macchinismo

deterritorializzazione

occidentalizzazione

capitalismo

intellettualizzazione

industrializzazione

post-industrializzazione

tecnicizzazione

riconoscimento dell’Essere

sterilizzazione

plastica e cemento

oggettivazione

americanizzazione

scientifizzazione

società dei consumi

società senz’anima

stupidità moderna

progresso180

Piuttosto chiaramente, in queste posizioni Latour ha compendiato parecchie fasi storiche, sottolineando così la profonda continuità delle situazioni dalle quali insorgono e che esprimono. Al contempo, la “complicità” della sinistra e del marxismo nella perpetuazione del mito dell’eccezionalismo dell’Occidente qui si rende perfettamente chiara a chiunque abbia dimenticato le pagine del Manifesto del partito comunista dedicate all’esaltazione della dinamica nuova e storicamente unica del capitalismo. Però la mia opinione è che a essere in stato d’accusa sia il modernismo stesso (o piuttosto la “modernità”; a meno che in realtà non sia la “modernizzazione”), mentre la novità risiede invece nell’associare il marxismo a tutto ciò, come un’ennesima espressione del modernismo.

In effetti, l’aspetto del materialismo storico relativo alle fasi si può riformulare in una maniera anticonvenzionale, tale da trasformare la frattura assoluta che molto spesso (e giustamente) si percepisce nel marxismo tra capitalismo (e socialismo) e i cosiddetti modi di produzione precapitalistici. Nella tradizione, in effetti, lungo il continuum storico vagano parecchie fratture più o meno accentuate, come un verso il cui metro o la cui relativa libertà ci facciano esitare. Il marxismo invero postula un tipo di frattura tra le società tribali (cacciatori e raccoglitori, comunismo primitivo) e quei modi di produzione successivi (capitalismo compreso) che conoscono il potere statale (insieme alle eccedenze, alla scrittura, alla divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e così via). Un’altra frattura la colloca tra le società del potere precapitalista e la dinamica assai speciale del capitalismo, con la sua espansione infinita («pone un suo specifico limite e in pari tempo tende a superare ogni limite»181), di cui si può dire che reinventa la storia in modo nuovo, oltre a costituire una forma di imperialismo sociale incomparabile e fin qui originale; è questa, evidentemente, la frattura che ha in mente Latour. Forse si dovrebbe ipotizzare anche una frattura fondamentale tra capitalismo e socialismo, per il fatto che quest’ultimo reinventa, a un nuovo livello superiore, forme ed esperienze collettive che lo rendono piuttosto maggiormente rapportabile alle formazioni sociali precapitaliste, e sotto questo aspetto dissimile dalla frammentazione atomistica e dall’individualismo del capitalismo per sé (benché, con una mossa hegeliana, il socialismo possa pretendere di mantenere la nuova ricchezza della soggettività individuale sviluppatasi nel sistema di mercato). Tuttavia, ora che le sue sfumature darwiniane (evoluzione unilineare o multilineare) non ci preoccupano più di tanto, tale sequenza, esposta in maniera tanto tradizionale, provoca ancora interrogativi imbarazzanti che non si dissipano del tutto con la nozione dialettica che il capitalismo inaugura ormai un nuovo tipo di storia globale, la cui stessa logica è “totalizzante” in senso stretto. Il risultato è che, anche se prima c’erano delle storie – molte, e senza relazione tra loro –, adesso ce n’è tendenzialmente soltanto una, su un orizzonte sempre più omogeneo, fino a dove arriva lo sguardo.

Una lettura accurata del Manifesto indica comunque un modo un po’ diverso di pensare la concezione del capitalismo come fase propria di Marx, giacché si può intendere come una sorta di enorme scatola nera, di «mediatore evanescente», un laboratorio straordinariamente complesso, che si dilata e si sviluppa nel tempo, dentro cui devono passare i popoli precapitalisti affinché siano riprogrammati e riqualificati, trasformati e sviluppati, sulla loro strada verso il socialismo. Questa lettura (che, per quanto strutturale, resta dialettica) ridistribuisce le caratteristiche della differenza radicale della vecchia serie; esclude gli interrogativi intorno al tipo di società, di carattere collettivo e di cultura che implica il capitalismo, dal momento che quest’ultimo ormai è visto come un processo, più che come una fase a sé stante. Infine essa obbliga a riconsiderare gli aspetti attribuiti al postmodernismo in maniera funzionale, quali forme nuove e più intense di una tendenza strutturale che Marx ha notoriamente descritto in termini di separazione, disgiunzione, riduzione, disaggregazione, spoliazione e simili.

Tornando ad altri aspetti dell’esperienza della modernità, si è già visto come quest’ultima faccia come minimo corpo unico con il senso della differenza e del cambiamento imminente, che sia nell’imminenza del mondo oggettuale o in quella della psiche:

Non io, non io, ma il vento che soffia attraverso di me!

Un bel vento sta soffiando la nuova direzione del Tempo.

Se solo lascio che mi sostenga e mi porti, se solo lui mi porta!

Se solo sono sensibile, sottile, delicato, oh, un alato dono!

Se solo mi sottometto e vengo preso

da quel vento bellissimo, che segna il suo corso

attraverso il caos del mondo, come

un sottile squisito cesello, un cuneo tagliente:

se solo sono acuto e duro come la pura e semplice punta d’una V

guidato da soffi invisibili,

la roccia si fenderà, arriveremo alla meraviglia, troveremo le Esperidi.182

Si tratta di un’imminenza esistenziale intercambiabile con le tante espressioni del senso di cambiamento oggettivo che percorre il moderno, insieme al disgusto per i residui dell’antico e alla sensazione che, oltre a essere un sollievo e una liberazione, il Nuovo costituisce anche un obbligo: è qualcosa che bisogna prima di tutto fare a sé stessi per essere all’altezza della situazione, per essere degni del mondo nuovo che fa la propria comparsa tutt’attorno. È tuttavia un mondo i cui segni rivelatori tendono a essere tecnologici, sebbene le sue pretese e le sue esigenze abbiano un carattere soggettivo e comportino l’obbligo a generare individui nuovi, forme della soggettività totalmente nuove. Come rammenta John Berger183, è inoltre un mondo la cui promessa utopica sarà distrutta dalla prima guerra mondiale, tranne che nel canale, ormai più controllato e ristretto, della trasformazione sistemica, della rivoluzione sociale e politica in quanto tale, storicamente incarnata dalla rivoluzione sovietica, con la sua straordinaria nuova effervescenza culturale di carattere modernista. Non è questa la sede per commemorare di nuovo quel fermento, però va osservato che esso presenta una fondamentale distinzione strutturale rispetto al postmoderno (nel quale, essendo tutto nuovo, o piuttosto non essendoci più nulla di “vecchio”, l’emozione della cosa risulta grandemente e dialetticamente ridotta); inoltre la posizione di forza del postmoderno dovrebbe ormai offrire prospettive nuove su un’eredità del modernismo che d’ora innanzi dobbiamo considerare classica. Si può affermare, come minimo, che la modernità è inseparabile dalla sensazione di differenza radicale che sto analizzando qui: i moderni si sentono individui di tipo totalmente diverso da chi appartiene alle vecchie tradizioni precapitaliste o al mondo coloniale coevo al modernismo (e all’imperialismo). Quanto c’è qui di offensivo nei confronti di altre società e di altre culture (nonché di altre razze, non è superfluo aggiungere) si complicherà con il modo in cui una serie di altre società interiorizza il dilemma e, ognuna alla sua maniera, vive il dramma del Vecchio e del Nuovo con straordinaria angoscia. Ma la perfezione della grandiosa macchina del capitalismo (industria compresa) non è certamente un merito personale dei nordeuropei bianchi (e spesso protestanti): si tratta di un evento fortuito delle circostanze e delle strutture storiche (ossia delle condizioni di possibilità). A tale riguardo sarebbe una tautologia aggiungere che gli “educatori” erano per definizione essi stessi già “rieducati”, dato che tra le altre tecnologie che produce e sviluppa il capitalismo c’è anche quella umana: la produzione di “manodopera produttiva”.

Nondimeno persino questa descrizione, che non implica più alcun tipo di eurocentrismo, presuppone la differenza assoluta del capitalismo. Riguardo a un postmodernismo globale nel quale le differenze di tale genere vengono teoricamente ripudiate, occorre pertanto osservare che la sua stessa condizione di possibilità esige una modernizzazione delle altre parti del globo molto maggiore rispetto all’età del moderno, quella dell’imperialismo classico.

Da cosa deriva allora questa strana ombra interiore, questa opacità del moderno che è la decadenza? Perché gli orgogliosi moderni – i modernisti –, che nella migliore delle ipotesi nutrono qualche apprensione riguardo alla loro insufficiente modernità, covano questa fantasia segreta di una differenza languida, nevrastenica, di cui continuano ad accusare le province più antiche del loro impero, per non parlare dei loro artisti e degli intellettuali “più avanzati”? La decadenza è chiaramente qualcosa che resiste alla modernità e al contempo la segue, come un destino futuro nel quale si allentano e si sciolgono tutte le promesse del moderno. Il concetto fantastica il ritorno di tutte le sette religiose e gli alimenti più bizzarri, dopo il trionfo della laicità, dell’homo oeconomicus e dell’utilitarismo: è dunque lo spettro della sovrastruttura, dell’autonomia culturale, a tormentare l’onnipotenza della base. In un certo qual modo la “decadenza” è la vera e propria premonizione del postmoderno, ma in condizioni che rendono impossibile presagire tale conseguenza con precisione sociologica o culturale, dirottando così il vago senso del futuro verso forme più fantastiche, tutte mutuate dagli spostati e dagli eccentrici, dai pervertiti e dagli Altri, gli estranei, del sistema attuale (moderno). Nella storia, in definitiva, o meglio nell’inconscio storico, la “decadenza” ci si para davanti come l’inestirpabile alterità del passato e di altri modi di produzione. È un’alterità presupposta dal capitalismo in quanto tale, ma che esso si misura ormai, per così dire, come se si trattasse di un vecchio costume, giacché questi antichi decadenti (che a loro volta non hanno alcuna idea della decadenza) rappresentano gli altri di un altro, la differenza di una differenza: si guardano intorno con i nostri occhi, che non vedono null’altro se non quanto c’è di morbosamente esotico, ma ne sono complici e infine se ne fanno contaminare. Così, poco a poco i ruoli si invertono e siamo noi moderni a diventare “decadenti” sullo sfondo delle realtà più naturali del paesaggio precapitalistico.

Dove la natura si è dissolta, comunque, e insieme a essa quell’”alterità” che può apparire offensiva nell’arroganza e nell’ideologia eccezionalista della modernità, deve a sua volta svanire il concetto di decadenza, perché non è più valido per caratterizzare ed esprimere le nostre reazioni al postmoderno. D’altro lato sembra persistere lo scenario storiografico di tutte quelle “fini del mondo” che hanno conferito al periodo decadente la sua particolare risonanza e, per così dire, il suo timbro argenteo. In tal senso l’espressione tardo capitalismo è impropria, in quanto l’appellativo “tardo” non genera nessuna di quelle connotazioni fin de siècle o tardoromane che gli si associano, né si fantastica che i suoi soggetti siano deboli e apatici per un eccesso di esperienza e di storia, di jouissance e di operazioni intellettuali e scientifiche rare e occulte. Veramente tutte queste cose le abbiamo, ma subito dopo corriamo un po’ per tonificare il fisico, mentre per la stessa ragione i computer ci sollevano dall’obbligo terribile di dilatare la memoria come fosse una vescica gonfia che trattiene tutti questi rimandi enciclopedici.

Ciò nonostante, l’immaginazione della catastrofe mantiene ancora le forme categoriali di un futuro prossimo e di uno lontano; se la minaccia atomica si è allontanata, l’effetto serra e l’inquinamento sono, per compensazione, sempre più intensi. Occorre chiedersi se tali angosce e le narrazioni nelle quali si incarnano “intendano” davvero il futuro (nel senso tecnico di Husserl, cioè di porre un oggetto autentico), oppure se in qualche misura si avvolgano su sé stesse e si alimentino del nostro preciso momento del tempo. La visione paradigmatica di tutto questo, il film australiano Interceptor, il guerriero della strada (che pare avere ereditato una tradizione locale che deriva da Lultima spiaggia e dalla sensazione geografica che l’Australia sia l’ultima della fila rispetto alla nube atomica), descrive quello che i russi chiamano un “periodo dei torbidi”, uno sfacelo della civiltà, un’anarchia universale, una regressione alla barbarie; allo stesso modo delle più superficiali geremiadi della decadenza, potrebbe considerarsi semplicemente come un commento privo di originalità e una satira dello stato attuale delle cose, dalla crisi petrolifera fino alle rapine e alla cultura del tatuaggio.

Eppure Freud ci ha insegnato che la totalità manifesta di una fantasia o di un sogno (che possiamo ampliare fino a includere il fascino di questo genere di prodotto culturale) non è una guida affidabile, se non per inversione e per negazione, riguardo al significato del contenuto latente. I sogni che vedono la morte di una persona amata in realtà si rivelano lieti appagamenti di desideri rispetto a qualcosa di completamente estraneo. Una volta ho osservato184 che si dovrebbe concepire una specie di implicazione strutturale molto più stretta e logica di questa, nella quale gli aspetti morbosi del contenuto manifesto esercitino un ruolo più immediato e funzionale, distogliendoci da ciò che nel contenuto latente potrebbe offendere la nostra autostima (o i nostri modelli di ruolo interiorizzati). L’occasione me l’ha fornita un film di fantascienza per la televisione, nel quale un gruppo di speleologi sfuggiva per puro caso alla catastrofe universale (non ricordo bene se dovuta agli effluvi nocivi delle meteore o a una nube di gas tossici di breve durata). Per comodità dei realizzatori della pellicola, sia i corpi delle vittime sia tutta l’altra materia organica morta si erano volatilizzati immediatamente, senza lasciare nemmeno l’indizio di un mucchietto di polvere. Le ultime persone sulla Terra irrompevano dunque in un paesaggio ostile, dove potevano fare il pieno gratis all’auto presso le pompe di benzina, oppure prendere il cibo in scatola dagli scaffali dei negozi di generi alimentari vuoti. Per loro, la California era ritornata allo stadio di un paesaggio paradisiaco senza sovrappopolazione, mentre i sopravvissuti si davano a un’agricoltura idillica e a un’esistenza comunitaria, proprio come negli esiti (secondo me) utopici delle varie apocalissi di John Wyndham. Lo spettacolo offriva così terrore esistenziale e dolore melodrammatico, cui facevano da sfondo i vantaggi reali di una riduzione della concorrenza e di un modo di vivere più umano. Questo tipo di film lo definisco l’appagamento di un desiderio utopico mascherato sotto i panni della distopia; e ritengo sia giusto e prudente, per quello che riguarda i lati peggiori della natura umana, esaminare attentamente gli incubi apparenti di questo genere alla ricerca delle tracce di quel diverso impulso, più egoistico, verso l’autoappagamento individuale e collettivo che Freud ha scoperto, insaziabile, nel nostro Inconscio.

