza per la forte consapevolezza che il colore, la conformazione per prima cosa non sono me, non sono la coscienza). Per il Sartre dell’Essere e il nulla, poi, la «nientificazione» era già un concetto totalizzante, per così dire, in quanto mirava a unire i due ambiti simmetrici della contemplazione e dell’azione allo scopo di dissolvere la prima nella seconda. Tale circostanza si rafforzò in seguito con il termine equivalente di «prassi», che sussume anche percezione e pensiero (tranne che per i tentativi borghesi, singolarmente specializzati in entrambi gli ambiti, di sfuggire a tale umiliante sussunzione). Nell’indicare i vantaggi del nuovo termine “totalizzazione” quale equivalente della “prassi”, sarà utile una fievole immagine residua della psicologia della Gestalt: non si può negare che in parte il concetto è inteso a evidenziare l’unificazione insita nell’attività umana; e il modo in cui quella che un tempo si chiamava negazione si può considerare la creazione di una nuova situazione, l’unificazione di un costrutto, l’interrelazione di un’idea nuova con quelle vecchie, l’acquisizione attiva di una nuova percezione, visiva o auditiva, la sua forzata conversione in una nuova forma. A rigor di termini, in Sartre totalizzare corrisponde a quel procedimento attraverso il quale un agente, spinto attivamente dal progetto, nega l’oggetto specifico e lo reincorpora nel più vasto progetto in corso. A meno che non si verifichi un’autentica mutazione della specie, dal punto di vista filosofico è arduo vedere come l’attività umana nella terza fase del capitalismo, quella postmoderna, possa eludere o sfuggire questa formula tanto generale, malgrado alcune delle immagini ideali del postmodernismo – soprattutto la schizofrenia – siano chiaramente studiate per criticarla, per impedire che essa le assimili o le sussuma. Per quanto riguarda il “potere”, è altrettanto chiaro che la prassi o la totalizzazione mirano sempre ad assicurarsi il fragile controllo, o la sopravvivenza, di un soggetto ancor più fragile, all’interno di un mondo per altri versi del tutto indipendente e per nulla sottoposto ai capricci e ai desideri di nessuno. Immagino si possa sostenere che chi è privo di potere non vuole il potere, che – come ha detto una volta Baudrillard – «la sinistra vuole perdere», che in un universo così corrotto l’insuccesso e la debolezza sono più autentici dei “progetti” e delle “ricapitolazioni parziali”. Dubito tuttavia che molte persone la pensino davvero così; per essere davvero degno di ammirazione questo atteggiamento dovrebbe sicuramente essere assolutizzato, come fa il buddhismo; in ogni caso, altrettanto evidentemente non è stata questa la lezione che ci ha impartito la campagna elettorale di Jackson. Quanto alle immagini spaventose di 1984, nell’epoca di Gorbaciov esse risultano persino più risibili di quanto non lo fossero prima, e proclamare d’un fiato la morte del socialismo ed emanare messaggi agghiaccianti sulla sua sete di sangue totalitaria è un’operazione come minimo difficile e contraddittoria.
Parrebbe dunque più plausibile decodificare l’ostilità verso il concetto di “totalizzazione” come un rifiuto sistematico dei concetti e degli ideali della prassi come tale, o del progetto collettivo161. Per quanto concerne il suo apparente affine ideologico, cioè il concetto di “totalità”, vedremo più avanti che va inteso come una forma filosofica dell’idea di “modo di produzione”, idea che, sul piano strategico, al postmoderno preme evitare o escludere.
Tuttavia bisogna dire qualche parola conclusiva su alcuni dei travestimenti più filosofici di queste controversie, nelle quali “totalità” e “totalizzazione”, adoperate indistintamente, vengono assunte come i segni non più di uno stalinismo della mente, bensì di un residuo propriamente metafisico completo di illusioni di verità, di un bagaglio di principi primi, di una scolastica voglia di “sistema” nel senso concettuale, di un anelito alla chiusura e alla certezza, di una fede nella centralità, di un impegno verso la rappresentazione e di altre mentalità antiquate. È curioso che, in contemporanea con i nuovi pluralismi del tardo capitalismo, ma di fronte al tangibile declino di qualunque prassi o resistenza politica attiva, questi formalismi assoluti possano cominciare a farsi strada. Essi diagnosticano la sopravvivenza del contenuto all’interno di una determinata operazione intellettuale come segno rivelatore della “fede” nel senso antico, come la macchia lasciata dietro di sé dalla persistenza di assiomi metafisici e presupposti illegittimi, i quali, in base al programma di fondo dell’illuminismo, non sono stati ancora cancellati. È chiaro (non da ultimo dalla sua prossimità con John Dewey e un certo pragmatismo) che il marxismo deve avere una notevole attitudine a contestare i presupposti occulti, che però identifica con l’ideologia, proprio come smaschera il privilegio che si dà a un certo tipo di contenuto identificandolo come “reificazione”. In ogni caso la dialettica non è esattamente una filosofia in questo senso, ma piuttosto un’altra cosa precisa, l’”unità di teoria e pratica”. Il suo ideale (che notoriamente comporta la realizzazione e l’abolizione della filosofia in un solo colpo) non è l’invenzione di una filosofia migliore che – in contrasto con tutte le celebri leggi della gravità di Gödel – tenti di fare del tutto a meno delle premesse, bensì la trasformazione dell’universo naturale e sociale in una totalità dotata di senso, in modo tale che la “totalità”, sotto forma di sistema filosofico, non sia più necessaria.
C’è tuttavia un argomento esistenziale che di frequente si nasconde e si presuppone in questi atteggiamenti antiutopici ormai convenzionali, provocati indifferentemente da tutta una serie di termini stigmatizzati, dall’«identità», come la postula la filosofia della Scuola di Francoforte, al linguaggio affine della «totalizzazione» (Sartre) e della «totalità» (Lukács) cui ho già fatto riferimento; e anche, in misura non minore, dallo stesso linguaggio dell’utopia, che ormai si riconosce universalmente come una parola in codice per la trasformazione sistemica della società contemporanea. Tale argomento occulto fa sì che il termine finale o chiave di tutti questi temi sia l’una o l’altra variante di una nozione ancora essenzialmente hegeliana di «riconciliazione» (Versöhnung), vale a dire l’illusione della possibilità di una riunificazione finale tra un soggetto e un oggetto radicalmente disgiunti o estraniati l’uno dall’altro, o anche di una nuova “sintesi” tra di essi (e il termine tradisce il proprio debito verso le versioni schematiche e semplicistiche che di Hegel offrono i manuali). In questo senso dunque la «riconciliazione» si assimila a questa o a quella illusione o metafisica della “presenza”, o al suo corrispettivo negli altri codici filosofici postcontemporanei.
Pertanto il pensiero antiutopico implica qui una mediazione cruciale, che non sempre espone a chiare lettere. Esso sostiene che l’illusione sociale e collettiva dell’utopia, di una società radicalmente diversa, è viziata in primo luogo dal fatto di essere investita di un’illusione individuale o esistenziale, la quale presenta a sua volta un vizio di origine. Secondo questa argomentazione più profonda, è proprio perché sono all’opera dappertutto nella vita privata che le metafisiche dell’identità si possono proiettare sulla politica e sul sociale. Un siffatto ragionamento, esplicito o implicito, tradisce evidentemente una concezione del politico e del collettivo che fa molto vecchia borghesia, come irrealtà, come spazio sul quale si proiettano pericolosamente le ossessioni soggettive e private. Ma a sua volta questa concezione è l’effetto della scissione tra l’esistenza pubblica e quella privata nelle società moderne, e può assumere forme comuni, di basso livello, come la descrizione del movimento studentesco nei termini di una rivolta edipica. Su questa base logora e poco promettente, il pensiero antiutopico contemporaneo ha nondimeno eretto argomentazioni molto più complesse e interessanti.
Per contro, le conseguenze politiche di questa prima istanza, che condanna la visione politica sulla base dell’illusione esistenziale, esige risposte di tipo diverso, che non formulerò qui. La prima di tali conclusioni è che il pensiero utopico – per quanto apparentemente benevolo, se non del tutto inefficace – in realtà è pericoloso e porta, tra le altre cose, ai campi di concentramento di Stalin, a Pol Pot e ai “massacri” della Rivoluzione francese riscoperti di recente, in occasione del bicentenario (i quali a loro volta ci riportano immediatamente al pensiero sempre vitale di Edmund Burke, che per primo ci ha avvertito della violenza destinata a scaturire dalla tracotanza dei tentativi umani di manipolare e trasformare il tessuto organico dell’ordine sociale vigente).
Spesso, però, insieme a questa coesiste una “conclusione” piuttosto diversa, cioè il timore o la fantasia libidica che la società utopica, l’utopica “riconciliazione di soggetto e oggetto”, sia in qualche modo un luogo di rinuncia, di semplificazione della vita, di annullamento dell’esaltante diversità urbana e di attenuazione dello stimolo sensoriale (qui si manifestano apertamente i timori della repressione sessuale e del tabù); un luogo, in definitiva, di ritorno alle semplici forme “organiche” della vita paesana, dell’«idiotismo rurale», da cui sia stato amputato tutto quel che c’è di interessante e di complesso nella “civiltà occidentale”. Questa paura o angoscia dell’”utopia” rappresenta un concreto fenomeno ideologico e psicologico che richiede di per sé un’indagine sociologica. Quanto alla sua espressione intellettuale, tuttavia, il compianto Raymond Williams se n’è sbarazzato rapidamente rispondendo che il socialismo non sarà più semplice del capitalismo, bensì molto più complicato, e che immaginare la vita quotidiana e l’organizzazione di una società nella quale, per la prima volta nella storia, gli esseri umani hanno il pieno controllo delle proprie sorti impone alla mente esigenze di impervia difficoltà per i soggetti dell’attuale «mondo amministrato», i quali spesso, comprensibilmente, ne risultano allarmati.
Tuttavia mettere le cose in questi termini significa anche ricordare che in ultima analisi è l’ideale socialista a cercare di porre fine alla metafisica e a proiettare i primi rudimenti di una visione di un’”età dell’uomo” realizzata, nella quale ci si libererà definitivamente della “mano occulta” di Dio, della natura, del mercato, della gerarchia tradizionale e del carisma del comando. Una delle contraddizioni delle posizioni antiutopiche contemporanee (e non è la minore) consiste nel fatto che quanto si identifica, assai giustamente, come metafisico nelle illusioni esistenziali della riconciliazione e della presenza si “proietta” poi su un ideale politico laico che, in effetti, tenta per la prima volta di farla finita con l’autorità metafisica al livello della società umana.
Il contenuto filosofico del pensiero antiutopico va comunque individuato in quella che ho chiamato la sua fase di intermediazione, cioè la combinazione dell’”identità” con l’una o l’altra forma di “riconciliazione” dialettica, su cui torno adesso. Paradossalmente, la forza di questa fase del ragionamento è essa stessa relativamente dialettica, dal momento che in genere sottolinea non l’esperienza immediata della riconciliazione o della presenza – la cui autentica esistenza sarebbe rivendicata da pochi, tranne i mistici di vario genere –, quanto il danno arrecato dall’illusione di una sua possibile esistenza futura o, il che è lo stesso, il suo presupposto logico, la sua implicazione nell’ambito dei nostri concetti operativi. Quindi, per cominciare da questo secondo pericolo, concetti come “soggetto” e “oggetto” saranno viziati perché paiono implicare l’idea (e su di essa si fondano logicamente) della “riconciliazione” di soggetto e oggetto, idea che è illusoria. Pertanto, coloro che maneggiano questi concetti “dialettici” – qualunque cosa continuino a dire sulle possibilità concrete di riconciliazione (e nessun lettore di Adorno troverà particolari rassicurazioni in mezzo a loro) – nondimeno perpetuano, per implicazione logica, la “sintesi” fondazionale nascosta in quello che sembra risolversi in un modello quasi narrativo o persino storico: un momento di “unità primigenia” antecedente alla separazione di soggetto e oggetto reinventato alla fine del tempo, allorché soggetto e oggetto si “riconciliano” di nuovo. Compare così una triade nostalgico-utopica che viene comodamente identificata nella “visione della storia” marxista: un’età dell’oro prima della caduta, vale a dire prima della scissione capitalistica, che si può collocare a scelta dove si vuole, nel comunismo primitivo o nella società tribale, nella polis greca o in quella rinascimentale, nella comune agricola di qualsiasi tradizione nazionale e culturale prima della nascita del potere statale; l’”età moderna” o in altre parole il capitalismo; e poi qualunque visione utopica cui si può fare appello per rimpiazzarlo. Ma, se non mi sbaglio, l’idea di una “caduta” nella civiltà, nell’età moderna, nella «dissociazione della sensibilità» costituisce piuttosto un aspetto della critica del capitalismo da destra antecedente a Marx, la cui versione più nota agli umanisti è la visione della storia di T.S. Eliot. Al contrario, la concezione marxiana di una molteplicità di «modi di produzione» rende questa narrazione nostalgica e triadica relativamente impensabile.
Nel caso di Adorno e Horkheimer, per esempio, la peculiare originalità della loro concezione di una «dialettica dell’illuminismo» risiede nel fatto che essa esclude qualunque inizio, qualunque termine primo, e descrive precisamente l’«illuminismo» come un processo fondato sul «sempre già», la cui struttura sta chiaramente nel suo generare l’illusione che quanto lo ha preceduto (anch’esso una forma di illuminismo) fosse quel momento “originario” del mito, quell’unione arcaica con la natura che l’illuminismo “propriamente detto” ha la vocazione ad annullare. Se si tratta pertanto di narrare un racconto storico, allora bisogna leggere Adorno e Horkheimer come se postulassero una narrazione priva di inizio, nella quale la “caduta”, la scissione, sono sempre già date. Se tuttavia decidiamo di rileggere il loro libro come una diagnosi delle peculiarità, dei limiti strutturali e delle patologie della visione storica o della stessa narrazione, possiamo concludere, in maniera un po’ diversa, che la strana immagine residua dell’“unità primigenia” sembra proiettarsi sempre a posteriori su qualunque presente l’occhio storico individui come proprio passato “inevitabile”, che svanisce senza lasciare traccia allorché la visione frontale si sposta a sua volta su di esso.
L’influente versione che di tutto questo ha fornito Derrida, incentrata su quella primordiale di Rousseau, è più sottile e complicata dell’analisi appena delineata, poiché aggiunge al quadro lo stesso linguaggio adoperato dall’utopista per evocare uno stato privo per definizione del linguaggio. Qui la confusione concettuale e l’errore filosofico (questioni di “coscienza” e di pensiero) sono stati rimpiazzati dalle fatalità delle strutture dell’enunciato, che non si possono obbligare a fare ciò di cui ha bisogno il “pensatore” utopico, cioè assicurarsi qualcosa di radicalmente diverso dal suo presente del parlare e scrivere. Essendo al contempo tale presente illusorio (in quanto gli enunciati devono muoversi nel tempo secondo le leggi del circolo ermeneutico), difficilmente vi si può fare ricorso per allestire un quadro adeguato di un presente o di una presenza collocati altrove nel “tempo”. La concezione della supplementarietà propria di Derrida è stata spesso arruolata nell’arsenale antiutopico delle armi e delle argomentazioni polemiche: sarebbe ormai preferibile vedere se non la si possa leggere in maniera un po’ diversa, quale complesso di conclusioni da trarre a proposito dello stesso enunciato.
Eppure, se la si proietta nuovamente dall’ambito linguistico a quello esistenziale, sotto forma di una sorta di “ideologia” derridiana, tale posizione rispetto alla “riconciliazione” si fonde con altre versioni in una specie di etica della temporalità, che si rappresenta meglio nel vecchio linguaggio sartriano (malgrado l’eredità sartriana di questo pensiero sia stata oscurata, per non dire occultata, dall’energica rottura tra lo strutturalismo emergente e la fenomenologia di Sartre). In L’essere e il nulla, per esempio, la “presenza”, la riconciliazione tra soggetto e oggetto, si allestisce come l’anelito ineludibile ma impossibile (dell’«essere per sé» o coscienza) a incorporare la stabile pienezza dell’«essere in sé» delle cose: ciò che costituisce in primo luogo la coscienza è proprio questo desiderio di assorbire l’«essere» senza trasformarsi completamente in una cosa, ovvero, in altri termini, morire. Tutta la temporalità umana è guidata da questo miraggio della pienezza della riconciliazione tra soggetto e oggetto irraggiungibile davanti a noi; e il vantaggio della terminologia fenomenologica di Sartre è di estendere tale dramma ben oltre il dato meramente epistemologico o estetico, nonché di mostrarlo in atto tanto negli interstizi e nelle micrologie della vita quotidiana quanto nelle posizioni e nei conflitti metafisici più grandiosi. Così, il fatto di bere un bicchiere d’acqua per la sete manifesta l’imminenza spettrale della pienezza della sete appagata, che si ritrae poi nel passato senza giungere alla realizzazione.
