3. Surrealismo senza l’inconscio
Si è detto spesso che ogni epoca è dominata da una forma o da un genere privilegiati, i quali paiono più adatti a esprimerne le verità segrete o, forse, se si preferisce un modo di pensare più contemporaneo, che sembrano manifestare il sintomo più intenso di quella che Sartre avrebbe chiamato la «nevrosi oggettiva» di quel particolare tempo e luogo. Penso però che oggi non cercheremmo più questi oggetti caratteristici e sintomatici nel mondo e nel linguaggio delle forme o dei generi. Il capitalismo, e con esso l’epoca moderna, è un periodo in cui, con l’estinzione del sacro e dello “spirituale”, è finalmente venuta alla luce del giorno, grondante e convulsiva, la profonda materialità che sta alla base di tutte le cose. Ed è chiaro che la cultura stessa è una di quelle cose la cui essenziale materialità è ormai per noi non soltanto evidente, bensì pressoché ineludibile. Questo ha comunque rappresentato una lezione storica: siccome la cultura è diventata materiale, oggi siamo nella condizione di intendere che essa è stata sempre materiale, o materialistica, nelle sue strutture e nelle sue funzioni. Noi individui postcontemporanei possediamo una parola per quella scoperta – parola che ha avuto la tendenza a soppiantare il vecchio linguaggio dei generi e delle forme –, vale a dire, ovviamente, la parola medium, e in particolare il suo plurale, media, termine che oggi unisce tre segni relativamente distinti: quello di una modalità artistica o di una specifica forma della produzione estetica; quello di una concreta tecnologia, organizzata in genere attorno a un apparato o a una macchina centrali; e quello, infine, di un’istituzione sociale. Queste tre aree di significato non definiscono un medium, o i media, ma designano le dimensioni separate cui occorre rivolgersi per completare o costruire tale definizione. Dovrebbe essere evidente che la maggior parte dei concetti estetici tradizionali e moderni – in larga misura, sia pure non in maniera esclusiva, elaborati per i testi letterari – non esige questa simultanea attenzione alle dimensioni molteplici del materiale, del sociale e dell’estetico.
Proprio perché abbiamo dovuto apprendere che la cultura oggi è una questione di media, abbiamo finalmente cominciato a far passare nella nostra testa l’idea che la cultura è sempre stata così e che le vecchie forme e i vecchi generi, o per meglio dire gli esercizi spirituali, le meditazioni, i pensieri e le espressioni del passato, sono stati anch’essi, nelle loro modalità tanto diverse, prodotti dei media. L’intervento della macchina, la meccanizzazione della cultura e la mediazione della cultura da parte dell’Industria della Coscienza sono oggi onnipresenti, e sarebbe forse interessante esplorare la possibilità che sia stato così in tutta la storia umana, persino in modi di produzione tanto radicalmente diversi come gli antichi modi precapitalistici.
Nondimeno, il paradosso di questa sostituzione della terminologia letteraria da parte di una nascente concettualità mediatica risiede nel fatto che essa si verifica nel momento stesso in cui è divenuta dominante e pressoché universale la priorità filosofica del linguaggio stesso e delle varie filosofie linguistiche. In tal modo il testo scritto perde il proprio status privilegiato ed esemplare, proprio quando le categorie concettuali di cui si dispone per l’analisi dell’enorme varietà di oggetti di studio con cui la “realtà” si presenta a noi (oggi tutti designati, nelle loro svariate modalità, come altrettanti “testi”) hanno adottato un orientamento quasi esclusivamente linguistico. Sembra pertanto che l’analisi dei media in termini linguistici o semiotici implichi un’espansione imperialistica dell’ambito del linguaggio fino a comprendere i fenomeni extraverbali, visivi o musicali, corporei, spaziali; ma può parimenti sottintendere una sfida critica e destabilizzante agli stessi strumenti concettuali chiamati in causa per portare a compimento questa operazione di assimilazione.
Quanto all’evidente primato odierno dei media, non si tratta affatto di una nuova scoperta. Per circa settant’anni i profeti più saggi ci hanno avvertito regolarmente che la forma artistica dominante del Novecento non era affatto la letteratura – e nemmeno la pittura, il teatro o la musica sinfonica –, bensì piuttosto quell’arte nuova e storicamente unica inventata nella contemporaneità, il cinema, ossia la prima forma artistica specificamente mediatica. La stranezza di tale prognosi – la cui validità irrefutabile con il tempo è divenuta un luogo comune – sta nel fatto che potrebbe avere avuto scarsi effetti pratici. Anzi, la letteratura, che talvolta ha assorbito con intelligenza e opportunismo le tecniche del film nella propria sostanza, è rimasta per tutta l’epoca moderna il paradigma estetico ideologicamente dominante e ha continuato a tenere aperto uno spazio nel quale sono state condotte le più ricche varietà di innovazione. Invece il film, al di là della sua più profonda consonanza con le realtà del Novecento, ha intrattenuto un rapporto assolutamente irregolare con il moderno, dovuto senza dubbio alle due vite o identità distinte attraverso le quali è stato destinato a passare in successione (come l’Orlando di Virginia Woolf): la prima, l’epoca del muto, nella quale si rivelò possibile una certa fusione marginale tra il pubblico di massa e il formale o il modernista (secondo modalità e soluzioni che non possiamo più intendere, per via della nostra peculiare amnesia storica); la seconda, l’epoca del sonoro, che si è posta quale predominio delle forme della cultura di massa (e commerciale), attraverso cui il medium ha dovuto faticare per poter reinventare le forme del moderno in maniera nuova con i grandi autori degli anni Cinquanta (Hitchcock, Bergman, Kurosawa, Fellini).
Tutto ciò lascia intendere che, malgrado sia utile a spingerci fuori dalla cultura stampata e/o dal logocentrismo, la dichiarazione del primato del cinema sulla letteratura è rimasta una formulazione essenzialmente modernista, chiusa in una serie di valori e di categorie culturali che in pieno postmodernismo risultano manifestamente antiquati e “storici”. Che il film sia oggi divenuto postmodernista, o almeno che ciò sia accaduto a certi film, è abbastanza evidente, tuttavia altrettanto hanno fatto alcune forme della produzione letteraria. L’argomentazione si incentrava comunque sul primato di queste forme, cioè sulla loro capacità di fungere da indice supremo e privilegiato, sintomatico, dello Zeitgeist; di porsi, per adoperare un linguaggio più contemporaneo, quale dominante culturale di una nuova congiuntura economica e sociale; di presentarsi – dando infine alla questione l’aspetto filosoficamente più adeguato – come gli strumenti allegorici ed ermeneutici più fecondi per una nuova descrizione del sistema stesso. Il cinema e la letteratura non fanno più tutto questo, ciò nonostante non vorrei dilungarmi troppo sulle prove, per lo più indiziarie, della crescente dipendenza di ciascuno di essi dai materiali, dalle forme, dalla tecnologia e persino dalle tematiche ricavati da quell’altra arte, da quel medium che, secondo me, è oggi il candidato più probabile all’egemonia culturale.
L’identità di tale candidato non è certamente un segreto: si tratta chiaramente del video, nella sua duplice espressione della televisione commerciale e del video sperimentale, o “videoarte”. Non è, questa, una tesi che si possa provare; al contrario, si può cercare, come farò nel resto di questo capitolo, di dimostrare l’interesse di presupporla, e in particolare la molteplicità di conseguenze nuove che derivano dall’attribuire ai procedimenti del video un primato nuovo e più essenziale.
Va comunque sottolineato, fin dal principio, un aspetto davvero significativo di tale presupposizione, giacché riguarda logicamente la diversità radicale e quasi a priori della teoria cinematografica rispetto a tutto quello che viene proposto come teoria o finanche descrizione del video. A rendere inevitabili questa decisione e questo avvertimento è la stessa abbondanza odierna della teoria filmica. Se l’esperienza dello schermo cinematografico e delle sue immagini ipnotizzanti è distinta e fondamentalmente diversa dall’esperienza dello schermo televisivo – circostanza che si può dedurre scientificamente dalle differenze tecniche nelle loro rispettive modalità di codificazione dell’informazione visiva, ma parimenti argomentabile a livello fenomenologico –, allora la maturità e la raffinatezza delle categorie concettuali del cinema necessariamente oscureranno l’originalità del cugino. Le caratteristiche specifiche di quest’ultimo esigono invece di essere ricostruite da zero, senza categorie importate o estrapolate altrove. A sostegno di tale decisione metodologica si può peraltro addurre una parabola: discutendo l’esitazione degli scrittori ebrei dell’Europa centrale tra scrivere in tedesco e scrivere in yiddish, Kafka ebbe una volta a osservare che la vicinanza di queste lingue impediva una traduzione soddisfacente dall’una all’altra. Qualcosa del genere si potrebbe dunque dire riguardo al rapporto tra il linguaggio della teoria cinematografica e quello della teoria del video, ammesso che, tanto per cominciare, quest’ultima esista e la si possa chiamare così.
I dubbi sollevati in merito sono stati frequenti, ma mai in maniera così plateale come nell’ambizioso convegno sul tema promosso da «The Kitchen» nell’ottobre del 1980, nel corso del quale sul palco sfilò una lunga serie di dignitari soltanto per lamentarsi del fatto di non riuscire a comprendere perché fossero stati invitati, giacché non avevano opinioni specifiche sulla televisione (che alcuni di essi ammettevano di guardare). Molti poi aggiungevano, come per un ripensamento, che, tra quelli “prodotti” riguardo alla televisione, gli veniva in mente soltanto un concetto quasi accettabile, cioè l’idea di «flusso totale»42 di Raymond Williams.
Probabilmente le due osservazioni hanno un legame più intimo di quanto si possa immaginare: l’ostacolo di un pensiero nuovo davanti a questa piccola e solida finestra contro la quale picchiamo il capo non manca di un nesso proprio con quel flusso totale e completo che osserviamo attraverso di essa.