Certamente Interceptor, il guerriero della strada possiede alcune altre caratteristiche che lo distinguono da un’ingenua narrazione postatomica (sul genere di A Boy and His Dog o Glen and Randa); in particolare, la sua prospettiva temporale trasforma la narrazione di un futuro prossimo in quella di un futuro lontano, conferendo al presente dimensioni leggendarie di taglio pressoché mitico o religioso (fenomeno poi portato a compimento con pignoleria nell’alquanto più cristologico Terminator). Ma in seguito altre fantasie urbane rendono scoperto il gioco; e non è soltanto lo splendore visivo di Blade Runner a suggerire un consumo più familiare di immagini (ma non meno sontuoso e appagante), che ben poco ha a che vedere con i futuri più o meno fantasticati, ma moltissimo con il tardo capitalismo e alcuni dei suoi mercati preferiti.

Secondo me, ciò che “significano” – forse non è questa la parola migliore – film come questo non è il collasso della tecnologia avanzata in un tempo futuro di torbidi, ma soprattutto la sua conquista. In quanto rappresentazioni, queste pellicole distopiche postmoderne paiono fornirci pensieri e ipotesi sul futuro; e questi sono senza dubbio abbastanza plausibili, tranne che per quello che potremmo ormai chiamare principio di Adorno, immediatamente attivato nella stessa misura tanto dal futuro quanto dall’attualità, cioè che, anche se si rivelassero dei fatti, potrebbero non essere necessariamente veri. Ma quel che ci danno davvero da consumare questi film non sono quelle prognosi inconsistenti o quei bollettini meteorologici distopici, bensì la stessa tecnologia avanzata e i suoi effetti speciali. J.G. Ballard, uno dei maggiori distopisti postcontemporanei, ha trovato una splendida formulazione per tali proiezioni estetiche: esse hanno raggiunto, ci dice, un livello di tecnologia avanzata quanto basta per raffigurare il declino della stessa tecnologia avanzata. La vera tecnologia avanzata implica il conseguimento della capacità di mostrare la propria storicità: «Wesen ist was gewesen ist» (la negazione è determinazione); non si può dire che cos’è una cosa finché non si muta in qualcos’altro; non la fine dell’arte, ma la fine dell’elettricità, e l’avaria di tutti i computer. Il pensiero dà un senso nuovo ed esemplare a una scena indimenticabile della Regola del gioco di Renoir. Al culmine del ballo in maschera nello château, ormai infestato da scheletri che agitano le lanterne e celebrano la mortalità al suono della Danse macabre di Saint-Saëns, si può scorgere la pianista grassa che, con le mani in grembo, fissa con assorta malinconia l’autonomia scheletrica della tastiera, dietro la quale i rulli del piano hanno preso il controllo a tutta forza. È una favola dell’opera d’arte in quella fase precisa della sua riproducibilità meccanica, che contempla il proprio potere alienato con un morboso rapimento. Il postmoderno ha comunque raggiunto una fase ulteriore rispetto a questa; a differenza del piacere che il moderno prova di fronte alla propria proiezione nella macchina meravigliosa, il piacere del postmoderno rispetto all’avaria di quella medesima macchina al momento critico può andare incontro al peggior fraintendimento, se non ci si rende conto che è esattamente così che la tecnologia postmoderna si consuma e celebra sé stessa.

Occorre pertanto ipotizzare l’esistenza di una sorta di supplemento di piacere nell’eccedenza dell’immagine tecnologica, poiché qui la tecnologia avanzata si può identificare non soltanto nel contenuto (le presunte circostanze future che si filmano e poi si proiettano davanti a un pubblico sfinito), ma anche nello stesso procedimento, nel carattere del dispositivo, nelle qualità dell’immagine materiale e nella riuscita degli “effetti speciali”. Come nei paradossi della «sospensione dell’incredulità», la negazione della negazione fa sì che questi effetti vengano giudicati come non irrealistici, e quindi valutati a seconda dei milioni di dollari spesi nella loro realizzazione (è noto che oggi i grandi successi di cassetta si ottengono principalmente grazie a nuovi e ragguardevoli “effetti speciali”, mentre ciascuno di questi nuovi costrutti è accompagnato da tutta una pubblicità secondaria sulle sue modalità di realizzazione, sui tecnici, le novità e così via). Così gli “effetti speciali” rappresentano qui una specie di rozza ed emblematica caricatura della logica profonda di tutta la produzione contemporanea di immagini, dove distinguere tra la nostra attenzione al contenuto e la nostra valutazione della forma è divenuta una questione eccessivamente sottile. “Forma costosa”, invece della vecchia “forma espressiva”: è certamente questa, ormai, la parola d’ordine che designa queste merci particolari, il cui valore di scambio si è a sua volta trasformato, seguendo una complessa spirale supplementare, in una merce a sé. (È un modo un po’ diverso – e più classico – di riferirsi al tipo di connotazione di status anatomizzata per primo da Veblen, poi codificata dalla sociologia accademica e infine, ai nostri giorni, reinventata secondo fertili criteri nuovi da Pierre Bourdieu; in una società le cui gerarchie crollano dall’interno, la nozione di status appare incerta, ma l’universalizzazione degli effetti formali che ho analizzato in precedenza – quello che ho denominato “supplemento di piacere della tecnologia avanzata” – spiega perché tali nozioni abbiano potuto tornare a essere attraenti).

L’astrazione di tale processo – nel quale la mercificazione raggiunge nuovi livelli di secondo grado e sembra estendersi alle proprie fasi precedenti – suggerisce dei parallelismi con il sistema creditizio e le costruzioni di cartamoneta nelle attuali pratiche borsistiche. Per contro, se non si vuole ricadere nel determinismo tecnologico, sarebbe necessario esaminare la struttura della nuova tecnologia in relazione alla sua capacità di sostenere un investimento libidico di questo genere: un’esultanza per le nuove forze protesiche, che si distinguono dal vecchio macchinismo (il motore a combustione, l’elettricità ecc.) in virtù del loro carattere non antropomorfo e danno così vita a forme di idealismo del tutto diverse da quelle classiche. Inoltre si potrebbero stabilire dei parallelismi strutturali tra questi nuovi apparati “informazionali”, che non sono né vilmente fisici né “spirituali” in senso ottocentesco, e il linguaggio medesimo, il cui modello si è fatto predominante nel periodo postmoderno. Da questo punto di vista, non sarebbe il carattere informazionale della nuova tecnologia ciò che ispira una riflessione sul linguaggio e sprona le persone a costruire ideologie incentrate su di esso; al contrario, sarebbero gli stessi parallelismi strutturali tra due fenomeni ugualmente materiali a eludere parimenti la rappresentazione fisica di vecchio stampo.

Intanto, siccome la religione è sempre stata uno dei principi tramite i quali la modernità ha cercato di riconoscersi e di precisare la propria diversità, non sarebbe fuori luogo indagarne la condizione di fronte all’ordine di cose postmoderno, dove – esattamente come la ben nota mancanza di storicità ha apparentemente generato una serie di “ritorni alla storia” – i revival religiosi paiono altrettanto endemici, senza che spesso ci si preoccupi di prenderli per il loro valore apparente. Già in Weber, però, la religione costituiva il contrassegno della differenza, mentre alcune religioni sembravano avere maggiori affinità con un modernismo che era sul punto di estirparle rispetto ad altre, dotate di una mentalità ostinatamente conservatrice d’impronta implacabilmente tradizionalista. Di queste ultime, anzi, si può senz’altro dire che le campagne moderniste di laicizzazione antioscurantista non hanno fatto che rafforzarle, al punto che hanno realizzato un mondo vitale e oggettuale nel quale tali tradizionalismi religiosi erano più che mai privi di legittimità. Eppure nel clima più mite di un postmodernismo incontestato, più disinvoltamente laico di quanto possa avere mai desiderato il modernismo, questi tradizionalismi religiosi sembrano essersi dileguati senza lasciare traccia, come il clericalismo autoritario del vecchio Québec della paradigmatica rivoluzione tranquilla, mentre prosperano ormai le forme più sfrenate e inattese di quello che talvolta si chiama “fondamentalismo”, pressoché a caso e in apparenza obbedendo ad altre leggi ecologiche, ad altre fasi critiche.

Sarebbe offensivo o sentimentale dar conto di queste nuove formazioni “religiose” facendo appello a un universale anelito umano alla spiritualità, entro una condizione nella quale la spiritualità praticamente non esiste più per definizione, cioè di fatto quella dello stesso postmodernismo. Uno dei massimi risultati di quest’ultimo è la completa eliminazione di tutte le forme di quello che nelle società borghesi e persino in quelle precapitaliste si chiamava idealismo. Naturalmente ciò significa, per inciso, che è parimenti inutile preoccuparsi del materialismo, nato come terapia e correttivo dell’idealismo, il quale non ha più molto da fare. Tanto meno vale la pena tacciare il postmodernismo di “materialismo” nell’altro senso, quello nordamericano e consumistico, giacché in un mondo totalmente mercificato non è più immaginabile nessun comportamento contrastante. Per contro, i problemi che ha dovuto affrontare in anni recenti la vecchia concezione marxiana dell’ideologia scaturiscono senza dubbio dalla sua affinità con le varie forme dell’idealismo che essa era solita denunciare, che si sono a loro volta estinte. Per quanto riguarda i fondamentalismi religiosi, Marvin Harris ha dedicato parte della sua accusa assurdamente appassionata contro i tempi postmoderni185 a denunciare il rilievo che i nuovi fondamentalismi danno al successo di qualsiasi tipo (vita, libertà o ricerca della felicità, per lo più finanziaria), ricordandoci che nessuna religione apparsa in precedenza sulla faccia della terra ha mai valorizzato queste cose, e tanto meno le ha promesse. Ma la questione più “fondamentale” mi sembra quella che riguarda la tradizione e il passato, e come le nuove religioni compensano la propria assenza insostituibile nella mancanza di profondità del nuovo ordinamento sociale.

Ritengo infatti assiomatico che quello che oggi si chiama fondamentalismo sia anch’esso un fenomeno postmoderno: qualunque cosa gli piaccia pensare, pensa a un passato più puro e autentico. La rivoluzione iraniana, trasformatasi in islamica e clericale, si è certamente scagliata contro lo scià in quanto agente della modernizzazione; in questo è stata tanto antimoderna quanto postmoderna, con la sua insistenza su tutti gli aspetti essenziali di un moderno Stato burocratico e industrializzato. Ma il paradosso della ripetizione freudiana sembra valere in maniera inversa per il tradizionalismo in quanto programma postmoderno (o anche moderno): proprio come con uno non si può avere davvero una “prima” volta, con l’altro non si può concepire una restaurazione che si possa veramente considerare tradizionale o autentica. Le restaurazioni del modernismo paiono avere prodotto una forma modernista della tradizione, che è stata classificata in maniera più precisa tra i diversi fascismi; quelle postmoderne paiono tutte avere molto in comune con quelli che la sinistra chiama “nuovi movimenti sociali”, anzi, costituiscono altrettante varietà di questi ultimi, che non sono tutti reazionari, come testimonia la teologia della liberazione.

Ciò che rende difficile discutere la “religione” in termini postmoderni, nonché individuare dei concetti esperienziali affini come l’”estetico” o il “politico”, è la problematizzazione delle nozioni di fede nell’universo sociale postmoderno, oltre che la sfida teorica a queste dottrine irrazionali particolarmente autoreferenziali nell’ambito concettuale, dove è come se l’”alterità” inerente alla dottrina della fede in quanto tale la designasse per l’eliminazione. Secondo l’ideologia classica, la fede rimandava sempre a una retorica della profondità, e resisteva alla persuasione o al raziocinio; ritengo che la sua posizione ontologica nell’ambito intellettuale mascherasse l’aspetto più strano ed essenziale di tale pseudoconcetto, destinato a essere sempre attribuito ad altri (anche come credente, in realtà “io” stesso non credo mai abbastanza, o almeno così dice Pascal186).

Il concetto stesso di fede è pertanto vittima di un periodo nel quale l’alterità come tale – differenza valorizzata che sfocia in un eccezionalismo del presente, di fronte a cui il passato e le culture altre risultano subalterni – viene intesa criticamente come pietra angolare del moderno, essendo peraltro la superstizione più apprezzata in rapporto a sé stesso. La coscienza tranquilla che a questo riguardo ha il postmoderno evidentemente non si paga abdicando per principio all’infrastruttura tecnologica e scientifica su cui si basava la pretesa di diversità della modernità. Al contrario, è stata acquistata a credito e celata dalla trasformazione della rappresentazione di quella infrastruttura, in cui nella percezione collettiva il word processor rimpiazza la catena di montaggio.

Comunque, i postmodernismi religiosi costituiscono un superamento di quel senso della diversità sociale e culturale pagato a caro prezzo e fortemente percepito dal modernismo, esattamente come i postmodernismi di carattere culturale e sociale. Se il “genere”, la distinzione borghese e il ragionamento scientifico occidentale sono forme della diversità che i nostri progenitori del Primo Mondo consideravano traguardi unici, ma che noi abbiamo ereditato senza un minimo di disgusto e ci siamo accinti a demolire, allo stesso modo il modernismo religioso offre lo spettacolo di un’ermeneutica teologica di grande raffinatezza, dotata di sofismi elaborati e duttili, che non possono esercitare un particolare richiamo in un’epoca che disdegna l’ermeneutica in sé e ha scarsa necessità di una casistica.

Il modernismo teologico sembra infatti condividere con le altre espressioni del modernismo il senso costitutivo di quella radicale alterità, o diversità, del passato che ci costituisce in quanto moderni: l’idea che tutti quelli che ci hanno preceduto non erano dunque moderni, bensì tradizionali, e in tale misura del tutto diversi nel modo di pensare e di comportarsi. Al momento della nascita della modernità autentica tutti i vecchi mondi muoiono e divengono totalmente altri. Così i moderni, con la loro religione del nuovo, hanno creduto di essere in qualche modo diversi da tutti gli altri esseri umani mai vissuti nel passato, nonché da quegli esseri umani non moderni che vivevano ancora nel presente, come i popoli coloniali, le culture arretrate, le società extraoccidentali e le enclave “sottosviluppate”. (Per il postmoderno, poi, la frattura si produce con una presunta apertura a queste forme dell’alterità psichica, sociale e culturale, la quale pone in una nuova luce la questione di un terzomondismo politico, come fa il cedimento del “canone” occidentale, oltre che la possibilità di una nuova ricezione di altre culture globali).

Il compito ermeneutico del modernismo teologico nasce dalla disperata esigenza di preservare o riscrivere il significato di un antico testo precapitalista entro il quadro di una modernizzazione trionfante, che minaccia le scritture insieme a tutte le altre reliquie di un passato agrario in corso di liquidazione a livello globale. All’epoca della Rivoluzione inglese i contadini avevano un’esperienza diretta della terra e delle stagioni probabilmente non molto diversa da quella dei personaggi del Vecchio Testamento (o anche del Nuovo), perciò non sorprende che per essi fosse ancora possibile rappresentarsi la rivoluzione in termini biblici e di concettualizzarla in categorie teologiche. Per la borghesia ottocentesca tale possibilità non sussiste più, dentro un mondo vitale di fabbriche e di lampioni elettrici, di treni e di contratti, di istituzioni politiche rappresentative e di telegrafi. Che senso possono avere le storie di individui pastorali abbigliati in costumi esotici per queste donne e questi uomini moderni dell’Occidente? A salvare la situazione interviene allora l’ermeneutica modernista: le narrazioni bibliche, vangeli compresi, non vanno più prese alla lettera (ed è così che mente Hollywood!). Vanno prese invece in maniera figurale o allegorica, spogliate del loro contenuto arcaico o esotico e tradotte in esperienze di natura ontologica o esistenziale. Il loro linguaggio e la loro figuralità sostanzialmente astratti (angoscia, colpa, redenzione, “questione dell’essere”) possono ormai, un po’ come le “opere aperte” del modernismo estetico, essere offerte al pubblico differenziato dei cittadini occidentali affinché li ricodifichino in rapporto alle loro situazioni private. La difficoltà ermeneutica centrale è posta così chiaramente dall’antropomorfismo del personaggio narrativo di un Gesù storico; soltanto un intenso sforzo filosofico è in grado di trasformare tale personaggio in una astrazione cristologica. Quanto ai comandamenti e alla dottrina etica, la casistica ha risolto la questione da tempo: anch’essi non vanno più intesi alla lettera. E di fronte alle forme propriamente moderne dell’ingiustizia, della guerra burocratica, della disuguaglianza sistemica o economica ecc., i teologi e gli ecclesiastici moderni possono escogitare delle forme persuasive di adattamento alle restrizioni delle complesse società moderne, nonché fornire ottime ragioni per il bombardamento dei civili o l’esecuzione dei criminali, ragioni che non destituiscono gli esecutori del loro titolo di cristiani.

