1. La logica culturale del tardo capitalismo

Questi ultimi anni sono stati caratterizzati da un millenarismo alla rovescia, in cui le premonizioni del futuro, catastrofiche o redentive, hanno lasciato il posto al senso della fine di questo o di quello (fine dell’ideologia, dell’arte o delle classi sociali; “crisi” del leninismo, della socialdemocrazia o del welfare state ecc.): considerati nel loro insieme, tutti questi fenomeni costituiscono forse ciò che sempre più spesso viene chiamato postmodernismo. La sua esistenza dipende dall’ipotesi di una frattura radicale, di una coupure, che per lo più si fa risalire agli ultimi anni Cinquanta o ai primi anni Sessanta.

Come suggerisce la parola stessa, il più delle volte questa frattura viene riferita ai concetti di eclisse o di estinzione del centenario movimento moderno (oppure al suo rifiuto ideologico o estetico). Così, l’espressionismo astratto in pittura, l’esistenzialismo nella filosofia, le forme ultime della rappresentazione nel romanzo, i film d’autore o la scuola poetica modernista (come istituzionalizzata e canonizzata nelle opere di Wallace Stevens) sono tutte manifestazioni considerate ormai come l’ultima, straordinaria fioritura di un impulso tardo modernista, che si è concluso ed esaurito con esse. Un elenco di ciò che viene immediatamente dopo si fa dunque empirico, caotico ed eterogeneo: Andy Warhol e la pop art, ma anche l’iperrealismo e, ancora oltre, il “neoespressionismo”; nella musica, John Cage, ma anche la sintesi di classico e “popolare” che si riscontra in compositori come Phil Glass e Terry Riley, e anche il punk e la new wave (mentre di questa tradizione recente e in rapida evoluzione i Beatles e i Rolling Stones rappresentano il momento del modernismo avanzato); nel cinema, Godard, il post-Godard, il video e il cinema sperimentali, ma anche un genere completamente nuovo di film commerciale (su cui tornerò più avanti); Burroughs, Pynchon o Ishmael Reed da un lato, il nouveau roman francese e i suoi eredi dall’altro, insieme a nuovi e preoccupanti generi di critica letteraria, basati su una nuova estetica della testualità o écriture… L’elenco potrebbe continuare all’infinito, ma occorre chiedersi se tutto ciò comporti un mutamento o una frattura più radicali dei periodici cambiamenti di stile e di moda determinati dal precedente imperativo modernista avanzato di innovazione stilistica.

È tuttavia nell’ambito dell’architettura che le modificazioni nella produzione estetica sono più platealmente visibili e che i problemi teorici da esse sollevati hanno ottenuto una centralità e un’articolazione maggiori che in altri campi, ed è anzi proprio dal dibattito architettonico che ha preso il via la mia personale concezione del postmodernismo, delineata nelle pagine seguenti. Più decisamente che in altre arti o media, in architettura le posizioni postmoderniste sono risultate inscindibili da una critica implacabile del modernismo avanzato, di Frank Lloyd Wright e del cosiddetto International Style (Le Corbusier, Mies ecc.), dove la critica e l’analisi formale (della trasformazione dell’edificio moderno avanzato in scultura virtuale, o «papera monumentale», come si esprime Robert Venturi11) vanno di pari passo con la riconsiderazione del livello della vita urbana e dell’istituzione estetica. Al modernismo avanzato viene pertanto imputata la distruzione del tessuto urbano tradizionale e della vecchia cultura di quartiere (operata mediante la netta separazione del nuovo edificio utopico del modernismo avanzato dal proprio contesto), mentre l’elitarismo e l’autoritarismo del movimento moderno vengono inesorabilmente identificati nel gesto imperioso del Maestro carismatico.

È quindi abbastanza logico che il postmodernismo in architettura si presenti come una sorta di populismo estetico, come lascia intuire il titolo stesso dell’influente manifesto di Venturi, Imparando da Las Vegas. Quale che sia in definitiva la nostra valutazione di questa retorica populista12, bisogna quanto meno riconoscerle il merito di attirare l’attenzione su una caratteristica fondamentale di tutti i fenomeni postmoderni elencati sopra: la cancellazione del confine (essenzialmente proprio del modernismo avanzato) tra la cultura alta e la cosiddetta cultura di massa o commerciale, e l’emergere di nuovi tipi di “testi” pervasi di forme, categorie e contenuti di quell’industria culturale tanto appassionatamente denunciata da tutti gli ideologi del moderno, da Leavis e il New Criticism americano fino ad Adorno e alla Scuola di Francoforte. Il postmodernismo ha infatti subito tutto il fascino di questo paesaggio “degradato” di kitsch e scarti, di serial televisivi e cultura da «Reader’s Digest», di pubblicità e motel, di show televisivi, film hollywoodiani di serie B e della cosiddetta paraletteratura con i suoi tascabili da aeroporto, divisi nelle categorie del gotico o del romanzo rosa, della biografia romanzata e del giallo, della fantascienza e del fantasy: materiali che nei prodotti postmoderni non vengono semplicemente “citati”, come avrebbero potuto fare un Joyce o un Mahler, ma incorporati in tutta la loro sostanza.

Tanto meno si può pensare la frattura in questione come una faccenda puramente culturale: infatti, le teorie del postmoderno – che siano apologetiche, o espresse invece nel linguaggio della reazione o della denuncia morali – mostrano una notevole somiglianza di famiglia con tutte quelle generalizzazioni sociologiche più ambiziose, che quasi contemporaneamente ci annunciano l’avvento e l’inaugurarsi di un genere di società completamente nuovo, noto per lo più come «società postindustriale» (Daniel Bell), ma anche come società dei consumi, società dei media, società dell’informazione, società elettronica o high-tech e simili. Queste teorie hanno l’evidente obiettivo ideologico di dimostrare, a loro conforto, che le nuove formazioni sociali in questione non obbediscono più alle leggi del capitalismo classico, ossia al primato della produzione industriale e all’onnipresenza della lotta di classe. Per questa ragione la tradizione marxista ha opposto una resistenza veemente, con la notevole eccezione dell’economista Ernest Mandel, il cui libro Der Spätkapitalismus non si propone semplicemente di anatomizzare l’originalità storica di questa nuova società (che Mandel considera come un terzo stadio o momento nell’evoluzione del capitale), ma anche di dimostrare, se non altro, che tale società rappresenta uno stadio del capitalismo più puro di qualsiasi altro momento precedente. Tornerò più avanti su questo argomento; per il momento basti anticipare un punto che svilupperò nel capitolo 2, cioè che ogni posizione sul postmodernismo nella cultura – che si tratti di apologia o di stigmatizzazione – è a un tempo e necessariamente una presa di posizione politica implicita o esplicita sulla natura dell’odierno capitalismo multinazionale.

Un’ultima considerazione preliminare sul metodo: quel che segue non va letto come una descrizione stilistica, come il resoconto di uno stile culturale o di un movimento tra gli altri. Ho voluto piuttosto proporre un’ipotesi di periodizzazione, e questo in un momento in cui la stessa idea di periodizzazione storica sembra diventata davvero molto problematica. Ho sostenuto altrove che tutte le analisi culturali isolate o discrete implicano sempre una teoria della periodizzazione storica nascosta o repressa. In ogni caso, la concezione “genealogica” mette a tacere molte delle preoccupazioni teoriche tradizionali riguardo alla cosiddetta storia lineare, alle teorie delle “fasi” e alla storiografia teleologica. In questo contesto, comunque, poche note essenziali possono sostituire una discussione teorica più prolissa intorno a queste (realissime) questioni.

Uno dei timori più frequenti destati dalle ipotesi di periodizzazione è che esse tendano a cancellare le differenze e a proporre un’idea di periodo storico come una solida omogeneità (delimitato da metamorfosi e da una punteggiatura cronologica inspiegabili). Ma proprio per questo motivo mi sembra essenziale intendere il postmodernismo non come uno stile, ma piuttosto come una dominante culturale: un concetto, questo, che permette la presenza e la coesistenza di una serie di caratteristiche molto diverse e tuttavia subordinate.

Consideriamo, per esempio, l’efficace posizione alternativa di chi sostiene che il postmodernismo sia poco più che uno stadio ulteriore del modernismo vero e proprio (se non addirittura del romanticismo); si può ammettere, infatti, che tutte le caratteristiche del postmodernismo che sto per enumerare possano essere rintracciate, nel loro pieno sviluppo, in questa o quella espressione precedente del modernismo (anche in quei sorprendenti precursori genealogici come Gertrude Stein, Raymond Roussel o Marcel Duchamp, che possono essere considerati senz’altro postmodernisti avant la lettre). Ma ciò di cui non tiene conto questa visione è la posizione sociale del modernismo, o meglio ancora il veemente rifiuto oppostogli dalla borghesia vittoriana o postvittoriana, che ne recepiva le forme e l’ethos come qualcosa di brutto, dissonante, oscuro, scandaloso, immorale, sovversivo e in genere “antisociale”. Qui si sosterrà però che una mutazione culturale ha reso arcaici tali atteggiamenti. Non solo Joyce e Picasso non sono più sgradevoli: oggi, nel complesso, ci appaiono piuttosto “realisti”, e questo è il risultato della canonizzazione e dell’istituzionalizzazione accademica del movimento moderno in generale, che si può far risalire ai tardi anni Cinquanta. Questa è certamente una delle spiegazioni più plausibili della comparsa del postmodernismo, dal momento che i protagonisti del movimento moderno, che era stato un movimento d’opposizione, vengono considerati ora, dalla generazione più giovane degli anni Sessanta, alla stregua di classici morti, che «pesano come un incubo sulle menti dei vivi», come disse una volta Marx in un contesto diverso.

Per quanto riguarda la rivolta postmoderna contro tutto ciò, bisogna comunque sottolineare che le sue caratteristiche offensive – oscurità e materiale esplicitamente sessuale, oscenità psicologiche e chiare espressioni di contestazione politica e sociale, che trascendono qualsiasi cosa potesse essere anche solo immaginata nei momenti più estremi del modernismo avanzato – non scandalizzano più nessuno e non solo vengono accettate con somma compiacenza, ma si sono a loro volta istituzionalizzate e uniformate alla cultura ufficiale della società occidentale.

