Nota del traduttore
Tradurre un libro a distanza di parecchi anni dalla sua prima pubblicazione significa storicizzarlo e, soprattutto, darne una interpretazione ex post. Perciò a qualche lettore il nuovo titolo e le scelte lessicali che ne conseguono potranno apparire spiazzanti, giacché ci si era abituati, in Italia, al termine postmoderno, veicolato in prima istanza proprio dalla traduzione del nucleo originario di questo libro, che corrisponde a quello che è attualmente il primo capitolo.
La ragione per la quale il termine postmodernismo non ha attecchito più di tanto nel nostro paese (oppure è spesso divenuto sinonimo di postmoderno) sta con ogni probabilità nell’assenza, dal nostro lessico estetico, del termine primario ed essenziale cui si antepone il prefisso post, cioè modernismo. Ancora oggi i vocabolari di uso più comune forniscono del lemma un’accezione prevalentemente relativa al rinnovamento religioso del periodo a cavallo tra Otto e Novecento oppure ad alcune specifiche espressioni dell’arte moderna, segnatamente in ambito architettonico. Soltanto in anni recenti il vocabolo ha avuto maggiore diffusione e ha acquisito anche il significato che gli conferisce il mondo anglosassone, ove designa quella galassia – anzi, ammasso di galassie – che comprende esperienze estetiche e filosofiche di ogni genere, accomunate dall’avere elevato il Nuovo a emblema, oggetto e fine del proprio operare. Il modernism indica infatti anche e soprattutto quegli autori che, pur non avendo militato nelle avanguardie storiche, hanno agito nella direzione della novità e della modernizzazione dei propri mezzi espressivi (si pensi a Joyce, per addurre un solo nome esemplare).
Mancava, dunque, in Italia (per lo meno negli anni Ottanta), il termine di partenza, per cui il nuovo prodotto d’importazione ha finito per ricalcare il proprio nome su quello più in uso da noi; ed ecco il perché di postmoderno. Questa traduzione, comunque, non intende soltanto restituire alle cose il loro giusto nome, quasi si trattasse di una operazione meramente filologica, bensì anche e soprattutto il loro senso storico. Nel corso degli anni, la parola postmoderno ha preso, nel nostro paese, contorni sempre più indistinti, fino a farsi un oggetto destituito di significato, un termine passepartout buono per ogni occasione, dal frivolo dibattito mediatico all’intervento teorico più impegnativo. A ciò si è aggiunta, in sovrappiù, la sommaria liquidazione degli anni Ottanta, identificati frettolosamente e tout court con il postmoderno.
Per Jameson postmoderno e postmodernismo non sono sinonimi, giacché il secondo va letto «come cultura, come ideologia e rappresentazione», ideologia del primo, naturalmente, così come il modernismo è l’ideologia del moderno. Tuttavia, a complicare le circostanze sta il fatto che la distinzione non è sempre così perspicua, al punto che postmodern e postmodernism paiono talvolta letteralmente coincidere (non a caso tanto il modernismo quanto il postmodernismo sono interpretati quali fasi storiche del capitalismo). C’è probabilmente, in questo, una sostanziale replica della posizione di Adorno in merito alla «infondata» scissione tra modernismo e modernità. Il che è avvalorato da uno dei dati di fondo del pensiero di Jameson, ossia l’invasione, da parte della cultura, di tutte le dimensioni della concreta realtà sociale e psichica.
In ogni caso, l’autore ha sentito la necessità, nella prefazione all’edizione italiana – cioè nella lingua del paese che forse più di ogni altro ha sofferto di una certa confusione lessicale e teorica –, di sciogliere quell’equivoco, quella ambiguity venuti a crearsi con il titolo Postmodernism, che in Italia si erano rafforzati in virtù della sovrapposizione di aggettivo e sostantivo nel termine postmoderno.
MASSIMILIANO MANGANELLI