È questa pertanto la situazione del modernismo la quale fa sì che uno come il teologo “fondamentalista” nordamericano John Howard Yoder187 possa essere considerato non soltanto antimoderno, ma anche postmoderno, in virtù della sua affermazione secondo cui oggi, in una società pienamente modernizzata, gli insegnamenti di Gesù elaborati nella Scrittura (compresa specificamente la riaffermazione del Sesto Comandamento) fanno appello a noi in maniera letterale. In un contesto in cui questa riaffermazione dottrinale non si configura come residuale (come nel caso dell’ideologia tradizionale dei gruppi sociali in via di dissoluzione e razionalizzazione, in senso weberiano), ma fa piuttosto la propria comparsa nell’ambiente postmoderno della modernizzazione e della razionalizzazione compiute, si può considerare – senza alcuna irriverenza – che essa abbia con il passato un rapporto simulato invece che commemorativo, e che condivida le caratteristiche di altre simulazioni storiche postmoderne di questo tipo. Nel nostro contesto, l’aspetto sorprendente di tale simulazione è in effetti il rifiuto di qualunque fondamentale diversità sociale o culturale tra i soggetti postmoderni del tardo capitalismo e quelli mediorientali dell’impero romano alle sue origini: questo fondamentalismo nega in maniera assoluta quella che Latour chiama Grande Separazione, soprattutto nella misura in cui credere in quella distinzione in primo luogo autorizzava e legittimava la modernità, sia come esperienza che come ideologia.

L’esempio di Yoder, un pacifista mennonita che con le proprie argomentazioni si schierò contro la guerra del Vietnam, può peraltro servire per ricordare tempestivamente che l’attributo di “postmodernità” non reca automaticamente con sé alcun giudizio di valore preconfezionato; anzi, presumo che molti lettori accoglieranno questa particolare espressione del fondamentalismo postmoderno (come la teologia della liberazione, nell’ambito del cattolicesimo contemporaneo) in maniera molto più positiva rispetto alle espressioni più politicamente reazionarie dello stesso fenomeno storico, che si tratti degli evangelici o della “rivoluzione islamica” iraniana. Questi ultimi due fenomeni sono tuttavia entrambi movimenti basati su piccoli gruppi in senso autenticamente postmoderno49; in effetti, il caso iraniano solleva il problema particolarmente interessante di quanto una politica postmoderna (che fa proprie le forme mediatiche più moderne, come le cassette dei discorsi dell’ayatollah che entravano illegalmente nell’Iran dello Scià) sia coerente con la presa totalizzante e modernista del potere statale. Il problema teorico più profondo posto da queste forme di religione postmoderna sta comunque nella loro distribuzione nel nuovo sistema-mondo al quale corrisponde il postmoderno: non è mai stato un problema comprendere come possa nascere un modernismo basato su una fondamentale ostilità e su un rifiuto nei confronti della modernizzazione. Ciò nonostante, qui, nel Terzo Mondo contemporaneo collocato dentro il sistema postmoderno, si è tentati di adattare la formula di Jencks e di parlare di una specie di “tardo antimoderno”, sebbene si possa presumere che siano stati l’estensione e il compimento del processo di modernizzazione a rendere possibile la rivoluzione iraniana (e anche i movimenti evangelici controrivoluzionari organizzati dalla CIA in America Latina).

10. La produzione di discorso teorico

Nel corso di queste pagine ho insistito su una descrizione del pensiero postmoderno – è questo infatti ciò che chiamavamo “teoria” nel periodo eroico della scoperta del poststrutturalismo – secondo i termini delle peculiarità espressive del suo linguaggio, più che delle mutazioni del pensiero o della coscienza in quanto tali (e, a volte ineffabile, altre linguistico, alla fine si dovrebbe rappresentare mediante una descrizione sociostilistica più ampia, sul genere della critica della cultura). Un’estetica di questo nuovo “discorso teorico” probabilmente racchiuderebbe gli aspetti seguenti: non deve emettere proposizioni, né dare l’impressione di fare enunciati primari o avere un contenuto positivo (o “affermativo”). Ciò rispecchia la sensazione diffusa che, siccome tutto quello che pronunciamo costituisce un momento di una catena o di un contesto più vasti, tutti gli enunciati che sembrano primari sono di fatto semplicemente dei nessi all’interno di un “testo” più esteso. (Pensiamo di stare con i piedi ben saldi in terra, ma il pianeta ruota nello spazio cosmico). Tale sensazione ne implica poi un’altra, la quale è forse soltanto una versione temporale dell’intuizione precedente, cioè che non possiamo mai risalire tanto all’indietro da poter fare affermazioni primarie, che non esistono origini concettuali (ma solo relative alla rappresentazione), e che la dottrina delle presupposizioni o dei fondamenti è in qualche modo insostenibile quale testimonianza delle insufficienze della mente umana (la quale ha bisogno di fondarsi su qualcosa, che a sua volta si rivela essere null’altro che una finzione, una fede religiosa o una più che mai intollerabile filosofia del “come se”). Per arricchire o modulare questo tema, se ne possono richiamare tanti altri, come l’idea della natura e del naturale quale contenuto o referente ultimo, la cui cancellazione storica in una “età umana” postnaturale definisce in maniera essenziale il postmoderno. Tuttavia l’aspetto cruciale di quella che ho chiamato estetica teorica risiede nel suo organizzarsi attorno a questo particolare tabù, il quale esclude la proposizione filosofica come tale e di conseguenza tanto gli enunciati sull’essere quanto i giudizi di verità. La tanto biasimata presa di distanza del poststrutturalismo dai giudizi e dalle categorie di verità – abbastanza comprensibile come reazione sociale a un mondo già ricolmo di tutte queste cose – è quindi un effetto di secondo grado di un’esigenza più primaria del linguaggio, che non deve più formulare gli enunciati in modo tale da far sì che quelle categorie risultino adeguate.

Si tratta chiaramente di un’estetica davvero esigente: il teorico vi cammina su una corda tesa e il minimo errore precipita gli enunciati in questione verso l’opinione pura o antiquata (sistema, ontologia, metafisica). L’uso che si fa del linguaggio diventa dunque una questione di vita e di morte, specialmente perché è peraltro esclusa l’opzione del silenzio, propria del modernismo avanzato. La mia impressione è che il variegato discorso teorico corrente persegua un compito alla fin fine non tanto diverso da quello della filosofia del linguaggio comune (benché senza dubbio non sembri così!), vale a dire escludere l’errore seguendo attentamente le tracce delle illusioni ideologiche, per come sono veicolate dal linguaggio stesso. In altre parole, quest’ultimo non può più essere vero, ma può sicuramente essere falso; e la missione del discorso teorico diviene così una sorta di operazione di ricerca e distruzione nella quale si identificano e si stigmatizzano inesorabilmente gli equivoci linguistici, nella speranza che un discorso teorico sufficientemente critico e negativo non si trasformi a sua volta nell’obiettivo di tale demistificazione linguistica. Ovviamente la speranza è vana, in quanto, piaccia o no, ogni affermazione negativa, ogni operazione puramente critica, può nondimeno generare l’illusione o il miraggio ideologico di una posizione, di un sistema, di un insieme di valori positivi a sé stante.

Questa illusione è in ultima analisi l’oggetto della critica teorica (che si fa pertanto bellum omnium contra omnes), ma quest’ultima può altrettanto bene – e forse in maniera un po’ più produttiva – montare di guardia sull’incompiutezza strutturale della frase stessa, per la quale dire qualcosa in assoluto significa lasciare fuori qualcos’altro. Attorno a queste omissioni si può organizzare una rivoluzione permanente; e il carattere dei dibattiti teorici a partire dagli anni Sessanta mostra che l’implacabilità delle vecchie dispute ideologiche marxiane era soltanto un presagio, una figura grossolana dell’universalizzazione per lo meno di questa specifica concezione della “critica dell’ideologia”, che si incentra sulla connotazione ingannevole dei termini, sullo squilibrio della presentazione e sulle implicazioni metafisiche dell’atto espressivo.

Tutto queste tende palesemente a ridurre l’espressione linguistica in genere a una funzione di commento, cioè di relazione, sempre di secondo grado, con gli enunciati già formati. Sul piano generale, il commento costituisce invero il campo specifico della pratica linguistica postmoderna, nonché la sua originalità, almeno riguardo alle pretese e alle illusioni della filosofia del periodo precedente, quello della filosofia “borghese”, che con orgoglio e fiducia laici si è messa a dire come stavano realmente le cose dopo la lunga notte della superstizione e del sacro. In quel bizzarro gioco di identità e differenza storica menzionato sopra, ormai il commento garantisce anche l’affinità del postmoderno (almeno a tale riguardo) con altri periodi del pensiero e del lavoro intellettuale, fin qui considerati arcaici, come quello degli amanuensi medievali o quello dell’interminabile esegesi delle grandi filosofie e dei testi sacri orientali.

Tuttavia, in questa situazione disperatamente ripetitiva (che sta al pensiero filosofico come il ritorno al formulaico sta alle ambizioni della grande narrativa borghese moderna), cui manca l’essenziale – il testo sacro che potrebbe conferire una certa motivazione a questa condanna a vita alla forma del commento –, continua a darsi una soluzione linguistica, incentrata su quella che fin qui ho denominato transcodifica. Oltre alla prospettiva secondo la quale il mio linguaggio commenta quello di un altro, ce n’è infatti un’altra più ampia, nella quale entrambi i linguaggi provengono da famiglie più vaste, che una volta si chiamavano Weltanschauungen, ossia visioni del mondo, ma che oggi vengono riconosciute come “codici”. Laddove un tempo “credevo” in una certa visione del mondo, in una filosofia politica, in un sistema filosofico o in una religione, oggi parlo uno specifico idioletto o un codice ideologico – segno dell’adesione a un gruppo, visto in un’ottica diversa, più sociologica – che presenta molti degli aspetti di una lingua ufficialmente “straniera” (per esempio, devo imparare a parlarlo; posso dire certe cose in una lingua straniera con maggiore forza che in un’altra, e viceversa; non esiste un “Ur-linguaggio”, una lingua ideale, di cui le imperfette lingue terrene, nella loro molteplicità, siano altrettante rifrazioni; la sintassi è più importante del vocabolario, ma la maggior parte delle persone pensa il contrario; la mia consapevolezza delle dinamiche linguistiche è il risultato di un nuovo sistema globale o di un certo “pluralismo” demografico).

Davanti a siffatte circostanze, sono possibili parecchi tipi di operazioni nuove. Posso transcodificare, cioè posso mettermi a misurare che cos’è dicibile e “pensabile” in ciascuno di questi codici o idioletti, e confrontarlo con le possibilità concettuali dei suoi concorrenti. È questa, secondo me, l’attività più fruttuosa e responsabile che possano condurre oggi gli studiosi, i teorici e i critici filosofici, malgrado abbia lo svantaggio di essere retrospettiva o anche potenzialmente tradizionalista o nostalgica, in quanto la proliferazione di nuovi codici è un processo senza fine che, nel migliore dei casi, cannibalizza quelli precedenti e, nel peggiore, li consegna alla polvere della storia.

Si profila dunque una possibilità lievemente diversa, che ha comunque una certa affinità con questa, cioè quella che chiamerò produzione di discorso teorico per eccellenza, l’attività di generare nuovi codici, essendo inteso che, in una situazione che esclude per definizione nuovi modi di pensare e nuovi sistemi filosofici, tale attività non è assolutamente tradizionale ed esige che si inventino competenze totalmente nuove.

Si produce nuovo discorso teorico ponendo in una equivalenza attiva due codici preesistenti, i quali, in una sorta di scambio ionico molecolare, si trasformano in un nuovo codice. Occorre comprendere che quest’ultimo, ossia il metacodice, non può in alcun modo essere considerato una sintesi della coppia precedente: non si tratta qui del tipo di operazioni che entravano in gioco nella costruzione dei sistemi filosofici classici. Il vecchio tentativo di dar vita a un freudo-marxismo in effetti può dare una certa idea delle difficoltà di abbinare due sistemi di pensiero; sono difficoltà che si dissipano e rivelano un nuovo e strano paesaggio concettuale, quando si tratta invece di collegare due insiemi terminologici in modo tale che ciascuno possa esprimere e anzi interpretare l’altro (nel senso forte dell’interpretante di Peirce). Per quanto attiene alle sue condizioni di possibilità, ciò è senza dubbio legato al cambiamento di canale descritto in precedenza, e dipende nella stessa misura dalla reciproca parcellizzazione e colonizzazione della “realtà” mediante vari codici e settori linguistici. Solo che qui, rispetto alla cultura in quanto tale, ne deriva una conseguenza più attiva e il rapporto tra due canali si trasforma, per così dire, in una soluzione più che in un problema, ingrandita alla dimensione di uno strumento. Qui l’egemonia implica la possibilità di ricodificare enormi quantità di discorso preesistente (in altri linguaggi) nel codice nuovo; i due codici così individuati si possono considerare come se intrattenessero un rapporto analogo a quello tra base e sovrastruttura, non perché si attribuisce una sorta di priorità ontologica all’uno rispetto all’altro (piuttosto, la nuova struttura serve ad assorbire e a neutralizzare questo tipo di questioni intorno alla priorità, altrimenti inevitabili e “naturali”), ma, più precisamente, a causa delle connotazioni culturali o semiotiche di uno dei codici in confronto all’altro.

Così, in un gesto pressoché paradigmatico del nuovo processo di produzione, Jean Baudrillard connette la formula del valore di scambio e del valore d’uso (riscritta come frazione) con la frazione del segno (significante e significato), inaugurando una reazione semiotica a catena le cui ricadute paiono essere durate fino al presente. Il suo stesso atto di equivalenza era senza dubbio modellato sulla geniale intuizione dei grandi predecessori dello “strutturalismo”, in particolare Lacan, con la sua celebre, e ancor più influente, identificazione della frazione semiotica con la “frazione” prodotta dalla barra che separa il conscio dall’inconscio. Più di recente, Bruno Latour ha combinato un codice semiotico con una mappa delle relazioni sociali e di potere per “transcodificare” la realtà e la stessa scoperta scientifiche. Di fatto nulla impedisce l’ampliamento della catena di equazioni a ulteriori codici. Tanto meno questi sono esempi isolati, come si è visto in precedenza, nei capitoli teorici. Al contrario, sono i più visibili e plateali, a causa del puro e semplice dispiegarsi del codice semiotico, che è l’ultimo e il più visibile degli idioletti secolari postmoderni.