È accaduto che oggi la produzione estetica si è integrata nella produzione di merci in generale: la frenetica necessità economica di produrre nuove linee di beni dall’aspetto sempre più inconsueto (dal vestiario agli aeroplani), con un giro d’affari sempre più grande, assegna all’innovazione e alla sperimentazione estetiche una funzione e una posizione strutturali sempre più essenziali. Queste necessità economiche trovano poi un riconoscimento nei diversi sostegni istituzionali offerti all’arte più recente, dalle fondazioni alle donazioni, dai musei ad altre forme di patrocinio. Tra tutte le arti, l’architettura è quella più costitutivamente vicina all’economia, con cui intrattiene un rapporto praticamente immediato, sotto forma di commissioni e valore dei terreni. Non sorprenderà quindi che la straordinaria fioritura della nuova architettura postmoderna sia basata sul mecenatismo delle imprese multinazionali, che si espandono e si sviluppano in stretta contemporaneità con essa. Più avanti illustrerò come questi due nuovi fenomeni siano interrelati dialetticamente in modo ancora più profondo del mero finanziamento diretto di questo o quel singolo progetto. Ora è il momento di ricordare al lettore il dato evidente che tutta questa cultura postmoderna, mondiale e tuttavia americana, è l’espressione interna e sovrastrutturale dell’intero nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo: in questo senso, come per l’intera storia di classe, l’altra faccia della cultura è sangue, tortura, morte e terrore.

Il primo punto da evidenziare a proposito della forma dominante di periodizzazione è che, se anche tutte le caratteristiche costitutive del postmodernismo fossero identiche e contigue a quelle di un modernismo precedente – tesi che ritengo manifestamente erronea, ma che soltanto un’analisi più approfondita del modernismo potrebbe dissolvere –, i due fenomeni resterebbero ancora completamente diversi quanto a significato e funzione sociale, a causa del differente modo di porsi del postmodernismo nel sistema economico del tardo capitalismo e, al di là di questo, a causa della trasformazione della cultura nella società contemporanea.

Dirò di più su questo punto alla conclusione del libro. Ora devo considerare brevemente un diverso tipo di obiezione nei confronti della periodizzazione, espressa per lo più dalla sinistra: il timore di una possibile cancellazione dell’eterogeneità. E c’è sicuramente una strana ironia semi-sartriana – una logica del tipo «chi vince perde» – che tende a stringere d’assedio qualsiasi sforzo di descrivere un “sistema”, una dinamica totalizzante, come è dato rintracciare nel movimento della società contemporanea. Accade che quanto più è potente la percezione di un sistema o di una logica sempre più totali – il libro di Foucault sulle prigioni ne costituisce l’esempio più evidente –, tanto più impotente finisce per sentirsi il lettore. Pertanto, quanto più il teorico vince, costruendo una macchina sempre più chiusa e terrificante, tanto più perde, dal momento che la potenzialità critica del suo lavoro ne risulta paralizzata, e gli impulsi alla negazione e alla rivolta, per non parlare degli impulsi alla trasformazione sociale, di fronte al modello vengono percepiti come sempre più vani e insignificanti.

Ciò malgrado, mi è parso che solo alla luce dell’idea di una logica culturale dominante o di una norma egemonica fosse possibile misurare e stabilire l’autentica differenza tra i due periodi. Sono molto lontano dal credere che tutta la produzione culturale di oggi sia “postmoderna”, nel senso ampio che conferirò a questo termine. Tuttavia, il postmoderno è il campo di forze in cui devono farsi strada tanti generi diversi di impulsi culturali, quelli che Raymond Williams ha felicemente definito forme «residue» ed «emergenti» della produzione culturale. Se non si riesce ad acquisire il senso generale di una dominante culturale, si ricade in una visione della storia presente come pura eterogeneità, differenza casuale, coesistenza di una moltitudine di forze diverse, la cui efficacia è indecidibile. Questo, in ogni modo, è stato lo spirito politico con cui ho impostato l’analisi che segue: delineare una qualche concezione di una nuova norma culturale sistemica e della sua riproduzione per riflettere con maggiore adeguatezza sulle forme più efficaci che potrebbe assumere oggi una politica culturale radicale.

L’esposizione prenderà in esame, nell’ordine, i seguenti aspetti costituitivi del postmoderno: una nuova mancanza di profondità, che si estende sia alla “teoria” contemporanea sia a tutta una nuova cultura dell’immagine o del simulacro; un conseguente indebolimento della storicità, tanto nel nostro rapporto con la Storia pubblica, quanto nelle nuove forme della nostra temporalità privata, la cui struttura «schizofrenica» (seguendo Lacan) determina nuovi tipi di sintassi o di relazioni sintagmatiche nelle arti a dominante temporale; tutto un nuovo tipo di tonalità emotiva – che chiamerò «intensità» che si può intendere meglio con un ritorno alle vecchie teorie del sublime; i rapporti profondi e costitutivi di tutto questo con una nuova tecnologia, essa stessa immagine di un intero nuovo sistema economico mondiale; infine, dopo una breve descrizione delle mutazioni postmoderniste nell’esperienza vissuta dello spazio edificato, proporrò alcune riflessioni sulla missione dell’arte politica nel disorientamento provocato dal nuovo spazio mondiale del tardo capitalismo multinazionale.

I

Inizieremo con una delle opere canoniche del modernismo avanzato nelle arti visive: il celebre quadro di Van Gogh che ritrae le scarpe di una contadina, un esempio che, come si può immaginare, non è stato scelto innocentemente o a caso. Voglio proporre due modi di leggere questo dipinto, che in un certo senso ricostruiscono entrambi la ricezione dell’opera in un processo in due fasi o su un duplice livello.

Innanzi tutto, vorrei osservare che, se quest’immagine abbondantemente riprodotta non intende scadere a livello di pura decorazione, bisogna ricostruire una qualche situazione iniziale da cui emerga l’opera finita. Finché questa situazione – che si è dissolta nel passato – non viene in qualche modo ricostruita mentalmente, il dipinto resterà un oggetto inerte, un prodotto finale reificato, e non potrà essere colto nella sua prerogativa di atto simbolico, come prassi e come produzione.

Quest’ultimo termine suggerisce che uno dei modi di ricostruire la situazione iniziale rispetto alla quale l’opera costituisce in qualche modo una risposta sta nel sottolineare i materiali grezzi, il contenuto iniziale che essa affronta, rielabora, trasforma e assimila. Direi che in Van Gogh questo contenuto, questi materiali iniziali grezzi siano da individuare semplicemente nell’intero mondo oggettuale della miseria agricola, della dura povertà rurale, e in tutto il rudimentale mondo umano della massacrante fatica contadina, un mondo ridotto al suo stato più brutale e fragile, primitivo ed emarginato.

In questo mondo, gli alberi da frutto sono bastoni antichi e spossati che spuntano dalla terra povera; i volti consunti dei contadini sono teschi, caricature di un’estrema tipologia grottesca di tratti umani elementari. Allora che succede in Van Gogh, se vediamo esplodere cose come quei meli in una superficie allucinatoria di colori, mentre il paese coi suoi stereotipi contadini trabocca all’improvviso di rossi e verdi sgargianti? La prima opzione interpretativa che vorrei proporre è che la deliberata e violenta trasformazione del grigio mondo oggettuale contadino nella più splendida materializzazione di puri colori del dipinto a olio va vista come un gesto utopico, quale atto di compensazione che finisce per generare tutto un nuovo utopico regno dei sensi, o almeno di quel senso supremo – la vista, il senso visivo, l’occhio – che per noi si ricostituisce ora nella sua prerogativa di spazio quasi autonomo, parte di una nuova divisione del lavoro nel corpo del capitale, di un’incipiente nuova frammentazione delle funzioni sensoriali che replica le specializzazioni e le divisioni della vita capitalistica nello stesso momento in cui cerca in quella medesima frammentazione una disperata compensazione utopica.

A dire il vero, c’è una seconda lettura di Van Gogh che difficilmente si può ignorare allorché si guarda questo dipinto in particolare, ed è l’analisi fondamentale che ne ha fatto Heidegger in Lorigine dellopera darte, che ruota intorno all’idea che l’opera d’arte nasce nello scarto tra Terra e Mondo, termini che preferirei tradurre rispettivamente con materialità priva di significato del corpo e della natura, e attribuzione di significato della storia e del sociale. Tornerò più oltre su questo particolare scarto; qui basti richiamare le frasi famose che modellano il processo mediante il quale queste scarpe contadine, ormai illustri, ricreano lentamente intorno a sé stesse l’intero mondo oggettuale perduto che un tempo ne costituiva il contesto vissuto. «Per le scarpe», dice Heidegger, «passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messi mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale». «Questo mezzo», prosegue, «appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce […]. Il quadro di Van Gogh è l’aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è [ist] in verità. Questo ente si presenta nel non-nascondimento [Unverborgenheit] del suo essere»13 tramite la mediazione dell’opera d’arte, che intorno a sé porta alla rivelazione tutto un mondo e una terra assenti, insieme al passo pesante della contadina, alla solitudine del sentiero nel campo, al casolare nella radura, agli strumenti di lavoro consumati e rotti nei solchi e vicino al focolare. Malgrado sia abbastanza plausibile, l’interpretazione di Heidegger deve essere completata insistendo sulla rinnovata materialità dell’opera, sulla trasformazione di una forma di materialità – la terra stessa, i suoi sentieri, gli oggetti fisici – in quell’altra materialità della pittura a olio affermata e portata in primo piano di per sé e in virtù dei suoi piaceri visivi.