Sembra infatti verosimile che, in una condizione di flusso totale, in cui i contenuti dello schermo scorrono per tutto il giorno davanti ai nostri occhi senza interruzione (o laddove le interruzioni – le pubblicità – più che interruzioni rappresentano fugaci opportunità di andare in bagno o di farsi un panino), quella che si chiamava “distanza critica” sia diventata obsoleta. Spegnere il televisore ha poco a che vedere con l’intervallo di un dramma teatrale o di un’opera o con il gran finale di un lungometraggio, allorché le luci tornano lentamente a riaccendersi e la memoria inizia il proprio lavorio segreto. Anzi, se nel cinema è ancora possibile una specie di distanza critica, ciò si lega senza dubbio alla memoria stessa. Quest’ultima pare tuttavia non svolgere alcun ruolo nella televisione, commerciale o di altro tipo (o, sarei tentato di dire, nel postmodernismo in genere); in questo caso nulla ossessiona la mente o lascia le proprie immagini persistenti alla maniera dei grandi episodi cinematografici (circostanza che, naturalmente, non si verifica per forza nei “grandi” film). Una descrizione dell’esclusione strutturale della memoria, dunque, e della distanza critica potrebbe portare all’impossibile, ossia a una teoria del video: il modo in cui la cosa ostacola la propria teorizzazione diventa così di per sé una teoria.
La mia esperienza mi suggerisce comunque che non si riesce a speculare su qualcosa semplicemente decidendolo e che le correnti profonde della mente hanno spesso bisogno di essere sorprese da meccanismi indiretti, talvolta persino dall’inganno e dall’astuzia, come accade quando ci si allontana da un obiettivo allo scopo di conseguirlo in maniera più diretta, oppure si guarda un oggetto da lontano per registrarlo con maggiore esattezza. In questo senso, pensare qualcosa di adeguato riguardo alla televisione commerciale può implicare il fatto di ignorarla e pensare a qualcos’altro, in questo caso il video sperimentale (o, in alternativa, quella forma e quel genere nuovi denominati MTV, di cui non posso occuparmi in questa sede). Più che di un’opposizione tra cultura di massa e cultura di élite, in effetti siamo di fronte a situazioni da laboratorio, controllate: quello che nell’universo della vita quotidiana è a tal punto specialistico da apparire abnorme e insolito – la poesia ermetica, per esempio – può spesso produrre informazioni essenziali circa le proprietà di un oggetto di studio (in tal caso il linguaggio), offuscato dalle proprie forme quotidiane a noi familiari. Libero da tutti i vincoli convenzionali, il video sperimentale ci consente di essere testimoni dell’intera gamma di possibilità e di potenzialità del medium, in una maniera che ne illumina i vari usi più ristretti, null’altro che sottoinsiemi e casi speciali.
Nondimeno, anche tale approccio alla televisione mediante il video sperimentale esige di essere estraniato e dislocato, se il linguaggio dell’innovazione formale e dell’ampliamento delle possibilità conduce ad attendere il fiorire di una molteplicità di forme e di linguaggi visivi nuovi. Questi naturalmente esistono, e in una misura davvero sconcertante nella breve storia della videoarte (che sovente si fa partire dai primi esperimenti di Nam June Paik, del 1963), al punto che viene da chiedersi se una descrizione o una teoria qualunque potranno mai comprendere la loro varietà. Ho comunque trovato illuminante arrivare a tale argomento da una direzione diversa, sollevando la questione della noia come risposta estetica e problema fenomenologico. Sia nella tradizione freudiana che in quella marxista (per la seconda si veda Lukács, ma anche l’esame della «stupidità» condotto da Sartre nei Taccuini della strana guerra), la “noia” non si dà tanto come una proprietà oggettiva delle cose e delle opere, quanto invece come una risposta al blocco delle energie (siano esse intese in termini di desiderio o di prassi). La noia diviene pertanto interessante in quanto reazione alle situazioni di paralisi e anche, senza dubbio, come meccanismo di difesa o comportamento di elusione. Pure considerata nell’ambito più ristretto della ricezione culturale, la noia davanti a un determinato tipo di opera, di stile o di contenuto può sempre essere utilizzata in maniera proficua quale sintomo prezioso dei nostri limiti esistenziali, ideologici e culturali, quale indice di ciò che deve essere rifiutato nelle pratiche culturali di altre persone, nel loro minacciare le nostre razionalizzazioni riguardo al carattere e al valore dell’arte. Intanto non è un gran segreto che, in alcune delle opere di maggiore rilievo del modernismo avanzato, spesso quanto vi si rileva di noioso in effetti può risultare assai interessante, e viceversa: combinazione, questa, immediatamente evidente alla lettura di qualche centinaio di frasi di Raymond Roussel, tanto per fare un esempio. Pertanto per prima cosa bisogna cercare di spogliare il concetto della noia (e la sua esperienza) di ogni implicazione assiologica e mettere tra parentesi l’intera questione del valore estetico. È un paradosso cui ci si può abituare: se un testo noioso può anche risultare buono (o interessante, per dirla meglio), i testi appassionanti, i quali incorporano la diversione, la distrazione, la mercificazione temporale, forse talvolta possono anche essere “cattivi” (o “degradati”, per ricorrere al lessico della Scuola di Francoforte).
Si immagini in ogni caso un volto sullo schermo televisivo accompagnato da un flusso incomprensibile e interminabile di gemiti e di mormorii: il viso resta del tutto inespressivo, non muta per tutta la durata dell’”opera” e alla lunga finisce per sembrare una sorta di icona o di maschera immobile e fluttuante senza tempo. È un’esperienza a cui si può essere disposti a sottoporsi per curiosità per qualche minuto. Quando tuttavia si comincia a sfogliare distrattamente il programma e si scopre che questo videotesto dura ventuno minuti, allora la mente viene sopraffatta dal panico e praticamente qualunque altra cosa sembra preferibile. In altri contesti, però, ventuno minuti non sono poi così lunghi (un esempio potrebbe essere l’immobilità di un iniziato o di un mistico religioso), perciò la natura di questa particolare forma di noia estetica diventa un problema interessante, specialmente se si ricorda la differenza tra la situazione di fruizione della videoarte ed esperienze analoghe del cinema sperimentale (la prima si può interrompere, senza stare seduti a sorbirci educatamente tutto il rituale sociale e istituzionale). Come ho già detto, occorre comunque evitare la facile conclusione che questo nastro o testo sia semplicemente brutto; onde prevenire fraintendimenti, è bene aggiungere subito che esistono tanti, tantissimi videotesti divertenti e accattivanti, di ogni genere. Sarebbe inoltre da evitare anche la conclusione che questi siano semplicemente migliori (o “belli” in senso assiologico).
Emerge poi una seconda possibilità, una seconda tentazione esplicativa, che implica l’intenzione autoriale. Si può concludere che la scelta del videomaker è stata deliberata e consapevole, e che quindi i ventuno minuti del nostro nastro vanno interpretati come una provocazione, come un attacco premeditato contro il fruitore, se non addirittura come un atto di flagrante aggressività. In tal caso, la nostra risposta è stata quella giusta: la noia e il panico sono reazioni adeguate, e presuppongono il riconoscimento del significato di quel particolare gesto estetico. Al di là delle ben note aporie legate ai concetti di intento e di intenzione letterari, è praticamente impossibile ristabilire la tematica di questa aggressività (estetica, di classe, di genere o quant’altro) sulla base di quel singolo nastro.
Nondimeno, forse è possibile elidere i problemi delle motivazioni del soggetto individuale volgendo l’attenzione all’altro tipo di mediazione implicata, cioè la tecnologia e la macchina medesima. Si dice, per esempio, che nei primi anni della fotografia, o piuttosto del dagherrotipo, i soggetti erano obbligati a sedere in assoluta immobilità per periodi di tempo che, per quanto non lunghissimi, si potrebbero comunque definire relativamente intollerabili. Ci si immagina per esempio lo spasmo incontrollabile dei muscoli facciali, oppure il bisogno imperioso di grattarsi o ridere. I primi fotografi escogitarono pertanto qualcosa di analogo alla sedia elettrica, dentro cui la testa del soggetto del loro ritratto, dal più umile e modesto dei generali fino a Lincoln, veniva bloccata e immobilizzata da dietro per i cinque o dieci minuti necessari all’esposizione. Il già menzionato Roussel rappresenta una sorta di equivalente letterario di tale procedura: la sua descrizione inconcepibilmente dettagliata e minuta degli oggetti – un processo assolutamente infinito, senza principio o interesse tematico di sorta – obbliga il lettore ad aprirsi faticosamente la strada una frase dopo l’altra, in un mondo senza fine. Non sarebbe forse errato, a questo punto, identificare nei bizzarri esperimenti di Roussel una sorta di anticipazione del postmodernismo dentro il periodo modernista. In ogni caso, si può sostenere, come minimo, che quelle degenerazioni e quegli eccessi che all’epoca del modernismo erano marginali o subordinati divengono predominanti nella ristrutturazione sistemica osservabile in quello che oggi si chiama postmodernismo. Ciò nonostante è chiaro che il video sperimentale, che lo si faccia risalire all’opera dell’antesignano Paik dei primi anni Sessanta o alla grande ondata di questa nuova arte apertasi a metà degli anni Settanta, è rigorosamente contiguo con il postmodernismo medesimo in quanto periodo storico.
Da entrambe le parti c’è la macchina, dunque; la macchina come soggetto e come oggetto, allo stesso modo e indifferentemente: la macchina dell’apparecchiatura fotografica che punta come la canna di un’arma da fuoco il soggetto, che a sua volta ha il corpo stretto nel suo correlativo meccanico in una sorta di apparecchio di registrazione/ricezione. Gli spettatori impotenti del tempo del video sono dunque immobilizzati, integrati meccanicamente e neutralizzati alla stessa maniera dei vecchi soggetti fotografici, i quali per un istante divenivano parte della tecnologia del medium. Non c’è dubbio che il soggiorno di casa (o anche la rilassata informalità del museo di video) sembra un luogo improbabile per questa assimilazione dei soggetti umani alla tecnologia, e tuttavia il flusso totale del videotesto esige un’attenzione volontaria nel tempo tutt’altro che rilassata, alquanto diversa dalla confortevole osservazione dello schermo cinematografico, e tanto più dal distacco dello spettatore brechtiano con il sigaro in bocca. La recente teoria cinematografica ha proposto delle analisi interessanti (per lo più dalla prospettiva lacaniana) del rapporto tra la mediazione della macchina filmica e la costruzione della soggettività dello spettatore, di colpo spersonalizzato, eppure ancora fortemente motivato a ristabilire le false omogeneità dell’ego e della rappresentazione. Ho l’impressione che nel nuovo medium la spersonalizzazione meccanica (o il decentramento del soggetto) vada ancora più in là, dove gli autori stessi si dissolvono insieme allo spettatore (su questo punto tornerò brevemente in un altro contesto).