Questo miraggio dell’essere, che governa anche le nostre ambizioni e i nostri gusti, la sessualità e il modo di trattare gli altri, il tempo libero e il lavoro, ispira dunque una diagnosi e un’etica di facile traduzione in una versione “testuale” e decostruttiva: lo sforzo di concepire un modo di vivere che possa evitare completamente tali illusioni, che già Sartre designava come metafisiche, una vita nel tempo capace di fare a meno dell’anelito a trasformarsi nell’«in-sé-per-sé» (ciò «che le religioni chiamano Dio») fino alla microstruttura dei gesti e dei sentimenti più minuti. Questo ideale etico di un’esistenza umana antitrascendente (che Sartre denomina «autenticità» e che i suoi stessi sviluppi filosofici frammentari non sono stati in grado di elaborare pienamente nei termini di una esistenza puramente individuale) costituisce senza dubbio una delle più illustri concezioni di tutto l’illuminismo postnietzscheano, che scova le tracce della religione, della metafisica e della trascendenza fin negli spazi e negli eventi di aspetto più secolare di un mondo moderno soltanto in apparenza “illuminato”. Esso risulta più strettamente connesso all’esame derridiano del metafisico invece che alla concezione dell’illuminismo propugnata da Adorno. Questi chiaramente nutre ammirazione per Sartre, ma rifiuta in maniera implacabile l’accento individuale del pensiero e dell’analisi esistenziale, che considera inseparabili dall’opera del suo grande antagonista politico e filosofico, Heidegger.
Tuttavia oggi, in pieno postmodernismo, a proposito di questa visione apparentemente utopica e irrealizzabile di un’esistenza autentica o “testualizzata”, vale la pena domandarsi se essa non si sia già in qualche modo realizzata sul piano sociale, e se non possa essere precisamente una delle trasformazioni della vita quotidiana e del soggetto psichico designate dal termine postmoderno. In tal caso, la critica delle ombre e delle tracce metafisiche che persistono dentro la modernità si trasforma paradossalmente in una replica del trionfo postmoderno sui residui metafisici del moderno; e invocare l’abbandono di ogni illusione riguardo all’identità psichica o alla centralità del soggetto, fare appello all’ideale etico del buon vivere molecolare “schizofrenico” e all’inesorabile rinuncia al miraggio della presenza, forse potrebbe rappresentare una descrizione del nostro attuale modo di vivere, invece che la sua censura o il suo sovvertimento. La vita di Adorno si è conclusa sul limitare di questo “mondo nuovo”, che egli aveva previsto soltanto in maniera saltuaria e profetica; ma la sua posizione rispetto all’impossibilità della trascendenza e della metafisica è ancora istruttiva, se non altro per chiarire che il lamento per il trapasso di queste cose non è necessariamente conservatore o nostalgico. Infatti, nella perdita della vocazione metafisica e speculativa della filosofia Adorno non ha visto un programma per restaurarla alla maniera del “come se”, bensì un estremo sintomo storico della tecnocratizzazione della società contemporanea.
Da questo lungo excursus sui presupposti esistenziali del pensiero antiutopico contemporaneo si può trarre comunque un’altra conclusione: esso lascia intendere infatti che, invece di fondere la metafisica individuale ed esistenziale della presenza, della pienezza o della “riconciliazione” con la volontà politica di trasformare il sistema sociale, occorre spezzare il legame tra di esse. La premessa che non ho preso in esame di questo nuovo conservatorismo era che la visione politica di una società totalmente diversa costituiva, in una certa misura, una proiezione della metafisica personale dell’identità, perciò andava ripudiata insieme a quest’ultima. Sul piano politico e ideologico, però, la situazione risulta di fatto rovesciata; ed è il potere della critica filosofica della metafisica esistenziale a essere posto al servizio del progetto di smantellamento delle prospettive politiche di trasformazione sociale (ossia, in altre parole, delle “utopie”). Non c’è tuttavia ragione di pensare che questi due livelli abbiano qualcosa in comune; l’antiutopismo soprattutto ne sostiene l’”identità” senza argomentarla, mentre l’ideale utopico di una società pienamente umana e immensamente più complessa di questa non ha bisogno di essere investito di nessuno degli aneliti e delle illusioni smascherati dalla critica esistenziale. Le ansie di fondo che comporta una società del genere sono materialistiche e biologiche: il disvelamento della storia umana come una successione vertiginosa di generazioni che muoiono, come scandalo mentale generalizzato della demografia, tutte cose che Adorno ascrive all’ambito del naturale invece che alla storia umana. Ma i testi fondativi di tale ambito non sono né Thomas More né il «Grande Inquisitore» di Dostoevskij, bensì probabilmente qualcosa di più prossimo a «Giuseppina la cantante» di Kafka, o forse i classici del buddhismo.
6. L’ideologia della differenza
Di conseguenza, l’ideologia dei gruppi e della differenza in effetti non è filosoficamente o politicamente contraria alla tirannia. Come suggerisce Linda Hutcheon, il suo vero obiettivo potrebbe tuttavia essere un altro, quella cosa un po’ diversa che si chiama consenso (che Tocqueville identificava comunque con la «tirannia»):
Quel che c’è di rilevante in tutte queste contestazioni interiorizzate dell’umanesimo è il fatto che mettono in questione l’idea di consenso. Tutte le narrazioni e i sistemi che un tempo ci consentivano di pensare di poter definire il consenso pubblico in maniera aproblematica e universale ormai sono state messe in discussione dal riconoscimento delle differenze, nella teoria e nella pratica artistica. Nella sua formulazione più estrema, il risultato è che il consenso diviene l’illusione del consenso, indipendentemente dal fatto che lo si definisca secondo i criteri della cultura minoritaria (colta, sensibile, elitaria) o di massa (commerciale, popolare, convenzionale), giacché entrambe sono manifestazioni della società tardo-capitalista, borghese, postindustriale e dell’informazione, società nella quale la realtà sociale si struttura per discorsi (al plurale), o almeno così si sforza di insegnarci il postmodernismo.162
Tuttavia, se le cose stanno così, ha avuto luogo un impercettibile spostamento degli obiettivi politici e sociali, e a un modo di produzione se ne è sostituito un altro. “Tirannia” era sinonimo di ancien régime; il suo equivalente moderno, il “totalitarismo”, vuol dire socialismo; ma il “consenso” designa ormai la democrazia rappresentativa, con le sue elezioni e i suoi sondaggi d’opinione. Oggi è proprio questa, già oggettivamente in crisi, a ritrovarsi contestata sul piano politico dai nuovi movimenti sociali, che non riconoscono più come particolarmente legittimo, e tanto meno soddisfacente, il richiamo alla volontà della maggioranza e il consenso. A interessarmi in questa sede è, da un lato, l’idoneità dell’ideologia generale o della retorica della differenza a esprimere queste concrete lotte sociali e, dall’altro, la rappresentazione implicita più profonda, il modello ideologico della totalità sociale che perpetua e su cui si fonda la logica dei gruppi. È un modello che implica peraltro, come ho indicato in uno dei capitoli precedenti, uno scambio metaforico di energie con gli altri due caratteristici sistemi postmoderni (o rappresentazioni!): i media e il mercato.
Lo stesso concetto di differenza costituisce infatti una pericolosa insidia: è per lo meno pseudodialettico, mentre la sua impercettibile alternanza con il suo contrario, l’Identità, talora indistinguibile, è uno dei giochi di linguaggio e di pensiero più vecchi che si registrano in (parecchie) tradizioni filosofiche. (La differenza tra il Medesimo e l’Altro è uguale alla differenza tra l’Altro e il Medesimo, oppure è diversa?). Buona parte di ciò che passa per una veemente difesa della differenza è in effetti semplice tolleranza liberale, posizione dai compiacimenti aggressivi piuttosto noti, ma che se non altro ha il merito di sollevare l’imbarazzante questione storica riguardo alla tolleranza della diversità come fatto sociale, cioè se non sia in primo luogo frutto dell’omogeneizzazione e della standardizzazione sociale e la cancellazione dell’autentica diversità sociale. La dialettica della neoetnicità sta dunque chiaramente qui, in quanto c’è una “differenza”, si potrebbe pensare, tra condannare qualcuno a identificarsi come membro di un gruppo e scegliere in maniera più facoltativa l’emblema dell’appartenenza a un gruppo perché la sua cultura ha ricevuto una valorizzazione pubblica. In altre parole, l’etnicità – la neoetnicità – nel postmoderno è una sorta di fenomeno yuppie e, pertanto, senza troppe mediazioni, una questione di moda e di mercato. D’altro canto, di fronte a tali circostanze il riconoscimento della Differenza può giungere anche come una specie di offesa, come il non ebreo che suo malgrado vede negli ebrei gli involontari istigatori di tutti i vecchi segnali dell’antisemitismo. Il miraggio offerto dai gruppi neoetnici – più intenso negli anni Sessanta che oggi – è ancora l’invidia culturale del collettivo realizzato: il “gruppettaro”, una specie di caricatura del traditore di classe, è un individuo che lega la propria sorte a un collettivo che sogna come maggiormente coeso e arcaico di quello degli altri. Il contenuto di classe del fenomeno persiste, in quanto è tipico della dinamica sociale del capitalismo (e forse di altri modi di produzione) che in un primo momento, prima di una reazione di panico in virtù della quale si compatta nuovamente, la classe dominante sia meno socialmente coesa e più dedita all’individualismo e all’anomia rispetto a quelle subalterne, mantenute unite dalla necessità economica. Se la premessa fondamentale di qualunque psicologia sociale marxiana sta nell’attrazione, nella forza di gravità quasi ontologica del collettivo realizzato in quanto tale163, si danno subito l’invidia e la nostalgia che le élite provano nei confronti degli individui più autentici delle classi inferiori (qualcosa del genere si può diffondere sul piano spaziale, attraverso l’imperialismo e il turismo, tra la metropoli e il Terzo Mondo). Ciò nonostante, sembra che oggi questo particolare richiamo dell’etnicità sia in declino, forse perché i gruppi sono ormai troppi e perché il loro legame con la rappresentazione (il più delle volte di tipo mediatico) è più chiaro e sovverte le soddisfazioni ontologiche della finzione in questione.
D’altro lato, se “differenza” è uno slogan politico discutibile, pieno di discrepanze interne – per esempio, prolunga opportunamente la difesa che si faceva negli anni Sessanta di quelle che talvolta vengono orrendamente chiamate “questioni di stile di vita”, finché all’ultimo momento non si volge in un antisocialismo da guerra fredda –, non meno inattendibile è la “differenziazione”, senza dubbio lo strumento sociologico fondamentale per comprendere il postmoderno (e, innanzi tutto, chiave d’accesso concettuale all’ideologia della “differenza”). Questo è dunque il profondo paradosso che implica il tentativo di intendere il “postmodernismo” sotto forma di astrazione periodizzante o totalizzante: esso risiede nell’apparente contraddizione tra il tentativo di unificare un campo e postulare le identità occulte che lo attraversano, e la logica degli impulsi di questo campo, che la teoria postmodernista definisce apertamente come una logica della differenza o della differenziazione. Se l’unicità storica del postmoderno viene così individuata nella pura e semplice eteronomia, nella comparsa di sottosistemi aleatori e irrelati di ogni genere, dunque – o per lo meno così fila il ragionamento – dev’esserci qualcosa di perverso nel tentativo di intenderlo prima di tutto come un sistema unitario. Lo sforzo di unificazione concettuale è a dir poco straordinariamente incoerente con lo spirito dello stesso postmodernismo; non andrebbe forse smascherato come il tentativo di “padroneggiare”, di “dominare” il postmoderno, di ridurre ed escludere il suo gioco delle differenze e persino di imporre ai suoi soggetti plurali un nuovo conformismo concettuale? Eppure, tralasciando il genere implicito nel verbo, tutti vogliamo “padroneggiare” la storia in ogni modo possibile: la fuga dall’incubo della storia – la conquista, da parte degli esseri umani, delle “leggi” per altri versi apparentemente cieche e naturali della fatalità socioeconomica – resta la volontà irrinunciabile dell’eredità marxista, indipendentemente dal linguaggio nel quale è espressa.
Tuttavia l’idea che in una teoria unificata della differenziazione vi sia qualcosa di fuorviante e di contraddittorio poggia sulla confusione tra livelli di astrazione: un sistema che per sua costituzione produce differenze resta un sistema, e tanto meno si deve supporre che l’idea di un tale sistema debba essere “come” l’oggetto che tenta di teorizzare, ovvero non si presume che il concetto di cane debba abbaiare o quello di zucchero essere dolce. Si pensa che, quando scopriamo di essere esattamente come chiunque altro, vada irreparabilmente perduto quanto c’è di prezioso e di esistenziale, di fragile e di unico nella nostra singolarità. In tal caso, che sia: bisogna conoscere anche il peggio. Ovviamente, questa obiezione è la forma primaria dell’esistenzialismo (e della fenomenologia), e invece per prima cosa occorre spiegare l’insorgere di queste angosce. Ho l’impressione che le obiezioni alla nozione globale di postmodernismo in questo senso ricapitolino, in altri termini, quelle classiche nei confronti del concetto di capitalismo, circostanza ben poco sorprendente dalla mia prospettiva, che sostiene costantemente l’identità tra il postmodernismo e il capitalismo nella sua ultima mutazione sistematica. Infatti tali obiezioni ruotano in sostanza attorno all’una o all’altra forma del seguente paradosso: benché i vari modi di produzione precapitalistici abbiano acquisito la loro capacità di riprodursi attraverso varie forme di solidarietà o di coesione collettiva, al contrario la logica del capitale è dispersiva e atomistica, “individualistica”, è un’antisocietà piuttosto che una società. La struttura del suo sistema, per non dire della riproduzione di sé stessa, resta un mistero e una contraddizione in termini. Tralasciando la risposta all’enigma (il mercato), si può dire che questo paradosso rappresenta l’originalità del capitalismo, e che le formule contraddittorie sul piano verbale che si incontrano necessariamente nel definirlo puntano oltre le parole, alla cosa stessa (e inoltre danno origine a quella particolare invenzione nuova che si chiama dialettica). Nelle pagine che seguono avrò occasione di tornare su problemi di questo tipo; per il momento basterà dire tutto questo con maggiore schiettezza, segnalando che lo stesso concetto di differenziazione (il cui sviluppo più elaborato si deve a Niklas Luhmann164) è a sua volta sistematico o, se si preferisce, che a un livello maggiormente astratto trasforma il gioco delle differenze in un nuovo tipo di identità.
Tutto ciò è ulteriormente complicato dall’impegno intellettuale e filosofico a distinguere tra differenza inerte o estrinseca e opposizione o tensione dialettica: una differenziazione che genera il primo tipo di differenza, meramente esteriore, dissemina i fenomeni in maniera aleatoria ed “eterogenea” (per adoperare un altro termine sovraccaricato e valorizzato nel postmodernismo). Ma questo tipo di distinzione (il nero non è bianco) è tutto tranne che la “stessa cosa” di un’opposizione che nel suo sussistere dipende dal proprio contrario (i neri non sono bianchi) e perciò deve essere analizzata secondo i criteri di una concettualità dialettica, nella quale regna ancora sovrana la nozione fondamentale di contraddizione, che non ha equivalenti nei sistemi analitici.