In ogni caso, entrambe queste letture possono essere descritte come ermeneutiche, nel senso che l’opera nella sua forma inerte, oggettuale, è considerata come l’indizio o il sintomo di una realtà più vasta, che si sostituisce a essa come sua verità ultima. Ora occorre volgere lo sguardo a un diverso tipo di scarpe, ed è una fortuna poter ricorrere per quest’immagine all’opera recente di quella che è stata la figura centrale dell’arte visiva contemporanea. È evidente che le Diamond Dust Shoes di Andy Warhol non ci parlano più con l’immediatezza del paio di scarpe di Van Gogh: anzi, sarei tentato di dire che in realtà non ci parlano affatto. Nulla in questo quadro prevede un benché minimo spazio per lo spettatore, che se lo trova davanti svoltando nella sala di un museo o di una galleria con tutta la contingenza di un incontro con un inspiegabile oggetto naturale. A livello di contenuto, abbiamo a che fare ora con quelli che sono chiaramente dei feticci, in senso sia freudiano che marxiano (Derrida osserva da qualche parte, a proposito del Paar Bauernschuhe heideggeriano, che quel paio di scarpe di Van Gogh è eterosessuale, che non tiene conto né della perversione né della feticizzazione). Qui tuttavia ci si trova di fronte a una raccolta casuale di oggetti morti, che pendono insieme sulla tela come altrettante rape, privati del loro precedente mondo vitale come il mucchio di scarpe rinvenuto ad Auschwitz, o i resti e i segni di un qualche incendio tragico e incomprensibile in una sala da ballo affollata. In Warhol, dunque, non c’è modo di completare il gesto ermeneutico e di restituire a questi resti l’intero, più ampio contesto vissuto della sala da ballo o della festa, il mondo del jet set e delle riviste patinate. Ma ciò risulta ancora più paradossale alla luce di alcuni elementi biografici: Warhol iniziò la sua carriera artistica come illustratore pubblicitario di scarpe alla moda e come designer di vetrine in cui erano esposte soprattutto ballerine e altri tipi di scarpe da ballo. A questo punto, in effetti, si sarebbe tentati di trarre – troppo in anticipo – una conclusione importante sul postmodernismo e sulle sue possibili dimensioni politiche: in effetti l’opera di Andy Warhol ruota essenzialmente attorno alla mercificazione, e le grandi immagini da cartellone pubblicitario della bottiglia di Coca-Cola o della lattina di Campbell’s Soup, le quali portano esplicitamente in primo piano il feticismo della merce nel momento della transizione al tardo capitalismo, dovrebbero essere dichiarazioni politiche critiche ed efficaci. Se non lo sono, allora si vorrà certamente conoscerne il perché e ci si comincerà a interrogare un po’ più seriamente sulle possibilità di un’arte critica o politica nel periodo postmoderno del tardo capitalismo.

Tra modernismo avanzato e postmodernismo, tra le scarpe di Van Gogh e le scarpe di Andy Warhol, vi sono tuttavia altre differenze di rilievo, su cui è necessario soffermarsi brevemente. La prima e più evidente è la comparsa di un nuovo genere di piattezza, di mancanza di profondità, un nuovo tipo di superficialità nel senso più letterale del termine, forse il supremo aspetto formale di tutto il postmodernismo, sul quale avrò occasione di tornare in diversi altri contesti.

Occorre poi sicuramente confrontarsi con il ruolo svolto dalla fotografia e dal negativo fotografico in questo genere di arte contemporanea, ed è proprio questo, in effetti, che conferisce all’immagine di Warhol la sua qualità mortuaria, la cui gelida eleganza da raggi X mortifica l’occhio reificato dello spettatore in una maniera che, a livello di contenuto, non sembrerebbe avere niente a che vedere con la morte, l’ossessione della morte o l’ansia della morte. È come se qui ci si ritrovasse davanti al capovolgimento del gesto utopico di Van Gogh: in quell’opera, per una specie di decreto e atto di volontà nietzschiani, un mondo prostrato viene trasformato nello stridore del colore utopico. Qui, al contrario, è come se la superficie esterna e colorata delle cose – precedentemente degradate e contaminate dall’assimilazione alle brillanti immagini pubblicitarie – fosse stata strappata via per rivelare il mortuario substrato bianco e nero del negativo fotografico sottostante. Benché in alcune opere di Warhol, soprattutto nelle serie degli incidenti stradali e delle sedie elettriche, questa morte del mondo dell’apparenza venga tematizzata, non si tratta più, mi pare, di una questione di contenuto, bensì di una mutazione più profonda, sia nel mondo oggettuale – diventato ormai un insieme di testi o di simulacri – sia nella disposizione del soggetto.

Quanto precede mi conduce alla terza caratteristica che intendevo sviluppare qui, ossia a ciò che vorrei chiamare declino degli affetti nella cultura postmoderna. Sarebbe certamente sbagliato sostenere che nella nuova immagine sia svanito ogni affetto, ogni sentimento o emozione, ogni soggettività. Anzi, nelle Diamond Dust Shoes si rinviene una specie di ritorno del rimosso, una strana forma di euforia compensatoria, decorativa, indicata esplicitamente dal titolo: si tratta ovviamente del luccichio della polvere d’oro, dello splendore della sabbia dorata che suggella la superficie del dipinto e continua a brillare anche davanti a noi. Si pensi invece ai magici fiori di Rimbaud «che ti guardano», o al maestoso sguardo premonitore del torso greco arcaico di Rilke, che ammonisce il soggetto borghese a cambiare vita; niente di simile nella gratuita frivolezza dell’ultima patina decorativa. In una interessante recensione della traduzione italiana del presente saggio14, Remo Ceserani estende questo feticismo del piede a un’immagine quadruplice che aggiunge alla grande espressività “modernista” delle scarpe di Van Gogh e Heidegger il pathos “realista” di Walker Evans e James Agee (strano che il pathos possa richiedere una squadra…); quello che in Warhol appariva come un assortimento aleatorio delle mode di ieri prende in Magritte la realtà carnale del membro umano, ormai più spettrale del cuoio su cui è impresso. Unico tra i surrealisti, Magritte è sopravvissuto alla svolta radicale dal moderno a ciò che lo segue, convertendosi nel contempo in una sorta di emblema postmoderno: la perturbante forclusione lacaniana, senza espressione. È davvero piuttosto agevole compiacere lo schizofrenico ideale, purché gli si ponga davanti agli occhi un presente eterno, il cui sguardo contempli con la medesima fascinazione una scarpa vecchia e il mistero organico tenacemente crescente dell’unghia del piede umano. Ceserani merita dunque il suo particolare cubo semiotico:

Tuttavia, nell’esaminare il declino degli affetti la cosa migliore forse è cominciare dalla figura umana. È ovvio che quanto si è detto a proposito della mercificazione dell’oggetto vale ancora di più per i soggetti umani di Warhol: le star – come Marilyn Monroe – che vengono esse stesse mercificate e trasformate nella propria immagine. E anche in questo caso un ritorno un po’ brutale al precedente periodo del modernismo avanzato offre una parabola vistosa e sintetica della trasformazione in questione. Il grido di Edvard Munch è ovviamente un’espressione canonica della grande tematica modernista dell’alienazione, dell’anomia, della solitudine, della disgregazione e dell’isolamento sociali, un emblema virtualmente programmatico di quella che un tempo si chiamava età dell’ansia. Qui non vorrei leggerlo soltanto come l’incarnazione dell’espressione di quel tipo di affetto, ma piuttosto come una potenziale decostruzione della stessa estetica dell’espressione, che sembra aver dominato gran parte di quello che denominiamo modernismo avanzato e che invece – per ragioni pratiche e teoriche – sembra essere scomparsa nel mondo del postmoderno. Lo stesso concetto di espressione presuppone infatti una scissione all’interno del soggetto, e con essa tutta una metafisica dell’interno e dell’esterno, la muta sofferenza all’interno della monade e il momento in cui quest’”emozione”, spesso in modo catartico, viene proiettata fuori ed esteriorizzata come gesto o grido, comunicazione disperata e drammatizzazione estrinseca di un sentimento interiore.

È forse opportuno, adesso, dire qualcosa riguardo alla teoria contemporanea, che si è assunta, tra l’altro, l’impegno di criticare e screditare il modello ermeneutico dell’interno e dell’esterno, e di stigmatizzare tali modelli in quanto ideologici e metafisici. Io sostengo però che ciò che oggi viene chiamato teoria contemporanea – o, meglio ancora, discorso teorico – è esso stesso un fenomeno postmodernista. Sarebbe dunque contraddittorio difendere la verità delle sue intuizioni teoriche in una situazione nella quale lo stesso concetto di “verità” fa parte del bagaglio metafisico che il poststrutturalismo tenta di abbandonare. Quel che vorrei almeno suggerire è che la critica poststrutturalista dell’ermeneutica, di quello che sinteticamente chiamerò modello della profondità, torna utile quale sintomo estremamente significativo della stessa cultura postmodernista di cui sto parlando.

Si può dire all’incirca che, accanto al modello ermeneutico dell’interno e dell’esterno sviluppato dal dipinto di Munch, ci sono almeno altri quattro fondamentali modelli della profondità che sono stati rifiutati nella teoria contemporanea: 1) il modello dialettico dell’essenza e dell’apparenza (insieme a tutti i concetti di ideologia o falsa coscienza che tendono ad accompagnarlo); 2) il modello freudiano del latente e del manifesto, o della repressione (che è evidentemente il bersaglio del pamphlet programmatico e sintomatico di Michel Foucault La volontà di sapere [Storia della sessualità]); 3) il modello esistenzialista dell’autenticità e dell’inautenticità, le cui tematiche eroiche o tragiche sono strettamente legate all’altra grande opposizione tra alienazione e disalienazione, anch’essa vittima del periodo poststrutturalista o postmoderno; 4) e infine, ultima in ordine di tempo, la grande opposizione semiotica tra significante e significato, che è stata rapidamente chiarita e decostruita durante il suo breve apogeo negli anni Sessanta e Settanta. A sostituire questi diversi modelli della profondità è in larga misura una concezione delle pratiche, dei discorsi e del gioco testuale, di cui più avanti esaminerò le nuove strutture sintagmatiche; per ora basti soltanto osservare che anche qui la profondità è sostituita dalla superficie, o da più superfici (in questo senso, ciò che spesso viene chiamato intertestualità non riguarda più la profondità).

Né tale mancanza di profondità ha un carattere esclusivamente metaforico: può essere esperita fisicamente e “letteralmente” da chiunque, salendo quella che era la Bunker Hill di Raymond Chandler dai grandi mercati chicano su per la Broadway e la Quarta Strada del centro di Los Angeles, si imbatta improvvisamente nella grande parete senza appoggi della Wells Fargo Court (Skidmore, Owings e Merrill), una superficie che sembra non esser sostenuta da alcun volume, o il cui volume presunto – rettangolare, trapezoidale? – risulta pressoché indecidibile per i nostri occhi. Questa grande lastra bidimensionale di finestre, che sfida la gravità, trasforma per un istante il solido terreno sul quale poggiamo i piedi nelle proiezioni di una lanterna magica, sagome fittizie che si profilano qua e là intorno a noi. L’effetto visivo è lo stesso da ogni lato: fatale quanto il grande monolito del film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, che è posto di fronte agli spettatori come un destino enigmatico, come un richiamo alla mutazione evoluzionistica. Se questa nuova downtown multinazionale ha in effetti abolito il precedente tessuto urbano in rovina sostituendosi violentemente a esso, non si può dire qualcosa di analogo riguardo al modo in cui questa strana nuova superficie, alla propria maniera perentoria, rende in un certo senso arcaici e inutili i nostri vecchi sistemi di percezione della città, senza offrircene un altro al loro posto?