Il fatto che dal nuovo meccanismo possano scaturire dei concreti effetti ideologici ho cercato di mostrarlo sopra, con l’esempio dell’attuale identificazione popolare tra il “mercato” e i “media”. Ma qualunque teoria della produzione di discorso teorico (rispetto a cui le considerazioni presenti non sono che dei prolegomeni, degli appunti) dovrà svilupparsi ulteriormente in due direzioni distinte. Una comporta il riordino dell’equazione semiotica – la transcodifica di due diverse terminologie concettuali, la loro proiezione su un asse di equivalenza (per utilizzare il modello jakobsoniano di Laclau e Mouffe, che a tale riguardo si possono leggere come se offrissero un’esemplare descrizione formale della produzione di discorso teorico) – in un rapporto gerarchico, in una frazione forte (di tipo lacaniano) che si organizza in qualcosa che somiglia a quelle nostre vecchie conoscenze che sono la base e la sovrastruttura, con la differenza che nel discorso teorico è sempre la sovrastruttura a essere determinata. Inoltre tale sovrastruttura è sempre in un modo o nell’altro comunicazionale o mediatica. Le scintille provocate dalla collocazione “teorica” di due codici in equivalenza tra loro esige sempre che un codice abbia delle affinità più profonde con i media (circostanza che illustrerò più concretamente nell’analisi conclusiva della cartografia cognitiva, che da questo punto di vista si può intendere come una specie di forma riflessiva del “discorso teorico”).

L’altra proposizione che richiede un’indagine è la generazione, a partire dal processo di transcodifica, di nuove e strane astrazioni ambivalenti, le quali assomigliano ai tradizionali universali filosofici, ma che in realtà sono specifiche o particolari come la carta su cui sono stampate, e tendono a trasformarsi incessantemente le une nelle altre (vale a dire nei loro opposti logici). Abbiamo già incontrato parecchie di queste coppie di astrazioni: nell’Identità e nella Differenza, ma anche nella peculiare indistinzione postmoderna, o tardo-capitalista, tra uniformità, ossia standardizzazione, e differenziazione, oppure tra separazione e unificazione (che in questo preciso modo di produzione risultano essere la stessa cosa). Per lo più, tuttavia, i concreti miraggi ideologici si producono, per così dire, nonostante l’apparato invece che grazie a esso. Nella fuga disperata da tutto quel che c’è di ontologico o di fondazionale nel vecchio “sistema” filosofico, si fa appello a una sorta di dottrina antisostanzialista sul puro processo, e si sviluppa un impulso – il pensiero come operazione invece che come concettualizzazione – che genera nondimeno la vecchia illusione del sistema e dell’ontologia negli intervalli tra le operazioni e l’aspetto reificato del discorso comunicato sulla pagina. Invero la reificazione, per non dire la mercificazione, offrirebbe un altro “codice” con cui descrivere lo stesso destino generale del discorso teorico, come si tematizza e si trasforma nella filosofia o nel sistema personale di qualcuno.

In realtà però il processo di delegittimazione ideologica viene garantito con maggiore frequenza in una forma piuttosto diversa da questa incessante guerra discorsiva, che se non altro perpetua i diritti di tutti i giocatori. Come avviene in qualunque altra economia o logica, ai meccanismi che spingono avanti il processo vanno aggiunti quelli che gli impediscono di rallentare o di ricadere in abitudini o procedimenti del passato. La transcodifica e la produzione di discorso teorico costituiscono una fuga in avanti, come dicono i francesi, e lo slancio si mantiene grazie a quanto brucia tutti i ponti e rende impossibile la ritirata, cioè l’invecchiamento dei codici, l’obsolescenza pianificata di tutto l’apparato concettuale precedente. Una notevole osservazione di Richard Rorty, la cui modesta asciuttezza socratica vuole che la si scambi per senso comune, farà da nuovo punto di partenza. Rorty parla dell’«originalità» di Derrida (al quale si potrebbe comunque sostituire qualsiasi forma caratteristica del pensiero postmoderno): il paradosso sta nella difficoltà di distinguere ciò che nel sistema moderno costituiva il nuovo, l’originale, l’innovativo, da un ordinamento postmoderno dove l’”originalità” si è trasformata in un’idea sospetta, malgrado molti degli elementi essenziali del postmoderno – l’autocoscienza, l’antiumanesimo, il decentramento, la riflessività, la testualizzazione – appaiano in maniera sospetta indistinguibili da quelli del moderno. «Dov’è la differenza?», a questa domanda demaniana Rorty oggi risponde così: «è un errore credere che Derrida, o chiunque altro, “riconosca” problemi sulla natura della testualità o della scrittura che sarebbero stati ignorati dalla tradizione. Ciò che egli ha fatto è stato escogitare modi del discorso che hanno reso i vecchi modi opzionali, e dunque in qualche modo soggetti a dubbi»188.

La cosa si può ormai intendere quasi come l’aspetto costitutivo di quella che Stuart Hall chiama «lotta discorsiva» per la delegittimazione delle opposte ideologie (o “discorsi”): peggio che scorretta, immorale, malvagia o pericolosa, è l’interpretazione secondo la quale un dato codice non è altro che un codice tra i tanti, un codice “più vecchio” divenuto così, quasi per definizione, “opzionale”. Inoltre si può vedere come la strategia evochi quei timori riguardo al consenso descritti in precedenza. In effetti, se un codice tenta di asserire il proprio carattere non opzionale – vale a dire la propria autorità privilegiata quale espressione di qualcosa di analogo alla verità –, sarà considerato non soltanto usurpativo e repressivo, ma anche come il tentativo illecito da parte di un gruppo di tiranneggiare tutti gli altri (dal momento che ormai i codici si identificano con i gruppi, in quanto emblema di un’adesione e contenuto della loro espressione). Ma se, nello spirito del pluralismo, esso esercita un’autocritica e ammette umilmente la propria mera “opzionalità”, l’emozione mediatica si attenua, tutti perdono interesse e si vedrà presto il codice in questione dirigersi con la coda tra le gambe verso l’uscita dalla sfera pubblica, dalla scena di quel particolare momento della Storia o di quella lotta discorsiva.

In questo caso specifico, l’enigma – se tutti perdono, chi vince? – si può chiarire, se non risolvere, affermando che in effetti le ideologie, nel senso di codici e sistemi discorsivi, non sono più particolarmente determinanti. Come molte altre cose, si tratta di una vecchia conoscenza degli anni Cinquanta, la “fine delle ideologie”, che nel postmoderno è ritornata con una plausibilità nuova e inattesa. Però l’ideologia è ormai morta, non perché sia finita la lotta di classe e non ci sia più nulla legato all’ideologia di classe per cui lottare, ma piuttosto perché si può intendere che il destino dell’”ideologia”, in questo senso preciso, implica che le ideologie coscienti e le opinioni politiche, i sistemi di pensiero particolari e quelli filosofici ufficiali che rivendicavano una maggiore universalità – l’intero ambito della coscienza, dell’argomentazione e dell’aspetto medesimo della persuasione (o del dissenso ragionato) – hanno cessato di essere funzionali alla perpetuazione e alla riproduzione del sistema. Si può stimare come l’ideologia classica un tempo lo facesse, nelle prime fasi del capitalismo, in base all’importanza degli intellettuali – professori e giornalisti, ideologi di ogni sorta –, ai quali si attribuiva un ruolo strategico nell’invenzione delle forme di legittimazione e legittimità dello status quo e delle sue tendenze. Allora l’ideologia era qualcosa di lievemente più rilevante del mero discorso, mentre le idee, nonostante non determinassero nulla nel modo delle varie teorie idealistiche della storia, fornivano ancora il principio di «forme che permettono agli uomini di concepire questo conflitto [di classe] e di combatterlo» (Marx). La ragione per cui tutto ciò si è tanto sostanzialmente modificato, e il ruolo degli intellettuali si è così ridimensionato nel nostro tempo, potrebbe avere svariate spiegazioni, le quali alla fine si riducono tutte alla stessa cosa. Da un lato la si potrebbe imputare a un certo indebolimento dei concetti, dei messaggi, delle informazioni e dei discorsi individuali con una densità finora inimmaginabile, dall’altro ci si potrebbe chiedere, con Adorno, se «nella nostra epoca la merce non sia divenuta la propria ideologia», cioè se le pratiche non abbiano rimpiazzato il raziocinio (o la razionalizzazione), e in particolare se la pratica del consumo non abbia preso il posto della risoluta presa di posizione e della piena adesione a un’opinione politica. Anche qui, dunque, i media si incontrano con il mercato e si stringono la mano sul corpo di una cultura intellettuale di vecchio stampo.

Deplorare tutto questo sarebbe una perdita di tempo, ma è nelle autopsie che si apprendono nuove lezioni di anatomia. Nel caso presente, la strategia ideologica o discorsiva toccata da Rorty si può intendere come un’imprevista estensione della figura fondamentale utilizzata da Marx per lo sviluppo e le dinamiche della società (figura che percorre i Grundrisse e lega i manoscritti del 1844 al Capitale lungo una linea ininterrotta). Intendo la nozione essenziale di separazione (che compare quando Marx descrive la produzione del proletariato nei termini della sua separazione dai mezzi di produzione: per esempio l’enclosure, l’esclusione dei contadini dalla loro terra). Non credo sia mai esistito un marxismo fondato su questa particolare figura189, nonostante la sua affinità con altre figure, come l’alienazione, la reificazione e la mercificazione, le quali hanno tutte dato origine a precise tendenze ideologiche (per non dire scuole) in seno allo stesso marxismo. Ma forse la logica della separazione si è fatta ancor più rilevante nella nostra epoca, nonché per la diagnosi del postmodernismo, in cui la frammentazione psichica e la resistenza alle totalità, l’interrelazione mediante la differenza e il presente schizofrenico e, soprattutto, la delegittimazione sistematica qui descritta esemplificano tutte, in una maniera o nell’altra, la natura proteiforme e gli effetti di questo particolare processo disgiuntivo.

11. Come tracciare una mappa della totalità

Alla fine si ritorna così alla questione della totalità (che presumibilmente abbiamo già imparato a distinguere dalla “totalizzazione” come operazione), argomento che tra l’altro mi offrirà la soddisfazione personale di mostrare che l’analisi del postmodernismo non è estranea al mio lavoro precedente, ma ne è anzi una conseguenza logica190. Vorrei provarlo ancora una volta nei termini dell’idea di “modo di produzione”, a cui pretende di contribuire la mia analisi del postmodernismo. Per prima cosa vale comunque la pena osservare che la mia versione – che evidentemente (ma forse non l’ho detto abbastanza spesso) ha un grosso debito nei confronti di Baudrillard, oltre che verso quei teorici con i quali è in debito anch’egli (Marcuse, McLuhan, Henri Lefebvre, i situazionisti, Sahlins ecc.) – ha preso forma in una congiuntura relativamente complicata. Non è stata solamente l’esperienza di nuovi tipi di produzione artistica (in particolare in campo architettonico) a risvegliarmi dai canonici “sonni dogmatici”: come chiarirò più avanti, nel modo in cui lo adopero “postmodernismo” non è un termine esclusivamente estetico o stilistico. La congiuntura offriva inoltre l’occasione di risolvere un annoso malessere di fronte agli schemi economici classici della tradizione marxista; questo disagio alcuni di noi lo percepivano non rispetto all’ambito della classe sociale, la cui “scomparsa” poteva essere presa in considerazione soltanto dagli autentici «intellettuali fluttuanti», bensì davanti ai media, che con la loro onda d’urto sull’Europa occidentale consentivano all’osservatore di prendere una piccola distanza critica e percettiva dalla progressiva e apparentemente naturale mediatizzazione della società nordamericana degli anni Sessanta. Le idee di Lenin sull’imperialismo non si potevano affatto estendere ai media; e gradualmente è parso possibile assumerne la lezione in maniera diversa. Egli ha infatti dato l’esempio nell’identificare una fase nuova del capitalismo che non era stata esplicitamente prevista da Marx: la cosiddetta fase monopolistica, ossia il momento dell’imperialismo classico. Questo poteva indurre a credere che la nuova mutazione fosse stata nominata e formulata una volta per tutte, oppure che ci si potesse sentire autorizzati a inventarne un’altra davanti a certe circostanze. Ma i marxisti erano più che mai restii a trarre questa seconda conclusione antitetica, in quanto nel frattempo i nuovi fenomeni sociali relativi ai media e all’informazione erano stati colonizzati (in nostra assenza) dalla destra, in una serie di studi influenti nei quali la prima incerta idea della “fine dell’ideologia”, propria della guerra fredda, aveva infine dato vita al concetto compiuto di “società postindustriale”. Il libro di Mandel sul tardo capitalismo cambiò tutto questo e per la prima volta teorizzò una terza fase del capitalismo da una prospettiva marxiana utilizzabile. È stato questo a rendere possibili le mie stesse riflessioni sul “postmodernismo”, che devono essere pertanto intese come un tentativo di teorizzare la logica specifica della produzione culturale di questa terza fase, e non come l’ennesima inconsistente critica della cultura, né come una diagnosi dello spirito del tempo.

Non è sfuggito all’attenzione di nessuno che il mio approccio al postmodernismo ha un carattere “totalizzante”. Oggi l’interrogativo interessante non è quindi perché io adotti tale ottica, ma perché tanti se ne scandalizzino (o abbiano imparato a farlo). In altri tempi, l’astrazione costituiva certamente uno dei criteri strategici con i quali si potevano straniare i fenomeni, specialmente quelli storici. Allorché si è immersi nell’immediato – l’esperienza, un anno dopo l’altro, dei messaggi culturali e informativi, del succedersi degli eventi, delle priorità urgenti –, la repentina distanza offerta da un concetto astratto, da una descrizione globale delle affinità segrete tra quegli ambiti apparentemente autonomi e irrelati, e dei ritmi e delle sequenze nascoste di cose che in genere si ricordano soltanto isolate e una alla volta, rappresenta una risorsa unica, soprattutto perché la storia degli anni recenti è sempre la meno accessibile. Così la ricostruzione storica, la formulazione di caratterizzazioni e ipotesi globali, l’astrazione dalla «confusione ronzante e variopinta» dell’immediatezza sono sempre state un intervento radicale nel qui e ora, la promessa di resistenza alle sue cieche fatalità.