Sul piano filosofico, tali paradossi costituiscono in pratica il terreno centrale del postmarxismo, la scena della sua regressione strategica fino a Kant e al kantismo. Come attesta in maniera emblematica l’opera del più brillante di questi pensatori, Lucio Colletti, qui è in gioco il superamento di Hegel e Marx attraverso lo screditamento concettuale della contraddizione e dell’opposizione dialettica. Dall’impressione – pressoché universale nel “marxismo occidentale” – che non è probabile che la dialettica si verifichi “in natura” e che l’illecita trasformazione delle differenze inerti, esteriori, naturali e fisiche operata da Engels (l’acqua non è un cubetto di ghiaccio) in opposizioni dialettiche (fondamento di buona parte del “materialismo dialettico”) fosse filosoficamente grossolana e ideologicamente sospetta, alla convinzione che le “opposizioni dialettiche” non si rinvengono nemmeno “nella società” e che la stessa dialettica sia una mistificazione, il “passo” è tutt’altro che breve. Esso infatti comporta l’apostasia politica e una conversione segnata dalla vergogna e dal tradimento, tuttavia è certamente il passo filosofico fondamentale di quello che si chiama postmarxismo.
Come sempre, però, abbiamo tutto l’interesse a separare i livelli e a distinguere l’uno dall’altro gli argomenti affini che nel postmoderno paiono spesso intrecciarsi genericamente tra loro. Tanto per cominciare, un aspetto assai cruciale della questione della differenza è messo in luce dalla sua versione moderna, che, come si vedrà più avanti, ha posto l’accento sulla frattura radicale tra Occidente e resto del mondo, tra modernità e tradizione (secondo questo aspetto, si può dire che il marxismo è una delle espressioni del modernismo, forse l’unica).
Dalla versione sociale della differenza di gruppo (così come dai dibattiti filosofici sulla differenza tra contraddizione e opposizione) occorre però districare le forme estetiche e psichiche (o psicoanalitiche) dominanti che riveste tale questione, se non altro perché spesso si possono identificare gli errori di categoria politica come illeciti trasferimenti dall’estetico medesimo. L’estetica della differenza – quella che viene sovente definita testualità o testualizzazione – porta in primo piano una modificazione percettiva nella comprensione dei prodotti artistici postmoderni, che nel capitolo di apertura ho definito con l’espressione «la differenza mette in relazione»; più avanti proporrò un’ulteriore analisi spaziale di questa nuova specie di percezione. Quanto al soggetto psichico e alle teorie che lo riguardano, questo è l’ambito colonizzato dalla nozione dello schizofrenico ideale di Deleuze e Guattari, quel soggetto psichico che “percepisce” soltanto per mezzo della differenza e della differenziazione, ammesso che sia concepibile. Chiaramente concepirlo equivale a costruire un ideale che è, per così dire, il compito etico – se non proprio politico – del loro Anti-edipo. Penso che, accanto al vecchio soggetto chiuso, dotato di centralità, dell’individualismo dell’interiorità e al nuovo non-soggetto dell’io frammentato o schizofrenico, non si sottolineerà mai abbastanza la possibilità logica di un terzo termine, che sarebbe precisamente il soggetto privo di centro appartenente a un gruppo o a un collettivo organico. In effetti, la forma definitiva della teoria sartriana della totalizzazione si manifesta nel tentativo di teorizzare un gruppo del genere e le posizioni del soggetto al suo interno. Allo stesso tempo, malgrado la teoria e la retorica delle molteplici posizioni del soggetto siano allettanti, bisognerebbe completare insistendo sul fatto che le posizioni del soggetto non vengono alla luce nel vuoto, ma sono esse stesse i ruoli interpellati offerti da questo o quel gruppo già esistente. Pertanto, quale che sia la tregua o l’alleanza che si intende stabilire tra le varie posizioni del soggetto di ciascuno (escludendo deliberatamente la vituperata possibilità di tentare di unificarle), in ultima istanza a essere in gioco sarà una tregua, o un’alleanza, più concreta tra i vari gruppi sociali reali così implicati.
Riguardo all’influente, anche se ormai un po’ superato, modello dell’«interpellazione» di Althusser, va detto che esso era già per prima cosa una teoria rivolta ai gruppi, dal momento che la classe come tale non può mai essere un modo di interpellazione, ma soltanto la razza, il genere, la cultura etnica e così via. (Non è un caso che gli esempi addotti da Althusser siano di carattere religioso. Anzi, si può sempre mostrare come la base profonda della retorica della differenza implichi i fantasmi della cultura nel senso antropologico, essi stessi autorizzati e legittimati dalle idee della religione, che in ogni tempo e luogo costituisce l’estremo “pensiero dell’altro”). È soltanto nel cinema (in I vitelloni di Fellini, per la precisione) che dei giovani facoltosi nullafacenti gridano dal finestrino della propria auto in corsa «Lavoratori !» seguito da una pernacchia rivolta a una squadra di operai della strada. Ma è nella realtà che l’affiliazione a un gruppo si trasforma un marchio quotidiano della vergogna dell’inferiorità. O forse lo si dovrebbe dire in maniera più complessa, cioè che la coscienza di classe in quanto tale – acquisita raramente e conquistata a fatica in tutta la storia sociale – segna il momento in cui il gruppo in questione controlla il processo di interpellanza in modo nuovo (diverso da quello reattivo consueto), tanto da diventare capace, sia pure momentaneamente, di interpellarsi e di dettare le condizioni della propria immagine speculare.
Nelle pagine che seguono, comunque, non seguirò questi registri dell’argomento. Mi concentrerò invece sul problema complementare (che già anticipa quello della cartografia cognitiva) della potenziale rappresentabilità della nuova categoria di gruppo, in confronto a quella più vecchia di classe sociale. Infatti, l’affermazione secondo la quale ormai ci rappresentiamo il nostro universo sociale attraverso la categoria dei gruppi getta una luce un po’ diversa su questi vari sviluppi. La rappresentazione del gruppo è soprattutto antropomorfa e, a differenza di quella in termini di classe sociale, ci dà a intendere che l’universo sociale è diviso e colonizzato fino all’ultimo segmento dai suoi attori collettivi, dai suoi rappresentanti allegorici, facendo presagire un mondo reale «pieno come un uovo», come diceva Sartre, e umano come l’utopia (o come quella “poesia pura” sul cui fondo non si agitano né stridono residui di materia, di contingenza: i drammi di Racine, i romanzi di Henry James). Le categorie di classe sono più materiali, più impure e scandalosamente promiscue, perché i loro fattori determinanti implicano la produzione di oggetti e i rapporti da essa causati, insieme alle forze dei rispettivi congegni; attraverso le categorie di classe si può quindi vedere il fondo petroso della corrente. Le classi sono al contempo troppo ampie per passare per utopie, quali opzioni da scegliere e con cui identificarsi in maniera fantasmatica. A parte il fascismo sporadico e isolato, l’unica gratificazione utopica offerta dalla categoria di classe sociale è l’abolizione di quest’ultima. Ma i gruppi sono abbastanza piccoli (al limite, la famosa piazza dell’”a tu per tu”, la città-Stato) per mettere in conto un investimento libidico di tipo più narrativo. Per contro, l’esteriorità che la categoria di “gruppo” reca in sé come uno scheletro non è produzione, bensì già istituzione, una categoria come si vedrà ancor più sospetta e ugualmente antropomorfa. Di qui la superiore forza di mobilitazione dei gruppi rispetto alle classi: si può giungere ad amare la propria corporazione o la propria categoria fino a morire per essa, mentre la catessi determinata dalla rotazione triennale delle colture o dal tornio universale appartiene probabilmente a un tipo un po’ diverso e meno immediatamente politicizzabile. Le classi sono poche; si creano mediante lente trasformazioni del modo di produzione; anche quando sono emergenti, appaiono perennemente lontane da sé stesse e devono faticare per essere certe di esistere come tali. I gruppi, d’altro canto, sembrano offrire l’appagamento dell’identità psichica (dal nazionalismo alla neoetnicità). Siccome sono diventati immagini, consentono l’amnesia del proprio passato sanguinoso, fatto di persecuzione e di intoccabilità, e si possono ormai consumare. Ciò definisce il loro rapporto con i media, i quali si configurano, per così dire, come il loro parlamento, come lo spazio del loro “rappresentare”, nel duplice senso politico e semiotico.
L’orrore politico del consenso – confuso con il terrore della “totalizzazione” – è dunque semplicemente la giustificata riluttanza dei gruppi che hanno conquistato un certo orgoglio della propria identità a subire i dettami di quelli che non sono nulla più di altri gruppi, giacché ormai tutto, nella nostra realtà sociale, è il marchio di appartenenza a un gruppo e connota un preciso insieme di persone. Il “canone” della letteratura alta, trasformato nell’arredamento di classe dei vecchi maschi bianchi dotati di un caratteristico retroterra culturale di classe, è soltanto un esempio; un altro è il sistema dei partiti politici negli Stati Uniti, così come lo è buona parte delle altre consuetudini istituzionali della superpotenza, con la notevole eccezione dei media e del mercato, i quali, unici tra quelle che dovrebbero essere istituzioni, sono per certi versi universali e pertanto singolarmente privilegiati, secondo modalità che analizzerò tra breve. È nondimeno importante cogliere sia i collegamenti che le differenze tra questa personificazione delle istituzioni da parte dell’ideologia di gruppo e la vecchia critica dialettica della funzione ideologico-sociale delle istituzioni. È abbastanza verosimile che la prima sia derivata dalla seconda, tramite la scatola nera degli anni Sessanta; ma secondo l’altra prospettiva (marxiana) la funzione di classe di una determinata istituzione è mediata dal sistema nel suo complesso e quindi si personalizza soltanto nella maniera più grossolanamente caricaturale (nessuno, come non si è mai stancato di ripetere Marx, pensa che a livello individuale gli uomini d’affari siano tutti malvagi). Pertanto nel nostro sistema sociale il giornale esercita un ruolo ideologico, ma non perché sia il giocattolo di uno specifico gruppo sociale; per esempio, da una prospettiva di classe i cronisti, i paparazzi, i conduttori e le conduttrici della televisione, nonché i signori della carta stampata rappresentano esclusivamente i frammenti di una classe determinati dalla struttura istituzionale. Ma, nella coscienza di gruppo postmoderna, i giornali e i notiziari in genere appartengono effettivamente a quella che ormai è una nuova (e potente) unità sociale a sé stante, a un attore collettivo che agisce sulla scena storica, temuto dai politici e tollerato dal “pubblico”. Questo attore assume determinati volti celebri e, nella sua struttura antropomorfa, è quasi un essere umano (sia pure senza molta profondità, proprio come un personaggio narrativo). Gli anni Sessanta avevano già iniziato a pensare in questa maniera, quando proiettavano la propria lotta contro la guerra del Vietnam sulle figure autoritarie di Johnson e dei suoi generali, che si riteneva portassero avanti quella guerra (è vero che non era facile dedurne delle motivazioni razionali) per pura e semplice malvagità patriarcale. Ma una volta fissato l’insieme dei personaggi, ognuno di essi acquisisce una semiautonomia rappresentativa. Non è agevole, per esempio, far quadrare la categoria dei “giornalisti dei media” con quella vecchia e più funzionale classe degli ideologi della grande impresa (o, se si preferisce un’espressione più colorita, i “lacchè del capitalismo”), malgrado le grandi campagne dei media – il panico per le violenze sui bambini negli asili, le asserzioni che il marxismo e il socialismo sono morti dovunque, la “guerra della droga” o i presunti effetti dannosi dei deficit di bilancio – si propaghino prevedibilmente per tutti i canali di diffusione con la regolarità degli eventi meteorologici o delle direttive del partito nei paesi “socialisti”.
I paradossi della rappresentazione che comporta qualunque narrazione la cui categoria fondamentale sia il “gruppo” postmoderno si possono pertanto enunciare nella maniera seguente: siccome l’ideologia dei gruppi viene alla luce in contemporanea con la celebre “morte del soggetto” (di cui costituisce semplicemente una versione alternativa) – cioè la sovversione psicoanalitica delle esperienze dell’identità personale; l’attacco estetico contro l’originalità, il genio e lo stile personale del modernismo; il declino del “carisma” nell’epoca dei media e dei “grandi uomini” in quella del femminismo; l’estetica frammentaria, schizofrenica cui ho accennato in precedenza, che in realtà ha inizio con l’esistenzialismo –, la conseguenza sarà che questi nuovi personaggi collettivi, queste nuove rappresentazioni che sono i gruppi non possono più, per definizione, essere soggetti. Questa è evidentemente una delle circostanze che rendono problematiche le visioni della storia, le «grandi narrazioni» della rivoluzione borghese o socialista (come ha spiegato Lyotard), giacché è arduo immaginare queste grandi narrazioni senza un “soggetto della storia”.
Con un considerevole balzo filosofico, quello che è stato quasi il primo saggio pubblicato da Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, ha scoperto questo nuovo soggetto della storia, il proletariato. Il primo modello di Marx è stato in seguito applicato ad altri soggetti marginali – i neri, le donne, il Terzo Mondo, persino, in maniera un po’ scorretta, gli studenti – nella riscrittura della dottrina delle “catene radicali” verificatasi negli anni Sessanta. Oggi, però, con il pluralismo dei gruppi collettivi, e per quanto “radicali” possano essere l’immiserimento e l’emarginazione del gruppo in questione, tale modello non può più assolvere quel ruolo strutturale, per la semplice ragione che la struttura si è modificata e il ruolo è stato abolito. Dal punto di vista storico la cosa non sorprende affatto, poiché il carattere transitorio della nuova economia globale non ha ancora consentito alle sue classi di formarsi in maniera stabile e tanto meno di acquisire un’autentica coscienza di classe, tanto che le accese lotte sociali del periodo attuale sono in larga misura disseminate e anarchiche.
Più sorprendente, e forse più immediatamente grave sul piano politico, è che i nuovi modelli rappresentativi precludono ogni adeguata rappresentazione di quella che un tempo si rappresentava – sia pure in maniera imperfetta – come “classe dirigente”. Come abbiamo già visto, in effetti mancano parecchi aspetti necessari a tale rappresentazione: la dissoluzione di qualunque concezione della produzione o di infrastruttura economica e la sua sostituzione con l’idea già antropomorfa di una istituzione implicano che non è possibile concepire una nozione funzionale di gruppo dirigente, per non dire di una classe. Non ci sono leve da controllare e nella produzione non c’è molto da dirigere. Solamente i media e il mercato risultano visibili quali entità autonome, e tutto ciò che non rientra nel loro ambito, e nell’apparato della rappresentazione in generale, sarà incluso nel termine informe di potere, la cui ubiquità – malgrado la sua singolare incapacità di descrivere una realtà globale sempre più “liberista” – dovrebbe ispirare profondi sospetti ideologici.
Tale mancanza di funzionalità nella nostra immagine dei gruppi sociali, unita alla perdita della loro capacità di costituire un soggetto o un agente, significa che si tende a separare il riconoscimento dell’esistenza individuale di un gruppo (il pluralismo come valore) da qualsiasi attribuzione di un progetto che si fa registrare non come gruppo, bensì come complotto, e pertanto ricade in uno spazio diverso dell’apparato della rappresentazione. Per esempio, gli imprenditori di Reagan, a proposito dei quali ormai quasi chiunque è disposto ad ammettere un legame pressoché immediato tra profitto privato e il più variegato programma legislativo, da tale prospettiva vengono percepiti come un elenco di nomi sul giornale, come una rete locale di compari che si può estendere in una confraternita regionale (la California meridionale, la Sunbelt). Il dato maggiormente paradossale è che la cosa non getta alcun discredito sull’impresa o sugli imprenditori in genere. La tassonomia dei gruppi risulta dunque considerevolmente elastica in termini ideologici e può discriminare al punto da preservare l’innocenza del collettivo originario, sempre ammesso che le si impedisca di infrangere quella barriera fondamentale, quel tabù concettuale che divide un gruppo da una classe sociale.