Eppure, essendo il video un’arte temporale, gli effetti più paradossali di questa appropriazione tecnologica della soggettività si osservano nell’esperienza del tempo stesso. Sappiamo tutti, ma ce lo dimentichiamo sempre, che le scene e le conversazioni fittizie sullo schermo cinematografico scorciano drasticamente la realtà del ticchettio dell’orologio e non coincidono mai – a causa dei misteri ormai codificati delle varie tecniche della narrazione filmica – con la supposta durata di tali momenti della vita reale, o nel “tempo reale”. Si tratta di una circostanza che un cineasta può sempre rammentarci spiacevolmente tornando di tanto in tanto al tempo reale in un qualunque episodio, che quindi minaccia di proiettare più o meno lo stesso disagio intollerabile che abbiamo ascritto a determinati video. È dunque possibile che a essere in questione qui sia la “finzione”, e che nella sostanza la si possa definire proprio come la costruzione di queste temporalità fittizie e scorciate (del film o della lettura), le quali si sostituiscono quindi a un tempo reale che per un istante possiamo dimenticare? La questione della finzione e del fittizio si troverebbe in tal modo radicalmente dissociata da quelle della narrazione e del racconto in quanto tali (anche se conserverebbe un ruolo e una funzione chiave nella prassi di alcune forme di narrazione). Molte delle confusioni del cosiddetto dibattito sulla rappresentazione (spesso assimilato a un dibattito sul realismo) vengono dissipate esattamente da tale distinzione analitica tra gli effetti della finzione e le loro temporalità immaginarie da un lato, e le strutture narrative in generale dall’altro.
In ogni caso, se le cose stanno così si potrebbe affermare che il video sperimentale non è, in questo senso, finzione: non proietta cioè un tempo fittizio e non opera con la finzione o le finzioni (benché possa benissimo trattare delle strutture narrative). Questa distinzione primaria ne rende poi possibili altre, così come pone interessanti problemi nuovi. Il film, per esempio, sembrerebbe chiaramente avvicinarsi a questa condizione non narrativa nella forma del documentario, tuttavia varie ragioni mi inducono a sospettare che buona parte dei film documentari (e dei video documentari) proietti comunque una sorta di narratività residua – una specie di tempo documentario costruito – nel cuore stesso della sua ideologia estetica, dei ritmi e degli effetti sequenziali. Inoltre, accanto ai processi non narrativi del video sperimentale, almeno una forma di video aspira manifestamente alla narratività di tipo filmico, ossia la televisione commerciale, alle cui peculiarità, che le si deplori o le si esalti, ci si può forse avvicinare meglio mediante una descrizione del video sperimentale. In altre parole, definire le serie, i drammi e altri generi televisivi nei termini dell’imitazione, da parte di questo medium, di altre arti e altri media (in particolare della narrazione filmica) probabilmente ci condanna a non cogliere gli aspetti più interessanti della loro situazione produttiva: il modo in cui la televisione commerciale riesce a produrre il simulacro del tempo narrativo a partire dai linguaggi rigorosamente non narrativi del video.
Quanto alla temporalità, nel movimento moderno essa è stata concepita nella migliore delle ipotesi come un’esperienza e nella peggiore come un tema, benché la realtà intravista dai primi moderni dell’Ottocento (e designata dalla parola ennui) sia già, senza dubbio, questa temporalità della noia che abbiamo identificato nell’andamento del video, ossia lo scorrere del tempo reale minuto per minuto, l’irrevocabile e terrificante realtà del contatore che corre. Ma forse la partecipazione della macchina a tutto ciò consente ormai di sfuggire alla fenomenologia e alla retorica della coscienza e dell’esperienza, oltre che di affrontare tale temporalità apparentemente soggettiva in una maniera nuova e materialistica, la quale costituisce pure un nuovo genere di materialismo, non della materia, bensì della macchina. È come se, per riformulare la mia analisi iniziale dell’effetto retroattivo dei nuovi generi, la comparsa della macchina in sé (così centrale nell’organizzazione del Capitale da parte di Marx) disvelasse in modo per certi versi inatteso la materialità prodotta della vita e del tempo umani. Anzi, insieme alle varie versioni fenomenologiche della temporalità, alle filosofie e alle ideologie del tempo, occorre arrivare a padroneggiare l’intera gamma di studi storici intorno alla stessa costruzione sociale del tempo, il più influente dei quali resta indubbiamente il classico saggio di Edward P. Thompson43 sugli effetti dell’introduzione del cronometro nei luoghi di lavoro. Il tempo reale è in quel senso tempo oggettivo, ossia il tempo degli oggetti, un tempo sottoposto alle misurazioni cui sono sottoposti gli oggetti. Il tempo misurabile diventa una realtà per via della comparsa della stessa misurazione, vale a dire della razionalizzazione e della reificazione secondo le accezioni, strettamente legate tra loro, di Weber e di Lukács. Il tempo dell’orologio presuppone una peculiare macchina spaziale: è il tempo di una macchina o, meglio ancora, il tempo della macchina stessa.
Ho inteso proporre l’idea che il video sia unico – e in tal senso storicamente privilegiato o sintomatico – perché è l’unica arte o medium in cui il luogo preciso della forma è costituito da questa fondamentale cesura tra spazio e tempo, e anche perché la macchina domina e spersonalizza in maniera unica soggetto e oggetto in pari misura, trasformando il primo in un apparato di registrazione quasi materiale per il tempo meccanico del secondo e dell’immagine video, del «flusso totale». Se si intende prendere in considerazione l’ipotesi che il capitalismo si possa periodizzare in base ai balzi in avanti o alle mutazioni tecnologiche mediante le quali reagisce alle proprie crisi sistemiche più profonde, allora potrebbe divenire un po’ più chiaro come e perché il video – così strettamente connesso al computer e all’informatica dominanti nella fase tarda, la terza, del capitalismo – possa a buon diritto dirsi la forma artistica par excellence del tardo capitalismo.
Tali osservazioni consentono di ritornare al concetto di flusso totale e di coglierne diversamente la relazione con l’analisi della televisione commerciale (o narrativa). Il tempo materiale, o tempo meccanico, costella il flusso della televisione commerciale attraverso i cicli di programmazione di un’ora e di mezz’ora, tallonati come da una spettrale immagine residua dai ritmi più brevi delle pubblicità. Ho affermato che queste interruzioni regolari e periodiche sono molto diverse dai vari generi di chiusura che si incontrano nelle altre arti, persino nel cinema, eppure permettono la simulazione di tali chiusure e quindi la produzione di una sorta di tempo narrativo immaginario. Il simulacro del fittizio si impadronisce di queste interruzioni materiali come un sogno sfrutta gli stimoli esterni del corpo, le riporta dentro di sé e le converte in inizi e conclusioni apparenti; in altri termini, nell’illusione di un’illusione, nella simulazione di secondo grado di ciò che nelle altre forme d’arte rappresenta già finzione o temporalità illusoria di primo grado. Soltanto una prospettiva dialettica, però, che postuli presenze e assenze, apparenze e realtà, o essenze, può rivelare questi processi costitutivi. Per esempio, per una semiotica unidimensionale o positivistica, che può occuparsi esclusivamente, alla stessa maniera, delle mere presenze e dei dati esistenti di segmenti di video commerciali o sperimentali, queste due forme correlate, e tuttavia dialetticamente distinte, si riducono a tagli o spezzoni di un identico materiale a cui si applicano dunque identici strumenti di analisi. La televisione commerciale non rappresenta un oggetto di studio autonomo; essa può essere intesa per quello che è solamente se la si colloca dialetticamente rispetto a quell’altro sistema di senso che abbiamo chiamato video sperimentale, o videoarte44.
L’ipotesi che il video in quanto medium possieda una maggiore materialità lascia intendere che sarebbe meglio ricercare le sue analogie in altri ambiti, e non nell’evidente reciproco rinviarsi della televisione commerciale, del cinema di finzione o persino del film documentario. Conviene sondare la possibilità che l’antesignano più indicativo della nuova forma si possa rinvenire nell’animazione o nel cartone animato, la cui specificità materialistica (e paradossalmente non narrativa) è quanto meno duplice: da un lato implica l’adattamento o l’abbinamento costitutivi tra un linguaggio musicale e uno visivo (due sistemi pienamente elaborati non più subordinati l’uno all’altro, come accade nel cinema di finzione), e dall’altro il carattere palpabilmente costruito delle immagini di animazione che, nelle loro incessanti metamorfosi, obbediscono ormai alle leggi “testuali” della scrittura e del disegno, piuttosto che a quelle “realistiche” della verosimiglianza, della forza di gravità ecc. L’animazione è stata la prima grande scuola che ha insegnato la lettura dei significanti materiali (invece che l’apprendistato narrativo degli oggetti della rappresentazione: personaggi, azioni e altro ancora). Eppure nell’animazione, come poi nel video sperimentale, le risonanze lacaniane di questo linguaggio di significanti materiali vengono inevitabilmente attivate dall’onnipresente forza della prassi umana. Si rivela perciò un attivo materialismo della produzione, invece che uno statico o meccanico materialismo della materia o della materialità come supporto inerte.
Inoltre il flusso totale ha notevoli conseguenze metodologiche sull’analisi del video sperimentale, e in particolare per la costituzione dell’oggetto o dell’unità di studio che un tale medium presenta. Naturalmente non è un caso che oggi, in pieno postmodernismo, il vecchio linguaggio dell’“opera” e del lavoro – l’opera d’arte, il capolavoro – sia stato dovunque in larga misura rimpiazzato dal linguaggio alquanto diverso del “testo”, dei testi e della testualità, linguaggio dal quale la realizzazione della forma organica o monumentale è strategicamente esclusa. In questo senso, oggi tutto può essere un testo (la vita quotidiana, il corpo, le rappresentanze politiche), mentre quegli oggetti che in precedenza erano “opere” possono ormai essere riletti quali immensi insiemi o sistemi di testi di vario genere sovrapposti l’uno all’altro mediante le varie intertestualità, successioni di frammenti o, ancora, puri e semplici processi (che d’ora in poi si chiameranno produzione testuale o testualizzazione). Pertanto l’opera d’arte autonoma – insieme al vecchio soggetto autonomo, all’ego – sembra essere svanita, volatilizzata.