Tornando ancora per un momento al quadro di Munch, sembra evidente che Il grido smonta sottilmente, ma in modo elaborato, la propria estetica dell’espressione, pur restandovi sempre imprigionato. Il contenuto gestuale del dipinto pone già in rilievo la propria insufficienza, dato che la dimensione sonora, il grido, le vibrazioni naturali della gola umana sono incompatibili con il suo mezzo espressivo (circostanza in una certa misura sottolineata, all’interno del quadro, dal fatto che l’omuncolo è privo di orecchie). Eppure il grido assente ritorna, per così dire, in una dialettica di onde e di spirali che si stringono sempre più strettamente verso quell’esperienza ancor più assente di atroce solitudine e di angoscia che il grido stesso avrebbe dovuto “esprimere”. Tali onde si inscrivono nella superficie dipinta sotto forma di grandi cerchi concentrici, che rendono infine visibile la vibrazione sonora, come sulla superficie di uno specchio d’acqua, in un regresso infinito che promana dal sofferente per diventare la vera e propria geografia di un universo, in cui è ora lo stesso dolore a parlare e vibrare attraverso il tramonto e il paesaggio concreti. Il mondo visibile si trasforma nella parete della monade su cui è registrato e trascritto «il grido che attraversa la natura» (nelle parole di Munch15); viene in mente quel personaggio di Lautréamont che, essendo cresciuto in una membrana sigillata e silenziosa, la lacera con il proprio grido alla vista della mostruosità del divino e si ricongiunge così al mondo del suono e della sofferenza.

Tutto questo suggerisce un’ipotesi storica più generale: concetti come quelli di angoscia e alienazione (e le esperienze cui corrispondono, come nel Grido) nel mondo del postmoderno non sono più adeguati. I grandi ritratti di Warhol – Marilyn stessa, o Edie Sedgewick –, i celebri casi di esaurimento e di autodistruzione dei tardi anni Sessanta e le grandi esperienze dominanti della droga e della schizofrenia sembrerebbero avere piuttosto poco in comune sia con gli isterici e i nevrotici dell’epoca di Freud, sia con quelle esperienze canoniche di isolamento radicale e solitudine, anomia, rivolta individuale, follia alla Van Gogh, che hanno predominato nel periodo del modernismo avanzato. Si può definire tale mutamento nella dinamica della patologia culturale come una sostituzione del soggetto alienato con il soggetto frammentato.

Questi termini richiamano inevitabilmente uno dei temi più in voga nella teoria contemporanea, quello della “morte” del soggetto – la fine della monade autonoma borghese, dell’ego o dell’individuo – e una parallela insistenza, da intendersi come nuovo ideale morale, oppure quale descrizione empirica, sul decentramento del soggetto o della psiche precedentemente centrati. (Fra le due possibili formulazioni di tale nozione – quella storicista di un soggetto centrato, proprio del periodo del capitalismo classico e della famiglia nucleare, che oggi, nel mondo della burocrazia organizzata, si è dissolto; e la posizione poststrutturalista, più radicale, per la quale un soggetto siffatto non è mai esistito se non in qualità di miraggio ideologico – io propendo ovviamente per la prima; la seconda deve in ogni caso prendere in considerazione una sorta di “realtà dell’apparenza”).

Occorre comunque aggiungere che il problema dell’espressione è strettamente legato a una certa concezione del soggetto quale contenitore monadico, all’interno del quale le cose percepite vengono poi espresse mediante una proiezione all’esterno. Ma ciò che ora bisogna sottolineare è la misura in cui la concezione del modernismo avanzato di uno stile unico, insieme agli ideali collettivi di un’avanguardia artistica o politica che l’accompagnano, si regge o cade insieme a quell’altra vecchia nozione (o esperienza) del cosiddetto soggetto centrato.

Anche qui il quadro di Munch si impone come una complessa riflessione su una situazione complicata: ci mostra infatti che l’espressione esige la categoria di monade individuale, ma al tempo stesso ci mostra l’alto prezzo da pagare per quella precondizione, mettendo in scena il triste paradosso che, quando si costituisce la propria soggettività individuale come un campo autosufficiente e chiuso, ci si esclude da tutto il resto e ci si costringe alla cieca solitudine della monade, sepolta viva e condannata a una prigione senza uscita.

Probabilmente il postmodernismo segna la fine di questo dilemma, a cui ne sostituisce uno nuovo. La fine dell’ego borghese, della monade, comporta certamente anche la fine delle proprie psicopatologie, cioè quello che ho chiamato declino degli affetti. Ma ciò significa la fine di molte più cose: per esempio la fine dello stile, nel senso di uno stile unico e personale, la fine di un tocco individuale distintivo (simbolizzata dall’incipiente primato della riproduzione meccanica). Quanto all’espressione, ai sentimenti o alle emozioni, la liberazione, nella società contemporanea, dalla precedente anomia del soggetto centrato potrebbe implicare non solo una semplice liberazione dall’angoscia, ma anche una liberazione da ogni altro tipo di sentimento, dal momento che non si dà più un io che possa provarlo. Questo non vuol dire che i prodotti culturali dell’era postmoderna siano del tutto privi di sentimento, ma piuttosto che tali sentimenti – che sarebbe meglio chiamare più precisamente «intensità», seguendo Jean-François Lyotard – fluttuano liberamente, sono impersonali e tendono a essere dominati da un particolare tipo di euforia su cui vorrei tornare in seguito.

Nel contesto più ristretto della critica letteraria, il declino degli affetti potrebbe essere inoltre descritto come il declino delle grandi tematiche proprie del modernismo avanzato, vale a dire il tempo e la temporalità, i misteri elegiaci della durée e della memoria (che vanno intese pienamente come categorie della critica letteraria legate sia al modernismo avanzato che alle opere stesse). Si è detto spesso che noi viviamo oggi in una dimensione sincronica piuttosto che diacronica, e credo che almeno empiricamente sia possibile sostenere che la nostra vita quotidiana, la nostra esperienza psichica, i nostri linguaggi culturali sono dominati oggi da categorie spaziali più che temporali, a differenza di quanto accadeva invece nel periodo precedente del modernismo avanzato16.

II

La scomparsa del soggetto individuale, insieme alla sua diretta conseguenza formale, ossia la sparizione progressiva dello stile personale, genera oggi la pratica quasi universale di quello che si potrebbe chiamare “pastiche”. Questo concetto, che dobbiamo a Thomas Mann (nel Doctor Faustus), il quale lo deve a sua volta alla grande opera di Adorno sulle due vie della sperimentazione musicale avanzata (la pianificazione innovativa di Schönberg, l’eclettismo irrazionale di Stravinskij), va distinto chiaramente dalla più comune idea di parodia.

Quest’ultima trova senza dubbio un terreno fertile nelle idiosincrasie dei moderni e nei loro stili “inimitabili”: per esempio la lunga proposizione di Faulkner con i suoi gerundi che non lasciano prender fiato; la retorica della natura di Lawrence interrotta da bruschi colloquialismi; le inveterate ipostasi di Wallace Stevens di parti del discorso non nominali («i complicati pretesti del come»); i fatali (ma in fondo prevedibili) slittamenti mahleriani dall’alto pathos orchestrale al sentimentalismo da fisarmonica popolare; la pratica meditativo-solenne heideggeriana della falsa etimologia come maniera di «dimostrare»… Tutti questi stili colpiscono per il loro essere in qualche modo caratteristici, in quanto deviano ostentatamente da una norma che poi torna a riaffermarsi, non necessariamente in modo ostile, attraverso un’imitazione sistematica delle loro deliberate eccentricità.

Eppure, in un salto dialettico della quantità in qualità, l’esplosione della letteratura moderna in una pletora di manierismi e di stili personali è stata seguita da una tale frammentazione linguistica della vita sociale, che la stessa norma si è eclissata: ridotta al discorso neutro e reificato dei media (piuttosto lontana dalle aspirazioni utopiche degli inventori dell’esperanto o del Basic English), discorso divenuto esso medesimo un idioletto tra i tanti. Gli stili modernisti diventano in tal modo codici postmodernisti. E il problema della micropolitica dimostra a sufficienza come oggi la formidabile proliferazione di codici sociali nei gerghi professionali e disciplinari (ma pure nei segni assertivi di un’appartenenza etnica, sessuale, razziale, religiosa e di classe) sia anche un fenomeno politico. Se un tempo le idee della classe dirigente costituivano l’ideologia dominante (o egemonica) della società borghese, i paesi del capitalismo avanzato sono oggi il terreno di un’eterogeneità stilistica e discorsiva priva di una norma. Padroni senza volto continuano a modulare le strategie economiche in cui è costretta la nostra esistenza, ma non hanno più bisogno di imporre la loro lingua (o ne sono divenuti incapaci); e la postalfabetizzazione del mondo tardo-capitalistico non riflette soltanto l’assenza di un qualche grande progetto collettivo, ma anche la dissoluzione della vecchia lingua nazionale.

In questa situazione, la parodia si ritrova priva di una propria vocazione; ha fatto il suo tempo, e quella strana cosa che è il pastiche viene a prenderne lentamente il posto. Come la parodia, il pastiche è l’imitazione di uno stile peculiare e unico, idiosincratico, è una maschera linguistica, un discorso in una lingua morta. Ma di questa mimica costituisce una pratica neutrale, senza nessuna delle motivazioni recondite della parodia, monca dell’impulso satirico, priva di comicità e della convinzione che accanto a una lingua anormale presa momentaneamente in prestito esista ancora una sana normalità linguistica. Il pastiche è dunque una parodia vuota, una statua cieca: sta alla parodia come quell’altro fenomeno moderno, storicamente originale e interessante, che è la pratica di una specie di ironia vuota, sta a quelle che Wayne Booth chiama «le ironie permanenti» del Settecento.