Il fatto che le “nuove narrazioni” difettino della capacità allegorica di cartografare o di modellare il sistema si può osservare anche se ci si volge al ruolo direttivo della classe imprenditoriale e ai suoi rapporti di dominio con le trasformazioni della vita quotidiana. Ritengo che, posto che ormai intendiamo la realtà sociale in maniera sincronica – nel senso più forte, che di recente si è rivelato come quello di un sistema spaziale –, i mutamenti e le modificazioni della vita quotidiana d’ora in avanti si dovranno dedurre a posteriori, invece di essere esperiti. Una volta Bertrand Russell ha evocato una temporalità molto postmoderna, immaginando una situazione nella quale il mondo, di fatto creato soltanto un secondo prima, veniva previamente “anticato” con cura e gli venivano deliberatamente impresse le tracce artificiali di un notevole logorio, dell’età e dell’uso. In tal modo, esso pareva recare in sé, intrinsecamente, un passato e una tradizione (esattamente come i soggetti umani – alla maniera degli androidi di Blade Runner – erano forniti di riserve apparentemente personali di immagini della memoria individuale, come gli album fotografici di una famiglia e di un’infanzia false). La dismissione dei prodotti tradizionali sul mercato dev’essere ormai ricostruita come una parola sulla punta della lingua: nella maggior parte dei casi, la mera assenza di qualcosa è difficile da riformulare sotto forma di atto o di decisione da spiegare, cose che fanno presumere la presenza di un agente. È quindi difficile stabilire un nesso narrativo tra le discussioni all’interno di una direzione aziendale e i mutamenti della vita quotidiana, che a loro volta sono percepibili soltanto ex post facto, e non mentre si verificano. Anche il futuro risulta parimenti assente dal mondo sincrono, nuovo fiammante, del postmoderno, il cui intero sistema è tuttavia soggetto – come quando da una zona si toglie l’unica fabbrica importante – a essere rimescolato senza preavviso, come un mazzo divinatorio composto di carte reali. L’impatto della disoccupazione postmoderna sulla coscienza del tempo postmoderna è destinato a essere notevole, ma forse inaspettatamente indiretto: indicizzazione contro catastrofe, la modificazione immediata di tutte le valenze al prossimo rinnovo, come avviene nell’adeguamento automatico dei tassi d’interesse ipotecario. Le compagnie di assicurazione – per molti versi residui arcaici di un vecchio universo temporale (realista o modernista), nel quale il “destino vitale” era ancora una categoria narrativa dotata di senso e la camera mortuaria un luogo particolarmente centrale nel quartiere a base etnica – appaiono obnubilate da una falsa apoteosi nella quale l’occhio nudo le vede sul punto di metamorfosarsi in socialismo (la fotografia a infrarossi rivela però una realtà imprenditoriale più grigia). Invece delle celebri bustarelle di Lenin, un timore di nuovo tipo attanaglia oggi questo sistema, dal momento che nella sua riproduzione tranquilla e indisturbata abbiamo un interesse personale; e questo sta succedendo con una velocità tale che non rende più visibile la circostanza. Tanto meno è visibile il nostro timore, ormai sistemico, essendo stato represso a livello esperienziale; la necessità di evitare valutazioni del sistema nel suo insieme è oggi parte integrante della sua organizzazione interna, nonché delle sue diverse ideologie.
Di fatto, questa è un’altra delle ragioni per cui nel postmoderno la rappresentazione del “processo decisonale” – che si tratti dell’antiquata immagine realistica della stanza dei bottoni o di un approccio più modernista e indiretto che si ponga prima di tutto il problema di come rappresentarlo – si interrompe senza cerimonie, il che presuppone che il suo biglietto d’ingresso sia una sorta di conoscenza blasé e anticipata delle modalità di funzionamento del sistema. Sotto questo profilo l’intuizione di Adorno e Horkheimer su Hollywood è stata profetica rispetto al sistema successivo nel suo complesso: «La verità che [film e radio] non sono altro che affari serve loro da ideologia, che dovrebbe legittimare le porcherie che producono deliberatamente»165. Essi avevano in mente l’ormai classica difesa che Hollywood fa della mediocrità, non solo nei termini del gusto del pubblico in genere, ma anche della sua funzione di impresa che vende prodotti a un pubblico con quei gusti. Come in tutte le argomentazioni relative al “pubblico”, il risultato è dunque una serialità in virtù della quale il pubblico diventa un “altro” fantasmatico rispetto a ciascuno dei suoi membri, che – quali che siano le sue reazioni a questo particolare prodotto mediocre – ha anche appreso e interiorizzato il principio del movente del profitto che lo scusa in virtù delle motivazioni di “tutti gli altri”. È come se i mancini fossero obbligati a utilizzare utensili fatti per i destrimani: la conoscenza è incorporata nel consumo, il quale la svende anticipatamente. In quanto europei, Adorno e Horkheimer erano evidentemente scandalizzati dalla schiettezza e dalla volgarità con cui i grandi magnati del cinema alludevano alla dimensione affaristica delle loro operazioni e si vantavano senza pudore del movente del profitto connesso a ogni produzione, modeste o pretenziose che fossero le sue “ambizioni artistiche”.
Abbastanza chiaramente oggi, in pieno postmodernismo, la nostra cultura di massa appare molto più sofisticata della radio e del cinema degli anni Trenta e Quaranta; il pubblico televisivo è presumibilmente più colto e ha inoltre molta più esperienza delle immagini rispetto a quanta ne avevano i suoi genitori all’epoca di Eisenhower. Tuttavia vorrei dire che, se non altro, l’intuizione di Adorno e Horkheimer riguardo all’ideologia della cosa è addirittura profondamente più vera oggi di allora. Per questo stesso motivo – la sua universalizzazione e interiorizzazione – essa risulta meno visibile e si è trasformata in una vera e propria seconda natura. Cercare di rappresentare e visualizzare la stanza della direzione aziendale e la classe dirigente è fuori moda, perché implica un’attenzione antiquata al contenuto, in una situazione nella quale conta solamente la forma come tale – il più formalista tra tutti i tipi di legge, di regolarità, cioè il movente del profitto (che chiaramente pesa persino più di parole d’ordine ideologiche più vivide, come “efficienza”) –, condizione nella quale la dedizione alla forma, tacito presupposto del movente del profitto, è assunta a priori e non è soggetta a un riesame o a una tematizzazione in quanto tale. Questo rasoio di Occam taglia via manifestamente moltissimi argomenti di conversazione, che d’ora innanzi saranno metafisici, cui indulgevano un tempo le generazioni antecedenti di un sistema capitalista che non funzionava in maniera tanto pura; e in effetti tali argomenti si possono considerare come una certa fine dell’idealismo costitutiva del postmoderno.
Il formalismo del movente del profitto si trasmette poi – sia pure non più nella forma ingombrante di quelle dottrine religiose di cui soppianta il ruolo – a una sorta di pubblico esterno di nuovi ricchi, il quale, dall’epoca degli “uomini dell’organizzazione” degli anni Cinquanta fino agli “yuppie” degli Ottanta, si è fatto sempre meno sfacciato nella propria ricerca del successo, ormai riconcettualizzato come “stile di vita” di un “gruppo” specifico. Però tendo a credere che non sia più esattamente il profitto in quanto tale a conformare l’immagine ideale del processo (il denaro è solamente il segno esteriore dell’elezione interiore, ma la fortuna e la “grande ricchezza” sono più difficili da rappresentare, per non dire da concettualizzare a livello libidico, in un’epoca nella quale ci si imbatte con maggiore frequenza in cifre come miliardi e trilioni). Al contrario, a essere in gioco sono l’esperienza e la conoscenza del sistema stesso; ed è indubbiamente questo il “momento della verità” delle teorie postindustriali che sostengono il nuovo primato del sapere scientifico sul profitto e la produzione, solo che la conoscenza non è particolarmente scientifica e comporta “semplicemente” l’iniziazione ai criteri di funzionamento del sistema. Ma ormai coloro che sanno sono troppo fieri della propria lezione e delle proprie competenze per tollerare qualunque domanda sul perché le cose stanno così, o addirittura sul perché valga la pena sapere. Questo è il capitale culturale esclusivo dei nuovi ricchi, che comprende l’etichetta e le buone maniere del sistema; insieme agli aneddoti ammonitori, l’entusiasmo – portato al parossismo nei sottoprodotti culturali come la già menzionata narrativa cyberpunk di argomento aziendale – ha più a che fare con il possesso della conoscenza del sistema che con il sistema stesso. La scalata sociale del nuovo sapere ristretto degli yuppie si allarga ormai lentamente verso il basso, attraverso i media, fino ai confini estremi delle classi inferiori. La legittimità, ossia la legittimazione di questo particolare sistema sociale, è garantita a priori da una fede nei segreti dello stile di vita aziendale, fede che comprende il movente del profitto quale tacito “presupposto assoluto”, ma che non si può apprendere e mettere in discussione tutto in una volta, così come non ci si può disegnare mentalmente una barca a vela sulla quale si naviga per la prima volta. La teoria leninista della corruzione dei settori avanzati della classe operaia va dunque sostituita con una teoria della corruzione dello status, della distribuzione degli emblemi culturali postmoderni, che ritengo sia più o meno quello che ci offre attualmente Bourdieu, salvo che, come si è già visto, tali concetti di “status”, sviluppati per il gruppo postmoderno, esigono una netta distinzione rispetto alle teorie sociologiche tradizionali, per le quali la nozione di status rappresentava un’alternativa a quella di classe (e nelle quali, pertanto, a una certa struttura dell’ancien régime feudale si contrapponeva la consapevolezza dell’originalità della società borghese).
Se tuttavia gli yuppie possono trovare una certa soddisfazione nelle pure e semplici competenze, potrebbe non essere altrettanto facile accontentare gli addetti alla manutenzione del postmoderno. Per loro vale dunque un certo ricatto sincronico, storicamente e socialmente unico soltanto per il fatto di essere vincolato alla percezione del tempo e contemporaneamente represso (come se fosse la cosa più naturale del mondo). È anche democratico, e l’intero livello superiore dell’amministrazione potrebbe scomparire senza lasciare traccia il giorno prima che l’impianto chiuda. È come essere dentro un videogioco, le cui costellazioni siano soggette al cambiamento senza preavviso e includano noi stessi tra i loro gettoni opzionali: per mantenere una posizione o tenersi un lavoro, oggi potrebbe non essere sufficiente nemmeno la buona condotta.
D’altro canto, gli estranei possono ormai contare di nuovo su un terzo tipo di motivazione, di carattere più religioso; ciò che qui si pratica con tutta la smania disinteressata della tossicodipendenza appare sugli schermi televisivi non americani come un’immagine benefica dell’utopia del mercato. Quello che noi diamo per scontato loro lo prendono per l’ultimo modello di quest’anno, confondendo così il consumismo con il consumo, il discount con la democrazia. Cacciati dal Terzo Mondo dalle nostre stesse controinsurrezioni e distolti dal Secondo grazie alla nostra propaganda mediatica, poiché non comprendono quanto poco siano desiderati qui, gli immigranti potenziali (spirituali o materiali) inseguono una visione delirante di transustanziazione, in virtù della quale è il mondo delle merci a essere ambito, come un paesaggio, e non una di esse in particolare. Prodotti particolarmente ossessivi come il word processor o il fax sono emblemi allegorici delle ammalianti strutture postmoderne propriamente estetiche, che ricreano incessantemente a livello percettivo l’identità dei media e del mercato, come in una sorta di messa in scena della prova ontologica piena di sofisticati effetti speciali.
Il nesso cruciale che occorre investigare è dunque il modo in cui la stessa rappresentazione dei media riesce a rappresentare il mercato, e viceversa, mentre la “democrazia” (che di solito nel nostro sistema non si rappresenta, e tanto meno è rappresentabile) emana da essi come si trattasse di una connotazione, di uno dei trentasette gusti più riconoscibili.
Si è già visto, di fatto, come sia agevole slittare dal mercato ai media, il cui intervento nella politica reale va peraltro registrato prima che se ne possa osservare la riappropriazione da parte dell’ideologia dei media166. È indubbio che i media (eccetto quando vengono esclusi con cura, come in occasione della nostra invasione di Grenada, benché anche allora siano stati nella condizione di destare rumore se solo lo avessero voluto) abbiano nel mondo un benevolo influsso frenante rispetto alla tortura, al mantenimento dell’ordine pubblico e alla repressione poliziesca, nonostante la preoccupazione ormai globale per la reputazione del paese o del governo sia in genere mediata dall’inquietudine per i finanziamenti americani, tranne quando si rivela più proficuo essere conquistati direttamente dagli Stati Uniti. Allorché si occupa del socialismo, si può contare con assoluta certezza sul fatto che il giornalismo televisivo americano – il cui modo concreto di prepararsi all’ultima guerra consiste nel (lodevole) proposito di non umiliarsi di nuovo in futuro ripetendo l’esperienza del Vietnam – riproduca gli atteggiamenti più tendenziosi della guerra fredda. Lo testimonia la recente cronaca televisiva, veramente scandalosa, della visita di Gorbaciov a Cuba nel 1989, nella quale Fidel è stato paragonato a Ferdinando Marcos! Per quanto concerne una specifica politica mediatica nuova o postmoderna, essa è chiaramente venuta alla luce da tempo (talvolta sotto forma del cosiddetto terrorismo) come una delle poche armi di cui dispongono le minoranze o i sottogruppi impotenti, che sono stati eliminati o censurati con le ultimissime apparecchiature. Se non altro, il mondo appare relativamente meno violento – ammesso che una cosa del genere si possa misurare – a confronto con l’epoca di Hitler, per non parlare dell’ottocentesco Stato nazionale borghese o dell’assolutismo feudale dell’ancien régime (con le sue esecuzioni pubbliche tanto care a Foucault!). Ciò nonostante, e a parte la genesi degli strumenti di tortura ipertecnologici, la politica mediatica non soppianta la politica in quanto tale, e così l’immagine di contrabbando o i fatti trapelati ricadono rapidamente sul terreno sterile del materiale esaurito o delle battute troppo risapute, a meno che la pratica della politica con altri mezzi non possa mobilitare anche quelli consueti, i gruppi d’appoggio, la pressione popolare, le alleanze e una certa salutare identificazione, da parte dei gruppi oppressi, del proprio tornaconto con questa particolare “immagine dell’altro”.
D’altro canto, la fine dell’“intimità” in tutti i suoi aspetti di sesso-e-violenza, lo straordinario allargamento di quella che possiamo ancora chiamare sfera pubblica, se con essa intendiamo davvero tutte le accezioni di “pubblico”, sfocia inoltre in un’enorme estensione dell’idea di razionalità, che include sia ciò che siamo disposti a “comprendere” (ma non ad approvare), sia ciò che non possiamo più eliminare dal registro visibile come “irrazionale”, incomprensibile, immotivato, insano o malato.
Infine, è necessario aggiungere anche che i media non sono riusciti a nascere; in ultima analisi non si sono identificati con il proprio «concetto», come amava dire Hegel. Pertanto si possono annoverare tra gli innumerevoli “progetti incompiuti” del moderno e del postmoderno, per adoperare l’elegante espressione di Habermas. Ciò di cui disponiamo oggi, che chiamiamo “media”, non è questo, o non lo è ancora, come dimostra uno degli episodi più rivelatori. Nella moderna storia nordamericana, l’assassinio di John F. Kennedy ha certamente rappresentato un evento unico, se non altro perché è stato un’esperienza collettiva unica (mediatica, comunicazionale), che ha preparato la gente a interpretare in modo nuovo avvenimenti del genere.
Sarebbe comunque troppo semplice spiegare questa straordinaria risonanza sulla base del ruolo pubblico di Kennedy. C’è invece motivo di pensare che il suo significato pubblico postumo si possa intendere meglio in maniera opposta, cioè come la proiezione di una nuova esperienza collettiva di ricezione. Si è spesso rilevato, anzi, che al momento della sua morte la popolarità e il prestigio personali di Kennedy erano particolarmente in calo; quel che si osserva con minore frequenza è che questo avvenimento è stato una specie di raggiungimento della maggiore età da parte di tutta quella cultura mediatica che ha preso il via alla fine degli anni Quaranta e nei Cinquanta. Improvvisamente, e per un breve istante (che durò comunque parecchi lunghi giorni), la televisione mostrò quel che poteva davvero fare e quel che significava davvero: una nuova e straordinaria esibizione di sincronicità, una situazione comunicativa che equivaleva a un balzo dialettico al di là di tutto quello che si era potuto immaginare fino ad allora. Gli eventi posteriori di questo tipo sono stati nuovamente arginati dalla semplice tecnica meccanica (come nel caso dei replay immediati dell’attentato a Reagan o del disastro del Challenger, i quali, presi a prestito dagli sport professionistici, hanno abilmente svuotato tali avvenimenti del loro contenuto). Tuttavia questo evento inaugurale – che forse non avrebbe avuto la carica emotiva della morte di Robert Kennedy, di Martin Luther King o di Malcolm X – ci ha dato quello che definirei uno scorcio utopico di un “festival” collettivo della comunicazione, basato su una logica e su una promessa fondamentali incompatibili con il nostro modo di produzione. Si può dire che gli anni Sessanta, considerati spesso come il momento di uno spostamento del paradigma verso il dato linguistico e comunicazionale, incomincino con questa morte, non a causa della perdita o della dinamica del lutto collettivo, ma perché essa è stata il motivo (come in seguito il maggio del 1968) dello shock di un’esplosione comunicativa, che potrebbe non avere ulteriori effetti all’interno di questo sistema, ma lascia nella mente il segno di un’esperienza, intravista per un attimo, della differenza radicale. A tale differenza l’amnesia collettiva ritorna inutilmente nel suo oblio successivo, immaginandosi di rimuginare sul trauma, quando in realtà cerca di produrre una nuova idea di utopia.