Tuttavia si deve riconoscere il problema della rappresentazione, se non altro per scinderlo dagli altri moventi in atto nella “guerra alla totalità”. Se l’astrazione storica – le nozioni di modo di produzione, di capitalismo, di postmodernismo – è qualcosa che non si dà nell’esperienza immediata, allora ha senso preoccuparsi della potenziale confusione di questo concetto con la cosa stessa, oltre che della possibilità di prenderne la “rappresentazione” astratta per la realtà, di “credere” nell’esistenza concreta di entità astratte come la Società o la Classe. Non importa che preoccuparsi degli errori altrui finisce in genere per significare preoccuparsi degli errori di altri intellettuali. A lungo andare probabilmente non c’è modo di contrassegnare una rappresentazione come rappresentazione in maniera tanto certa da far sì che si possano sempre prevenire queste illusioni ottiche, così come non è possibile garantire la resistenza di un pensiero materialista ai recuperi idealistici, oppure di respingere la lettura in termini metafisici di una formulazione decostruttiva. La rivoluzione permanente nella vita intellettuale e nella cultura implica sia tale impossibilità sia la necessità di una costante reinvenzione delle misure precauzionali contro quella che la mia tradizione chiama reificazione concettuale. Le straordinarie fortune dell’idea di postmodernismo qui sono certamente un esempio calzante, pensato per infondere qualche dubbio in quanti di noi ne sono responsabili. Quel che serve non è comunque dire basta e confessare l’eccesso («ebbri di successo», come disse una volta Stalin), ma è invece il rinnovamento dell’analisi storica, il riesame e la diagnosi inesausti della funzionalità politico-ideologica del concetto, il ruolo che a un tratto è giunto a esercitare oggi nelle risoluzioni immaginarie che diamo alle nostre contraddizioni reali.

La motivazione politica profonda della “guerra alla totalità” risiede nondimeno altrove, in una paura dell’utopia che risulta essere null’altro che il vecchio 1984, così che una politica utopica e rivoluzionaria, giustamente associata alla totalizzazione e a un certo “concetto” di totalità, va evitata giacché sfocia fatalmente nel Terrore. Come minimo, l’idea risale a Edmund Burke, ma, dopo essersi riaffermata in innumerevoli occasioni all’epoca di Stalin, è stata utilmente rinvigorita dalle atrocità cambogiane. Ideologicamente, questa particolare rinascita della retorica e degli stereotipi della guerra fredda, avviata negli anni Settanta con la demarxificazione della Francia, si incentra su una singolare identificazione dei gulag staliniani con i campi di sterminio di Hitler (ma per una dimostrazione decisiva del rapporto costitutivo tra la «soluzione finale» e l’anticomunismo di Hitler, si veda il notevole Soluzione finale di Arno Mayer191); all’infuori della spoliticizzazione a cui invitano, è meno chiaro che cosa possa esserci di “postmoderno” in queste vetuste immagini da incubo. Si può fare appello alla storia degli sconvolgimenti rivoluzionari in questione per trarne una lezione affatto diversa, cioè che la violenza scaturisce in primo luogo dalla controrivoluzione, anzi, che la forma di controrivoluzione più efficace sta proprio in questa trasmissione della violenza allo stesso processo rivoluzionario. Dubito che lo stato attuale dell’alleanza o la micropolitica nei paesi avanzati sostenga ansie e fantasie del genere; esse non costituirebbero, almeno per me, dei motivi per ritirare il sostegno e la solidarietà a una potenziale rivoluzione in Sudafrica, per esempio. Infine, questa generale impressione che l’impulso rivoluzionario, utopico o totalizzante sia in qualche misura corrotto fin dal principio e destinato allo spargimento di sangue dalla stessa struttura delle sue idee colpisce per il suo carattere idealistico, per non dire che, in ultima analisi, si tratta di una replica delle dottrine del peccato originale nel peggior senso religioso.

Tuttavia, la questione del pensiero totalizzante si può presentare in modo diverso, interrogandone non il contenuto di verità o la validità, bensì le condizioni storiche di possibilità. Fare questo non vuol dire più esattamente filosofare, o, se si preferisce, filosofare a livello sintomatico, in cui si fa un passo indietro e ci si estranea dai giudizi immediati su un determinato concetto (“il pensiero postmoderno più avanzato insegna a non mettere in campo i concetti di totalità o di periodizzazione”) ponendosi l’interrogativo sulle determinanti sociali che permettono o impediscono il pensiero. L’attuale tabù riguardo alla totalità deriva dal progresso filosofico e dall’incremento di autocoscienza? Lo si deve al fatto che oggi abbiamo raggiunto uno stato di illuminismo teorico e di raffinatezza intellettuale che ci consente di evitare gli errori più grossolani degli antiquati pensatori del passato (in particolare Hegel)? Può darsi, ma così si ignora la lezione di Rorty, e inoltre sarebbe necessario qualche tipo di giustificazione storica (nella quale si suppone che interverrebbe l’invenzione del “materialismo”). Questa arroganza del presente e dei vivi si può evitare ponendo la questione in maniera un po’ diversa: perché i “concetti di totalità” sono parsi necessari e inevitabili in certi momenti storici e, al contrario, dannosi e inimmaginabili in altri. Si tratta di un’indagine che, risalendo fino all’esterno del nostro pensiero e al fondamento di ciò che non possiamo più (o non ancora) pensare, non può essere filosofica in alcuna accezione positiva (malgrado Adorno abbia tentato, nella Dialettica negativa, di trasformarla in un’autentica filosofia di nuovo tipo); senza dubbio essa provocherebbe l’intensa sensazione che la nostra sia, per molti versi, un’epoca di nominalismo (dalla cultura al pensiero filosofico). Probabilmente risulterebbe che tale nominalismo possiede parecchie preistorie o sovradeterminazioni: il momento dell’esistenzialismo, per esempio, nel quale una certa nuova consapevolezza sociale dell’isolamento dell’individuo (e dell’orrore della demografia, come abbiamo visto, soprattutto in Sartre) fa impallidire i vecchi “universali” tradizionali e li spoglia della loro forza concettuale, della loro persuasività; la secolare tradizione dell’empirismo angloamericano, che emerge da questa morte del concetto con rinnovata forza in un’epoca paradossalmente “teorica” e iperintellettuale. Evidentemente, c’è un senso in cui lo slogan “postmodernismo” significa tutto questo, certo; però in tal caso non si tratta della spiegazione, ma di ciò che resta da spiegare.

La speculazione e l’analisi ipotetica di questo genere, legata all’indebolimento dei concetti generali o universalizzanti nel presente, costituiscono il correlativo di un’operazione che spesso può sembrare più affidabile, vale a dire l’analisi dei momenti del passato nei quali tale concettualità pareva possibile. In effetti, quei momenti in cui si può osservare la comparsa di concetti generali sono parsi spesso privilegiati. A proposito della nozione di totalità, sarei tentato di dire ciò che ho detto una volta riguardo all’idea althusseriana di struttura, ossia che l’elemento cruciale da sottolineare è il seguente: è possibile riconoscere la presenza di un concetto del genere, purché si intenda che ce n’è soltanto uno, che spesso va sotto il nome di “modo di produzione”. La «struttura» althusseriana è proprio questo e lo stesso vale per la “totalità”, almeno per l’uso che ne faccio. Quanto ai processi “totalizzanti”, spesso equivalgono a poco più che qualche collegamento tra vari fenomeni, processo che, come ho rilevato in precedenza, tende a essere sempre più spaziale.

Bisogna essere grati a Ronald L. Meek perché ha scritto la preistoria del concetto di “modo di produzione” (sviluppato in seguito negli scritti di Morgan e di Marx), che nel Settecento assunse la forma di quella che Meek chiama «teoria dei quattro stadi». Questa teoria è comparsa, sia in Francia che nell’illuminismo scozzese, quale tesi secondo cui le culture umane variano storicamente in rapporto alla loro base materiale o produttiva, la quale conosce quattro trasformazioni sostanziali: caccia e raccolta, pastorizia, agricoltura e commercio. Ciò che accadrà poi a questa narrazione storica, soprattutto nel pensiero e nell’opera di Adam Smith, è che, avendo ormai generato quell’oggetto di studio che è il modo di produzione specificamente contemporaneo, ossia il capitalismo, l’impalcatura storica delle fasi precapitaliste tende a cedere e a conferire un aspetto sincronico tanto al modello capitalistico di Smith quanto a quello di Marx. Meek sostiene però che la narrazione storica fu indispensabile per la stessa possibilità di pensare il capitalismo come sistema, sincronico o no192; è un po’ quella che resta la mia posizione riguardo a quella “fase” o momento del capitalismo che alcuni di noi chiamano oggi “postmodernismo”.

In questa sede, però, il mio interesse principale va alle condizioni di possibilità del concetto di “modo di produzione”, cioè alle caratteristiche della situazione storico-sociale che rendono possibile in primo luogo articolare e formulare il concetto di “totalità”. In senso generale, direi che concepire questo particolare pensiero nuovo (o combinare vecchi pensieri in questa nuova maniera) presuppone un tipo preciso di sviluppo “ineguale”, tale che nel mondo vitale del pensatore in questione si registrano insieme modi di produzione distinti e coesistenti. Meek descrive così le precondizioni della produzione di questo concetto specifico (nella sua forma originale di «teoria dei quattro stadi»):

La mia personale convinzione è che un pensiero come quello che stiamo analizzando, il quale pone in primo piano lo sviluppo delle tecniche economiche e dei rapporti socio-economici, è strettamente legato in primo luogo alla rapidità del progresso economico dell’epoca, e secondariamente alla facilità con cui si può osservare il contrasto fra aree economicamente avanzate e aree che si trovano ancora a stadi “inferiori” di sviluppo. Nei decenni 1750-’60 e 1760-’70, in città come Glasgow e nelle più avanzate province del Nord della Francia, l’intera vita sociale delle rispettive comunità si stava rapidamente e visibilmente trasformando, ed era evidente che ciò accadeva a causa dei profondi cambiamenti intervenuti nelle tecniche economiche e nei rapporti socioeconomici fondamentali. Le nuove forme di organizzazione economica emergenti potevano venire facilmente confrontate e opposte alle vecchie forme di organizzazione ancora in vigore, per esempio nelle Highlands scozzesi, o nel resto della Francia – o fra le tribù indiane dell’America. Se le trasformazioni del modo di sussistenza svolgevano un ruolo così importante e “progressivo” nello sviluppo della società contemporanea, sembrava ragionevole supporre che fosse avvenuto altrettanto nelle società passate.193

Questa possibilità di pensare per la prima volta il concetto di modo di produzione viene talora descritta, in maniera approssimativa, come una delle nuove forme emergenti della coscienza storica, o della storicità. Non è comunque necessario ricorrere al discorso filosofico della coscienza in quanto tale, giacché le forme che vengono descritte si potrebbero designare altrettanto bene come nuovi paradigmi discorsivi. Per i lettori di letteratura, questo modo di parlare più contemporaneo della nascita concettuale è suffragato dalla presenza, accanto a questo, di un altro nuovo paradigma storico nei romanzi di Walter Scott (come li interpreta Lukács nel Romanzo storico). È probabile che la disuguaglianza che consentiva ai pensatori francesi (Turgot, ma anche lo stesso Rousseau!) di concettualizzare un “modo di produzione” non avesse molto a che vedere con la situazione prerivoluzionaria della Francia dell’epoca, nella quale le forme feudali spiccavano più che mai nettamente nella loro peculiare diversità rispetto a una cultura e a una coscienza di classe borghesi nascenti. Per molti versi, la Scozia rappresenta un caso più complesso e interessante: ultimo dei paesi emergenti del Primo Mondo, o primo di quelli del Terzo (per ricorrere all’idea provocatoria espressa da Tom Nairn in Crisi e neonazionalismo: il caso della Gran Bretagna), la Scozia dell’illuminismo era prima di tutto il luogo di coesistenza di ambiti produttivi e culturali fortemente distinti: l’economia arcaica degli abitanti delle Highlands con il loro sistema di clan e il vigore commerciale del “partner” inglese d’oltreconfine, alla vigilia del proprio “decollo” industriale. Lo splendore di Edimburgo non era dunque una questione di materiale genetico gaelico, ma era invece dovuto alla collocazione strategica, ancorché eccentrica, della metropoli e degli intellettuali scozzesi rispetto a questa coesistenza quasi sincronica di modi di produzione diversi, che l’illuminismo scozzese ebbe il singolare compito di “pensare”, o concettualizzare. Tanto meno si trattava di una questione meramente economica. Come Faulkner in seguito, Scott ereditò una materia prima storico-sociale, una memoria popolare, nella quale le rivoluzioni, le guerre civili e religiose più feroci inscrivevano la coesistenza dei modi di produzione in una brillante forma narrativa. Le condizioni per pensare una nuova realtà e articolarne un nuovo paradigma sembrano pertanto esigere una congiuntura peculiare, nonché una certa distanza strategica da quella stessa nuova realtà, che tende a sopraffare chi vi è immerso (sarebbe una sorta di variante epistemologica di quello che nell’ambito della scoperta scientifica è il noto principio dell’”outsider”).

Tutto questo ha comunque un’altra conseguenza secondaria di maggiore rilievo nella mia analisi, legata alla progressiva repressione di questo patrimonio concettuale. Se il postmodernismo, quale terza fase estesa del capitalismo classico, è un’espressione più pura e omogenea di quel medesimo capitalismo, dalla quale sono state cancellate molte delle enclave di diversità socioeconomica fin qui sopravvissute (mediante la loro colonizzazione e l’assimilazione da parte della forma merce), ha senso osservare che il declino del nostro senso della storia, e ancor più in particolare la nostra resistenza ai concetti globalizzanti o totalizzanti come quello di modo di produzione, è una funzione esattamente di tale universalizzazione del capitalismo. Dove tutto d’ora innanzi è sistemico, la stessa nozione di sistema sembra perdere la propria ragion d’essere, e ricompare soltanto attraverso un “ritorno del represso” nelle forme più spaventose del “sistema totale” fantasticato da Weber, da Foucault o dai personaggi di 1984.

Tuttavia un modo di produzione non è un “sistema totale” in quel senso minaccioso; al proprio interno esso comprende una molteplicità di controforze e di nuove tendenze, di forze tanto “residue” quanto “emergenti”, che deve tentare di gestire o di controllare (è la concezione gramsciana dell’egemonia). Se queste forze eterogenee non fossero dotate di una propria efficacia, il progetto egemonico non sarebbe necessario. Così è il modello a presupporre le differenze, il che si distingue nettamente grazie a un ulteriore aspetto che complica il modello, cioè il fatto che il capitalismo genera le differenze e la differenziazione in funzione della propria logica interna. In ultima istanza, per richiamare la mia analisi iniziale della rappresentazione, è chiaro che c’è una differenza tra l’idea e la cosa, tra questo modello globale e astratto e la nostra esperienza sociale individuale, rispetto a cui vuole offrire una distanza esplicativa, ma che difficilmente sarà destinata a “sostituire”.

È peraltro opportuno richiamare altri “usi appropriati” del modello del modo di produzione: vale sempre la pena segnalare che quello che si chiama “modo di produzione” non è un modello produttivistico. Vale inoltre la pena dire che esso implica una molteplicità di livelli (o di ordini di astrazione) che va rispettata, se non si vuole che le discussioni in merito degenerino in liti caotiche. In Linconscio politico ho proposto un quadro assai generale di tali livelli e, più in concreto, delle distinzioni che si devono rispettare tra l’esame degli eventi storici, l’evocazione di tradizioni e conflitti ideologici e di classe e l’attenzione ai sistemi impersonali standardizzanti di carattere socioeconomico (di cui sono esempi le note tematiche della reificazione e della mercificazione). La questione dell’agente, frequente in queste pagine, dev’essere articolata attraverso questi livelli.