Sembrerebbe quindi che si sia realizzata la diagnosi profetica di Adorno, quantunque in modo negativo: non è Schönberg (del cui sistema compiuto lo stesso Adorno aveva già intravisto la sterilità) ma Stravinskij il vero precursore della produzione culturale postmoderna. Infatti, con il crollo dell’ideologia modernista dello stile – unico e inconfondibile quanto le impronte digitali, incomparabile come il proprio corpo (la vera e propria fonte, per il primo Roland Barthes, dell’invenzione e dell’innovazione stilistiche) – i produttori di cultura non possono rivolgersi che al passato: all’imitazione di stili morti, a un discorso condotto attraverso tutte le maschere e le voci immagazzinate nel museo immaginario di una cultura ormai globale.

Questa situazione determina evidentemente ciò che gli storici dell’architettura chiamano «storicismo», cioè il saccheggio indiscriminato di tutti gli stili del passato, il gioco dell’allusione stilistica aleatoria, e in generale quello che Henri Lefebvre ha chiamato il primato crescente del «neo». Questa onnipresenza del pastiche non è tuttavia incompatibile con un certo humour, né scevra da ogni passione): è quanto meno compatibile con un’assuefazione, con il desiderio storicamente originale dei consumatori di un mondo trasformato in pure immagini di sé stesso, di pseudoeventi e di «spettacoli» (il termine è dei situazionisti). È a oggetti di questo tipo che si potrebbe riservare la concezione platonica del «simulacro», copia identica di un originale mai esistito. Si può dire con un certo grado di esattezza che la cultura del simulacro nasce in una società nella quale il valore di scambio si è talmente generalizzato da cancellare la stessa memoria del valore d’uso, una società in cui, come ha osservato Guy Debord con una frase straordinaria, «l’immagine è diventata la forma finale della reificazione» (La società dello spettacolo).

Ora, è lecito aspettarsi che la nuova logica spaziale del simulacro abbia un effetto di rilievo su quello che era il tempo storico. Il passato stesso ne viene modificato: quella che un tempo, nel romanzo storico così come lo definisce Lukács, era la genealogia organica del progetto collettivo borghese – quella che è ancora, per la storiografia redentiva di un Edward P. Thompson o per la “storia orale” americana, per la resurrezione dei morti di generazioni anonime e mute, la dimensione retrospettiva indispensabile a qualunque riorientamento vitale del nostro futuro collettivo – è diventata nel frattempo una vasta collezione di immagini, un immenso simulacro fotografico. L’efficace slogan di Guy Debord risulta ancora più adeguato per la “preistoria” di una società spogliata di ogni storicità, il cui supposto passato è poco più di un insieme di spettacoli polverosi. In stretta conformità alla teoria linguistica poststrutturalista, il passato come “referente” viene gradualmente messo tra parentesi e quindi cancellato del tutto; a noi non restano altro che testi.

Non si deve tuttavia pensare che tale processo sia accompagnato dall’indifferenza: al contrario, il notevole intensificarsi attuale della passione per l’immagine fotografica rappresenta esso stesso un sintomo tangibile di uno storicismo onnipresente, onnivoro e quasi libidico. Come ho già avuto modo di osservare, gli architetti utilizzano questo termine (eccessivamente polisemico) per designare l’eclettismo compiaciuto dell’architettura postmoderna, la quale saccheggia indiscriminatamente e senza alcun principio, ma con gusto, tutti gli stili architettonici del passato per combinarli in insiemi sovreccitanti. Il termine “nostalgia” non è la parola più soddisfacente per indicare questa fascinazione (specialmente se si pensa alla sofferenza di una nostalgia propriamente modernista per un recupero esclusivamente estetico del passato), ciò malgrado rivolge la nostra attenzione su quella che è la manifestazione culturale di gran lunga più diffusa dello sviluppo in atto nell’arte e nel gusto commerciali, ossia il cosiddetto cinema della nostalgia (quella che i francesi chiamano la mode rétro).

Il cinema della nostalgia riconfigura l’intera questione del pastiche proiettandola su un piano sociale e collettivo, ove il disperato tentativo di appropriarsi di un passato perduto si rifrange ora contro la ferrea legge delle trasformazioni della moda e dell’ideologia emergente della generazione. La pellicola inaugurale di questo nuovo discorso estetico, American Graffiti di George Lucas (1973), come poi molti altri film, intende ricreare l’ipnotica realtà perduta dell’era di Eisenhower. E si è portati a credere che, almeno per gli americani, gli anni Cinquanta restino l’oggetto perduto del desiderio per eccellenza17, non soltanto per la stabilità e la prosperità della pax americana, ma anche per l’ingenua innocenza delle spinte controculturali del primo rock and roll e delle bande giovanili (Rusty il selvaggio di Coppola sarà dunque il primo lamento funebre contemporaneo che ne denuncia la scomparsa, esso stesso contraddittoriamente girato nel più autentico stile del cinema della nostalgia). Dopo questa conquista iniziale, altri periodi generazionali si aprono alla colonizzazione estetica: lo testimoniano il recupero stilistico degli anni Trenta in America e in Italia, rispettivamente in Chinatown di Polanski e nel Conformista di Bertolucci. Più interessanti, e problematici, sono gli ultimi tentativi di stringere d’assedio mediante questo nuovo discorso il nostro presente e il nostro passato immediato, o una storia più lontana che sfugge alla memoria dell’esistenza individuale.

Di fronte a questi oggetti estremi – il nostro presente sociale, storico ed esistenziale, e il passato come “referente” – diventa platealmente evidente l’incompatibilità del linguaggio “nostalgico” dell’arte postmodernista con una storicità autentica. Tuttavia, questa contraddizione spinge poi la maniera nostalgica verso una nuova inventiva formale complessa e interessante. Il cinema della nostalgia, beninteso, non si è mai posto la questione di una “rappresentazione” vecchia maniera del contenuto storico, ma si è accostato invece al “passato” attraverso la connotazione stilistica, convogliando la “passatezza” mediante le caratteristiche di lucentezza dell’immagine, la “trentezza” o la “cinquantezza” tramite gli attributi della moda (seguendo in questo la prescrizione del Roland Barthes di Miti doggi, il quale vedeva la connotazione come riserva di idealità immaginarie e stereotipe: «sinité», per esempio, come “concetto” Disney-EPCOT della Cina).

L’impercettibile colonizzazione del presente da parte della maniera nostalgica può essere osservata nell’elegante film Brivido caldo di Lawrence Kasdan, un vago remake da “società opulenta” del Postino suona sempre due volte di James M. Cain, ambientato in un’odierna cittadina della Florida a poche ore d’auto da Miami. La parola remake è tuttavia anacronistica, giacché la nostra coscienza della preesistenza di altre versioni (di precedenti film tratti dal romanzo e del romanzo stesso) è divenuta parte costitutiva ed essenziale della struttura del film. In altri termini, ci troviamo ormai dentro l’”intertestualità” come elemento deliberato e interno dell’effetto estetico, quale operatore di una nuova connotazione della “passatezza” e della profondità pseudostorica, in cui la storia degli stili estetici prende il posto della storia “reale”.

Fin dall’inizio del film, tutta una sfilza di segni estetici comincia ad allontanare da noi l’immagine ufficiale contemporanea: le scritte art déco dei titoli di testa, per esempio, servono a predisporre subito lo spettatore a un’adeguata modalità “nostalgica” di ricezione (la citazione art déco riveste una funzione analoga nell’architettura contemporanea, come nel notevole Eaton Centre di Toronto18). Nel frattempo, una serie di allusioni complesse (ma puramente formali) alle istituzioni dello stesso star system attiva un gioco piuttosto diverso di connotazioni. Il protagonista, William Hurt, appartiene a una nuova generazione di “star” cinematografiche, dallo status considerevolmente diverso rispetto a quello della precedente generazione di superstar maschili, come Steve McQueen o Jack Nicholson (o, a distanza ancora maggiore, Brando), per non parlare dei primi momenti evolutivi dell’istituzione della star. La generazione precedente ha proiettato i propri diversi ruoli al di là dello schermo con la propria personalità, spesso connotata dalla ribellione e dall’anticonformismo. L’ultima generazione, invece, continua sì ad assicurare le funzioni convenzionali del divismo (specialmente la sessualità), ma con una totale mancanza di “personalità” nel vecchio senso della parola, e con certo anonimato nella recitazione del personaggio (che in attori come William Hurt raggiunge il virtuosismo, però di un tipo molto diverso da quello dei Brando o degli Olivier). Questa “morte del soggetto” nell’istituzione della star spalanca tuttavia la possibilità di un gioco di allusioni storiche ai ruoli precedenti – in questo caso a quelli legati a Clark Gable –, di modo che lo stesso stile di recitazione può servire adesso come “connotatore” del passato.

Infine, l’ambientazione è stata preparata in modo strategico, con grande ingegnosità, per evitare la maggior parte dei segnali comunicati normalmente dalla contemporaneità degli Stati Uniti nell’era multinazionale: l’ambientazione in una cittadina consente alla macchina da presa di eludere il paesaggio tutto sviluppato in altezza degli anni Settanta e Ottanta (anche se un episodio chiave della vicenda riguarda la fatale distruzione di vecchi edifici da parte di speculatori edilizi), mentre il mondo oggettuale di oggi – artefatti e apparecchi vari, i cui modelli dovrebbero servire a datare subito l’immagine – viene meticolosamente cancellato. Tutto nel film contribuisce a sfocarne la contemporaneità ufficiale e a far sì che lo spettatore recepisca la vicenda come se fosse ambientata in una sorta di eterni anni Trenta, al di là del tempo storico reale. L’accostamento all’oggi attraverso il linguaggio artistico del simulacro, o il pastiche di un passato stereotipato, conferisce alla realtà attuale e al carattere aperto della storia presente il fascino e la distanza di un lucente miraggio. Ma questa nuova maniera estetica ipnotica è venuta alla luce come un sintomo elaborato del declino della nostra storicità, della nostra possibilità vissuta di esperire la storia in modo attivo. Pertanto non si può dire che essa produca questo strano occultamento del presente grazie alla propria efficacia formale, ma solo che essa, attraverso tali contraddizioni interne, dimostra la gravità di una situazione in cui noi sembriamo sempre più incapaci di modellare delle rappresentazioni della nostra attuale esperienza.