Non c’è dunque da meravigliarsi che il piccolo schermo aneli a un’altra opportunità di rinascita attraverso la violenza imprevista; e tanto meno sorprende che la sua vita postuma abbreviata sia aperta a nuove combinazioni semiotiche, a simbiosi protesiche d’ogni genere, tra le quali il matrimonio con il mercato è stato la più elegante e socialmente riuscita.
7. Demografie del postmoderno
Il populismo mediatico fa tuttavia intuire una determinante sociale più profonda, al contempo più astratta e concreta, un aspetto il cui sostanziale materialismo può essere misurato con la sua capacità di scandalizzare la mente, che lo evita o lo occulta come si fa con l’impianto idraulico. Parlare del ruolo dei media a livello globale nei termini di quella che è in pratica una figura letterale dell’illuminismo, cioè della riduzione della violenza pubblica dello Stato grazie allo sguardo dell’informazione su scala mondiale, significa forse intendere le cose alla rovescia. Il senso del cambiamento epocale si può infatti esprimere adeguatamente nei termini di una nuova autocoscienza dei popoli del mondo, seguita alla grande ondata della decolonizzazione e dei movimenti di liberazione nazionale verificatasi negli anni Sessanta e Settanta. L’Occidente ha così l’impressione di trovarsi inaspettatamente e senza preavviso ormai di fronte a una serie di soggetti individuali e collettivi autentici che prima non c’erano, non erano visibili, oppure – per adoperare il grande concetto di Kant – erano ancora minorenni e sotto tutela. Chiaramente, qualunque cosa accondiscenda a tale prospettiva fortemente etnocentrica della realtà globale (che si riflette in tutto, dagli album dei collezionisti di francobolli fino ai programmi dei corsi di letteratura mondiale in inglese) ricade ignominiosamente sull’osservatore, ma altrettanto chiaramente non riduce l’interesse di tale “impressione”. Ecco, per esempio, uno straordinario riassunto della questione da parte di uno scrittore radicale, che, come sarà evidente tra breve, vale la pena citare in questo contesto anche per altri motivi: «Or non è molto, la terra contava due miliardi di abitanti, ossia cinquecento milioni d’uomini e un miliardo e cinquecento milioni d’indigeni. I primi disponevano del Verbo, gli altri se ne servivano»167. L’immagine di Sartre si beffa del razzismo europeo e allo stesso tempo fonda la propria oggettività come illusione ideologica nella storia (è soltanto dalla decolonizzazione e dalle sue conseguenze che i “nativi” si sono rivelati “esseri umani”), in una certa filosofia del soggetto e del riconoscimento dell’Altro come soggetto che Sarte condivide con Fanon; il che non evidenzia il dato inerte della mia esistenza in quanto soggetto, bensì il gesto attivo, energico e violento per mezzo del quale io impongo il riconoscimento della mia stessa esistenza e della mia condizione di soggetto umano. La vecchia favola hegeliana del padrone e dello schiavo – oggi nota quanto quelle esopiche – traspare da questa filosofia come un archetipo, dimostrando ancora una volta di essere attendibile non per quello che spiega della rivoluzione o della liberazione, ma delle loro conseguenze: la comparsa di soggetti nuovi, cioè di persone nuove, di altre persone che in qualche modo prima non c’erano, malgrado i loro corpi e la loro vita riempissero le città. Persone che di certo non si sono materializzate improvvisamente ieri. Questi sviluppi dei media paiono ormai mobilitare quella che Habermas chiama «sfera pubblica», come se quelle persone prima non vi appartenessero, non fossero visibili, né, in un certo senso, pubbliche, ma siano divenute tali in virtù della loro nuova esistenza di soggetti riconosciuti o ammessi. Dunque, non sono stati soltanto i cavi speciali, i riflettori, le attrezzature fotografiche portate a spalla o la presenza fortuita di corrispondenti occidentali in luoghi “dimenticati da dio”, ciò che – ben oltre il vecchio atto puntuale della violenza fisica evocato da Fanon – una generazione consapevole del linguaggio considera il primo gesto di violenza primordiale attraverso il quale ci si impone all’attenzione degli altri. È stata piuttosto una certa nuova visibilità degli “altri” medesimi, i quali occupano la propria scena – una sorta di centro di per sé – e impongono l’attenzione grazie alla propria voce e al semplice atto di parlare. Que des royaumes nous ignorent! Non sarà questo un semplice provincialismo globale, inserito con stupore nella brulicante e monotona quotidianità di altri luoghi e di altri pianeti? Queste scoperte cruciali non sono null’altro che gli equivalenti globali della nuova tolleranza progressista dei media successivi agli anni Sessanta, con il loro indirizzario attualizzato per includere minoranze e neoetnicità riconosciute e accreditate di recente? Perché, come si è già detto, l’apparente celebrazione della Differenza, qui a casa nostra o su scala mondiale, in realtà cela e presuppone un’identità nuova, più fondamentale. Quali che siano le fattezze della nuova tolleranza progressista, essa ha poco a che vedere con l’assortimento esotico dell’emblematica mostra intitolata La famiglia dell’uomo, nella quale si chiedeva alle borghesie occidentali di mostrare la propria profonda affinità con i boscimani e gli ottentotti, le donne isolane a petto nudo e gli artigiani aborigeni e altri tipi antropologici che è improbabile vengano a conoscerci come turisti. È nondimeno probabile che questi nuovi altri vengano a farci visita come immigrati o come Gastarbeiter: in questa misura essi sono più “come” noi, o per lo meno “uguali” secondo modalità del tutto nuove, che le nuove consuetudini sociali interne – il forzato riconoscimento sociale e politico delle “minoranze” – contribuiscono a farci acquisire nella nostra politica estera. Può darsi che tale esperienza ideologica sia circoscritta alle élite del Primo Mondo (ciò malgrado, se fosse così, la cosa avrebbe comunque effetti drammatici e incalcolabili su chiunque altro): ragione in più per considerarla nella descrizione del postmoderno, ove compare come pura demografia (detto un po’ più all’ingrosso, o materialisticamente, come ho fatto al principio). Oggi c’è più gente e questo “dato di fatto” racchiude delle implicazioni che trascendono il mero disagio spaziale e la prospettiva della saltuaria carenza dei beni di lusso.
Occorre sondare la possibilità che esista, in quello che in altri tempi si chiamava ambito morale, qualcosa di più o meno equivalente alla vertigine della folla provata dal corpo individuale: il presentimento che più sono le altre persone che si riconoscono, anche nella mente, più particolarmente precario diviene lo status della coscienza, dell’io, fin qui unici e “incomparabili”. Naturalmente questo non cambia, né noi siamo magicamente dotati di una maggiore simpatia (nell’immemorabile senso filosofico) verso quegli altri sempre più numerosi, con i quali, a livello individuale, possiamo simpatizzare sempre meno. Al contrario, come quando si sovverte un tipo particolarmente essenziale di falsa coscienza o di autoinganno ideologico, si è portati a prevedere il crollo imminente di tutti i meccanismi concettuali interiori di difesa, in particolare delle giustificazioni del privilegio e di quelle formazioni pressoché naturali del narcisismo e dell’amor proprio (simili a straordinarie strutture cristalline, o a formazioni coralline secrete nel corso di millenni). Tale fobia è senza dubbio la paura di una paura, la sensazione di questo crollo che si avvicina, invece che la cosa in sé, il terrore dell’anonimato imminente; e vi si può fare ricorso per spiegare opinioni e reazioni politiche, benché la fobia sia in genere gestita da quella forma di repressione rappresentata dall’oblio, un autoinganno che non vuole sapere e tenta di sprofondare sempre più in una involontarietà deliberata, in una distrazione comandata. Un’ipotesi esistenziale del genere contribuirebbe ad attestare la condizione materialistica della demografia, anzi di dimensione nuova del materialismo. Non si tratta del materialismo del corpo individuale (come nel materialismo meccanicistico o nel positivismo borghesi), giacché i corpi moltiplicati, sebbene non si fondano insieme in una specie di mostruosa anima fisica collettiva, riducono la preziosa corporalità individuale a qualcosa di banalmente biologico ed evolutivo; tanto meno è il materialismo degli «individui reali, concreti» di Marx (dai quali «noi», nell’Ideologia tedesca, notoriamente «partiamo»), dal momento che essi evocano ancora i nomi e le identità personali. Nemmeno i lavoratori nella massa paiono abbastanza demografici, poiché minacciano di portare verso l’”umanesimo” o di ricadervi. Eppure, anche negli individui concreti di Marx c’era una specie di materialismo, nel senso ristretto non di un sistema materialistico, ma di un’operazione mentale di rovesciamento e di demistificazione materialistici, unico tratto che permette di identificare il “materialismo” come tale. Come attesta il suo contesto immediato (ma anche la forma e l’aspetto concettuali), l’operazione di Marx è tuttavia indirizzata contro gli idealismi delle varie discipline (non la “storia delle idee”, né l’ideologia o le scienze ecc. – le grandi continuità hegeliane di forme e pensieri –, bensì gli individui nella loro storia brulicante, molto più sincronica). Inoltre il rovesciamento materialistico inerente alla demografia168 mette a nudo la trama di questa storia ancora antropomorfica, ma non la sostituisce tanto con degli aggregati statistici, quanto con il puro essere della storia naturale. Non si tratta del contenuto della visione o del paradigma storici così sostituiti, i quali a loro volta costituiscono sempre una rappresentazione, che pertanto torna a essere soggetta a farsi inquadrare e addomesticare dalle varie ideologie, come lo è l’effetto di rovesciamento che al momento fronteggiamo direttamente con una realtà non antropomorfa, di fatto pressoché inumana o non umana, che non possiamo assimilare concettualmente. Concepita come una dimensione del materialismo, la demografia contribuirebbe davvero a spogliarlo dei suoi aspetti idealizzabili, legati alla rappresentazione, in particolare quelli che si tematizzano attorno a una “nozione” di materia.
Pochissimi pensatori hanno attribuito effetti culturali radicali a tale ampliamento dell’universo popolato, o hanno attribuito, per esempio, la stilizzazione e la «formidabile erosione dei contorni» proprie del movimento moderno, quale movimento verso una sorta di universalismo, a questa
incessante preoccupazione per la sorpresa del divario che si apre tra ogni minima occasione della vita quotidiana e le vaste estensioni di tempo e di spazio in cui ogni individuo esercita il proprio ruolo.
Con ciò mi riferisco all’assurdità della pretesa, da parte di ogni singola persona, dell’importanza delle proprie parole «amo! soffro!», se solo si pensa allo sfondo dei miliardi di individui che sono vissuti e sono morti, che vivono e muoiono, e presumibilmente vivranno e morranno.
Tutto questo mi si è rivelato in particolare grazie alla circostanza quasi accidentale che, essendomi laureato a Yale nel 1920, sono stato mandato a studiare archeologia a Roma, all’Accademia Americana. All’epoca facevamo anche delle escursioni e prendevamo parte, sia pure in misura ridotta, agli scavi. Quando uno ha maneggiato un piccone che rivelerà la curva di una strada nascosta per quattromila anni, la quale un tempo era un’arteria di grande comunicazione vivace e molto trafficata, non sarà mai più lo stesso. Si guarda Times Square come un luogo di cui si immagina che un giorno degli studiosi diranno: «Sembra che qui vi sia stato una specie di centro pubblico».169
Questa testimonianza è tuttavia ancora sostanzialmente modernista, perché declina gli esiti e le conseguenze dell’esperienza demografica nella direzione dell’astrazione e dell’universalizzazione. È in linea con la disgiunzione del segno dal referente, propria del moderno, mirata alla costruzione di un’«opera aperta» che i molteplici pubblici frammentati degli Stati imperialisti della fine dell’Ottocento e del primo Novecento possono liberamente ricodificare e ricontestualizzare. La formulazione si inasprisce polemicamente contro la conquista dell’arredo unico dello scenario realista e naturalista, con la sua datazione e il suo clima, il suo qui e ora ancorato ai giornali del tempo empirico nazionale. Ma la successiva reazione postmoderna contro l’astrazione e la stilizzazione del modernismo – a loro volta determinate da un’avversione per questo bric-à-brac, per gli ornamenti effimeri di un individualismo inconsistente – segna un “ritorno al concreto”. Con una differenza, però: il nominalismo schizofrenico del postmoderno include i detriti, le rovine di molte di queste cose – luoghi, nomi propri ecc. – senza l’identità personale né la progressione storico-temporale, senza la coerenza della situazione né la sua logica (ancorché disperata), che conferivano al realismo borghese la sua tensione e la sua sostanza. In effetti, qui forse possiamo osservare la grande triade logica filosofica e hegeliana – specificità, universalità, individualità (o particolarità) – alla rovescia, come se nella storia venisse prima l’individuo concreto, poi il sistema repressivo e infine la disgregazione in caratteristiche empiriche aleatorie.
In ogni caso, l’impatto dispersivo della demografia è un altro effetto molto diverso, forse più tipicamente postmoderno, che si percepisce prima di tutto nel nostro rapporto con il passato dell’umanità. Secondo alcuni resoconti, sembrerebbe che la quantità di esseri umani che vivono oggi sulla terra (circa cinque miliardi) si stia rapidamente avvicinando al numero di ominidi già vissuti e morti sul pianeta dal momento dell’origine della specie. Il presente costituisce pertanto una sorta di nuovo Stato nazionale fiorente in pieno sviluppo, contraddistinto da numeri e da una prosperità che lo rendono un rivale inatteso di quelli tradizionali. Come nel caso delle persone bilingui degli Stati Uniti, si può quanto meno prevedere con un calcolo il momento in cui tale presente sopravanzerà il passato: quel momento demografico è già prossimo, come un punto in rapido avvicinamento di un futuro non tanto lontano, e in questa misura fa già parte del presente e della realtà con cui deve fare i conti. Se tuttavia le cose stanno così, il rapporto del postmoderno con la coscienza storica assume ormai un aspetto molto diverso; e c’è una certa giustificazione, nonché un’argomentazione plausibile da sostenere, nel relegare il passato nell’oblio, come sembra che stiamo facendo. Ora che noi vivi siamo preponderanti, l’autorità dei morti – finora fondata sulle nude cifre – si riduce con un ritmo vertiginoso, insieme a tutte le altre forme di autorità e di legittimità. Era un po’ come una vecchia famiglia: vecchie case in un vecchio villaggio, dove c’erano soltanto pochi giovani, i quali la sera dovevano sedersi nelle stanze senza luce ad ascoltare gli anziani. Ma (con le poche orribili eccezioni che conosciamo) per due o più generazioni non c’è stata una guerra importante: la curva delle nascite, in drastica crescita, aumenta la proporzione dei giovani rispetto al resto della popolazione; così le bande di teppisti fanno chiasso per la strada, mentre gli anziani siedono davanti al televisore. In altri termini, se superiamo il numero dei morti, vinciamo: abbiamo trionfato semplicemente in virtù del fatto di essere nati (la descrizione del privilegio aristocratico fatta da Beaumarchais si riadatta in maniera imprevista alla fortuna generazionale degli yuppie).
Ciò che ha da dirci il passato è dunque poco più di una questione di vana curiosità; anzi, il nostro interesse verso di esso – genealogie fantastiche, storie alternative! – finisce per somigliare un po’ a un hobby per pochi, a un turismo adottivo, come la specializzazione enciclopedica dei quiz televisivi o l’interesse di Pynchon per Malta. L’omaggio alle lingue che non appartengono alle grandi potenze o verso le tradizioni provinciali estinte è senza dubbio politicamente corretto e rappresenta un sottoprodotto culturale della retorica micropolitica analizzata in precedenza.