Featherstone194, per esempio, ritiene che, secondo il mio uso, il “postmodernismo” sia una categoria specificamente culturale. Non lo è, e nel bene e nel male essa è concepita per dare un nome a un “modo di produzione” entro il quale la produzione culturale trova uno specifico spazio funzionale e la cui sintomatologia, nella mia opera, è tratta principalmente dalla cultura (è indubbiamente questa la fonte della confusione). Perciò Featherstone mi consiglia di prestare maggiore attenzione agli artisti e al loro pubblico, così come alle istituzioni che mediano e governano questo nuovo tipo di produzione. (Non vedo perché debba essere escluso qualcuno di questi argomenti; si tratta indubbiamente di questioni molto interessanti). Ma è arduo scorgere in che modo, a quel livello, l’indagine sociologica possa diventare esplicativa: al contrario, i fenomeni che preoccupano Featherstone tendono subito a riconfigurarsi nel loro livello sociologico semiautonomo, il quale esige dunque una narrazione diacronica. Dire che cosa sono oggi il mercato dell’arte, la condizione dell’artista o del consumatore significa dire che cos’erano prima di questa trasformazione, e persino, in maniera estrema, lasciare uno spazio aperto a una configurazione alternativa di tali attività (come nel caso di Cuba, per addurre un esempio, dove non ci sono mercato dell’arte, gallerie, investimenti nella pittura ecc.195). Una volta scritta quella narrazione, quella serie di mutamenti locali, tutto va ad aggiungersi al dossier come l’ennesimo spazio in cui è possibile leggere una cosa come la “grande trasformazione” postmoderna.

In effetti, benché con le proposte di Featherstone sembrino fare la propria comparsa dei concreti attori sociali (i postmodernisti sarebbero gli artisti o i musicisti, i funzionari di gallerie, musei o case discografiche, gli specifici consumatori borghesi, giovani o della classe operaia), anche qui va mantenuta l’esigenza di diversificare i livelli di astrazione. Infatti è plausibile affermare che il “postmodernismo”, nel senso più ristretto di ethos e di “stile di vita” (espressione davvero deplorevole) è l’espressione della “coscienza” di tutta una nuova frazione di classe, che in larga misura travalica i limiti dei gruppi enumerati in precedenza. Tale categoria più ampia e astratta è stata etichettata in svariati modi: nuova piccola borghesia, ceto professionistico-manageriale oppure, più concisamente, “yuppie” (ciascuna di queste espressioni reca con sé una piccola eccedenza di concreta rappresentazione sociale)196.

Questa identificazione del contenuto di classe della cultura postmoderna non implica affatto che gli yuppie siano diventati una specie di nuova classe dirigente, ma soltanto che le loro pratiche e i loro valori culturali, le loro ideologie locali, hanno articolato un utile paradigma dominante di natura ideologica e culturale per questa fase del capitalismo. Spesso si verifica anzi che a fornire le forme culturali prevalenti di un determinato periodo non siano gli attori principali della formazione sociale in questione (imprenditori che indubbiamente hanno qualcosa di meglio da fare, oppure sono spinti da motivazioni psicologiche e ideologiche di altro tipo). L’essenziale è che l’ideologia culturale in questione articoli il mondo nel modo funzionalmente più proficuo, o secondo modalità di cui ci si può riappropriare funzionalmente. Perché una certa porzione di un ceto sociale debba fornire queste articolazioni ideologiche è una questione storica intrigante quanto quella del repentino predominio di uno scrittore o di uno stile particolari. Per queste transazioni storiche non può certamente darsi una formula o un modello a priori; e tuttavia, rispetto a quello che chiamiamo ormai postmodernismo, altrettanto certamente non ne abbiamo ancora elaborato alcuno.

Nel contempo si manifesta un altro limite del mio lavoro sull’argomento (formulato nel capitolo di apertura di questo libro): la decisione tattica di allestire la descrizione in termini culturali ha contribuito alla relativa assenza di qualsiasi classificazione delle “ideologie” propriamente postmoderne, circostanza che ho tentato di rettificare parzialmente nel capitolo dedicato all’ideologia del mercato. Ma siccome mi sono interessato in particolare alla questione formale del nuovo “discorso teorico”, e anche perché la combinazione paradossale di decentramento globale e istituzionalizzazione dei piccoli gruppi è giunta a porsi quale elemento rilevante della struttura tendenziale postmoderna, ho selezionato massimamente i fenomeni intellettuali e sociali come il “poststrutturalismo” e i “nuovi movimenti sociali”. Ciò ha dato l’impressione, contro le mie convinzioni politiche più radicate, che tutti i “nemici” fossero collocati a sinistra.

Tuttavia ciò che si è detto in merito alle origini di classe del postmoderno ha come conseguenza la necessità che si specifichi un altro tipo di agente, più elevato (o più astratto e globale) di tutti quelli elencati fin qui. Si tratta evidentemente del capitale multinazionale: in quanto processo, esso si può descrivere come una logica “disumana” del capitale, e io vorrei continuare a difendere l’adeguatezza di questo linguaggio e di questo genere di descrizione, secondo i suoi termini e il suo livello. Da una prospettiva diversa è peraltro evidente come questa forza apparentemente disincarnata sia anche un insieme di agenti umani addestrati in maniera specifica, i quali inventano tattiche e strategie originali a livello locale secondo la creatività della libertà umana; a questo vorrei aggiungere soltanto che per gli agenti del capitale vale il vecchio detto: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi». È all’interno delle possibilità del tardo capitalismo che gli uomini intravedono “la grande occasione”, “cercano di coglierla”, fanno soldi e riorganizzano le aziende secondo criteri nuovi (esattamente come gli artisti o i generali, gli ideologi o i galleristi).

Qui ho tentato di mostrare che la mia descrizione del postmoderno, sebbene agli occhi di alcuni lettori e critici possa sembrare che manchi dell’”agente”, può essere tradotta o transcodificata in una versione narrativa nella quale siano all’opera agenti di qualunque dimensione. La scelta tra queste descrizioni alternative – focalizzazioni su livelli distinti di astrazione – è pratica anziché teorica. (Sarebbe comunque auspicabile connettere tale descrizione dell’agente con quell’altra fertilissima tradizione – psicoanalitica – delle “posizioni soggettive” di natura psichica e ideologica). Valga pure l’obiezione che le descrizioni dell’agente delineate in precedenza costituiscono esclusivamente delle versioni alternative del modello base-sovrastruttura – una base economica del postmodernismo secondo una descrizione, una base sociale per quest’altra –; allora che sia così, purché si intenda che “base e sovrastruttura” in realtà non è il modello di qualcosa, bensì un punto di partenza, un problema, un’esortazione a stabilire delle connessioni, qualcosa di tanto poco dogmatico come la raccomandazione euristica di intendere simultaneamente la cultura (e la teoria) in sé e per sé, ma anche in rapporto con l’esterno, con il proprio contenuto, il proprio contesto e lo spazio di intervento e di efficacia. Il modo di farlo non è tuttavia mai dato a priori; e malgrado le descrizioni e le analisi di questo libro cerchino di caratterizzare e misurare lo spazio della lotta ideologica e teorica, posso concepire tutta una serie di conclusioni pratiche e di raccomandazioni di ordine politico molto diverse che se ne potrebbero trarre.

Anche per quanto riguarda una politica culturale, paiono concepibili almeno due diversi tipi di strategia. L’estetica politica più propriamente postmoderna – che affronterebbe faccia a faccia la struttura della società dell’immagine in quanto tale minandola dall’interno (nel postmoderno l’offensiva paradossalmente fa tutt’uno con la sovversione e, come nelle due vie di Proust, la guerra di movimento di Gramsci ha finito per essere, dopo tutto, la stessa cosa della sua guerra di posizione) – si dovrebbe denominare strategia omeopatica. Ai giorni nostri, il suo esempio più paradigmatico e plateale lo offrono le installazioni di Hans Haacke, che rovesciano lo spazio istituzionale incorporando al proprio interno il museo nel quale sono tecnicamente contenute, quale parte della loro tematica e del loro contenuto: ragni invisibili, la cui tela contiene il proprio contenitore e rivolta come un guanto la proprietà privata dello spazio sociale. Come ho indicato in precedenza, formalmente Haacke, insieme a molti altri artisti contemporanei (tra i quali i fotografi e i videomaker paiono i più politici e innovativi), sembra comunque impegnato a sovvertire l’immagine per mezzo dell’immagine stessa e a pianificare l’implosione della logica del simulacro a forza di dosi sempre maggiori di simulacri.

Per contro, quella che ho definito cartografia cognitiva può essere identificata come una strategia più modernista, che conserva un’idea impossibile di totalità, il cui insuccesso rappresentazionale è momentaneamente sembrato utile e produttivo quanto il suo (inconcepibile) successo. Il problema di questo particolare slogan sta evidentemente nella sua accessibilità (in rapporto alla rappresentazione). Posto che chiunque sa cosa sia una mappa, sarebbe stato necessario aggiungere che la cartografia cognitiva non può comportare (per lo meno nel nostro tempo) qualcosa di così agevole come una mappa; anzi, una volta saputo a cosa mirasse la “cartografia cognitiva”, bisognava scacciare dalla mente tutte le figure della mappa e della cartografia e cercare di concepire qualcos’altro. Ma sarebbe più auspicabile assumere un approccio genealogico che mostri come la cartografia abbia smesso di essere realizzabile per mezzo delle mappe. Questo implica l’idea (reiterata spesso in queste pagine) che ciascuna delle tre fasi storiche del capitale ha generato un tipo di spazio che le è unico, malgrado queste tre fasi dello spazio capitalista siano evidentemente più legate in maniera profonda tra loro rispetto agli spazi di altri modi di produzione. I tre tipi di spazio che ho in mente sono tutti il risultato dell’espansione discontinua, dei grandi progressi dati dall’ampliamento del capitale, nella penetrazione e nella colonizzazione, da parte di quest’ultimo, di aree fino a quel momento non mercificate. Qui si presuppone una forza unificante e totalizzante, non lo Spirito Assoluto hegeliano, né il partito o Stalin, ma semplicemente il capitale medesimo; ed è indubbio che la nozione di capitale si sostiene o si disgrega con l’idea di una logica unificata di questo medesimo sistema sociale.

Il primo di questi tre tipi di spazio è quello del capitalismo classico, o di mercato, secondo i termini di una logica del reticolato, che riorganizza l’antico spazio sacro ed eterogeneo in una omogeneità geometrica e cartesiana, spazio di equivalenza e di estensione infinite del quale si può trovare una sorta di rappresentazione emblematica nel libro di Foucault sulle prigioni. Però occorre avvertire, di fronte a questo esempio, che una concezione marxiana di tale spazio lo fonda nella taylorizzazione e nel processo lavorativo, piuttosto che in quella entità indistinta e mitica che Foucault chiamava «potere». È probabile che la comparsa di questo genere di spazio non comporti problemi di figurazione tanto gravi come quelli che ci si troverà davanti nelle fasi successive del capitalismo, giacché qui, per il momento, si assiste a quel processo ben noto che in generale si è associato da tempo all’illuminismo, vale a dire la dissacrazione del mondo, la decodifica e la secolarizzazione delle vecchie forme del sacro o del trascendente, la lenta colonizzazione del valore d’uso da parte del valore di scambio, la demistificazione “realistica” delle narrazioni trascendenti di vecchio tipo che si verifica in romanzi come Don Chisciotte, la standardizzazione tanto del soggetto quanto dell’oggetto, lo snaturamento del desiderio e la sua definitiva destituzione a opera della mercificazione (in altri termini, del “successo”) e così via.

I problemi di figurazione che ci interessano diverranno visibili solamente nella fase successiva, nel passaggio dal mercato al capitale monopolistico, ossia a quella che Lenin definisce «fase imperialistica». Si possono esprimere mediante la crescente contraddizione tra l’esperienza vissuta e la struttura, o tra una descrizione fenomenologica della vita di un individuo e un modello più propriamente strutturale delle condizioni di esistenza di quella medesima esperienza. Fin troppo rapidamente si può dire che, laddove nelle società precedenti e forse anche nelle prime fasi del capitale di mercato, l’esperienza immediata e limitata degli individui è ancora in grado di abbracciare l’autentica forma economico-sociale che la governa, di coincidere con essa, nel momento successivo questi due livelli si distaccano ulteriormente l’uno dall’altro e iniziano davvero a istituirsi in quella opposizione che la dialettica classica descrive con i termini di Wesen e Erscheinung, sostanza e apparenza, struttura ed esperienza vissuta.

A questo punto l’esperienza fenomenologica del soggetto individuale – tradizionalmente, suprema materia prima dell’opera d’arte – si circoscrive a un angoletto del mondo sociale, a una ripresa a camera fissa di un certo settore di Londra, della campagna o di qualunque altra cosa. Ma la verità di quella limitata esperienza quotidiana di Londra non coincide più con lo spazio dentro il quale ha luogo. Al contrario sta in India, in Giamaica o a Hong Kong, strettamente legata all’intero sistema coloniale dell’impero britannico, che determina la qualità stessa della vita soggettiva dell’individuo. Tuttavia quelle coordinate strutturali non sono più accessibili all’esperienza vissuta immediata e spesso, per la maggior parte delle persone, non si possono nemmeno concettualizzare.

Viene così a crearsi una situazione nella quale si può dire che, se è autentica, l’esperienza individuale non può essere vera; e che se un modello scientifico oppure cognitivo dello stesso contenuto è vero, allora sfugge all’esperienza individuale. È evidente che questa nuova situazione pone dei gravi problemi per un’opera d’arte; e io ho sostenuto che il modernismo o, meglio, i vari modernismi sono nati come tentativo di quadrare questo cerchio e di inventare nuove ed elaborate strategie formali per superare tale dilemma: in forme che inscrivono un nuovo senso del sistema coloniale globale assente nella sintassi del linguaggio poetico, in un nuovo gioco di assenza e presenza che, semplificato al massimo, sarà ossessionato dall’esotico e tatuato di toponimi stranieri, mentre nella sua versione più intensa comporterà l’invenzione di forme e linguaggi straordinariamente nuovi.

A questo punto si deve introdurre un concetto essenzialmente allegorico – il “gioco della figurazione” – allo scopo di rendere l’idea che queste nuove ed enormi realtà globali sono inaccessibili a qualsiasi soggetto, a qualunque coscienza individuale (nemmeno a Hegel, per non parlare di Cecil Rhodes o della regina Vittoria); ciò significa che, in ultima istanza, quelle realtà fondamentali sono in un certo modo irrappresentabili o, per ricorrere a una frase althusseriana, costituiscono una specie di causa assente, che non può mai darsi nella presenza della percezione. Ciò nonostante questa causa assente può trovare delle figure tramite cui esprimersi in maniera distorta e simbolica: anzi, uno dei nostri compiti essenziali, in quanto critici letterari, è rintracciare e rendere utilizzabili a livello concettuale le realtà e le esperienze ultime designate da quelle figure, che la mente interpretante tende inevitabilmente a reificare e a leggere come contenuti primari di per sé.