Nulla dimostra materialmente tutto ciò quanto i “testi” del video sperimentale, situazione che, comunque, mette ormai l’analista di fronte a problemi nuovi e insoliti, caratteristici di questa o quella espressione del postmodernismo, ma qui addirittura più acuti. Se le vecchie forme modernizzanti e monumentali – il Libro del Mondo, le “montagne incantate” del modernismo architettonico, il mitico ciclo operistico centrale di una Bayreuth, il Museo stesso in quanto centro di tutte le possibilità della pittura –, se questi insiemi totalizzanti non sono più le strutture organizzative primarie per l’analisi e l’interpretazione; se, in altri termini, non esistono più capolavori, per non parlare del loro canone, né “grandi” libri (e se persino il concetto di buon libro è divenuto problematico); se d’ora in avanti ci troviamo di fronte a dei “testi”, cioè di fronte all’effimero, a opere usa e getta che intendono risolversi immediatamente in un cumulo di detriti del tempo storico, si fa dunque difficile e finanche contraddittorio organizzare un’analisi e un’interpretazione intorno a uno solo di questi frammenti in volo. Selezionare – pur come “esempio” – un singolo videotesto ed esaminarlo isolatamente significa rigenerare fatalmente l’illusione del capolavoro o del testo canonico, reificare l’esperienza del flusso totale dal quale è stato estratto per un momento. Guardare il video implica anzi l’immersione nel flusso totale della cosa in sé, preferibilmente una specie di sequenza aleatoria di tre o quattro ore di nastri a intervalli regolari. In questo senso (e grazie alla commercializzazione della televisione pubblica e via cavo), il video è davvero un fenomeno urbano che richiede raccolte e musei adeguati a livello locale, da visitare quindi con le stesse abitudini istituzionalizzate e la stessa informalità rilassata con cui si era soliti andare a teatro o all’opera (o anche al cinema). Guardare una singola “opera video” isolata è del tutto fuori discussione; in questo senso verrebbe da dire che non esistono capolavori video, che non potrà mai esistere un canone del video, e una teoria autoriale del video risulta davvero molto problematica (benché le firme siano ancora palesemente presenti). Il testo “interessante” deve ormai emergere da un flusso indifferenziato e aleatorio di altri testi. Nasce così una specie di principio di Heisenberg dell’analisi del video: gli analisti e gli interpreti sono vincolati all’esame di specifici testi singoli, uno dopo l’altro, o, se si preferisce, sono condannati a una specie di Darstellung lineare secondo la quale devono parlare di singoli testi uno alla volta. Tuttavia questa forma di percezione e di critica manomette immediatamente la realtà della cosa percepita e la intercetta a metà del discorso, distorcendo tutte le scoperte al punto da renderle irriconoscibili. L’analisi, la scelta e la differenziazione preliminari e indispensabili di un singolo “testo” automaticamente lo trasformano di nuovo in un’”opera”, mutano il videomaker anonimo in un artista, in un autore dotato di un nome e aprono la strada al ritorno di tutti gli aspetti della vecchia estetica modernista, che il carattere rivoluzionario del nuovo medium intendeva cancellare e sfatare.
Nonostante queste precisazioni e queste riserve, non mi pare possibile proseguire nell’esplorazione delle possibilità del video senza interrogare un testo concreto. Prendiamo in considerazione un’”opera” della durata di ventinove minuti intitolata Aliennation, realizzata nello School of the Art Institute di Chicago da Edward Rankus, John Manning e Barbara Latham nel 1979. Evidentemente per il lettore questo resterà un testo immaginario, tuttavia il lettore non ha bisogno di “immaginare” che lo spettatore si trova in una condizione completamente diversa. Descrivere questo flusso di immagini di ogni genere dopo averlo visto significa necessariamente violare il presente perpetuo dell’immagine e riorganizzare i pochi frammenti che restano nella memoria secondo schemi che probabilmente rivelano molto di più sulla mente che interpreta che sul testo in sé: cerchiamo di riconvertirlo in una storia di qualche tipo? (Un libro molto interessante di Jacques Leenhardt e Pierre Jósza, Lire la lecture45, mostra questo processo in atto persino nella lettura di “romanzi senza trama”: la memoria del lettore crea dei “protagonisti” del tutto fittizi, viola l’esperienza della lettura allo scopo di rimontarla in scene riconoscibili e in sequenze narrative, e così via). Oppure, a un livello critico più sofisticato, cerchiamo per lo meno di mettere in ordine il materiale in ritmi e in blocchi tematici e di costellarlo nuovamente di inizi e di conclusioni, con diagrammi che segnano l’ascesa e il calo dell’emotività, i climax, i punti morti, le transizioni, le ricapitolazioni e simili? Non c’è dubbio, solo che la ricostruzione di questi movimenti formali complessivi viene alla luce in maniera diversa ogni volta che guardiamo il nastro. Tanto per cominciare, ventinove minuti di video sono molto più lunghi del segmento temporale equivalente di qualsiasi lungometraggio; né è eccessivo parlare di una contraddizione autentica e assai intensa tra l’esperienza pressoché allucinogena del presente dell’immagine nel video e qualunque genere di memoria testuale in cui potrebbero essere inseriti i presenti successivi (persino il ritorno e il riconoscimento di immagini precedenti di fatto viene colto di sfuggita, in maniera laterale e praticamente troppo tardi perché possa servirci a qualcosa). Se qui il contrasto con le strutture della memoria dei film hollywoodiani è aspro ed evidente, si ha la sensazione – più difficile da documentare o da argomentare – che il divario tra tale esperienza temporale e quella del cinema sperimentale non sia meno ampio. Questi trucchi da op art e gli elaborati montaggi visivi ricordano in particolare i classici di ieri come il Balletto meccanico; tuttavia ho l’impressione che, al di là della diversità della nostra situazione istituzionale (qui la sala cinematografica, il televisore a casa o in un museo per il videotesto), tali esperienze siano molto dissimili, e in particolare che nel film i blocchi di materiale siano più ampi, più percettibili in maniera grossolana e tangibile (anche quando scorrono rapidamente). Ciò determina un senso delle combinazioni più pacato rispetto a quanto può accadere nel caso dei dati visivi rarefatti dello schermo televisivo.
Ci si riduce perciò a enumerare alcuni di questi materiali video, i quali non sono temi (dal momento che per la maggior parte si tratta di citazioni materiali provenienti da un qualche magazzino semicommerciale), ma di sicuro non hanno nemmeno nulla della densità della mise en scène baziniana, giacché persino i frammenti non estratti da sequenze già esistenti, e che dunque sono stati evidentemente filmati con l’intento esplicito di adoperarli in questo nastro, presentano una sorta di trasandatezza fatta di colori di bassa qualità che in un modo o nell’altro li contrassegna come “artificiosi” e studiati, rispetto alla realtà manifesta delle altre immagini-nel-mondo, degli oggetti immagine. Esiste dunque un senso secondo cui la parola collage può ancora valere per tale giustapposizione di quelli che sarei tentato di chiamare materiali “naturali” (le sequenze nuove o filmate direttamente) e di quelli artificiali (le immagini preconfezionate “mixate” dalla macchina stessa). Fuorviante potrebbe essere la gerarchia ontologica del vecchio collage pittorico: in questo video il “naturale” è peggiore e maggiormente degradato dell’artificiale, il quale di per sé non connota più la tranquilla vita quotidiana di una società umanamente costruita (come nel caso degli oggetti del cubismo), bensì, piuttosto, il rumore e i segnali confusi, l’inconcepibile ciarpame dell’informazione della nuova società mediatica.
Prima di tutto c’è un piccolo scherzo esistenziale sopra un “punto” del tempo, tagliato da una “cultura” temporale che assomiglia un po’ a una crêpe; poi dei topi da laboratorio, a cui si sovrappongono le voci di resoconti pseudoscientifici e programmi terapeutici vari (come curare lo stress, i trattamenti di bellezza, l’ipnosi per la perdita di peso ecc.); quindi ancora spezzoni di fantascienza (che includono musica mostruosa e dialoghi camp), per lo più estratti da un film giapponese, L’invasione degli astromostri (1965). A questo punto il flusso di materiali visivi diventa troppo denso perché li si possa enumerare: effetti ottici, giochi di costruzioni e gru per bambini, riproduzioni di dipinti classici, manichini, immagini pubblicitarie, stampe da computer, illustrazioni da manuali d’ogni sorta, figure animate che salgono e scendono (compreso un meraviglioso cappello di Magritte che affonda lentamente nel lago Michigan); bagliori di fulmini; una donna distesa probabilmente in stato di ipnosi (a meno che, come in un romanzo di Robbe-Grillet, non si tratti semplicemente della fotografia di una donna distesa probabilmente in stato di ipnosi); vestiboli di alberghi o uffici ultramoderni con scale mobili che salgono in tutte le direzioni e a svariate angolature; riprese di un angolo di strada con poco traffico, un bambino su una grande ruota e alcuni pedoni che portano la spesa; il primo piano ossessivo di detriti e mattoncini da costruzioni per bambini sulla riva del lago (in una di queste sequenze riappare il cappello di Magritte, dal vero, in equilibrio su un bastone conficcato nella sabbia); sonate di Beethoven, I pianeti di Holst, disco music, organi da funerale, effetti sonori cosmici, il tema di Lawrence d’Arabia che accompagna l’arrivo di dischi volanti nel cielo di Chicago; una sequenza grottesca nella quale vengono dissezionate con il bisturi delle figure oblunghe friabili e di colore arancione (che sembrano Hostess Twinkies), compresse dentro una morsa e frantumate a pugni; un contenitore del latte che gocciola; ballerini da discoteca nel loro habitat; riprese di pianeti lontani; primi piani di colpi di spazzola d’ogni genere; pubblicità di cucine degli anni Cinquanta e molto altro ancora. A volte queste immagini sembrano combinarsi in sequenze più lunghe, come quando il bagliore del fulmine si sovraccarica di tutta una serie di effetti ottici, pubblicità, figure animate, musica da film e dialoghi radiofonici sconnessi. Altre volte, come nel passaggio da un accompagnamento relativamente meditabondo di “musica classica” allo stridore del ritmo proprio della cultura di massa, sembra evidente e imperante il principio di variazione. A volte ancora il flusso accelerato delle immagini mescolate colpisce perché modella una certa urgenza temporale unificata, il tempo del delirio, per così dire, o dell’attacco sperimentale diretto contro il soggetto-osservatore. Mentre il tutto è costellato a caso di segnali formali – il “prepararsi a disconnettersi”, presumibilmente inteso ad avvertire l’osservatore della conclusione imminente, e la ripresa finale della spiaggia, che si appropria di un linguaggio connotativo più riconoscibilmente filmico –, come dispersione di un mondo oggettuale in frammenti, ma anche raggiungimento di una sorta di limite o di margine estremo (come nella sequenza di chiusura della Dolce vita di Fellini). Tutto questo è, senza dubbio, un elaborato scherzo visivo, una burla (se ci si aspettava qualcosa di più “serio”): un esercizio pratico da studenti, se si vuole, tuttavia il tempo della storia del video sperimentale è tale che addetti ai lavori ed esperti sono capaci di guardare questa produzione del 1979 con una certa nostalgia, ricordando che la gente all’epoca faceva quel genere di cose, ma oggi è occupata a fare altro.