Per quanto ne so, il solo filosofo che abbia preso sul serio la demografia, e abbia concepito delle idee sulla base di un’esperienza vissuta idiosincratica di essa, è stato Jean-Paul Sartre. Pertanto egli non volle avere figli, però l’altra sua originalità storico-filosofica – avere trasformato in problema filosofico quella singolare circostanza che tutti diamo per scontata, ossia l’esistenza di altre persone – potrebbe in effetti essere conseguenza di questa, invece che il contrario. Ovviamente, sarebbe stato più logico e cartesiano procedere dalla questione più semplice – questo è davvero un Altro? – a quella più complessa (perché sono così tanti?); tuttavia i personaggi di Sartre paiono muovere dal molteplice al singolo, in quella strana esperienza che sia concesso chiamare sincronicità:
Il vento mi porta l’urlo d’una sirena. Sono solissimo […]. In questo momento sul mare vi sono navi che risuonano di musica; in tutte le città d’Europa si accendono le luci; comunisti e nazisti fanno a fucilate per le vie di Berlino, scioperanti battono il selciato di New York, delle donne, davanti alla toeletta, in una camera riscaldata, si mettono il rimmel alle ciglia. Ed io sono qui, in questa strada deserta ed ogni colpo d’arma da fuoco che parte da una finestra di Neukölln, ogni singhiozzo sanguigno dei feriti che vengono portati via, ogni gesto minuto e preciso delle donne che si acconciano risponde ad ogni mio passo, ad ogni battito del mio cuore.170
Questa pseudoesperienza, che va contrassegnata come una fantasia, come l’impossibilità di realizzare la rappresentazione (per mezzo della rappresentazione), è anche un tentativo di secondo grado, reattivo, di recuperare ciò che sta oltre la portata dei sensi e dell’esperienza vissuta e, riportandolo all’interno, di diventare, se non autosufficiente, per lo meno chiuso in funzione protettiva, come un riccio. Sembra trattarsi anche di una fantasia a un tempo relativamente priva di scopo ed esplorativa, come se il soggetto temesse di dimenticare qualcosa, ma non potesse affatto immaginarne le conseguenze. Sarò punito se dimenticherò tutti gli altri che si affannano a vivere insieme a me? Che beneficio potrei eventualmente trarne, se in ogni caso è impossibile realizzare tale impresa? Tanto meno, conseguire la sincronicità cosciente migliorerebbe la mia situazione immediata, giacché per definizione la mente trascura quegli altri che mi sono personalmente sconosciuti (e quindi, per definizione, inimmaginabili nel dettaglio della loro esistenza). Così lo sforzo risulta volontaristico, è un attacco della volontà a ciò che “per definizione” è strutturalmente impossibile conseguire, piuttosto che qualcosa di pragmatico e pratico che tenti di accrescere la mia informazione sul qui e ora. Il personaggio sartriano sembrerebbe sferrare un attacco preventivo, una sonda: immaginare, per abbracciare mentalmente in anticipo quelle moltitudini numeriche che, se le ignorassimo, potrebbero altrimenti travolgerci ontologicamente.
L’indagine è peraltro destinata al fallimento perché, come ha osservato Freud, non possono esistere numeri inventati senza senso, e probabilmente una psicoanalisi di Sartre (o dei suoi personaggi) finirebbe per tematizzare il contenuto degli elementi che si vorrebbero casuali. Tanto meno è irrilevante la solitudine del soggetto che immagina (la sirena solitaria scatena questo progetto “associativo”); né, soprattutto, viene unificato il tempo stesso, il momento storico dalla cui molteplicità deve essere trascelta a caso queste serie di esistenze individuali. Anzi, qui esso si può identificare con quello che ormai chiamiamo nominalismo, in quanto situazione, dilemma personale e storico. In questo senso, per tutti i fili della ragnatela che tendo al di là della mia «situazione», verso la sincronicità inimmaginabile degli altri individui, Sartre è anche (come Rousseau) il filosofo della politica dei piccoli gruppi, dell’evento immediato che, non importa quanto grande – la ripresa aerea della piazza che si apre sulle affollate vie laterali della polis –, deve continuare a essere accessibile all’”esperienza viva” (espressione meno fuorviante della retorica del corpo individuale e dei sensi, la quale evoca una filosofia di tipo alquanto diverso). Ciò che sta oltre questo – come nella classe sociale – è in qualche modo reale ma inautentico, pensabile ma irrappresentabile, perciò risulta incerto e inverificabile per una filosofia dell’esistenza che vuole prima di tutto evitare di essere ingannata o imbrogliata nella sua esperienza della vita. “Totalizzare” non implica che si creda nella possibilità di accedere alla totalità, ma piuttosto un gioco con il limite, come un dente che dondola, come il confronto di osservazioni e misure che alla fine permette di dedurre la barriera del suono, che, come la linea tra l’analitico e il dialettico in Kant, non si può mai oltrepassare e in qualche modo trascende l’esperienza. Eppure quell’esperienza impossibile che sta oltre, l’orrore della molteplicità, non è nulla di più che il puro Numero, che nel nostro secolo soltanto la filosofia di Sartre ha reinventato in senso arcaico, superando quella di Heidegger nel proprio ritorno a una primordialità quasi presocratica. Troppe persone iniziano a cancellare la mia esistenza con il loro peso ontologico; la mia vita personale – l’unica forma di proprietà privata che mi resta – diviene pallida e fioca come gli spettri omerici, oppure come una proprietà immobiliare il cui valore si sia ridotto a un pugno senza valore di cambiali spiegazzate. Tuttavia questo incomincia a diventare ormai postmoderno, nell’influenza planetaria che esercita sui pensieri temporali e sulla possibilità di rappresentare il tempo. Sartre continua a essere in larga misura un moderno, ma è istruttivo osservare come la massa gravitazionale dei puri numeri sincronici si ripieghi su temi temporali per ordirli nel solo “concetto” che si possa ormai ricavare tra storia e demografia, l’unica categoria spazio-temporale rilevante che peraltro, all’occorrenza, si possa obbligare ad assolvere un doppio compito in quanto esperienza. Intendo il concetto di sincronicità, il limite estremo della rappresentazione, fino a che non si giunge alla televisione, momento in cui tutte queste lampadine inconcepibilmente molteplici si accendono di nuovo, svanisce il problema metafisico che sembravano designare e ripetere, e lo spazio globale postmoderno rimpiazza e annulla la problematica sartriana della totalizzazione. Come abbiamo già avuto occasione di vedere in tanti altri casi, con questa trasformazione si attenuano e scompaiono anche la tensione sostanziale del moderno e l’impegno nei confronti del dramma impossibile della rappresentazione. La totalità globale si ritira dunque dentro la monade, sugli schermi tremolanti, e l’”interiore”, che un tempo era l’eroico terreno di prova dell’esistenzialismo e delle sue angosce, diviene ormai autosufficiente come uno spettacolo di luci, come la vita interiore di un catatonico (mentre nel mondo spaziale dei corpi reali gli straordinari spostamenti demografici delle masse migranti di lavoratori e turisti globali invertono questo solipsismo individuale in una misura che non conosce eguali nella storia del mondo). Il termine nominalismo si può ormai applicare anche a questo risultato, nel quale gli universali sono impalliditi, fatta eccezione per le spasmodiche intermittenze di un infinito sublime o matematicamente nuovo; però in tal caso sarebbe un nominalismo che non si concepisce più come problema e che, pertanto, ha perduto lungo la strada il proprio stesso nome.
8. Storiografie spaziali
Tuttavia, con questa nuova esperienza della demografia e le sue conseguenze impreviste, si ritorna al dato spaziale (e al postmodernismo come cultura, come ideologia e rappresentazione). L’idea di una prevalenza dello spazio nell’età postcontemporanea la dobbiamo a Henri Lefebvre171 (al quale, però, è estranea la nozione di una fase postmoderna: il suo quadro empirico era essenzialmente quello della modernizzazione della Francia nel dopoguerra, ma soprattutto in epoca gaullista). Tale idea ha sconcertato tutti quei lettori che rammentano la concezione kantiana dello spazio e del tempo come contenitori formali vuoti, quali categorie dell’esperienza talmente onnicomprensive da non poter rientrare a loro volta nelle esperienze alle quali servono da quadro, da presupposto strutturalmente indispensabile.
Queste prudenti limitazioni, che comprendono un salutare avvertimento riguardo al sostanziale impoverimento degli stessi temi, non hanno impedito ai modernisti di assegnare grande rilievo al tempo; essi hanno cercato di combinarne le vuote coordinate nella sostanza magica di un elemento, un vero e proprio flusso esperienziale. Ma perché il paesaggio dovrebbe essere in qualche misura meno drammatico dell’Evento? In ogni caso la premessa è che nel nostro tempo la memoria si è indebolita, e che i grandi memorialisti sono una specie quasi estinta; allorché costituisce un’esperienza forte ed è in grado di testimoniare la realtà del passato, a noi la memoria serve soltanto per cancellare il tempo e quel passato insieme a esso.
Quel che intendeva mettere in rilievo Lefebvre era comunque la correlazione tra queste categorie organizzative fino ad allora universali e formali – che presumibilmente per Kant restavano valide per ogni esperienza in tutto il corso della storia umana – e la specificità storica, l’originalità dei vari modi di produzione, in ciascuno dei quali il tempo e lo spazio sono vissuti in maniera diversa e caratteristica (se è invero così che si può dire e se, contro Kant, siamo capaci di fare un’esperienza diretta dello spazio e del tempo). L’accento di Lefebvre sullo spazio fa qualcosa di più che correggere uno squilibrio (modernista): riconosce inoltre la crescente partecipazione, tanto nella nostra esperienza vitale quanto nello stesso tardo capitalismo, dell’elemento urbano e della nuova globalità del sistema. In effetti Lefebvre faceva appello a un nuovo tipo di immaginazione spaziale, in grado di affrontare in maniera nuova il passato e di leggerne i segreti meno tangibili nel quadro delle sue strutture spaziali – il corpo, l’universo, la città –, dal momento che tutte queste segnano l’organizzazione più intangibile delle economie culturali e libidiche, nonché delle forme linguistiche. La proposta esige che si immagini una radicale diversità, che si proiettino le nostre organizzazioni spaziali nelle forme pressoché fantascientifiche ed esotiche di modi di produzione lontani. Ma per Lefebvre tutti i modi di produzione non sono semplicemente organizzati in termini di spazio, ma costituiscono anche dei modi peculiari di “produzione dello spazio”. La teoria del postmodernismo desume comunque un certo supplemento di spazialità nell’epoca contemporanea e suggerisce che, malgrado altri modi di produzione (o altri momenti del nostro) siano tipicamente spaziali, il nostro si è spazializzato in un senso esclusivo, tanto che lo spazio rappresenta per noi una dominante esistenziale e culturale, un aspetto tematizzato e posto in primo piano, un principio strutturale in stridente contrasto con il ruolo relativamente subordinato e secondario (benché, senza dubbio, non meno sintomatico) esercitato nei modi di produzione precedenti172. Così, nonostante tutto sia spaziale, questa realtà postmoderna qui risulta in qualche maniera più spaziale di tutto il resto.
Il perché debba essere così è più facile da intendere del come possa essere così. Certamente la predilezione per lo spazio tra i teorici del postmodernismo si comprende meglio come una reazione (generazionale) prevedibile contro la retorica ufficiale della temporalità, da tempo canonizzata, propria dei critici e dei teorici del modernismo avanzato, mentre il contrario rende possibili versioni drammatiche e visionarie del nuovo ordine e delle sue nuove emozioni. Però l’asse tematico non era arbitrario né gratuito, e se ne possono analizzare le condizioni di possibilità.
Secondo me, un nuovo sguardo più ravvicinato sul moderno rivelerebbe la radice della sua specifica esperienza della temporalità nei processi di modernizzazione e nella dinamica del capitalismo d’inizio secolo, con la sua nuova macchina gloriosa (celebrata dai futuristi e da molti altri, ma non meno drammaticamente deplorata e demonizzata da altri scrittori, che chiamiamo comunque “modernisti”), la quale comunque non ha ancora colonizzato completamente lo spazio sociale nel quale si manifesta. Con uno shock salutare, Arno Mayer ci ha rammentato la persistenza del vecchio regime fin dentro il Novecento173, nonché il carattere molto parziale del “trionfo della borghesia” o del capitalismo industriale nel periodo modernista, in prevalenza ancora rurale e, almeno sul piano statistico, dominata da contadini e proprietari terrieri dalle abitudini feudali. Tra loro la sporadica automobile emette una nota che, pur dissonante, produce emozione, così come l’elettrificazione intermittente e la scarsa fantasmagoria aviatoria della prima guerra mondiale. La prima delle grandi opposizioni di questo periodo non ancora superate dal capitalismo è perciò quella tra città e campagna; e i soggetti, i cittadini del periodo del moderno avanzato sono per lo più persone che hanno vissuto in mondi e tempi molteplici: un pays medievale al quale fanno ritorno per le vacanze e un agglomerato urbano le cui élite, per lo meno nei paesi più progrediti, cercano di “vivere al ritmo del loro secolo” e di essere il più possibile “assolutamente moderne”. Il valore stesso del Nuovo e dell’innovazione (come si rispecchiano in tutto, dalle forme ermetiche del Primo Mondo al grande dramma del Vecchio e del Nuovo variamente recitato nei paesi del Terzo e del Secondo Mondo) presuppone abbastanza chiaramente l’eccezionalità di quel che viene percepito come “moderno”; mentre la memoria profonda, che registra e segna la differenziazione dell’esperienza nel tempo ed evoca una sorta di intermittenze di mondi alternativi, sembra peraltro dipendere da uno “sviluppo ineguale” di carattere tanto esistenziale e psichico quanto economico. La natura è connessa alla memoria non per ragioni metafisiche, ma perché porta alla luce l’idea e l’immagine di un precedente modo di produzione agricolo che si può reprimere, ricordare debolmente o recuperare nostalgicamente nei momenti di pericolo e di vulnerabilità.
In tutto questo è implicito il suono sordo del prevedibile effetto secondario, vale a dire la cancellazione, dal postmoderno, della Natura e delle agricolture precapitaliste, la sostanziale omogeneizzazione di uno spazio e di una esperienza sociali ormai modernizzati e meccanizzati in maniera uniforme (nei quali il divario generazionale si apre tra i modelli dei prodotti, invece che tra le ecologie dei loro fruitori), nonché la trionfale realizzazione di quella standardizzazione e di quel conformismo che, temuti e fantasticati negli anni Cinquanta, ormai non costituiscono più un problema per la gente che ne è stata plasmata (la quale non può più neanche riconoscerlo o tematizzarlo come tale). Ecco perché in precedenza sono stato indotto a definire il modernismo come l’esperienza e l’esito di una modernizzazione incompiuta, e a indicare che il postmoderno incomincia a fare la propria comparsa dovunque il processo di modernizzazione non abbia più degli aspetti o degli ostacoli arcaici da superare, dovunque abbia vittoriosamente impiantato la propria logica autonoma (alla quale, ovviamente, non si può più applicare la parola modernizzazione, dato che tutto è già “moderno”).
La memoria, la temporalità, la stessa emozione del “moderno”, il Nuovo e l’innovazione rappresentano dunque altrettante vittime di questo processo, nel quale non solo si obliterano i residui dell’ancien régime di cui parla Mayer, ma viene liquidata persino la cultura borghese classica della belle époque. Così, la proposta di Akira Asada174 risulta ancor più risolutamente radicale di quanto sia arguta: la consueta rappresentazione delle fasi del capitalismo (iniziale, matura, tarda o avanzata) è inadeguata e va rovesciata. In tal modo, i primi anni sarebbero quelli del capitalismo senile, in quanto si tratta ancora di una questione di noiosi tradizionalisti che vengono da un mondo vecchio; il capitalismo maturo o adulto manterrebbe pertanto la propria definizione, in maniera tale da rispecchiare il realizzarsi dei grandi magnati e degli avventurieri senza scrupoli; laddove la nostra fase, fin qui tarda, d’ora innanzi sarà conosciuta come “capitalismo infantile”, giacché chiunque sia nato al suo interno la dà per scontata e non ha mai conosciuto niente di diverso. La frizione, la resistenza, lo sforzo dei momenti precedenti hanno ceduto il passo al libero gioco dell’automazione e della fungibilità malleabile di molteplici mercati e molteplici pubblici di consumatori: pattini a rotelle e multinazionali, word processor e insoliti edifici postmoderni che sorgono nel giro di una notte.