Il rapporto del momento del modernismo con la nuova grande rete coloniale globale si può illustrare con l’esempio, semplice ancorché specialistico, di un tipo di figura specifica di tale situazione storica. Verso la fine dell’Ottocento, una vasta gamma di scrittori cominciò a inventare forme per esprimere quello che chiamerò “relativismo monadico”. In Gide e in Conrad, in Fernando Pessoa, in Pirandello, in Ford e in misura minore in Henry James, e persino molto indirettamente in Proust, si incomincia a rilevare la sensazione che ogni coscienza sia un mondo chiuso, al punto che una rappresentazione della totalità sociale dovrà ormai assumere la forma (impossibile) di una coesistenza di quei mondi soggettivi ermeticamente chiusi, della loro particolare interrelazione, che in realtà è un passaggio di navi nella notte, un moto centrifugo di linee e di piani che non possono mai intersecarsi. Il valore letterario che scaturisce da questa nuova pratica formale si chiama “ironia”, e la sua ideologia filosofica prende sovente la forma di una grossolana appropriazione della teoria della relatività di Einstein. In tale contesto, ciò che intendo proporre è che queste forme, il cui contenuto è in genere quello della vita borghese privatizzata, valgono nondimeno quali sintomi, quali espressioni distorte della penetrazione persino nell’esperienza vissuta borghese di questa nuova ed estranea relatività globale del sistema coloniale. Per quanto deformata e riscritta in termini simbolici, l’una è la figura dell’altra; e ritengo che questo processo figurale continuerà a essere centrale in tutti i tentativi successivi di ristrutturare la forma dell’opera d’arte per accogliere un contenuto che deve resistere radicalmente e sfuggire alla rappresentazione artistica.

Se le cose stanno così per quello che concerne l’età dell’imperialismo, a maggior ragione varrà per il nostro movimento, il momento del sistema multinazionale, ossia di quello che Mandel chiama «tardo capitalismo», nel quale non solo la vecchia città, ma finanche lo Stato nazionale ha cessato di esercitare un ruolo funzionale e formale centrale nel quadro di un processo che, con un nuovo enorme balzo del capitale, si è straordinariamente esteso al di là di essi, lasciandoseli dietro come fossero rovine arcaiche di stadi anteriori dello sviluppo di questo modo di produzione.

Nasce così un nuovo spazio che implica la soppressione della distanza (nel senso dell’aura di Benjamin) e l’inesorabile saturazione di tutti i vuoti restanti, al punto che oggi il corpo postmoderno – che vaghi per un albergo postmoderno, sia rinchiuso con le cuffie dentro la musica rock o sottoposto ai molteplici shock e ai bombardamenti della guerra del Vietnam, come ce li comunica Michael Herr – è esposto al fuoco di fila percettivo dell’immediatezza, spogliato di tutti gli strati protettivi e le mediazioni. Naturalmente sono tanti altri gli aspetti di questo spazio che vorrei commentare – specialmente la nozione di spazio astratto di Lefebvre, inteso come qualcosa al contempo omogeneo e frammentato –, ma nel contesto presente il filo conduttore più utile sarà il disorientamento dello spazio saturo.

Considero queste peculiarità spaziali del postmodernismo quali sintomi ed espressioni di un dilemma nuovo e storicamente originale, il quale comporta il nostro inserimento di soggetti individuali in un insieme a più dimensioni di realtà fortemente discontinue, che vanno dagli spazi ancora superstiti della vita privata borghese fino all’inconcepibile decentramento del capitale globale. Neanche la relatività einsteniana o i molteplici universi soggettivi dei modernisti sono in grado di fornire una qualche rappresentazione adeguata di tale processo, che nell’esperienza vissuta si fa sentire nella cosiddetta morte del soggetto o, più esattamente, nel decentramento e nella dispersione, frammentari e schizofrenici, di quest’ultimo (il quale non può più esercitare la funzione del riflettore jamesiano, oppure del “punto di vista”). In realtà, però, qui è in gioco la politica pratica: a partire dalla crisi dell’internazionalismo socialista, e a causa delle enormi difficoltà tattiche e strategiche nel coordinamento tra le azioni politiche di base, a livello locale, e quelle nazionali o internazionali, questi urgenti dilemmi politici sono tutti funzioni immediate dell’enormemente complesso nuovo spazio internazionale.

Mi si permetta di illustrarlo con un breve resoconto della massima importanza, fortemente indicativo (per quanto riguarda i problemi dello spazio e della politica): una narrazione storica dell’esperienza politica più significativa negli Stati Uniti degli anni Sessanta. Detroit: I Do Mind Dying di Marvin Surkin e Dan Georgakas197 è uno studio sull’ascesa e la caduta della League of Black Revolutionary Workers in quella città alla fine degli anni Sessanta. La formazione politica in questione fu capace di conquistare forza sul posto di lavoro, in particolare nelle fabbriche automobilistiche; aprì una breccia considerevole nel monopolio mediatico e informativo della città per mezzo di un giornale studentesco; elesse dei giudici e infine per un soffio non elesse il sindaco e non si appropriò dell’apparato di potere cittadino. Si trattò senza dubbio di uno straordinario traguardo politico, caratterizzato da una concezione eccessivamente raffinata della necessità di una strategia rivoluzionaria su più livelli, che comportasse iniziative sui distinti livelli sociali del processo lavorativo, sui media e la cultura, l’apparato giuridico e la politica elettorale.

È comunque parimenti chiaro – e ancor più nei trionfi virtuali di questo tipo che nelle prime fasi della politica locale – che tale strategia è strettamente vincolata alla forma della città. In effetti, una delle enormi forze della superpotenza americana e della sua costituzione federale sta nell’evidente discontinuità tra città, Stato e potere federale: se non si può realizzare il socialismo in un solo paese, quanto più irrisorie sarebbero oggi le prospettive del socialismo in una città degli Stati Uniti?

Ciò nonostante, che cosa succederebbe se si conquistasse di seguito una serie di centri urbani fondamentali? È quel che aveva cominciato a pensare la League of Black Revolutionary Workers: i suoi rappresentanti avevano cioè iniziato a pensare che il loro movimento costituisse un modello politico e dovesse essere generalizzabile. Il problema che sorge è di natura spaziale: come sviluppare un movimento politico nazionale sulla base di una strategia e di una politica di carattere cittadino. In ogni caso, la leadership della lega incominciò a diffondere la voce in altre città, viaggiò fino in Italia e in Svezia per studiare le strategie dei lavoratori di quei paesi e spiegare il proprio modello; per contro, dei politici di fuori vennero a Detroit per analizzare le nuove strategie. A questo punto dovrebbe essere chiaro che siamo nel pieno del problema della rappresentazione, non da ultimo segnalato dalla comparsa di quell’inquietante termine americano che è “leadership”. In senso più generale, però, questi viaggi furono qualcosa di più del tentativo di instaurare una rete di contatti e diffondere informazioni: sollevarono il problema di come rappresentare a persone in condizioni diverse un modello e un’esperienza locali unici. Fu quindi logico per la lega realizzare un film sulla propria esperienza, film peraltro assai bello ed emozionante.

Le discontinuità spaziali sono tuttavia più tortuose e dialettiche, e non si superano in nessuno dei modi più ovvi. Nell’esperienza di Detroit in effetti si ripresentarono come un limite estremo davanti al quale essa fallì. Avvenne che i militanti di vertice della lega erano diventati delle star mediatiche, e non solo si erano estraniati dal proprio elettorato locale, ma, peggio ancora, nessuno di loro restava a casa per mandare avanti la baracca. Essendo ascesi a un piano spaziale più ampio, la base svanì sotto i loro piedi e con ciò l’esperimento sociale rivoluzionario più riuscito di quel fertile decennio politico degli Stati Uniti giunse tristemente a un finale tutt’altro che drammatico. Non voglio dire che non abbia lasciato tracce, giacché resta un certo numero di conquiste locali, e in ogni caso ogni fecondo esperimento politico continua ad alimentare la tradizione in maniera sotterranea. Il dato più ironico, in questo contesto, è però l’autentico successo di quel fallimento: la rappresentazione – il modello di questa complessa dialettica spaziale – sopravvive trionfalmente sotto forma di film e di libro, ma nell’atto di diventare un’immagine e uno spettacolo il referente sembra essere scomparso, come ci hanno sempre avvertito in tanti, da Debord a Baudrillard.

L’esempio può servire inoltre per illustrare l’idea che la rappresentazione spaziale riuscita non ha bisogno di configurarsi come un dramma edificante del trionfo rivoluzionario, da realismo socialista, ma si può ugualmente inscrivere in una narrazione della sconfitta, che talvolta, ancor più efficacemente, fa sì che dietro l’intera architettonica dello spazio globale postmoderno si erga un profilo spettrale, come un’estrema barriera dialettica, un limite invisibile. E forse la vicenda di Detroit può ormai specificare più in concreto ciò che si intende con la formula della cartografia cognitiva, che si può definire come una sorta di sintesi tra Althusser e Kevin Lynch. L’opera classica di quest’ultimo, Limmagine della città, ha di fatto generato quella sottodisciplina che assume oggi a propria insegna l’espressione “cartografia cognitiva”. A dire il vero la problematica di Lynch resta confinata entro i limiti della fenomenologia, mentre il suo libro è indubbiamente suscettibile di molte critiche nei suoi stessi termini (non ultima l’assenza di una qualunque concezione dell’azione politica o del processo storico). L’uso che farò del libro sarà emblematico o allegorico, dal momento che la mappa mentale dello spazio urbano analizzata da Lynch si può estendere a quella mappa mentale della totalità sociale e globale che ognuno di noi porta nella propria testa in forme variamente mascherate. Partendo dai centri urbani di Boston, Jersey City e Los Angeles, e mediante interviste e questionari nei quali si chiedeva ai soggetti di tracciare a memoria il proprio contesto cittadino, Lynch rileva che l’alienazione urbana è direttamente proporzionale all’impossibilità mentale di cartografare i paesaggi urbani locali. Così una città come Boston, con le sue prospettive monumentali, la sua segnaletica e le sue statue, con la sua combinazione di forme spaziali grandiose ancorché semplici, compresi limiti evidentissimi come il fiume Charles, non solo consente alle persone di collocarsi, con l’immaginazione, in maniera continua e generalmente corretta rispetto al resto della città, ma dà loro qualcosa della libertà, dell’appagamento estetico della forma urbana tradizionale.

Mi ha sempre colpito come la concezione dell’esperienza della città proposta da Lynch – la dialettica tra il qui e ora della percezione immediata e il senso immaginativo o immaginario della città come totalità assente – presenti una sorta di analogo spaziale della grande formulazione dell’ideologia a opera di Althusser, quale «rappresentazione Immaginaria del rapporto del soggetto con le sue condizioni Reali di esistenza». Al di là dei suoi difetti e dei suoi problemi, tale concezione positiva dell’ideologia in quanto funzione necessaria in ogni forma di vita sociale ha il grande merito di mettere in evidenza il divario tra il posizionamento locale del soggetto individuale e la totalità delle strutture di classe nelle quali si colloca. È un divario tra la percezione fenomenologica e una realtà che trascende ogni pensiero, ogni esperienza dell’individuo, ma che l’ideologia in quanto tale tenta di misurare, di coordinare o di cartografare per mezzo di rappresentazioni consce o inconsce. La concezione della cartografia cognitiva che propongo qui implica pertanto un’estensione dell’analisi spaziale di Lynch all’ambito della struttura sociale, vale a dire, nel nostro momento storico, alla totalità dei rapporti di classe su scala globale (o forse dovrei dire multinazionale). Purtroppo con il senno di poi questa forza della formulazione costituisce anche la sua fondamentale debolezza: lo spostamento della mappa visiva198 dalla città al pianeta è talmente irresistibile che finisce per spazializzare nuovamente un’operazione che si sarebbe dovuta pensare in maniera totalmente diversa. Si supponeva che un nuovo senso della struttura globale dovesse assumere la figurazione e rimpiazzare il surrogato puramente percettivo della figura geografica; la cartografia cognitiva, che doveva possedere una specie di valore ossimorico e varcare i limiti della cartografia nel suo complesso, in quanto concetto è attratta dalla forza di gravità del buco nero della mappa stessa (uno degli strumenti concettuali più poderosi a disposizione dell’uomo), dove annulla la propria impossibile originalità. Va comunque avanzata una premessa secondaria, cioè che l’incapacità di cartografare a livello spaziale è tanto paralizzante per l’esperienza politica quanto lo è per l’esperienza urbana. Ne consegue che in questo senso un’estetica della cartografia cognitiva è parte integrante di qualunque progetto politico socialista.

Nell’operazione cartografica quale si configura nell’interessante testo di Georgakas e Surkin (o nell’unica analisi esaustiva della cartografia cognitiva di un prodotto culturale che io stesso sia riuscito a portare a termine), c’è da sottolineare, sul piano metodologico, che nell’attuale sistema-mondo è sempre presente un termine mediatico che funziona come analogon o interpretante materiale di questo o quel modello sociale direttamente rappresentativo. Nasce così qualcosa che assomiglia a nuova versione postmoderna della formula base-sovrastruttura, in cui una rappresentazione dei rapporti sociali esige ormai la mediazione di una struttura comunicativa interposta, a partire dalla quale deve essere intrapresa indirettamente la sua lettura. Nel film che ho studiato io stesso (Un pomeriggio di un giorno da cani, diretto nel 1975 da Sidney Lumet199), la possibilità di una rappresentazione di classe nel contenuto – lo sprofondamento del vecchio ceto medio nella proletarizzazione e nel lavoro salariato, l’irruzione di una falsa “nuova classe” nella burocrazia governativa – si proietta, da un lato, sul sistema-mondo, mentre dall’altro si articola nella forma dello star system, che si frappone e viene letto come interpretante del contenuto. Il principio dell’analogon sartriano permetteva di teorizzare questa trasversalità e i suoi meccanismi; inoltre mostrava come persino la stessa rappresentazione necessiti, per il proprio completamento, di un surrogato, di un tenant-lieu, ossia di un simbolo, di un modello in scala ridotta, per così dire, di carattere più formale e totalmente diverso. Pare ormai chiaro che questo tipo di triangolazione ha una specificità storica e intrattiene un rapporto profondo con i dilemmi strutturali che pone il postmodernismo in quanto tale. Esso inoltre chiarisce retroattivamente la descrizione provvisoria del “discorso teorico” postmoderno offerta nelle pagine che precedono (e che peraltro si ripete nella particolare simbiosi ideologica del postmoderno tra i media e il mercato). Dunque, in realtà queste non sono teorie, bensì strutture inconsce, immagini residue ed effetti secondari di una cartografia cognitiva propriamente postmoderna, il cui indispensabile termine mediatico si spaccia per una riflessione filosofica sul linguaggio, la comunicazione e i media, invece che per la manipolazione della propria figura.

Riguardo alla situazione attuale, Saul Landau ha osservato che nella storia del capitalismo non si è mai dato un momento nel quale esso abbia goduto di una maggiore libertà di manovra: tutte le forze minacciose che ha generato contro sé stesso in passato – i movimenti e le sommosse dei lavoratori, i partiti socialisti di massa, persino gli stessi Stati socialisti – appaiono oggi in piena confusione, quando non, in qualche maniera, effettivamente neutralizzate. Al momento il capitale globale sembra in grado di seguire la propria natura e le proprie inclinazioni senza le tradizionali precauzioni. Ecco dunque un’altra “definizione” del postmodernismo, invero piuttosto utile, che soltanto uno struzzo sarebbe disposto a tacciare di “pessimismo”. In tal senso, il postmoderno potrebbe essere benissimo poco più di un periodo di transizione tra due fasi del capitalismo, nel quale le precedenti forme dell’economia – comprese quelle del lavoro, dei suoi concetti e delle sue istituzioni organizzative tradizionali – sono in via di ristrutturazione su scala globale. Non ci vuole un profeta per pronosticare che da questo violento sconvolgimento riemergerà un nuovo proletariato internazionale (sotto forme che non si possono ancora immaginare). Noi stessi siamo ancora in mezzo al guado e nessuno può dire per quanto vi resteremo.