Per quanto riguarda la “storia reale” – oggetto tradizionale, comunque lo si voglia definire, di quello che era il romanzo storico – sarà più istruttivo rivolgersi ora al suo mezzo espressivo e alla sua forma di una volta, e leggerne il destino postmoderno nell’opera di uno dei pochi romanzieri seri e innovativi della sinistra attivo negli Stati Uniti, i cui libri si nutrono di storia nel senso tradizionale del termine e sembrano finora fissare il succedersi dei momenti generazionali nell’”epica” della storia americana. Ragtime di Edgar Laurence Doctorow si presenta ufficialmente come un panorama dei primi due decenni del secolo (similmente alla Fiera mondiale). Il suo ultimo romanzo, Billy Bathgate, come Il lago delle strolaghe affronta gli anni Trenta e la Grande Depressione, mentre Il libro di Daniel ci mette di fronte, con una dolente giustapposizione, ai due grandi momenti della vecchia e della nuova sinistra, il comunismo degli anni Trenta e Quaranta e il radicalismo degli anni Sessanta (si potrebbe dire che anche il suo primo western si adatta bene a questo schema e designa, in maniera meno articolata e cosciente da un punto di vista formale, la fine della frontiera dell’ultimo Ottocento).

Il libro di Daniel non è l’unico tra questi cinque grandi romanzi storici a stabilire un legame narrativo esplicito tra il presente dell’autore e del lettore e la precedente realtà storica che costituisce la materia del libro; la sorprendente ultima pagina del Lago delle strolaghe, che non voglio svelare, stabilisce quel legame in modo molto diverso. È alquanto interessante osservare che la prima versione di Ragtime19 ci colloca esplicitamente nel presente, nella casa dello scrittore a New Rochelle, New York, che di colpo si trasforma nello scenario del proprio passato (immaginario) dei primi anni del Novecento. Nel testo pubblicato questo particolare è stato soppresso, così che il romanzo, simbolicamente privo di ormeggi, viene lasciato fluttuare in un qualche nuovo mondo del passato storico, il cui rapporto con noi è davvero problematico. Si può comunque misurare l’autenticità del gesto sull’evidente dato esistenziale che non sembra esserci più alcun rapporto organico tra la storia americana appresa sui libri di scuola e l’esperienza vissuta dell’attuale città multinazionale, sviluppata in altezza, stagflazionistica, dei giornali e della vita quotidiana.

In molte altre curiose caratteristiche formali di questo testo è tuttavia sintomaticamente inscritta una crisi della storicità. Il tema dichiarato è la transizione da una politica radicale, legata alla classe operaia precedente alla prima guerra mondiale (i grandi scioperi), all’innovazione tecnologica e alla nuova produzione degli anni Venti (l’ascesa di Hollywood e dell’immagine in quanto merce): l’interpolazione di una versione del Michael Kohlhaas di Kleist, lo strano episodio tragico della rivolta del protagonista nero, potrebbe essere considerato come un momento riferito a quel processo. In ogni caso, pare evidente che Ragtime abbia un contenuto politico, nonché una sorta di “significato” politico; Linda Hutcheon lo ha lucidamente articolato secondo i termini delle

sue tre famiglie parallele: quella della classe dirigente angloamericana, quelle emarginate degli immigrati europei e dei neri americani. L’azione del romanzo disperde il centro della prima e sposta i margini ai “centri” molteplici della narrazione, con un’allegoria formale della demografia sociale dell’America urbana. Inoltre, attraverso la presentazione del conflitto di classe radicato nella proprietà capitalistica e nel potere finanziario si esercita una critica protratta degli ideali democratici americani. Il nero Coalhouse, il bianco Houdini e l’immigrato Tateh appartengono tutti alla classe operaia, e per questo – non ciò malgrado – possono tutti e tre lavorare per creare delle nuove forme estetiche (il ragtime, il vaudeville, il cinema).20

Tuttavia queste parole dicono tutto tranne l’essenziale, giacché conferiscono al romanzo una mirabile coerenza tematica che pochi lettori hanno potuto sperimentare analizzando la sintassi di un oggetto verbale troppo vicino agli occhi per poter rientrare in tali prospettive. Hutcheon, certo, ha assolutamente ragione, e questo sarebbe stato il senso del romanzo se non fosse stato un prodotto postmoderno. In primo luogo, gli oggetti della rappresentazione, personaggi evidentemente narrativi, sono incommensurabili e sono fatti, per così dire, di sostanze incomparabili, come l’olio e l’acqua – essendo Houdini una figura storica, Tateh una immaginaria e Coalhouse una intertestuale –, circostanza assai difficile da registrare per un confronto interpretativo di questo tipo. D’altro canto, il tema attribuito al romanzo esige un’analisi un po’ diversa, dal momento che lo si può riformulare come una versione classica dell’”esperienza della sconfitta” propria della sinistra novecentesca, cioè l’idea che la spoliticizzazione del movimento operaio sia da imputare ai media o alla cultura in genere (a ciò che Hutcheon chiama qui «nuove forme estetiche»). Questo, secondo me, è il fondo elegiaco, se non proprio il significato, di Ragtime, e forse della totalità dell’opera di Doctorow; ma allora è necessario descrivere il romanzo in un altro modo, quale espressione inconscia e indagine associativa di questa doxa della sinistra, di questa opinione storica o semivisione dello “spirito oggettivo” nell’occhio della mente. Ciò che una descrizione siffatta tenderebbe a registrare è il paradosso secondo cui un romanzo apparentemente realistico come Ragtime è in realtà un’opera estranea alla rappresentazione, che combina dei significanti immaginari di ideologemi diversi in una specie di ologramma.

Quel che mi preme tuttavia sottolineare non è tanto una qualche ipotesi sulla coerenza tematica di questa narrazione decentrata, quanto, al contrario, il modo in cui la lettura imposta da questo romanzo renda praticamente impossibile cogliere e tematizzare quei “temi” dichiarati che, pur fluttuando al di sopra del testo, non possono essere integrati nella nostra lettura delle frasi che lo compongono. In tal senso, il romanzo non solo oppone resistenza all’interpretazione, ma è sistematicamente e formalmente organizzato per mettere in cortocircuito la vecchia interpretazione storica e sociale, che respinge e allontana in continuazione. Allorché si ricorda che la critica teorica e il rifiuto dell’interpretazione in quanto tale sono componenti fondamentali della teoria poststrutturalista, risulta difficile non concludere che Doctorow ha in qualche misura deliberatamente incorporato quella stessa tensione, quella stessa contraddizione, nel flusso delle sue frasi.

Il libro è gremito di personaggi storici reali – da Teddy Roosevelt a Emma Goldman, da Harry K. Thaw a Stanford White, da J. Pierpont Morgan a Henry Ford, per non parlare del ruolo centrale che spetta a Houdini –, i quali interagiscono con una famiglia immaginaria, i cui componenti sono denominati semplicemente il Padre, la Madre, il Fratello Maggiore e così via. Senza dubbio tutti i romanzi storici, a partire da quelli di Walter Scott, in un modo o in un altro implicano sempre una mobilitazione della conoscenza storica precedente acquisita generalmente mediante i manuali scolastici, concepiti allo scopo di legittimare questa o quella tradizione nazionale. Essi istituiscono così una dialettica narrativa tra ciò che già “sappiamo”, per esempio, sul conto del Pretendente e il modo in cui poi egli appare concretamente nelle pagine del romanzo. Ma il procedimento di Doctorow sembra molto più estremo di questo; direi anzi che la designazione di entrambi i tipi di personaggi – nomi storici o ruoli familiari con l’iniziale maiuscola – opera efficacemente e sistematicamente per reificarli tutti e rende impossibile recepirne la rappresentazione senza l’interferenza di una conoscenza o di una doxa già acquisite. È qualcosa che dà al testo uno straordinario senso di déjà-vu e una strana familiarità, che si è tentati di collegare al freudiano «ritorno del represso» del Perturbante, più che a una solida formazione storica da parte del lettore.

Ora, le proposizioni nelle quali tutto ciò si verifica dispongono di una propria specificità, la quale consente di distinguere con maggiore concretezza l’elaborazione dello stile personale degli scrittori moderni da questo nuovo genere di innovazione linguistica, che non è più personale, ma ha piuttosto una certa somiglianza di famiglia con quella che Barthes molti anni fa designò come «scrittura bianca». In questo romanzo, Doctorow si è imposto un rigoroso principio di selezione, in base al quale sono accolte solo semplici proposizioni dichiarative (costruite per lo più con il verbo “essere”). L’effetto che ne risulta non ha però nulla in comune con la semplificazione condiscendente e la prudenza simbolica della letteratura per l’infanzia; genera invece un disturbo, un senso di profonda violenza sotterranea nei confronti dell’inglese americano, che tuttavia non si può individuare in nessuna delle singole frasi di cui è composto il libro, perfette dal punto di vista grammaticale. Anche altre “innovazioni” tecniche più vistose potrebbero fornire un indizio di quello che si verifica nella lingua di Ragtime: per esempio, è noto che l’origine di molti degli effetti caratteristici del romanzo Lo straniero di Camus può essere rintracciata nella decisione intenzionale dell’autore di sostituire in tutto il testo con il passé composé gli altri tempi del passato adoperati abitualmente nella narrativa francese21. Direi che in Ragtime è come se fosse all’opera qualcosa di simile: come se Doctorow avesse operato sistematicamente per produrre nella sua lingua l’effetto o l’equivalente di un passato verbale che non possediamo in inglese, ossia il preterito francese (il passé simple), il cui movimento «perfettivo», come ci ha insegnato Émile Benveniste, serve a separare gli eventi dal presente dell’enunciazione e a trasformare il flusso del tempo e dell’azione in una serie di eventi oggettivati finiti, isolati e puntuali, separati da ogni situazione presente (anche quella dell’atto della narrazione o dell’enunciazione).