Secondo questa versione, né lo spazio né il tempo sono “naturali” nel senso in cui si potrebbe presupporre metafisicamente (come, allo stesso modo, l’ontologia o la natura umana): entrambi costituiscono la conseguenza, le immagini residuali proiettate di un certo stato, di una certa struttura di produzione e di appropriazione, di organizzazione sociale della produttività. Dunque, rispetto al moderno ho riletto una certa temporalità a partire dal suo caratteristico spazio irregolare; ma non meno produttiva può essere l’altra direzione della lettura, la quale conduce a una certa idea più articolata dello spazio postmoderno tramite la storiografia fantastica postmoderna, come quella che si rinviene tanto nelle bizzarre genealogie immaginarie quanto nei romanzi che mescolano personaggi e nomi storici come fossero carte di un mazzo finito. Se ha senso evocare un “ritorno alla narrazione” in epoca postmoderna, almeno qui tale “ritorno” si può osservare nel suo pieno manifestarsi (insieme alla comparsa della narrazione e della narratologia nella produzione teorica postmoderna, che si può peraltro identificare come un sintomo culturale di mutamenti più essenziali della mera scoperta di una nuova verità teorica). A questo punto, tutti i precursori trovano il loro posto nella nuova genealogia: le leggendarie serie generazionali degli scrittori del Boom, come Asturias e García Márquez; le tediose affabulazioni autoreferenziali dell’effimero “nuovo romanzo” angloamericano; la scoperta, da parte degli storici di professione, che “tutto è finzione” (si veda Nietzsche) e che non può mai esistere una versione corretta; la fine, nello stesso senso, delle «grandi narrazioni», insieme al recupero di storie alternative del passato (gruppi ridotti al silenzio, lavoratori, donne, minoranze le cui scarse testimonianze sono state sistematicamente bruciate o cancellate da tutto, tranne che dagli archivi della polizia) in un momento nel quale le alternative storiche sono sulla via della scomparsa. E se vogliamo avere una storia, d’ora innanzi ce ne sarà solamente una a cui partecipare.
In poche parole, la “storiografia fantastica” postmoderna alimenta queste “tendenze” storiche e le combina in un’autentica estetica che pare conoscere due varianti, due spirali speculari. In una si redige una cronaca (generazionale o genealogica) dove la successione grottesca, i personaggi irreali, i destini ironici o melodrammatici e le strazianti occasioni perdute (pressoché cinematografiche) imitano quelli reali o, per essere più precisi, rassomigliano agli annali dinastici dei piccoli regni molto lontani dalla nostra “tradizione” provinciale (la storia segreta dei mongoli, per esempio, oppure lingue balcaniche pressoché estinte, che un tempo rappresentavano la potenza dominante nel loro piccolo universo). Qui, una parvenza di verosimiglianza storica si riverbera in molteplici modelli alternativi, come se si conservassero, per lo meno nella versione più arcaica, la forma e il genere della storiografia; ma ora, per qualche ragione, lungi dal proiettare i vincoli del formulaico, sembra offrire agli scrittori postmoderni il movimento più notevole e libero dell’invenzione. In questa forma e in questo contenuto particolari – sistemi fognari veri dove vivono coccodrilli immaginari –, le più sfrenate fantasie pynchoniane vengono in qualche modo percepite come esperimenti mentali, dotati di tutta la forza epistemologica e l’autorevolezza falsificabile delle favole di Einstein. In ogni caso, esse paiono trasmettere la sensazione del passato reale meglio dei “fatti” stessi.
Tali affabulazioni – com’era prevedibile, incoraggiate da un’intera generazione di ideologi compiaciuti, che con gusto ha annunciato la morte del referente, se non la fine della storia medesima – mostrano peraltro abbastanza chiaramente i segni di quel senso di liberazione e di quell’euforia del postmoderno a cui ho già fatto riferimento, in buona parte per le stesse ragioni. A differenza di quelle di determinate altre epoche (come nel romanzo storico pseudoshakespeariano del primo Ottocento), queste fantasie storiche in sostanza non mirano a derealizzare il passato, ad alleggerire il peso del fatto e della necessità storici, a trasformare quel passato in una farsa in costume, in una vaga festa senza conseguenze né irrevocabilità. E tanto meno la storiografia fantastica postmoderna cerca, come nel naturalismo, di ridurre l’evento storico raccapricciante e deterministico ai minuziosi meccanismi della legge naturale, contemplata dall’epiciclo di Mercurio e quindi accettabile con una rassegnazione stoica da manuale, dotata di una forza e di una concentrazione in grado di ridurre al minimo l’angoscia della decisione e convertire il pessimismo dell’insuccesso nelle cadenze discendenti, maggiormente gratificanti e musicali, di una visione del mondo wagneriano-schopenhaueriana. Tuttavia, il nuovo libero gioco con il passato – il delirante monologo ininterrotto della sua revisione postmoderna in tante narrazioni di gruppo – è evidentemente altrettanto allergico alle priorità e agli impegni, per non dire alle responsabilità, dei vari tipi di storia faziosa, tediosamente impegnata.
Ciò nonostante, si può pensare che queste narrazioni intrattengano un rapporto con la prassi più attivo di quanto si è indicato in precedenza, o di quel che sarebbe ammissibile in una teoria della storia basata sul rispecchiamento e più incline alla letteralità: qui la fabbricazione di una storia irreale sostituisce l’elaborazione di quella autentica. Esso esprime mimeticamente il tentativo di recuperare quella forza e quella prassi per mezzo del passato e di quella che si deve chiamare fantasia, e non immaginazione. L’affabulazione – o, se si preferisce, la mitomania e i racconti completamente assurdi – è senza dubbio il sintomo dell’impotenza storica e sociale, del blocco delle possibilità che lascia ben poche opzioni, se non quella dell’immaginario. Nondimeno la sua stessa invenzione e la sua inventività sostengono una libertà creativa rispetto a degli eventi che non può controllare, tramite il semplice atto di moltiplicarli; l’agente esce qui dalla testimonianza storica nell’atto di concepirla; e nuove serie molteplici o alternative di eventi scuotono con forza le sbarre della tradizione nazionale e dei manuali di storia, di cui la sua carica parodica condanna i vincoli e le necessità. Così, grazie alla propria mancanza di plausibilità, l’invenzione narrativa si fa metafora di una più ampia possibilità della prassi, della sua compensazione, ma anche della sua affermazione sotto forma di una proiezione, di una ricreazione mimetica.
La seconda forma della narrazione storiografica postmoderna è in un certo qual modo il contrario di questa. In essa si sottolinea e si riafferma l’intento puramente finzionale, nella produzione di persone ed eventi immaginari tra i quali di tanto in tanto appaiono e scompaiono inaspettatamente quelli reali: il procedimento di Doctorow in Ragtime, con i Morgan e i Ford, Houdini, Thaw e White è stato il mio primo rimando175. Lo si può mantenere qui, dove è tuttavia caratteristico di tutta una serie di effetti di collage, nei quali una figura dei giornali viene incollata su un fondale dipinto, oppure il nastro di una telescrivente pieno di dati statistici si srotola all’interno di un idillio domestico. Tali effetti non costituiscono delle mere repliche di Dos Passos, il quale rispettava comunque le categorie della verosimiglianza allorché si trattava degli individui storico-universali; tanto meno questo tipo di storia finzionale ha qualcosa a che vedere con quell’altro prodotto tipico del postmoderno che ho denominato cinema della nostalgia, dove il tono e lo stile di un’intera epoca divengono di fatto il personaggio centrale, l’attante e l’«individuo storico-universale» (con una significativa diminuzione di quella sfrenata energia immaginativa che manifestano entrambi i tipi di fantasie storiografiche qui in discussione).
A proposito di questo secondo tipo (nel quale la formula ben nota riacquista la propria giusta posizione, i rospi tornano a essere “reali” e i giardini immaginari), quel che si può dire è che si tratta precisamente di una sorta di storiografia spaziale, la quale ha cose uniche da dirci, sia sulla spazialità postmoderna, sia, soprattutto, su quanto è accaduto al senso postmoderno della storia.
Qui la spazialità si registra, per così dire, in una forma di secondo grado, come la conseguenza di una specializzazione antecedente: una specie di classificazione, di compartimentazione intensificata che sarei tentato di descrivere come una divisione del lavoro della mente, dei suoi modi di esplorare e cartografare il reale. La frammentazione psichica classica – per esempio, la separazione di immaginazione e conoscenza – è sempre stata frutto della divisione del lavoro nell’universo sociale; oggi, però, sono le stesse funzioni razionali o conoscitive della mente quelle che in qualche misura si segmentano internamente e si assegnano a piani e uffici diversi.
Così, per esempio, possiamo immaginare (in questa narrazione postmoderna) la visita del grande architetto neoclassico prussiano Schinkel alla nuova città industriale di Manchester: la trovata è storicamente possibile e presenta il fascino relativamente postmoderno di un episodio trascurato (davvero una volta il giovane Stalin andò a Londra? E che dire dell’ispezione che Marx fece in incognito alla guerra civile americana?). Dormo o son desto? In tutto questo, però, a essere fondamentalmente postmoderna è l’incongruenza della Germania romantica, la quale brilla dall’interno di tutto il realismo magico di un Caspar David Friedrich, che si scontra con la sofferenza e la manodopera in eccesso della grande città industriale nascente di Engels. Si tratta di una giustapposizione da fumetto, un po’ come un esercizio scolastico nel quale vengono assemblati secondo criteri nuovi i materiali più disparati. Poi viene fuori che la visita si è verificata nella realtà, ma ormai si è tentati di richiamare la battuta di Adorno, dettata da un’occasione diversa, cioè che, «anche se fosse un dato di fatto, non sarebbe vero». Il sapore postmoderno dell’episodio rimanda al “documento storico” per derealizzarlo, per snaturarlo e attribuirgli un po’ dell’aura fantastica della versione della storia latinoamericana di Gabriel García Márquez, riguardo a cui, com’è noto, Carpentier ha in ogni caso osservato acutamente che era per prima cosa magico-realistica (real-maravillosa)176. Ma la questione è ormai vedere se tutto quello che si chiamava Storia si sia trasformato esattamente in questo.
Sono questi, comunque, gli effetti culturali e ideologici della struttura, le cui condizioni di possibilità risiedono precisamente nella nostra capacità di avvertire che ciascuno degli elementi implicati, e pertanto incongruamente combinati, appartiene a registri totalmente distinti: architettura e socialismo, arte romantica e storia della tecnologia, politica e imitazione dell’antichità. Sebbene stranamente tali registri coincidano a livello dialettico, come nella questione dell’urbanistica, in cui “Schinkel” rappresenta una voce enciclopedica esattamente come il libro di Engels su Manchester, la nostra mente preconscia si rifiuta di stabilire o riconoscere il nesso, come se queste schede provenissero da archivi diversi.
La dissonanza e l’incompatibilità hanno in effetti delle “analogie” letterarie, che è assai strano riscoprire qui, nell’ambito della realtà storico-sociale. Anzi, questa singolare discrepanza non ci ricorda null’altro che la discordanza di genere, come quando uno scrittore o un oratore incorporano per errore un testo incompatibile oppure scivolano in un registro diverso del discorso. Ovviamente, in letteratura la scomparsa dei generi in quanto tali, con le loro convenzioni e le distinte regole di lettura che proiettano, è storia nota. Sembrerebbe ormai che, lungi dall’estinguersi, gli antichi generi, liberati come virus dal loro ecosistema tradizionale, si siano diffusi fino a colonizzare la stessa realtà, che suddividiamo e classifichiamo secondo schemi tipologici che non sono più quelli dell’argomento, ma per i quali il tema alternativo dello stile appare in qualche modo inadeguato. Eppure è certamente grossomodo lo “stile” del lemma enciclopedico “Schinkel” a non accordarsi con lo stile di “Engels”, anche se il computer li classificherebbe entrambi sotto le intestazioni “tedesco”, “Ottocento” e così via. In altre parole, le due voci non “stanno bene insieme”, né si abbinano nel “mondo reale”, vale a dire nel mondo della conoscenza storica, ma si intonano in quell’ambito che ho contrassegnato come storiografia postmoderna (genere culturale a sua volta separato da quell’altro denominato conoscenza storica), dove sono esattamente la loro interessante dissonanza, il vistoso realismo magico del loro accostamento inatteso a produrre il supplemento di piacere da consumare.
Non si deve pensare che la narrazione postmoderna in qualche modo superi o trascenda la strana separazione discorsiva che sto esaminando: quest’ultima non va affatto intesa come una “contraddizione” alla quale il collage postmoderno offra una parvenza di “risoluzione”. Al contrario, l’effetto postmoderno ratifica le specializzazioni e le differenziazioni su cui si basa, le presuppone e perciò le perpetua (se comparisse infatti un campo della conoscenza veramente unitario, dove Schinkel ed Engels stiano uno accanto all’altro come l’agnello e il leone, per così dire, tutta l’incongruità postmoderna svanirebbe all’istante). In tal modo, la struttura conferma la descrizione del postmodernismo come qualcosa per il quale la parola frammentazione resta un termine troppo debole e rudimentale, e probabilmente anche troppo “totalizzante”, soprattutto perché ormai non è più una questione di disgregazione di una totalità organica preesistente, ma dell’apparizione del molteplice secondo modalità nuove e inattese, in sequenze irrelate di eventi, in tipologie di discorso, modi di classificazione e compartimenti della realtà. Chiaramente, ciò che si riproduce con la retorica del decentramento (e che informa gli attacchi retorici e filosofici ufficiali contro la “totalità”) è questo pluralismo assoluto e assolutamente aleatorio – forse l’unico referente per il quale si possa conservare il termine incriminato, una sorta di realtà-pluralismo –, coesistenza non tanto di mondi molteplici e alternativi quanto di insiemi confusi irrelati e di sottosistemi semiautonomi, che continuano a sovrapporsi a livello percettivo come piani di profondità allucinogeni in uno spazio pluridimensionale. Questa differenziazione, specializzazione o semiautonomizzazione della realtà è dunque antecedente a quello che si verifica nella psiche – la schizo-frammentazione postmoderna, in opposizione alle angosce e alle isterie del moderno –, che assume la forma del mondo che modella e tenta di riprodurre sotto forma tanto di esperienza quanto di concetti. I risultati sono tanto disastrosi come quelli cui andrebbe incontro un organismo naturale relativamente semplice incline al mimetismo, il quale tentasse di avvicinarsi alla dimensione laser della op art di un ambiente fantascientifico del lontano futuro. Abbiamo appreso molto dalla psicoanalisi, e più di recente dalla cartografia speculativa delle posizioni del soggetto spezzate e molteplici, ma sarebbe un peccato attribuire queste ultime a una nuova natura umana interna, inconcepibilmente complessa, invece che alle strutture sociali che le proiettano. Come ha mostrato Brecht, la natura umana, e insieme con essa anche la psiche, è capace di una varietà infinita di forme e di adattamenti.
Allo stesso tempo, le diverse strutture differenziali (formalizzate da Doctorow nei modelli minori, ma straordinariamente sintomatici, della storiografia di Ragtime) contribuiscono pure a giustificare la precedente descrizione del postmoderno secondo i termini dello slogan che “la differenza mette in relazione”. Sembra che le nuove modalità di percezione operino anzi mantenendo simultaneamente questi aspetti incompatibili, una sorta di incommensurabilità-visione che non rimette a fuoco la vista, ma alimenta provvisoriamente la tensione delle loro molteplici coordinate (tanto che, se si pensasse che la dialettica ha a che fare con la produzione di nuove “sintesi” di vari “opposti” preformati e preorganizzati, studiati per adattarsi agevolmente a vicenda, senza dubbio tutto questo sarebbe decisamente “postdialettico”).
Occorre però considerarlo anche un fenomeno spaziale nel senso più fondamentale, perché, quale che sia la provenienza dei vari elementi combinati nella loro postmoderna incompatibilità – che vengano cioè da ambiti temporali diversi o da settori irrelati dell’universo sociale e materiale –, è la loro separazione spaziale a essere percepita con forza come tale. Momenti diversi del tempo storico o esistenziale vengono archiviati in luoghi distinti; il tentativo di combinarli, anche localmente, non scorre su e giù per una scala temporale (se non nella misura in cui il carattere spaziale di tali figure scade e presenta il conto), ma procede a balzi avanti e indietro lungo una scacchiera che concepiamo in termini di distanza.