Le questioni più interessanti poste da un videotesto di questo tipo – e spero sia chiaro che il testo funziona, al di là del suo valore o del suo significato, cosa che si può riscontrare ripetutamente (almeno in parte per via del sovraccarico informativo che l’osservatore non sarà mai in grado di dominare) – restano questioni di valore e di interpretazione, purché sia inteso che il dato storicamente più interessante potrebbe essere proprio l’assenza di una qualche possibile risposta a tali questioni. Tuttavia il mio tentativo di raccontare o di riassumere questo testo rende chiaro che ancor prima di giungere alla domanda interpretativa – «che cosa significa?», o, nella sua versione piccolo borghese, «che cosa si suppone che rappresenti?» – bisogna affrontare le questioni preliminari della forma e della lettura. Non è affatto ovvio che uno spettatore possa mai arrivare a un momento di conoscenza e di memoria satura dal quale si dipani lentamente una lettura formale di questo testo nel tempo: inizi e istanze tematiche, combinazioni e sviluppi, resistenze e lotte per il predominio, risoluzioni parziali, forme di chiusura tali da condurre a questo o quel punto fermo. Se si potesse tracciare un tale diagramma complessivo del tempo formale dell’opera, finanche in maniera assai approssimata e generica, la descrizione resterebbe necessariamente vuota e astratta quanto la terminologia della forma musicale, che oggi, nell’era della musica aleatoria e della postdodecafonia, conosce problemi analoghi, malgrado le dimensioni matematiche del suono e della notazione musicale forniscano soluzioni all’apparenza più tangibili. In ogni caso la mia impressione è che persino le poche marche formali che siamo stati in grado di isolare – la riva del lago, gli edifici, il “senso della fine” – siano ingannevoli; ormai non sono più aspetti o elementi di una forma, bensì segni e tracce di forme precedenti. Occorre ricordare che queste forme precedenti sono ancora comprese all’interno dei frammenti e dei pezzi, ossia del materiale ricombinato, di questo testo: la sonata di Beethoven non è che uno dei componenti di tale bricolage, come una pipa spezzata recuperata e inserita in una scultura o il pezzo strappato di un giornale incollato su una tela. E tuttavia nel segmento musicale della vecchia opera di Beethoven la “forma” nel senso tradizionale persiste e può essere nominata: la “cadenza discendente”, per dire, o la “ricomparsa del primo tema”. Lo stesso si può dire degli spezzoni del film di mostri giapponese: essi includono citazioni della stessa forma della fantascienza, come la “scoperta”, la “minaccia”, la “tentata fuga” e così via (in tal caso la terminologia formale disponibile – in analogia con la nomenclatura musicale – probabilmente si dovrebbe restringere ad Aristotele, a Propp e ai suoi successori oppure a Ejzensˇtejn, praticamente le uniche fonti di un linguaggio neutro del movimento della forma narrativa). L’interrogativo che si presenta è dunque se le peculiarità formali all’interno di questi segmenti e di questi pezzi citati si trasferiscano in qualche punto allo stesso videotesto, al bricolage di cui sono parti e componenti. Si tratta però di una questione da sollevare prima di tutto rispetto al microlivello degli episodi e dei momenti singoli. Quanto alle più ampie caratteristiche formali del testo considerato come un’”opera”, quale organizzazione temporale, l’immagine della riva del lago indica che la forma forte della vecchia chiusura temporale o musicale qui è presente esclusivamente nella veste di residuo formale: ciò che nel finale di Fellini recava ancora le tracce di un residuo mitico – il mare come una sorta di elemento primordiale, quale luogo in cui l’umano e il sociale si confrontano con l’alterità della natura – qui è cancellato e dimenticato già da molto tempo. Quel contenuto è scomparso e non ha lasciato null’altro che una fievole traccia residuale della propria originaria connotazione formale, cioè della propria funzione sintattica in quanto chiusura. In questo punto più rarefatto del sistema segnico, il significante è diventato poco più di un ricordo indistinto di un segno precedente, anzi della funzione formale di quel segno ormai estinto.
Il linguaggio della connotazione che ha cominciato a imporsi nel paragrafo precedente parrebbe esigere un riesame dell’elaborazione fondamentale di questo concetto, che dobbiamo a Roland Barthes, il quale lo elaborò a partire da Hjelmslev in Miti d’oggi; tuttavia nel suo lavoro “testuale” posteriore ha ripudiato l’implicita differenziazione dei linguaggi di primo e secondo grado (denotazione e connotazione), che ai suoi occhi dev’essere sembrata una replica delle vecchie divisioni tra estetico e sociale, tra il libero gioco dell’arte e la referenzialità storica, divisioni cui saggi come Il piacere del testo hanno cercato di sottrarsi o di sfuggire. Non importa che la vecchia teoria (ancora enormemente influente sugli studi dedicati ai media) ribaltasse ingegnosamente le priorità di tale opposizione, attribuendo autenticità (e dunque valore estetico) alla valenza denotativa dell’immagine fotografica e una colpevole funzionalità ideologica e sociale al suo prolungamento più “artificiale” nei testi pubblicitari. Questi ultimi, appropriandosi del testo denotativo originario per trasformarlo nel loro nuovo contenuto, spingono le immagini già esistenti al servizio di un certo gioco intensificato di pensieri degradati e messaggi commerciali. Quali che siano gli interessi e le implicazioni di tale dibattito, sembra chiaro che la vecchia e classica concezione barthesiana del funzionamento della connotazione in questa sede può risultare stimolante solamente se la si complica in maniera adeguata, magari fino a renderla irriconoscibile. Qui la situazione è infatti il contrario di quella della pubblicità, nella quale i segni “più puri” e in un certo senso più materiali venivano assunti e riadattati per fungere da vettori per tutta una serie di segnali ideologici. Nel nostro caso, al contrario, i segnali ideologici sono già profondamente incorporati nei testi primari, i quali sono a loro volta fortemente culturali e ideologici: la musica di Beethoven include già il connotatore di “musica classica” in genere, il film di fantascienza include già molteplici angosce e messaggi politici (una forma della guerra fredda dell’America riadattata alla politica antinucleare giapponese, le quali a loro volta si uniscono nel nuovo connotatore culturale del camp). Tuttavia la connotazione rappresenta qui – in un ambito culturale i cui “prodotti” svolgono funzioni che in larga misura vanno al di là di quelle strettamente commerciali delle immagini pubblicitarie (pur comprendendone ancora alcune, senza dubbio, e replicandone certamente le strutture in altri modi) – un processo polisemico nel quale coesiste un certo numero di “messaggi”. Perciò l’alternarsi di Beethoven e della disco music emette indubbiamente un messaggio di classe – la cultura alta contro quella popolare o di massa, il privilegio e l’istruzione contro forme di svago più popolari e fisiche –, ciò nonostante continua a veicolare il vecchio contenuto di una certa tragica gravità, il senso formale del tempo della forma sonata medesima, l’”altà serietà” della più rigorosa estetica borghese nel suo cimentarsi con il tempo, la contraddizione e la morte. Tale serietà si trova dunque opposta all’inesorabile distrazione temporale propria della musica commerciale metropolitana dell’epoca postmoderna, la quale riempie implacabilmente lo spazio e il tempo al punto che le vecchie questioni “tragiche” appaiono irrilevanti. Tutte queste connotazioni sono in gioco simultaneamente. Nella misura in cui, e soltanto in quella, esse risultano agevolmente riducibili a una delle opposizioni binarie appena menzionate (cultura alta e cultura bassa), siamo in presenza di una sorta di “tema”, che al suo limite esterno potrebbe costituire l’occasione per un atto interpretativo che mi consente di affermare che il videotesto “parla di” questa particolare opposizione. Tornerò più avanti su queste opzioni o possibilità interpretative.
Si deve tuttavia escludere l’idea che in questo particolare videotesto sia in atto un procedimento di demistificazione: tutti i suoi materiali sono in tal senso degradati, Beethoven non meno della disco music. E malgrado si abbia qui, come chiarirò presto, un’interazione assai complessa tra vari livelli e componenti del testo, o vari linguaggi (immagine vs. suono, musica vs. dialogo), non è più in programma, ammesso che sia ancora concepibile, l’uso politico di uno di questi livelli contro un altro (come accade in Godard), cioè il tentativo di purificare in qualche modo l’immagine facendola risaltare contro lo scritto o il parlato. La circostanza si può chiarire, credo, se si pensano i vari elementi e componenti citati – i pezzi infranti di tutta una gamma di testi primari del panorama culturale contemporaneo – come tanti logotipi, vale a dire come una nuova forma di linguaggio pubblicitario, strutturalmente e storicamente molto più avanzato e complicato di una qualunque delle immagini pubblicitarie con cui dovettero fare i conti le prime teorie di Barthes. Un logo è grossomodo la sintesi di un’immagine pubblicitaria e di un marchio commerciale; meglio ancora, è un marchio trasformato in immagine, un segno o un emblema che reca in sé la memoria di un’intera tradizione di pubblicità precedenti in maniera quasi intertestuale. Tali loghi possono essere visivi oppure uditivi e musicali (come nel caso del tema della Pepsi) e questo ampliamento consente di includere in tale categoria i materiali della colonna sonora, insieme ai segmenti del logo più immediatamente identificabili come le scale mobili degli uffici, le modelle, i filmati di consulenza psicologica, l’angolo della strada, il lungolago, L’invasione degli astromostri e così via. “Logo” significa dunque la trasformazione di ciascuno di tali frammenti in una sorta di segno in sé; tuttavia non è ancora chiaro a cosa possano rimandare questi segni nuovi, dal momento che non sembra possibile identificare alcun prodotto, né la gamma di prodotti generici strettamente designati dal logo nel suo senso originario, quale marchio di un’impresa multinazionale diversificata. Nondimeno, il termine generico è di per sé interessante, se ne concepiamo le implicazioni letterarie in maniera un po’ più ampia rispetto al vecchio, e maggiormente statico, quadro dei “generi”, dei tipi prefissati. Il consumo culturale generico proiettato da questi frammenti risulta più dinamico e deve essere associato alla narrativa (a sua volta intesa ormai nel significato più ampio di un tipo di consumo testuale). In tal senso, gli esperimenti scientifici sono narrazioni alla stessa stregua di Lawrence d’Arabia; la visione di operai e burocrati che salgono per le scale mobili non è meno narrativa degli spezzoni di film di fantascienza (o della musica dell’horror); persino la fotografia fissa di fulmini evoca un insieme molteplice di strutture narrative (Ansel Adams, o il terrore della grande tempesta, o il “logo” del paesaggio western in stile Remington, oppure ancora il sublime settecentesco, o la risposta di Dio alla cerimonia della pioggia, o l’inizio della fine del mondo).