Doctorow è il poeta epico della scomparsa del passato radicale americano, della soppressione delle correnti e dei momenti della tradizione radicale americana: nessun simpatizzante della sinistra può leggere questi splendidi romanzi senza struggimento, che è un modo autentico di affrontare i dilemmi politici di oggi. Ma il dato più interessante sul piano culturale è che Doctorow ha dovuto comunicare questi grandi temi formalmente (dato che il tema fondamentale è precisamente il declino del contenuto) e, più ancora, ha dovuto elaborare la sua opera mediante quella stessa logica culturale del postmoderno che costituisce il segno e il sintomo del suo dilemma. Il lago delle strolaghe mette in atto con maggiore evidenza le strategie del pastiche (soprattutto nella reinvenzione di Dos Passos), ma Ragtime resta il più originale e straordinario monumento alla situazione estetica generata dalla scomparsa del referente storico. Questo romanzo storico non può più rappresentare il passato storico; può soltanto “rappresentare” le nostre idee, i nostri stereotipi del passato (che di colpo si trasforma così in “storia pop”). La produzione culturale viene dunque ricondotta dentro uno spazio mentale che non è più quello del vecchio soggetto monadico, bensì quello di uno «spirito oggettivo» collettivo degradato: non può più contemplare direttamente un presunto mondo reale, una qualche ricostruzione del passato storico, che a sua volta è stato un presente; piuttosto, come nella caverna di Platone, deve tracciare le nostre immagini mentali del passato sulle pareti tra cui è rinchiusa. Se qui resta un qualche realismo, si tratta di un “realismo” inteso come derivante dallo shock di aver compreso quello stato di reclusione, e di aver preso lentamente coscienza di una situazione storica nuova e originale, in cui siamo condannati a indagare la Storia per mezzo delle immagini e dei simulacri pop di quella storia, che come tale resta irraggiungibile per sempre.

III

La crisi della storicità impone ora un ritorno, per una nuova strada, alla questione dell’organizzazione temporale in genere nel campo di forze del postmoderno, e in particolare al problema della forma che potranno assumere il tempo, la temporalità e la dimensione sintagmatica in una cultura sempre più dominata dallo spazio e da una logica spaziale. Se infatti il soggetto ha perso la propria capacità di estendere attivamente le sue protensioni e ritenzioni sulla molteplicità temporale e di organizzare il suo passato e il suo futuro in un’esperienza coerente, diventa abbastanza difficile vedere in che modo i prodotti culturali di un soggetto simile possano risolversi in qualcosa di diverso da un “mucchio di frammenti” e da una pratica indiscriminata dell’eterogeneo, del frammentario e dell’aleatorio. Tuttavia, questi sono precisamente alcuni dei termini privilegiati secondo i quali è stata analizzata (e finanche difesa dai suoi apologeti) la produzione culturale postmodernista. Si tratta comunque ancora di caratteristiche privative; le formulazioni più sostanziali portano i nomi di testualità, écriture o scrittura schizofrenica, ed è a queste che occorre adesso rivolgersi brevemente.

Qui mi torna utile la descrizione della schizofrenia fornita da Lacan, non perché io abbia modo di sapere se essa possiede un’esattezza clinica, ma soprattutto perché – come descrizione piuttosto che come diagnosi – mi sembra offrire un modello estetico interessante22. Naturalmente sono ben lontano dal pensare che qualcuno dei più significativi artisti postmodernisti – Cage, Ashbery, Sollers, Robert Wilson, Ishmael Reed, Michael Snow, Warhol o persino lo stesso Beckett – siano schizofrenici in senso clinico. E il punto non è nemmeno una diagnosi della nostra società e della sua arte in termini di cultura-e-personalità, come nelle critiche della cultura sul genere del fortunato libro di Christopher Lasch La cultura del narcisismo, psicologizzanti e moralizzanti, da cui desidero distanziare lo spirito e la metodologia di queste note: verrebbe da pensare che ci sono da dire cose molto più pericolose sul nostro sistema sociale di quelle rilevabili attraverso l’impiego di categorie psicologiche.

In sostanza, Lacan descrive la schizofrenia come un’interruzione nella catena significante, vale a dire nel concatenarsi della serie sintagmatica dei significanti che costituisce un enunciato dotato di senso. Devo omettere qui lo sfondo psicoanalitico familiare o più ortodosso di questa situazione, che Lacan transcodifica in linguaggio descrivendo la rivalità edipica non tanto nei termini dell’individuo biologico come rivale nel catturare l’attenzione della madre, quanto piuttosto di ciò che egli chiama il Nome-del-Padre, l’autorità paterna considerata ormai come funzione linguistica23. La sua concezione della catena significante presuppone sostanzialmente uno dei principi basilari (e una delle più grandi scoperte) dello strutturalismo saussuriano, ossia l’affermazione che il senso non è costituito da una relazione biunivoca tra significante e significato, tra la materialità della lingua, una parola o un nome, e il suo referente o concetto. In quest’ottica nuova, il senso è generato dal movimento da significante a significante. Ciò che in genere chiamiamo significato – il senso o il contenuto concettuale di un enunciato – va visto adesso come un effetto di senso, come il miraggio oggettivo della significazione generato e proiettato dalla relazione dei significanti tra loro. Quando tale relazione viene meno, allorché si spezzano i legami nella catena significante, allora si ha la schizofrenia, sotto forma di frantumi di significanti distinti e irrelati. La connessione tra questo tipo di disfunzione e la psiche dello schizofrenico si può dunque intendere mediante una doppia affermazione: in primo luogo, che l’identità personale è essa stessa l’effetto di una certa unificazione temporale di passato e futuro con il mio presente; e, in secondo luogo, che la stessa unificazione temporale attiva rappresenta una funzione del linguaggio, o meglio ancora della proposizione, nel suo spostarsi attraverso il tempo per il suo circolo ermeneutico. Se siamo incapaci di unificare il passato, il presente e il futuro della frase, allora siamo altrettanto incapaci di unificare il passato, il presente e il futuro della nostra esperienza biografica o della nostra vita psichica. Con l’interruzione nella catena significante, lo schizofrenico è perciò ridotto a un’esperienza di significanti puramente materiali o, in altre parole, di una serie di presenti puri e irrelati nel tempo. Mi interrogherò sugli esiti estetici o culturali di tale situazione tra breve; vediamo prima come ci si sente:

Mi ricordo chiaramente del giorno in cui questo accadde. Eravamo in villeggiatura ed ero andata come altre volte a passeggiare sola in campagna. D’un tratto si udì un canto in lingua tedesca proveniente dalla scuola davanti a cui passavo in quel momento: erano bambini che avevano la loro lezione di canto. Mi fermai per ascoltare e fu in quell’istante che un sentimento bizzarro si fece strada in me, un sentimento difficile da analizzare, ma che assomigliava a tutti quelli che dovevo provare più tardi: l’irrealtà. Mi sembrava di non riconoscere più la scuola; era diventata grande come una caserma ed i bambini che cantavano mi pareva fossero prigionieri obbligati a cantare. Era come se la scuola e il canto dei fanciulli fossero stati separati dal resto del mondo. In quel momento scorsi un campo di grano di cui non vedevo i limiti; e questa immensità dorata, luminosa sotto il sole, legata al canto dei bimbi-prigionieri nella scuola-caserma di pietra liscia mi diede una tale angoscia che scoppiai in singhiozzi. Poi tornai di corsa nel nostro giardino e mi misi subito a giocare “affinché le cose tornassero ad essere come ogni giorno”, cioè per rientrare nella realtà. Fu la prima volta che percepii quegli elementi che più tardi dovevano sempre essere presenti nel mio sentimento di irrealtà: lo spazio senza limiti, la luce abbagliante ed il nitido, il liscio della materia.24

Nel nostro contesto, questa esperienza suggerisce quanto segue: primo, la rottura della temporalità libera improvvisamente il presente da tutte le attività e le intenzionalità che potrebbero focalizzarlo e renderlo uno spazio della prassi; così isolato, quel presente improvvisamente inghiotte il soggetto con indescrivibile vividezza, con una concretezza percettiva letteralmente schiacciante, che mette efficacemente in scena il potere del significante materiale – o meglio, letterale – nel suo isolamento. Questo presente del mondo, questo significante materiale, si pone dinanzi al soggetto con estrema intensità, portando con sé una misteriosa carica d’affetto, qui descritta nei termini negativi dell’angoscia e della perdita della realtà, ma che si potrebbe immaginare altrettanto bene nei termini positivi dell’euforia, di un’intensità forte, inebriante o allucinogena.

Resoconti clinici di questo genere illustrano in maniera impressionante quel che avviene nella testualità o nell’arte schizofrenica, benché nel testo culturale il significante isolato non sia più uno stato enigmatico del mondo o un frammento incomprensibile, ancorché ipnotico, del linguaggio, bensì qualcosa di più vicino a una frase completamente isolata. Si pensi, per esempio, all’esperienza della musica di John Cage, nella quale un ammasso di suoni concreti (prodotti, per esempio, con un piano preparato) è seguito da un silenzio talmente intollerabile che l’evenienza di un altro accordo sonoro è inimmaginabile, come è inimmaginabile ricordare l’accordo precedente tanto da poterlo connettere con l’eventuale accordo successivo. Anche alcune narrazioni di Beckett rispondono a questo assetto, specialmente Watt, dove il primato della frase al presente disintegra inesorabilmente il tessuto narrativo che cerca di ricostituirsi intorno a essa. Ma l’esempio che voglio portare sarà un po’ meno cupo: il testo di un giovane poeta di San Francisco, Bob Perelman, il cui gruppo o scuola – la cosiddetta Language Poetry o New Sentence – sembra avere adottato la frammentazione schizofrenica a propria estetica fondamentale.

CINA

Viviamo nel terzo mondo a partire dal sole. Numero tre. Nessuno ci dice cosa fare.

La gente che ci ha insegnato a contare è stata molto gentile.

È sempre tempo di partire.

Se piove, o hai il tuo ombrello o non ce l’hai.

Il vento ti porta via il cappello.

Inoltre sorge il sole.

Preferirei che le stelle non ci descrivessero l’un l’altro; preferirei che lo facessimo noi stessi.

Corri davanti alla tua ombra.

Una sorella che indica il cielo almeno una volta ogni dieci anni è una buona sorella.

Il paesaggio è motorizzato.

Il treno ti porta dove va.

Ponti tra le acque.

Gente dispersa su vaste distese di cemento, dirigendosi verso l’aeroplano.

Non dimenticare cosa sembreranno il tuo cappello e le scarpe quando sarai introvabile.

Anche le parole che fluttuano nell’aria fanno ombre blu.

Se ha un buon sapore lo mangiamo.

Cadono le foglie. Indica le cose.

Cogli le cose giuste.

Ehi, sai che? Che? Ho imparato a parlare. Stupendo.

La persona dalla testa incompleta scoppiò in lacrime.