Così, il movimento da una classificazione di genere a un’altra è fortemente discontinuo, come il cambiamento dei canali su un televisore via cavo; e sembra davvero adeguato descrivere le serie di elementi e i compartimenti tipologici come altrettanti “canali” in cui si organizza la nuova realtà. Il cambiare canale, con tanta frequenza considerato dai teorici dei media quale autentica epitome dell’attenzione e dell’apparato percettivo postmoderni, potrebbe anzi essere un’utile alternativa al modello psicoanalitico delle molteplici posizioni del soggetto menzionato prima. Naturalmente quest’ultimo si può comunque conservare come codice alternativo nel processo di transcodifica, tanto profondamente peculiare della teoria postmoderna; e in tale modello si può ormai vedere l’equivalente teorico del cambiare canale a livello percettivo, culturale e psichico. Pertanto “noi” siamo ciò in cui stiamo, ciò che affrontiamo e in cui abitiamo o ci muoviamo abitualmente, purché resti inteso che nelle condizioni attuali siamo costretti a rinegoziare tutti quegli spazi, tutti quei canali, avanti e indietro, incessantemente, in una sola giornata joyciana. La rappresentazione letteraria di questa nuova realtà potrebbe essere quel notevole “memoriale” dei vecchi tempi delle serie radiofoniche latinoamericane che è La zia Julia e lo scribacchino di Vargas Llosa, ove i distinti programmi diurni lentamente incominciano a contagiarsi a vicenda e a colonizzare i loro vicini, amalgamandosi nella maniera più allarmante, ma, come abbiamo appena visto, la più archetipicamente postmoderna. Questa interferenza reciproca è dunque l’autentico prototipo di quello che si potrebbe chiamare modo di totalizzare postmoderno.
Essa caratterizza inoltre la nostra maniera contemporanea di percepire lo storico e il politico come tali, e bisognerà fare ricorso alla concezione di un nuovo tipo di dialettica spaziale proposta da Lefebvre per intendere come le strutture precedenti implichino qualcosa di più dei semplici modelli culturali o narrativi. La nostra comprensione degli eventi attuali si verifica infatti sullo sfondo di quella settorializzazione della realtà che ho chiamato in causa nell’interpretazione delle prerogative della scrittura postmoderna. Non è mai stato agevole capire il presente come storia, poiché quasi per definizione tutti i manuali si fermano e vengono stampati uno o due anni prima, tuttavia una collettività politicamente consapevole può tenersi aggiornata grazie all’analisi incessante, multiforme come un’idra dalle molte teste, e al commento dell’ultimissima vicissitudine imprevista. Oggi però la collettività sotto quella forma è stata attratta all’interno dei media, spogliandoci, come individui, persino della sensazione di essere soli e singoli. L’occasionale lampo di interpretazione storica che potrebbe colpire la “situazione attuale” si verificherà dunque mediante la modalità pressoché postmoderna (e spaziale) di ricombinazione di rubriche separate del quotidiano177, ed è tale operazione spaziale che continuiamo a chiamare pensiero storico o analisi storica (facendo uso di un vecchio linguaggio temporale). La fuoriuscita di petrolio in Alaska sta fianco a fianco con l’ultimo bombardamento israeliano o con la missione di ricerca e distruzione nel sud del Libano, oppure gli sta alle calcagna nella segmentazione delle notizie televisive. I due eventi attivano nella mente zone di riferimento e campi associativi completamente diversi, tra loro scollegati, se non altro perché nel planetario stereotipico dell’attuale “spirito oggettivo”, l’Alaska si colloca sul lato opposto del globo fisico e spirituale rispetto al “Medio Oriente lacerato dalla guerra”. Nessuna analisi introspettiva della nostra storia personale, ma neanche lo studio delle varie storie oggettive (classificate sotto le voci Exxon, Alaska, Israele, Libano) sarebbe di per sé sufficiente a rivelare l’interrelazione dialettica di tutte queste cose. Il loro leggendario Ur-episodio si può individuare nella crisi di Suez, la quale ha determinato da un lato la costruzione di petroliere sempre più grandi per poter circumnavigare il Capo di Buona Speranza e, dall’altro, una continuazione che nel 1967 ha fissato la geografia politica del Medio Oriente nella violenza e nella sofferenza per molto più di una generazione. Quel che vorrei indicare è che rintracciare queste “origini” comuni – operazione d’ora innanzi evidentemente indispensabile per quella che di solito consideriamo come una comprensione storica concreta – non consiste più esattamente in un’operazione temporale o genealogica nel senso delle vecchie logiche della storicità e della causalità. La “soluzione” a un accostamento – Alaska, Libano – che non arriva a essere un enigma finché non viene risolta – Nasser e Suez! – non apre più un profondo spazio storiografico né una temporalità prospettica del tipo di un Michelet o di uno Spengler: si illumina come il circuito nodale di una slot machine (e pertanto prefigura per il futuro una storiografia da videogioco, ben più preoccupante).
Se tuttavia la storia è divenuta spaziale, lo stesso vale per i suoi meccanismi ideologici e repressivi per mezzo dei quali evitiamo di pensare storicamente (l’esempio dell’Alaska offre invero il modello di un tipo di lettura ben calcolata per consentirci di ignorare gli articoli contigui a livello spaziale); ma adesso mi riferisco a una più ampia estetica dell’informazione, nella quale le incompatibilità di genere individuate nella narrazione postmoderna acquisiscono ormai un valore diverso nella realtà postmoderna. Esse dettano un particolare nuovo decoro, una nuova spiccata imperturbabilità, secondo i quali l’obbligo di trascurare gli elementi classificati sotto altre rubriche, in altri settori, stabilisce un espediente per la costruzione di una falsa coscienza. Questo espediente è tatticamente molto più progredito delle vecchie e più primitive strategie della menzogna e della repressione, e può fare a meno delle tecnologie dell’ideologia classica, tolemaiche e ormai ingombranti. Si tratta di una maniera nuova di neutralizzare l’informazione, di rendere improbabili le rappresentazioni, di screditare le posizioni politiche e i loro discorsi “organici” e, in sostanza, di separare efficacemente «i fatti» dalla «verità», come ha scritto Adorno. La superiorità del nuovo metodo risiede nella sua capacità di coesistere perfettamente con l’informazione e la piena conoscenza, circostanza già implicita nella separazione di sottosistemi e argomenti in zone irrelate della mente, che si possono attivare per via locale o contestuale (“nominalisticamente”) in momenti distinti del tempo e mediante posizioni del soggetto prive di relazione tra loro. In tal modo, si combina qui un tabù stilistico con la caratteristica umana della finitezza («posso essere solo in un posto – un discorso! – alla volta»), allo scopo di escludere non soltanto le sintesi di vecchio tipo, ma anche gli effetti terapeutici di straniamento che solevano derivare dal confronto di una prova con un’altra apparentemente priva di legami, come in quelle drammatiche ricostruzioni del crimine nelle quali due testimoni vengono inaspettatamente messi faccia a faccia.
Il “postmodernismo” è in sé il principale esempio della concettualità che scaturisce da un sistema del genere, dove la stessa realtà è organizzata un po’ come quelle reti di cellule politiche i cui membri conoscono solamente i loro omologhi immediati. Entro tale “concetto”, poi, quella coesistenza di rappresentazioni distinte che già conosciamo, ma di cui non abbiamo ammirato a sufficienza le operazioni uniche, è paragonabile alla schizofrenia, se quest’ultima è davvero quella di cui parla Pynchon: «Giorno dopo giorno, Wendell diventa sempre meno sé stesso, e più generico. Entra in riunione e, capisci?, di colpo la sala è piena di gente»178. Una stanza piena di gente ci sollecita in direzioni incompatibili che consideriamo tutte insieme: una posizione del soggetto ci assicura la notevole nuova eleganza globale della sua vita quotidiana e delle sue forme; un’altra si meraviglia del diffondersi della democrazia, con tutte quelle nuove “voci” che risuonano nelle parti finora silenziose del pianeta o nei ceti sociali inudibili (aspetta un momento, saranno qui tra poco per unire la loro voce alle altre); altre lingue più querule e “realistiche” ci ricordano le incapacità del tardo capitalismo, con le sue deliranti costruzioni di cartamoneta che crescono di nascosto, il suo Debito, la rapidità dell’esodo delle fabbriche (eguagliata soltanto dall’apertura di nuove catene di distribuzione di cibo spazzatura), il semplice impoverimento della carenza strutturale di case, per non dire della disoccupazione, e quella circostanza ben nota che si chiama “degrado” urbano, che i media confezionano brillantemente con melodrammi di droga e violenza pornografica, allorché reputano che l’argomento corre il pericolo di farsi trito. Non si può dire che nessuna di queste voci contraddica le altre, perché non lo fanno i “discorsi” ma solo gli enunciati; e l’identità di identità e non identità non sembra particolarmente soddisfacente per questo caso, per il quale anche il termine “coesistenza” risulta troppo rassicurante, in quanto implica la possibilità estrema di una collisione intergalattica grazie a cui materia e antimateria potrebbero finalmente incontrarsi e stringersi la mano. Persino la modesta ipotesi di Brecht a proposito di Hollywood, cioè che in essa Dio avesse economizzato e avesse progettato soltanto un insediamento («il cielo. […] / per chi non ha niente, per chi non ha successo, / serve da inferno»), è fin troppo funzionale, malgrado l’idea di una città – e di che città! – affiori imperiosamente nella mente come una delle poche “rappresentazioni” pensabili che rimangono. Il postmodernismo è vivo e sta bene nelle boutique e nei piccoli ristoranti alla moda (si dice infatti che oggigiorno la ristrutturazione di ristoranti costituisce una parte consistente delle commesse dell’architetto postmoderno), mentre le altre realtà vagano al di fuori su vecchie auto o a piedi. Come ideologia che è anche una realtà, il “postmoderno” non si può confutare, in quanto il suo aspetto fondamentale è la separazione assoluta di tutti i livelli e di tutte le voci; si potrebbe confutare soltanto se questi si ricombinassero nella loro totalità.
9. Decadenza, fondamentalismo e tecnologia avanzata
Le ultime fasi disperate del gioco del nascondino lasciano intendere l’esistenza di alcuni nascondigli logici finali nei quali si potrebbe ancora trovare la Storia (che, sotto una maschera diacronica, si rivela puramente spaziale), nonostante il silenzio sinistro in cui sprofonda, che porta a concludere che potrebbe essere stata soffocata dai bavagli. Può darsi che non sia possibile, però, generare la storia a partire dal presente e dare alle proiezioni della fantasia, agli appagamenti del desiderio dell’oggi, la forza, se non di una realtà, quanto meno di ciò che fonda e inaugura le realtà, come amava dire Heidegger (stiften).
Tali proiezioni vanno in direzioni opposte, malgrado si possano rintracciare entrambe nel corpus più consistente di questi sintomi, la fantascienza contemporanea. Esito a identificare queste direzioni in quelle nostre vecchie conoscenze che sono il passato e il futuro, di cui forse sono, però, versioni nuove e postmoderne, in una situazione nella quale né il passato né il futuro possono accampare, come si è visto, diritti legittimi sulla nostra attenzione e sulla nostra responsabilità. La decadenza e la tecnologia avanzata rappresentano in effetti le occasioni, il trampolino di lancio di tale speculazione, presentandosi esse stesse in modalità antitetiche.
Infatti, laddove la tecnologia avanzata è onnipresente e inevitabile, in particolare nelle sue svariate forme religiose, la decadenza si impone grazie alla propria assenza, come un cattivo odore che nessuno nomina o un pensiero che tutti gli ospiti fanno visibilmente lo sforzo di evitare. Si potrebbe pensare che il mondo degli auricolari e di Andy Warhol, del fondamentalismo e dell’AIDS, delle attrezzature da ginnastica e di MTV, degli yuppie e dei libri sul postmodernismo, delle pettinature punk e del taglio a spazzola stile anni Cinquanta, della “perdita della storicità” e dell’éloge della schizofrenia, dei media e dell’ossessione del calcio e del colesterolo, della logica dello “shock del futuro” e della comparsa degli scienziati e delle forze antisommossa come i gruppi sociali di nuovo tipo, possieda tutti i requisiti per passare, agli occhi di un osservatore marziano dotato di senno, per compiutamente decadente. Dirlo è tuttavia scontato, e una delle altre conquiste tattiche del sistema discorsivo postmoderno sta nel relegare il laudator temporis acti nel magazzino dei personaggi letterari che non sono più molto plausibili o credibili. A dire il vero, dove la vecchia norma è divenuta semplicemente un altro “stile di vita”, la categoria dell’eccentrico perde la propria ragion d’essere. Ma i moderni disponevano ancora di questa nozione, che talvolta mettevano in atto in una maniera che nel nostro tempo è stata ricreata soltanto dal grande Satyricon di Fellini, sotto le sembianze di un “film della nostalgia” sul tardo impero romano. C’è però una notevole differenza: la nostalgia potrebbe in qualche misura essere reale e in tal caso va considerata un sentimento fin qui del tutto sconosciuto e non classificato (a meno che non si tratti di un rifacimento in costume della Dolce vita, e allora Fellini non sarebbe altro che un ennesimo moralizzatore privo di interesse, circostanza che il suo film smentisce astenendosi trionfalmente dal pathos narcisistico del suo equivalente contemporaneo). Qui Fellini riesce a costruire una macchina del tempo mediante la quale si può cogliere uno scorcio non del mondo vissuto dai romani decadenti dell’età argentea, ma di quello dei protagonisti del modernismo avanzato (per lo meno nella sua prima fase, la simbolista), i quali, diversamente da noi, potevano ancora pensare in concreto il concetto di decadenza, con vigore flaubertiano. Per contro, come ricorda al riguardo Richard Gilman179, ai romani mancava tale concetto e, a differenza del personaggio del film in costume che annuncia di partire per la Guerra dei Trent’anni (ma come noi postmoderni), essi erano tutt’altro che intenti a darsi dei pizzicotti a ogni istante per rammentarsi che stavano vivendo “nella Decadenza”.
Gilman prosegue con l’invito a smettere di utilizzare questo concetto dannoso, ignaro del fatto che da lungo tempo chiunque ha già smesso di farlo; ciò nonostante, il concetto offre comunque un laboratorio interessante dove osservare il singolare comportamento di quel fenomeno denominato “senso della differenza storica”. Il paradosso contenuto nei problemi concettuali messi in atto dalla rappresentazione di Fellini trae la propria forza motrice paralogica in primo luogo dai paradossi della differenza: infatti i “decadenti” sono tanto diversi da noi quanto, in un altro senso, sono uguali; sono cioè il veicolo della nostra identificazione simbolica travestita. Ma la “decadenza” in questo senso, come tema o ideologema, non è una semplice sala di un museo immaginario (che ospiti per esempio una “cultura” più singolare di quella dei polinesiani), né costituisce, come pensa talvolta Gilman, una “teoria” che comprenda dei presupposti sulla salute o l’equilibrio psichico e razziale. È il derivato di tutta una teoria della storia, uno speciale sottoinsieme di quella che i tedeschi chiamano Geschichtsphilosophie. Dunque, occorre purtroppo partire da qui e aprirsi la strada fino a Des Esseintes o ai romani di Fellini; il compito implica qualche riflessione sulla specificità dei “tempi moderni” e su come essa si definisce mediante la propria differenza rispetto al resto della storia. Di recente Latour ha opportunamente ribattezzato tale circostanza come «Grande Separazione» (come se in giro non ce ne fossero già altre!), che a volte si chiama anche «l’Occidente e il resto», ma è conosciuta pure come Ragione occidentale, metafisica occidentale o, meglio, Scienza (la preoccupazione particolare di Latour), della quale è inutile specificare che è innanzi tutto occidentale (tranne che per i lettori di Joseph Needham o di Lévi-Strauss). Latour ha allestito una splendida tabella dei sinonimi e dei travestimenti di questa visione dell’eccezionalismo occidentale, nella quale si ritrova un certo numero di vecchie conoscenze marxiste:
mondo moderno
laicizzazione
razionalizzazione
anonimato
disincanto
secolarizzazione
demitizzazione
mercantilizzazione
ottimizzazione
disumanizzazione