In questo senso, le due conclusioni apparentemente diverse dei miei due saggi storici sulla situazione attuale (uno dedicato agli anni Sessanta200 e l’altro, il primo capitolo di questo volume, sul postmodernismo) sono a tutti gli effetti identiche. Nel secondo ho fatto appello a quella nuova “cartografia cognitiva” di tipo globale appena evocata; nel primo ho previsto un processo di proletarizzazione su scala planetaria. In realtà la “cartografia cognitiva” non era nient’altro che un’espressione in codice per designare la “coscienza di classe”, solo che proponeva la necessità di una coscienza di classe di tipo nuovo, finora impensata, mentre modulava la descrizione verso quella nuova spazialità implicita nel postmoderno (che Postmodern Geographies di Ed Soja pone oggi all’ordine del giorno in maniera tanto eloquente quanto tempestiva). Di tanto in tanto, come chiunque altro, ho provato una certa stanchezza nei confronti dello slogan “postmoderno”, ma quando sono tentato di dolermi della mia complicità con esso, di deplorarne gli abusi e la notorietà e di concludere con una certa riluttanza che solleva più problemi di quanti ne risolve, mi ritrovo a chiedermi se esista qualche altro concetto capace di rappresentare le questioni in modo tanto efficace e vantaggioso.

La strategia retorica delle pagine precedenti presupponeva un esperimento, cioè il tentativo di vedere se, sistematizzando qualcosa di fermamente asistematico, e storicizzando qualcosa di fermamente astorico, lo si possa aggirare e imporre un criterio storico almeno per poterci pensare. “Dobbiamo dare un nome al sistema”: nel dibattito sul postmodernismo, questo tema cruciale degli anni Sessanta conosce un’imprevista rinascita.

140 F. Jameson, “Marxism and Historicism”, in The Ideologies of Theory, cit., vol. ii, pp. 148-177.

141 Cfr. N. Sarraute, Paul Valéry et lenfant déléphant. Flaubert le précurseur, Parigi, Gallimard, 1986 [“Flaubert il precursore”, in Paul Valery e lelefantino. Flaubert il precursore, trad. di L. Fazio, Torino, Einaudi, 1988]; C. MacCabe, James Joyce and the Revolution of the Word, Londra, Macmillan, 1979; i miei tre saggi su Rimbaud, Stevens e la letteratura dell’imperialismo: “Rimbaud and the Spatial Text”, in Rewriting Literary History, a cura di Tak-wai Wong e M.A. Abbas, Hong Kong, Hong Kong University Press, 1984, pp. 66-88; “Wallace Stevens”, in «New Orleans Review», xi, 1984, n. 1, pp. 10-19; “Modernism and Imperialism”, in Nationalism, Colonialism, and Literature, Derry, Field Day Theatre, 1988, pp. 5-25.

142 Sono debitore nei confronti di Jonathan Dollimore per le istruzioni sul giusto uso di tale termine. Quanto alla coscienza del tempo del postmoderno, John Barrell ha detto tutto, parlando degli arredatori postmoderni, per i quali «modernizzare era la stessa cosa che anticare» (“Gone to Earth”, in «London Review of Books», 30 marzo 1989, p. 13).

143 Sul termine, cfr. M. Calinescu, Five Faces of Modernity, Durham, Duke University Press, 1987; P. Bürger, Prosa der Moderne, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1988; e A. Compagnon, Les Cinq paradoxes de la modernité, Parigi, Seuil, 1990 [I cinque paradossi della modernità, trad. di G. Ferrara, Bologna, il Mulino, 1993].

144 Cfr. per esempio P. Bourdieu, Führer della filosofia? Lontologia politica di Martin Heidegger, cit.; A. Boschetti, Limpresa intellettuale. Sartre e «Les Temps modernes», Bari, Dedalo, 1984.

145 Più o meno allo stesso modo, Gertrude Stein immagina Henry James come un «grande generale» (in Four in America, cit.).

146 Cfr. E. Bloch, Erbschaft dieser Zeit, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1962 [“La non-contemporaneità e il dovere di renderla dialettica”, in Eredità del nostro tempo, a cura e trad. di L. Boella, Milano, Il Saggiatore, 1992, pp. 82-130].

147 Cfr. P. Anderson, “Modernism and Revolution”, in «New Left Review», xxv, 1984, n. 144, pp. 95-113.

148 J. Berger, Ways of Seeing, New York, Penguin Books; bbc, 1977 [Questione di sguardi, trad. di M. Nadotti, Milano, Il Saggiatore, 1998, capitolo sul cubismo].

149 Malgrado tutta una politica neoclassica, da Hulme e l’imagismo in poi, facesse esattamente questo già negli anni Dieci.

150 In G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, Monaco, Beck, 1956 [Luomo è antiquato, trad. di L. Dallapiccola, Milano, Il Saggiatore, 1963].

151 Per Marx, l’uguaglianza – o la sua rivendicazione – è il risultato delle equivalenze istituite dal lavoro salariato; di qui la suggestività di questa osservazione: «quel che dà carattere all’epoca capitalistica è il fatto che la forza-lavoro assume anche per lo stesso lavoratore la forma d’una merce che gli appartiene, mentre il suo lavoro assume la forma di lavoro salariato. D’altra parte la forma di merci dei prodotti del lavoro acquista validità generale solo da questo momento in poi» (K. Marx, Il capitale, cit., vol. i, t. 1, p. 187n).

152 K. Marx, Grundrisse, cit., pp. 31-32.

153 Lester C. Thurow, Dangerous Currents. The State of Economics, New York, Random House, 1983 [Arcipelago economia. Idee, scuole e protagonisti, trad. di O. Pesce, Roma, Bari, Laterza, 1984]; cfr. anche S. Aronowitz — W. DiFazio, The Jobless Future: Sci-tech and the Dogma of Work, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1994.

154 A. Bonito Oliva, La Transavanguardia italiana, Milano, Giancarlo Politi, 1980.

155 La sua rilevanza si accentua storicamente se, con Weber, lo intendiamo come un evento teorico unico in qualche maniera coordinato con quell’evento storico parimenti unico che è la nascita del capitalismo (e dell’”Occidente”). Cfr. il paragrafo viii di questo capitolo.

156 J. Hogg, The Private Memoirs and Confessions of a Justified Sinner (1824), ristampa Londra, Philipot, 1924 [Confessioni di un peccatore eletto, trad. di M. Pareschi, Torino, Bollati Boringhieri, 1995].

157 Per questa indicazione sono debitore nei confronti di John Beverley.

158 E. Laclau — C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Londra, New Left Books, 1985, p. 77.

159 Cfr. Postmodernism: Jameson Critique, a cura di D. Kellner, Washington, Maisonneuve Press, 1989, pp. 324 sgg. Parti di questa conclusione in origine sono state pubblicate come replica alle varie critiche contenute in quel volume e ripubblicate separatamente sulla «New Left Review», xxx, 1989, n. 176, pp. 31-45.

160 L. Hutcheon, op. cit., p. xi.

161 Su questo non resta che aggiungere l’evidente paradosso che la Critica di Sartre è, di fatto, non soltanto una teoria dei gruppi, ma anche una teoria che, incompiuta com’è, appare relativamente a disagio con la più ampia categoria di classe sociale.

162 L. Hutcheon, op. cit., p. 7.

163 J.-P. Sartre, Critica della ragione dialettica, cit., p. 25: «Ma quello che cominciava a mutarmi, invece, era la realtà del marxismo, la pesante presenza, al mio orizzonte, delle masse operaie, corpo enorme e cupo che viveva il marxismo, che lo praticava, e che esercitava a distanza un’irresistibile attrazione sugli intellettuali piccolo borghesi».

164 Cfr. N. Luhmann, op. cit.

165 M. Horkheimer — T.W. Adorno, op. cit., p. 127.

166 Cfr. il capitolo 8.

167 J.-P. Sartre, prefazione a F. Fanon, Les Damnés de la terre, Parigi, Maspero, 1961 [I dannati della terra, trad. di C. Cignetti, Torino, Einaudi, 1966, p. vii].

168 Una pionieristica reintroduzione della questione demografica nella problematica marxista (tanto a lungo soffocata dall’esempio degli attacchi di Marx contro Malthus) la si deve all’ormai classico studio di Wally Seccombe, “Marxism and Demography”, in «New Left Review», xxiv, 1983, n. 137, pp. 22-47. Si veda anche la mia analisi dell’idea adorniana di storia naturale nel mio Tardo marxismo, cit.

169 Intervista a Thornton Wilder, in «Paris Review», v, 1957, n. 15, p. 51.

170 J.-P. Sartre, La Nausée, in Oeuvres romanesques, Parigi, Gallimard, 1981 [La nausea, trad. di B. Fonzi, Torino, Einaudi, 1990, p. 79].

171 Si veda soprattutto H. Lefebvre, La Production de lespace, Parigi, Anthropos, 1974 [La produzione dello spazio, trad. di M. Galletti, Milano, Moizzi, 1976].

172 Per un valido compendio delle teorie contemporanee dello spazio, si veda E. Soja, Postmodern Geographies, Londra, Verso, 1989.

173 Cfr. A. Mayer, The Persistence of the Old Regime, New York, Pantheon Books, 1981 [Il potere dellancien régime fino alla prima guerra mondiale, trad. di G. Ferrara degli Uberti, Roma, Bari, Laterza, 1982].

174 In Postmodernism and Japan, a cura di M. Miyoshi e H.D. Harootunian, Durham, Duke University Press, 1989, p. 274.

175 Cfr. il capitolo 1 di questo libro.

176 A. Carpentier, “Prologo” a El reino de este mundo, Santiago del Cile, Editorial Universitaria, 1971 [Il regno di questo mondo, trad. di A. Morino, Torino, Einaudi, 1990].

177 In effetti, quando si rammenta (come ha fatto per me Jonathan Arac) il commento di Walter Bagehot, viene alla luce un Dickens postmoderno: «Londra è come un giornale. È tutto lì, tutto sconnesso» (Literary Studies, Londra, Longmans Green, 1898, p. 176).

178 T. Pynchon, The Crying of Lot 49, Filadelfia, Lippincott, 1966 [Lincanto del lotto 49, trad. di M. Bocchiola, Torino, Einaudi, 2005, p. 133].

179 Cfr. R. Gilman, Decadence: The Strange Life of an Epithet, Londra, Secker and Warburg, 1979.

180 B. Latour, Les Microbes. Guerre et paix, Parigi, A.M. Metailie, 1984 [I microbi. Trattato scientifico-politico, trad. di A. Notarianni, Roma, Editori Riuniti, 1991, pp. 265-266].

181 K. Marx, Grundrisse, cit., p. 390.

182 D.H. Lawrence, “Song of a Man Who Has Come Through”, in Complete Poems, a cura di V. de Sola Pinto e W. Roberts, New York, Viking Press, 1964 [“Canzone di un uomo che è riuscito”, in Poesie, trad. di G. Conte, Milano, Mondadori, 1987, p. 47].

183 Cfr. nota 9.

184 Si veda il mio “Metacommentary”, in The Ideologies of Theory, cit., vol. I, pp. 3-16.

185 M. Harris, America Now: The Anthropology of a Changing Culture, New York, Simon and Schuster, 1981 [America now. I modi di vivere e di pensare, le paure e le speranze di una società che cambia, trad. di S. D’Alessandro, Milano, Feltrinelli, 1983].

186 Per una decostruzione antropologica del concetto di fede, cfr. R. Needham, Belief, Language and Experience, Oxford, Blackwell, 1972 [Credere. Credenza, linguaggio, esperienza, trad. di E. Bertinetto e P.M. Bertinetto, Torino, Rosemberg & Sellier, 1976].

187 J.H. Yoder, The Politics of Jesus, Grand Rapids (MI), Eerdmans, 1972.

188 R. Rorty, Essays on Heidegger and Others, Cambridge, Cambridge University Press, 1991 [“Decostruzione e circonvenzione”, in Scritti filosofici, a cura di A.G. Gargani, trad. di B. Agnese, Roma, Bari, Laterza, 1993, vol. ii, p. 142, nota 7].

189 Tuttavia si veda l’insistenza sulla dispersione nella Critica di Sartre.

190 Lo dimostra Douglas Kellner nella sua introduzione a Postmodernism: Jameson Critique, cit. Ancora una volta il testo segue qui le critiche contenute in quel volume.

191 A. Mayer, Soluzione finale, cit.

192 R.L. Meek, Social Science and the Ignoble Savage, Cambridge, Cambridge University Press, 1976 [Il cattivo selvaggio, trad. di A. Sordini, Milano, Il Saggiatore, 1981, pp. 154-155].

193 Ivi, pp. 91-92.

194 In Postmodernism: Jameson Critique, cit., pp. 134 sgg.

195 Su questo si veda l’interessante ricerca di Adelaïde San Juan.

196 Della esigua letteratura analitica sugli “yuppie”, si può raccomandare “Making Flippy Floppy: Postmodernism and the Baby Boom pmc” di Fred Pfeil, in «The Year Left», i, 1985, n. 1, pp. 268-295. Cfr. anche la letteratura sul cosiddetto “ceto professionistico-manageriale”, in particolare Between Labor and Capital, a cura di P. Walker, Boston, South End Press, 1979.

197 D. Georgakas — M. Surkin, Detroit, I Do Mind Dying, New York, St. Martin’s Press, 1975.

198 Ricorda assai giustamente Baudrillard – ma lo ha fatto così spesso che l’ammonimento ha un po’ lo stesso effetto di quando ci si toglie la scala da sotto i piedi con un calcio – che nel postmoderno questi oggetti essenzialmente transcodificati, o costruzioni simbiotiche come la celebre mappa di Borges (che viene sempre in mente in occasioni del genere) o le immagini di Magritte, non si possono utilizzare come figure o allegorie di qualcosa. E nella teoria avanzata del postmoderno essi hanno tutta la volgarità e la mancanza di “distinzione” delle stampe di Escher sulle pareti delle stanze degli studenti di media cultura. «Se abbiamo potuto prendere, come più bella allegoria della simulazione, la favola di Borges in cui i cartografi dell’Impero disegnano una carta così dettagliata che finisce per coprire con la massima precisione il territorio (ma il declino dell’Impero la vede sfrangiarsi a poco a poco e cadere in rovina: e solo qualche brandello resta ancora reperibile nei deserti – bellezza metafisica di un’astrazione crollata, testimone di un orgoglio a misura dell’Impero e putrescente come una carogna tornata alla sostanza del suolo, un po’ come il doppio, invecchiando, finisce per confondersi con il reale) – ebbene, per noi questa favola è sorpassata, ha ormai soltanto il fascino discreto dei simulacri del secondo ordine. […] Il territorio non precede più la carta, né le sopravvive. Ormai, è la carta che precede il territorio» (“La Précession des simulacres”, in «Traverses», IV, 1978, n. 10, poi in Simulacres et simulation, Parigi, Galilée, 1981 [“La precessione dei simulacri”, in Simulacri e impostura, con un saggio di F. Di Paola, trad. di P. Lalli, Bologna, Cappelli, 1980, p. 45]).

199 “Class and Allegory in Contemporary Mass Culture: Dog Day Afternoon as a Political Film”, nel mio Signatures of the Visible, cit. (saggio non tradotto nell’edizione italiana del volume).

200 “Periodizing the Sixties”, in The Ideologies of Theory, cit., vol. II, pp. 178-208.