La questione si complica, però, allorché ci si rende conto che nessuno di tali elementi o nuovi segni culturali o loghi sussiste isolato; lo stesso videotesto è quasi in ogni momento un processo di incessante interazione tra loro, apparentemente aleatoria. È chiaramente questa la struttura che necessita di descrizione e di analisi, ma si tratta di una relazione tra segni per la quale disponiamo soltanto di modelli teorici molto approssimativi. Di fatto la questione consiste nel comprendere uno scorrere costante, un “flusso totale” di materiali molteplici, ognuno dei quali può essere visto come una sorta di segno abbreviato di un diverso tipo di narrazione o di uno specifico procedimento narrativo. Però i nostri interrogativi immediati saranno sincronici, e non diacronici: come si intersecano questi vari segnali o loghi narrativi? Occorre immaginare una suddivisione della mente in compartimenti in cui ognuno dei segnali viene recepito isolatamente, oppure la mente stabilisce in qualche modo delle connessioni? In questo secondo caso, come si possono descrivere tali connessioni? In che modo tali materiali sono collegati l’uno all’altro, ammesso che lo siano? Oppure ci troviamo semplicemente di fronte a una simultaneità di flussi distinti di elementi che i sensi captano tutti insieme come un caleidoscopio? A dare la misura della nostra debolezza concettuale qui sta il fatto che siamo tentati di cominciare con la decisione metodologica maggiormente insoddisfacente – il punto di partenza cartesiano –, riducendo il fenomeno alla sua forma più semplice, vale a dire l’interazione di due di questi elementi o segnali (laddove il pensiero dialettico esige che si inizi dalla forma più complessa, di cui quelle più semplici sono considerate dei derivati).
Tuttavia, anche nel caso di due elementi, i modelli teorici stimolanti sono piuttosto pochi. Il più antico è naturalmente il modello logico composto da soggetto e predicato, il quale, spogliato della sua logica proposizionale – con le sue frasi assertive e le sue pretese di verità – è stato riscritto in tempi recenti come relazione tra un tema e un commento. La teoria letteraria è stata in larga misura obbligata a confrontarsi con questa struttura solamente nell’analisi della metafora, per la quale risulta interessante la distinzione, proposta da Ivor Armstrong Richards, tra tenore e veicolo. Nondimeno la semiotica di Peirce, che cerca ostinatamente di afferrare il processo dell’interpretazione – o della semiosi – nel tempo, riscrive utilmente tutte queste distinzioni nei termini di un segno iniziale, in rapporto al quale sta come interpretante un secondo segno. La teoria narrativa contemporanea, infine, ricorre a una differenziazione operativa tra la fabula (l’aneddoto, le materie prime del racconto basilare) e la messinscena, cioè il modo in cui sono narrati o allestiti quei materiali; in altri termini, la loro focalizzazione.
Di queste formulazioni occorre serbare il modo in cui esse postulano due segni di natura e valore uguali; va osservato che nel loro momento di intersezione si istituisce immediatamente una nuova gerarchia, nella quale un segno diventa in qualche modo il materiale su cui opera l’altro, o nella quale il primo segno stabilisce un contenuto e un centro al quale il secondo viene annesso per delle funzioni ausiliarie e subordinate (in tal caso le priorità del rapporto gerarchico sembrano reversibili). Ma la terminologia e la nomenclatura dei modelli tradizionali non registrano quella che sicuramente si trasforma in una proprietà fondamentale del flusso di segni del nostro contesto video, cioè il fatto che essi mutano di luogo, che mai nessun singolo segno detiene la priorità come tema dell’operazione, che la situazione nella quale un segno funge da interpretante di un altro è più che provvisoria. Essa è infatti suscettibile di cambiamento senza preavviso, e nel moto incessantemente rotatorio che abbiamo dinanzi in questo caso i nostri due segni occupano le posizioni l’uno dell’altro, in uno scambio disorientante e pressoché permanente. Si tratta di una sorta di «distrazione» benjaminiana elevata a una potenza nuova e storicamente originale; anzi, mi azzardo a suggerire che la formulazione ci dà almeno un’adeguata caratterizzazione di certa temporalità propriamente postmodernista, di cui non resta ormai che trarre le conseguenze.
Non ho infatti ancora descritto a sufficienza la natura del processo mediante il quale, anche tenendo conto delle continue dislocazioni su cui ho posto l’accento, un elemento siffatto – segno o logo – “commenta” in qualche modo l’altro o funge da suo “interpretante”. Il contenuto di tale processo era tuttavia già implicito nella descrizione del logo stesso, che ho descritto come segnale o sigla di un certo tipo di narrazione. Il microscopico scambio atomico o isotopico sotto esame in questa sede non può dunque essere nient’altro che la presa di un segnale narrativo da parte di un altro: la riscrittura di una forma di narrativizzazione nei termini di un’altra diversa e momentaneamente più energica, l’incessante e reciproca rinarrativizzazione di elementi narrativi già esistenti. Perciò, tanto per fare gli esempi più ovvi, sembra indubbio che immagini come le sequenze della modella vengano fortemente e rudimentalmente riscritte allorché si intersecano con il campo di forze del cinema di fantascienza e i suoi vari loghi (visivo, musicale, verbale): in tali momenti il familiare universo umano della pubblicità e della moda diventa “straniato” (concetto sul quale ritornerò), mentre i grandi magazzini contemporanei divengono singolari e agghiaccianti come una qualunque delle istituzioni di una società aliena di un pianeta lontano. Qualcosa di analogo accade alla fotografia del soggetto femminile disteso quando viene sovraccaricato con il tracciato dei fulmini: sub specie aeternitatis, forse? cultura vs. natura? In ogni caso, i due segni non possono mancare di entrare in un rapporto reciproco nel quale iniziano a prevalere i segnali generici di uno (per esempio, è un po’ più difficile figurarsi come l’immagine della donna ipnotizzata possa cominciare ad attrarre il fulmine nella propria orbita tematica). Sembra infine evidente che, nel momento in cui si intersecano l’immagine dei topi e i testi collegati degli esperimenti sul comportamento, della consulenza psicologica e attitudinale, la combinazione produce messaggi prevedibili sui meccanismi occulti di programmazione e di condizionamento propri della società burocratica. Eppure queste tre forme di influenza o di rinarrativizzazione – lo straniamento generico, l’opposizione di natura e cultura e la critica della cultura psicologica o “esistenziale” per il consumo di massa – sono solamente alcuni degli effetti provvisori all’interno di un repertorio di interazioni ben più complesso, che sarebbe noioso, se non impossibile, classificare (altri potrebbero comunque includere l’opposizione tra cultura alta e cultura bassa descritta in precedenza, nonché l’alternanza, maggiormente diacronica, tra le scene di strada filmate direttamente, sciatte e “naturali”, da una parte e il flusso di materiali mediatici stereotipati in cui sono inserite dall’altra).
Ora le questioni riguardanti la priorità o l’influenza disuguale si possono sollevare in termini nuovi, che non devono limitarsi al problema evidentemente centrale della relativa priorità di suono e immagine. Gli psicologi distinguono tra una forma di riconoscimento uditiva e una visiva: la prima è a quanto pare più immediata e opera mediante gestalt uditive o musicali pienamente formate, mentre la seconda è soggetta a una esplorazione incrementale che non potrebbe mai cristallizzarsi in qualcosa di adeguatamente “riconoscibile”. In altre parole, riconosciamo all’istante una melodia, mentre i dischi volanti che dovrebbero permetterci di identificare il genere cui appartiene lo spezzone di un film possono restare oggetto di un vago sguardo geometrico che non si preoccupa mai di incasellarli nella loro evidente posizione rispetto a cultura e connotazione. In tal caso, è chiaro che i loghi uditivi tenderebbero a dominare e a riscrivere quelli visivi, invece del contrario (anche se si sarebbe preferito ipotizzare che le fotografie di modelle, per esempio, esercitassero un certo “straniamento” vicendevole sulla musica della fantascienza, respingendola verso il ciarpame culturale tardonovecentesco della loro stessa sostanza).
Al di là di questo caso più semplice, cioè la relativa influenza di segni appartenenti a sensi e media distinti, persiste il problema di ordine più generale del peso relativo dei vari sistemi di genere all’interno della nostra cultura: la fantascienza è a priori più potente del genere che chiamiamo pubblicità, o del discorso che offre immagini della società burocratica (la corsa al successo, l’ufficio, la routine), della stampa computerizzata, o di quel “genere” visivo senza nome che ho denominato effetti op art (che probabilmente connotano molto meglio della nuova tecnologia grafica)? Mi sembra che l’opera di Godard si incentri su tale questione, o che quanto meno la ponga esplicitamente in svariate modalità parziali; anche una certa videoarte politica – come quella di Martha Rosler – gioca con questi influssi diseguali dei linguaggi culturali con lo scopo di problematizzare le priorità culturali consuete. Il videotesto che sto considerando qui, tuttavia, non consente di formulare tali questioni come fossero dei problemi, giacché la sua stessa logica formale – quello che ho chiamato moto incessantemente rotatorio delle sue costellazioni provvisorie di segni – dipende dalla loro cancellazione: questa tesi e questa ipotesi mi condurranno alle questioni dell’interpretazione e del valore estetico che fin qui ho rimandato.
La questione interpretativa – «di cosa parla il testo o l’opera?» – in genere stimola una risposta tematica, come succede di fatto nel felice titolo del nastro di cui sto parlando, Aliennation. C’è e adesso lo sappiamo: si tratta dell’alienazione di un’intera nazione, o forse di un nuovo tipo di nazione organizzata attorno all’alienazione stessa. Il concetto di alienazione era rigido allorché lo si adoperava specificamente per esprimere le varie privazioni concrete della vita della classe operaia (come nei manoscritti parigini di Marx); inoltre ha avuto una funzione specifica in un preciso momento storico (l’apertura di Chrusˇcˇëv), che tanto i radicali dell’Est (Polonia, Iugoslavia) quanto quelli dell’Ovest (Sartre) ritenevano potesse inaugurare una nuova tradizione nel pensiero e nella prassi del marxismo. Tuttavia non è di certo granché come indicazione generica per il malessere spirituale (borghese). Non è comunque questa l’unica ragione dell’insoddisfazione che si prova quando, in mezzo a splendide performance postmoderniste come usa di Laurie Anderson, il ripetersi della parola alienazione (sussurrata di sfuggita al pubblico) ha reso difficile evitare la conclusione che si trattasse proprio di ciò di cui si presumeva “parlasse” l’opera. Ne derivano dunque due reazioni pressoché identiche: era questo che si supponeva che significasse; era tutto qui ciò che si supponeva che significasse. Il problema è duplice: l’alienazione è prima di tutto non solo un concetto modernista, bensì anche un’esperienza modernista (non posso dibatterne ulteriormente in questa sede, per cui mi limiterò a dire che l’espressione migliore per ciò che ci affligge oggi è “frammentazione psichica”, se proprio vogliamo dargli un nome). È però la seconda ramificazione del problema quella decisiva: al di là di tale significato e della sua adeguatezza in quanto significato, si ha la sensazione più profonda che “testi” come usa o Aliennation non abbiano affatto alcun “significato” in quell’accezione tematica. Ciascuno è libero di verificare tale circostanza attraverso l’osservazione di sé e un’attenzione un po’ più ravvicinata precisamente a quei momenti in cui proviamo in modo fugace quella disillusione che ho detto che si prova nei momenti esplicitamente tematici di usa. Effettivamente, i punti del video di Rankus, Manning e Latham nei quali si può sperimentare qualcosa di analogo sono già stati enumerati in un altro contesto. Sono proprio quelli in cui l’intersecarsi del segno e dell’interpretante pare produrre un messaggio fugace: cultura alta contro cultura bassa, nel mondo moderno siamo tutti programmati come topi da laboratorio, natura vs. cultura e così via. Il buon senso popolare ci dice che questi “temi” sono triti, quanto la stessa alienazione (ma non abbastanza all’antica per essere camp). Eppure sarebbe un errore semplificare quest’interessante situazione riducendola a una questione di natura e di qualità, di sostanza intellettuale, dei temi medesimi; anzi, la mia analisi precedente possiede i tratti di una spiegazione assai migliore di tali errori.
Ho cercato in effetti di mostrare che a caratterizzare questo particolare procedimento video (o flusso totale “sperimentale”) sia un’incessante rotazione di elementi tale da far sì che essi si spostino di continuo, con il risultato che nessun singolo elemento può occupare, nemmeno per un istante, la posizione di “interpretante” (o quella di segno primario), ma deve essere dislocato nell’istante successivo (la terminologia filmica, con le “inquadrature” e le “riprese”, non sembra adatta a questo tipo di successione), tanto da cadere a sua volta in una posizione subordinata, ove sarà quindi “interpretato” o narrativizzato da un tipo completamente diverso di logo o di contenuto visivo. In ogni caso, se questa descrizione del procedimento è precisa, per logica ne consegue che qualunque cosa lo arresti o lo interrompa sarà percepita come un difetto estetico. I momenti tematici lamentati sopra sono esattamente tali momenti di interruzione, una sorta di blocco nel processo: in questi punti sulla sequenza si diffonde rapidamente una “narrativizzazione” transitoria – cioè la transitoria predominanza di un segno o di un logo su un altro, che interpreta e riscrive secondo la propria logica narrativa – come una bruciatura sulla pellicola, in quel punto “trattenuta” abbastanza a lungo da generare ed emettere un messaggio tematico del tutto incongruente con la logica testuale della cosa stessa. Tali momenti implicano una peculiare forma di reificazione, che si potrebbe altrettanto bene designare come tematizzazione, parola cara al compianto Paul de Man, che la adoperava per delineare il fraintendimento di Derrida in quanto “filosofo” dotato di un “sistema filosofico” che in qualche modo “parlava della” scrittura. La tematizzazione è pertanto il momento in cui un elemento, un componente di un testo, viene promosso al rango di tema ufficiale, e a questo punto diventa un candidato a quell’onorificenza ancor più elevata che è il “significato” dell’opera. Ma tale reificazione tematica non è necessariamente una funzione della qualità filosofica o intellettuale del “tema” medesimo: quali che siano l’interesse e la validità filosofica della nozione di alienazione della vita burocratica contemporanea, la sua comparsa qui come “tema” si registra come difetto dovuto a ragioni essenzialmente formali. Si potrebbe sostenere questa tesi all’incontrario, identificando un’altra possibile caduta del nostro testo nella eccessiva dipendenza dagli “effetti di straniamento” degli spezzoni tratti dalla fantascienza giapponese (l’osservazione ripetuta evidenzia comunque che non sono frequenti quanto si ricordava). Se le cose stanno così, ci troviamo dinanzi a una tematizzazione di tipo narrativo o generico, invece che a una degradazione mediante la filosofia pop e la doxa stereotipata.
Da questa analisi si possono trarre adesso alcune conseguenze inattese, che non concernono soltanto la vexata quæstio dell’interpretazione nel postmodernismo, ma anche un’altra questione, quella del valore estetico, momentaneamente rinviata all’inizio di quest’indagine. Se, alla maniera tematica, l’interpretazione viene intesa come l’atto che dipana un tema o un significato fondamentali, risulta allora chiaro che da tale prospettiva il testo postmodernista – di cui ho assunto che il videotape in questione sia un esemplare privilegiato – si definisce come una struttura o un flusso di segni che resiste al significato. La sua essenziale logica interna consiste nell’escludere la comparsa di temi in quanto tali, e pertanto mette sistematicamente in cortocircuito le tradizionali tentazioni interpretative (Susan Sontag lo intuì profeticamente nel suo Contro l’interpretazione, un titolo appropriato, agli albori di quella che ancora non si chiamava epoca postmoderna). Da questa tesi emergono quindi inaspettatamente dei nuovi criteri di valutazione estetica: per quanto bello, per non dire grande, possa essere, un videotesto sarà brutto o difettoso ogniqualvolta si rivelerà possibile una tale interpretazione, ogni volta che il testo negligentemente aprirà questi spazi, queste zone della tematizzazione.
In ogni caso l’interpretazione tematica – la ricerca del “significato” dell’opera – non è l’unica operazione ermeneutica concepibile a cui si possono sottoporre i testi, compreso il nostro; prima di concludere, vorrei dar conto di altre due opzioni interpretative. La prima ci riporta in maniera imprevista alla questione del referente, attraverso quell’altro insieme di materiali componenti ai quali fin qui ho dedicato un’attenzione minore rispetto alle citate bobine di paccottiglia culturale preconfezionata inscritte o registrate che si intrecciano qui: si tratta dei segmenti di riprese dirette (descritti come materiali “naturali”) che, al di là della sequenza della riva del lago, rientrano sostanzialmente in tre gruppi. Il primo, l’incrocio stradale urbano, è una sorta di spazio degradato che – sotto questo aspetto lontano parente povero della straordinaria sequenza conclusiva dell’Eclisse di Antonioni – incomincia vagamente a proiettare l’astrazione di una scena vuota: è il luogo dell’Evento, uno spazio circoscritto all’interno del quale può accadere qualcosa, davanti al quale si attende in un’attesa formale. Naturalmente nell’Eclisse, allorché l’evento non si concretizza e nessuno dei due amanti compare all’appuntamento, il luogo – ormai dimenticato – lentamente si ritrova di nuovo degradato alla condizione di spazio, spazio reificato della città moderna, quantificato e misurabile, dove la terra e il suolo sono parcellizzati in tanti beni e lotti in vendita. Anche qui non accade nulla: solo che in questo specifico nastro a essere inconsueta è la sensazione stessa della possibilità che succeda qualcosa, del vago affiorare della categoria di Evento (gli accadimenti minacciosi e le angosce degli spezzoni di fantascienza sono mere “immagini” di eventi o, se si preferisce, eventi spettacolari privi di una propria temporalità).
La seconda sequenza è quella del cartone di latte perforato, sequenza che perpetua e conferma la logica peculiare della prima, perché qui ci troviamo in un certo senso di fronte al puro evento in sé, su cui non c’è motivo di piangere, all’irrevocabile. Il dito deve rinunciare a chiudere lo squarcio, il latte deve riversarsi sul tavolo e oltre il bordo, con tutto il fascino visivo di questa sostanza assolutamente candida. Se questa splendida immagine mi sembra ritornare, sia pure lontanamente, a una condizione più propriamente filmica, indubbiamente ciò si deve in parte al fatto, anomalo e strettamente personale, che la associo a una famosa scena di Va’ e uccidi.
Quanto al terzo segmento, il più stravagante e il più privo di senso, ho già descritto l’assurdità di un esperimento di laboratorio condotto con utensili da ferramenta su oggetti arancioni di dimensioni indeterminate, che hanno una consistenza simile a quella di un Hostess Twinkie. In questo frammento dada fatto in casa a essere scandalosa e vagamente inquietante è la sua evidente assenza di motivazioni: si può cercare di vederlo, senza grande soddisfazione, come una parodia alla Ernie Kovacs della sequenza dell’animale da laboratorio; in ogni caso, non c’è null’altro nel nastro che riecheggi questa modalità particolare o buffoneria della “voce”. Tutti e tre i gruppi di immagini, ma soprattutto quest’autopsia di un Twinkie, ricordano vagamente un filo di materiale organico intessuto all’interno di una trama organica, come il grasso di balena nella scultura di Joseph Beuys.
Nondimeno, un primo approccio mi si è proposto a livello di ansia inconscia, secondo cui il buco nella confezione del latte – seguendo la scena dell’assassinio di Va’ e uccidi, nella quale la vittima viene sorpresa mentre fa uno spuntino notturno davanti al frigorifero aperto – si legge ora come il buco di un proiettile. Nel frattempo ho trascurato di fornire un altro indizio, cioè la x generata al computer che si muove lungo l’incrocio stradale vuoto come il mirino di un fucile a lunga gittata. A un ascoltatore avveduto (di una versione precedente di questo scritto) non restava che fare il collegamento e rilevare ciò che d’ora innanzi è evidente e inoppugnabile: per il pubblico dei media americani, la combinazione dei due elementi – il latte e il Twinkie – è troppo speciale per essere immotivata. Infatti il 27 novembre del 1978 (l’anno precedente la realizzazione di questo videotape) il sindaco di San Francisco George Moscone e il consigliere comunale Harvey Milk vennero uccisi da un ex consigliere comunale, il quale avanzò un’istanza di non colpevolezza, inascoltata, per infermità mentale dovuta all’eccessivo consumo di Hostess Twinkie.
Ecco dunque finalmente svelato il referente: il fatto bruto, l’evento storico, il rospo vero di questo particolare giardino immaginario. Rintracciare questo referente implica sicuramente l’adempimento di un atto interpretativo o di rivelazione ermeneutica di genere assai diverso rispetto a quello analizzato in precedenza: se infatti Aliennation “parla” di questo, allora una siffatta espressione può avere soltanto un senso del tutto distinto dall’uso che se ne fa quando si afferma che il testo “parla” dell’alienazione stessa.
Nell’egemonia dei vari discorsi poststrutturalisti che caratterizza il momento attuale, il problema del referente è stato singolarmente rimosso e stigmatizzato (e, insieme a esso, qualsiasi cosa odori di “realtà”, “rappresentazione”, “realismo” e cose del genere; e anche la parola storia contiene una r). Soltanto Lacan ha continuato senza pudore a parlare del “Reale” (definendolo tuttavia come un’assenza). Le rispettabili soluzioni filosofiche al problema di un mondo reale esterno indipendente dalla coscienza sono tutte tradizionali, il che significa che, per quanto possano essere soddisfacenti sul piano logico (e nessuna di esse lo è mai stata davvero molto), non sono candidate idonee a partecipare alla polemica contemporanea. L’egemonia delle teorie della testualità e della testualizzazione implica, tra le altre cose, che il biglietto d’ingresso per la sfera pubblica dove si dibattono tali questioni è il consenso, tacito o no, ai presupposti di fondo di un campo problematico generale, circostanza che le posizioni tradizionali in materia rifiutano a priori. La mia impressione è che lo storicismo offra una via d’uscita particolarmente insperata da questo circolo vizioso, da questo doppio legame.
Sollevare la questione, per esempio, del destino del “referente” nella cultura e nel pensiero contemporanei non è la stessa cosa di sostenere qualche vecchia teoria del referente o rifiutare tutti i nuovi problemi teorici a priori. Al contrario, tali problemi vengono mantenuti e sottoscritti, a patto che non siano soltanto dei problemi interessanti di per sé, ma anche, e allo stesso tempo, sintomi di una trasformazione storica.
Nel caso concreto che ci interessa qui, ho sostenuto la presenza e l’esistenza di quello che mi sembra un referente tangibile, cioè la morte e un fatto storico, che in definitiva non sono testualizzabili e lacerano le trame dell’elaborazione testuale, della combinazione e del libero gioco («il Reale», ci dice Lacan, «è ciò che resiste alla simbolizzazione»). Vorrei aggiungere subito che questa non è una vittoria filosofica particolarmente trionfale da parte di qualche presunto realismo o di altro sulle diverse visioni del mondo testualizzanti. L’affermazione di un referente sepolto è infatti – come nell’esempio presente – una strada a doppio senso le cui direzioni antitetiche potrebbero emblematicamente essere denominate “repressione” e Aufhebung, o “sublazione”: l’immagine non ha modo di farci sapere se stiamo guardando il sole che sorge o che tramonta. La nostra scoperta documenta la persistenza e l’onnipervasiva carica gravitazionale del referente? Oppure, al contrario, mostra il processo storico tendenziale mediante il quale il referente viene sistematicamente elaborato, smantellato, testualizzato e volatilizzato, lasciando poco più che qualche rimasuglio indigeribile?
Comunque si voglia trattare questa ambiguità, resta la questione della logica strutturale del nastro stesso, di cui questa precisa sequenza filmata direttamente è soltanto un elemento tra i tanti, peraltro particolarmente minore (benché le sue caratteristiche attraggano una certa attenzione). Anche se se ne potesse dimostrare in maniera soddisfacente il valore referenziale, la logica della congiunzione e della disgiunzione rotatorie descritta in precedenza opera chiaramente per dissolvere tale valore, il quale non può essere tollerato più dell’affiorare di tematiche singole. Tanto meno risulta chiaro come si possa sviluppare un sistema assiologico in nome del quale potremmo affermare che queste strane sequenze sono in una certa misura migliori dell’”irresponsabilità” aleatoria e gratuita dei collage di stereotipi mediatici.
Pur tuttavia è concepibile un altro modo di interpretare questo nastro: un’interpretazione che cercherebbe di porre in rilievo lo stesso procedimento di produzione invece dei suoi messaggi, dei suoi significati o dei suoi contenuti presunti. Sulla base di questa lettura si potrebbe invocare una certa lontana consonanza tra le fantasie e le angosce sollevate dall’idea dell’omicidio da un lato e il sistema globale dei media e della tecnologia di riproduzione dall’altro. Nell’inconscio collettivo, a garantire l’analogia strutturale tra i due ambiti apparentemente irrelati sta l’idea del complotto, mentre la giuntura storica tra di essi si è impressa indelebilmente nella memoria storica con l’assassinio di Kennedy, ormai inseparabile dalla propria copertura mediatica. Il problema posto da tale interpretazione in termini di autoreferenzialità non è la sua plausibilità: vorrei sostenere la tesi secondo la quale il “soggetto” più profondo di tutta la videoarte, e persino dell’intero postmodernismo, è precisamente la stessa tecnologia della riproduzione. La difficoltà metodologica consiste piuttosto nel modo in cui un tale “significato” globale – anche di tipo e genere più nuovi dei significati interpretativi accennati in precedenza – dissolve nuovamente il singolo testo in una indistinzione ancor più disastrosa dell’antinomia tra flusso totale e singola opera evocata sopra. Se tutti i videotesti designano semplicemente il processo di produzione/riproduzione, allora si può supporre che finiscano tutti per essere “lo stesso”, in un senso particolarmente inutile.
Non tenterò di dare soluzione a nessuno di questi problemi; rimetterò invece sul tavolo gli approcci e le prospettive dello storicismo cui ho fatto appello mediante una specie di mito che ho trovato utile nel descrivere la natura della produzione culturale contemporanea (postmodernista), nonché nel collocarne le varie proiezioni teoriche.
C’era una volta, agli albori del capitalismo e della società borghese, una cosa di nome segno, che sembrava intrattenere rapporti senza problemi con il proprio referente. Questo iniziale rigoglio del segno – il momento del linguaggio letterale o referenziale, o delle perentorie affermazioni del cosiddetto discorso scientifico – fu il frutto della dissoluzione corrosiva delle vecchie forme del linguaggio magico da parte di una forza che chiamerò reificazione, contraddistinta da una logica di implacabile separazione e disgiunzione, di specializzazione e razionalizzazione, di divisione tayloristica del lavoro in tutti gli ambiti. Purtroppo quella forza – la quale pose in essere il referente tradizionale – perdurò senza tregua, essendo la logica profonda dello stesso capitalismo. Perciò questo primo momento di decodifica o di realismo non può durare a lungo; grazie a un rovesciamento dialettico diviene a sua volta l’oggetto della forza corrosiva della reificazione, che irrompe nell’ambito del linguaggio per separare il segno dal referente. Tale disgiunzione non abolisce completamente il referente, il mondo oggettuale, la realtà, che continuano a condurre una debole esistenza all’orizzonte, come una stella contratta o una nana rossa. Tuttavia la grande distanza dal segno consente ormai a quest’ultimo di dare inizio a un momento di autonomia, di esistenza utopica relativamente libera, in confronto a quella dei suoi ex oggetti. Questa autonomia della cultura, questa semiautonomia del linguaggio, rappresenta il momento del modernismo, e di un ambito dell’estetico che raddoppia il mondo senza esserne completamente parte; conquista così un certo potere negativo o critico, ma anche una certa futilità oltremondana. Eppure la forza della reificazione, responsabile di questo nuovo momento, non si arresta lì: in un’altra fase, intensificata, in una sorta di rovesciamento della quantità in qualità, la reificazione penetra nel segno medesimo e separa il significante dal significato. Il referente e la realtà ora scompaiono del tutto, e persino il senso – il significato – si problematizza. Siamo rimasti con questo gioco di significanti puro e aleatorio che chiamiamo postmodernismo, il quale non produce più opere monumentali sul genere di quelle del modernismo, ma rimescola ininterrottamente i frammenti di testi preesistenti, i mattoncini della vecchia produzione socioculturale, nel quadro di un nuovo e intensificato bricolage. Metalibri che cannibalizzano altri libri, metatesti che raccolgono pezzi di altri testi: questa è la logica del postmodernismo in generale, che trova una delle sue forme più vigorose, originali e autentiche nella nuova arte del video sperimentale.
42 R. Williams, Television: Technology and Cultural Form, New York, Schocken Books, 1975 [Televisione. Tecnologia e forma culturale: e altri scritti sulla tv, a cura di E. Menduni, Roma, Editori Riuniti, 2000, p. 98]. I lettori di miscellanee come Regarding Television: Critical Approaches, a cura di A. Kaplan (Frederick, MD., University Publications of America, 1983), e Video Culture: A Critical Investigation, a cura di J. Hanhardt (Layton, Utah, G.M. Smith, 1986), possono trovare affermazioni sconcertanti. Uno dei temi frequenti di tali articoli resta comunque l’assenza, il ritardo, la rimozione o l’impossibilità di una vera e propria teoria del video.
43 E.P. Thompson, “Time, Work-discipline, and Industrial Capitalism”, in «Past and Present», XVI, 1967, n. 38.
44 Si tratta di una questione che ho cercato di argomentare più in generale riguardo al rapporto tra lo studio della “letteratura alta” (o piuttosto del moderno avanzato) e quello della cultura di massa, in “Reificazione e utopia nella cultura di massa” (1977), in Firme del visibile, cit.
45 J. Leenhardt — P. Jósza, Lire la lecure, Parigi, Le Sycamore, 1982.