Mentre cadeva, che poteva fare la bambola? Niente.

Va’ a dormire.

Stai benissimo in pantaloncini. E anche la bandiera sta benissimo.

Le esplosioni sono piaciute a tutti.

Ora di alzarsi.

Ma meglio abituarsi ai sogni.25

Su questo interessante esercizio di discontinuità si potrebbero dire molte cose: una delle più paradossali è il riemergere qui, tra queste frasi sconnesse, di un qualche significato globale più unitario. Infatti, nella misura in cui questa poesia, in un senso singolare e segreto, è una poesia politica, sembra catturare qualcosa dell’esaltazione per quell’immenso e incompiuto esperimento sociale che è la Nuova Cina – senza pari nella storia mondiale –, la comparsa inattesa, tra le due superpotenze, del “numero tre”, la freschezza di un nuovo mondo materiale prodotto dagli esseri umani con un nuovo controllo del loro destino collettivo. E soprattutto il notevole evento di una collettività divenuta un nuovo “soggetto storico”, che, dopo la lunga soggezione al feudalesimo e all’imperialismo, parla di nuovo con la propria voce, per sé stessa, come se fosse la prima volta.

Ma soprattutto intendevo mostrare il modo in cui quella che ho chiamato dissociazione schizofrenica o écriture, nel momento in cui si generalizza come stile culturale, cessa di avere un rapporto necessario con il contenuto patologico che si associa a termini come schizofrenia e si rende disponibile a intensità più gioiose, e precisamente a quell’euforia che abbiamo visto soppiantare i vecchi affetti dell’ansia e dell’alienazione.

Si consideri, per esempio, la descrizione data da Jean-Paul Sartre di una tendenza simile in Flaubert:

la sua frase [Sartre sta parlando di Flaubert] raggira l’oggetto, l’afferra, lo immobilizza, gli spezza le reni, si chiude su di lui, si muta in pietra e si pietrifica con lui. È un’entità cieca e sorda, senza arterie, senza un soffio di vita; un silenzio profondo la separa dalla frase che segue: cade sempre nel vuoto e trascina la sua preda nella caduta senza fine. Ogni realtà, una volta descritta, viene cancellata dall’inventario.26

Sono tentato di vedere questa lettura come una specie di illusione ottica (o di ingrandimento fotografico) di tipo inconsapevolmente genealogico, nella quale vengono condotti anacronisticamente in primo piano alcuni tratti propriamente postmodernisti, subordinati o latenti, dello stile di Flaubert. Tuttavia questo impartisce una lezione interessante sulla periodizzazione e sulla ristrutturazione dialettica delle dominanti e delle subordinate culturali. Infatti, queste caratteristiche erano in Flaubert sintomi e strategie di tutta quella vita postuma e di quel risentimento della prassi denunciati (con crescente simpatia) nel corso delle tremila pagine dell’Idiota di famiglia di Sartre. Quando tali caratteristiche divengono a loro volta norma culturale, si spogliano di ogni forma di affetto negativo e si rendono disponibili per altri usi più decorativi.

Ma con questo non abbiamo esaurito completamente i segreti strutturali della poesia di Perelman, che risulta avere piuttosto poco a che fare con quel referente che si chiama Cina. In effetti l’autore ha raccontato che, passeggiando per Chinatown, si è imbattuto in un libro di fotografie, le cui didascalie ideogrammatiche erano lettera morta per lui (o forse, si potrebbe dire, un significante materiale). Le frasi della poesia sono dunque le didascalie che Perelman ha scritto per quelle fotografie, il loro referente è un’altra immagine, un altro testo assente; e l’unità della poesia non va più ricercata all’interno della sua lingua, bensì al di fuori della stessa poesia, nella compatta unità di un altro libro, un libro assente. Si rileva qui un sorprendente parallelismo con la dinamica del cosiddetto iperrealismo, il quale è parso un ritorno alla rappresentazione e al figurativo dopo la lunga egemonia dell’estetica dell’astrazione, finché non è stato chiaro che i suoi oggetti non andavano affatto cercati nel “mondo reale”, ma erano a loro volta fotografie di quel mondo reale trasformato in immagini, di cui il “realismo” della pittura iperrealista costituisce il simulacro.

Questa descrizione della schizofrenia e dell’organizzazione temporale potrebbe comunque essere formulata in maniera diversa, che riconduca all’idea heideggeriana di uno scarto, di un divario tra la Terra e il Mondo, benché sia nettamente incompatibile con il tono e l’elevata gravità della filosofia di Heidegger. Vorrei anzi caratterizzare l’esperienza postmodernista della forma con quello che sembrerà, spero, uno slogan paradossale: con l’affermazione, cioè, che “la differenza mette in relazione”. La nostra critica recente, a partire da Macherey, si è preoccupata di sottolineare l’eterogeneità e le profonde discontinuità dell’opera d’arte, non più organica o unitaria, ma divenuta ormai potenziale calderone o ripostiglio di sottosistemi disarticolati, di disparati materiali grezzi e impulsi di ogni sorta. In altre parole, l’opera d’arte di una volta ora risulta essere un testo, la cui lettura procede più per differenziazione che per unificazione. Le teorie della differenza hanno però cercato di mettere in risalto la disarticolazione a tal punto che i materiali del testo, comprese le parole e le frasi, tendono a disintegrarsi nella passività inerte e aleatoria di un insieme di elementi separati gli uni dagli altri.

Nelle opere postmoderniste più interessanti, è nondimeno possibile individuare una concezione più positiva di quel rapporto, che ristabilisca una propria tensione con la nozione di differenza. Questo nuovo tipo di rapporto per il tramite della differenza può essere talvolta una maniera nuova e originale di pensare e di percepire; più spesso prende la forma di un impossibile imperativo a realizzare una mutazione in quella che forse non si può più nemmeno chiamare coscienza. Ritengo che l’emblema più impressionante di questo nuovo modo di pensare i rapporti si possa rinvenire nell’opera di Nam June Paik, i cui schermi televisivi, accatastati o sparsi, collocati a intervalli dentro una folta vegetazione oppure occhieggianti dal soffitto come nuove e strane stelle video, ripetono in continuazione sequenze predisposte o cicli di immagini che tornano in momenti asincroni sui vari schermi. La vecchia estetica la praticano dunque gli spettatori, i quali, disorientati da questa varietà discontinua, decidono di concentrarsi su un unico schermo, come se quella sequenza di immagini relativamente insignificante che vi scorre dentro avesse di per sé un qualche valore organico. Lo spettatore postmodernista è pertanto chiamato a fare l’impossibile, cioè a vedere tutti gli schermi nel loro insieme, nella loro diversità radicale e aleatoria; a questo stesso spettatore si chiede di seguire la mutazione evolutiva di David Bowie in Luomo che cadde sulla Terra (il quale guarda contemporaneamente cinquantasette schermi televisivi) e di elevarsi in qualche maniera a un livello ove la vivida percezione della differenza radicale è, in sé e per sé, un nuovo modo di intendere quella che si chiamava relazione: la parola collage è insufficiente per descrivere tale condizione.

IV

Ora occorre completare questo resoconto esplorativo dello spazio e del tempo del postmodernismo con l’analisi finale di quell’euforia o di quelle intensità che paiono tanto spesso caratterizzare l’esperienza culturale più recente. Insisto ancora una volta sull’enormità di una transizione che si lascia dietro la desolazione degli edifici di Hopper oppure la dura sintassi del Midwest delle forme di Sheeler, sostituendoli con le straordinarie superfici del paesaggio urbano iperrealista, dove persino i rottami di un’automobile brillano di un nuovo splendore allucinatorio. L’euforia di queste nuove superfici risulta tanto più paradossale in quanto il loro contenuto essenziale – la città stessa – si è deteriorato e disgregato a un livello certamente inconcepibile nei primi anni del Novecento, per non parlare dell’epoca precedente. In che modo lo squallore urbano possa costituire un piacere per gli occhi, quando è espresso nella mercificazione, e in che modo un balzo senza precedenti nell’alienazione della vita quotidiana della città possa essere ormai vissuto sotto forma di una nuova e strana euforia allucinatoria, sono alcune delle domande che mi si pongono in questo momento della mia indagine. Da quest’ultima non sarà esente la figura umana, benché appaia chiaro che nell’estetica più recente si è giunti a percepire la rappresentazione dello spazio come incompatibile con la rappresentazione del corpo: una specie di divisione estetica del lavoro molto più accentuata che in ogni altra precedente generica concezione del paesaggio e, a dire il vero, un sintomo assai inquietante. Lo spazio privilegiato dell’arte nuova è radicalmente antiantropomorfico, come testimoniano le stanze da bagno vuote di Doug Bond. L’estrema feticizzazione contemporanea del corpo umano prende comunque una direzione molto diversa nelle statue di Duane Hanson: si tratta di ciò che in precedenza ho definito simulacro, la cui funzione specifica risiede in quella che Sartre avrebbe chiamato derealizzazione dell’intero mondo circostante della vita quotidiana. In altre parole, il momento di dubbio o di esitazione riguardo al respiro o al calore di queste figure di poliestere tende a estendersi agli esseri umani reali che si aggirano intorno a noi nel museo, e a trasformarli a loro volta, per un brevissimo istante, in altrettanti simulacri morti color carne. Così il mondo perde temporaneamente la sua profondità e minaccia di diventare una pellicola lucida, un’illusione stereoscopica, un flusso di immagini filmiche senza spessore. Ma questa esperienza è terrificante o entusiasmante?

Si è dimostrato fecondo pensare questo genere di esperienze nei termini di ciò che Susan Sontag ha individuato con l’efficace espressione di camp. Io propongo di illuminarlo di una luce un po’ diversa, facendo ricorso al tema, altrettanto alla moda, del “sublime”, così come è stato riscoperto nelle opere di Edmund Burke e di Kant; o forse si potrebbero combinare le due nozioni nella forma di una sorta di sublime camp o “isterico”. Per Burke il sublime era un’esperienza confinante con il terrore, la balenante visione, nell’attonito stupore e tremore, di qualcosa di tanto smisurato da annientare completamente la vita umana: una descrizione in seguito affinata da Kant, il quale l’ha estesa fino a comprendere la questione della rappresentazione stessa, così che l’oggetto del sublime ora non riguarda più soltanto la pura potenza e l’incommensurabilità fisica della Natura rispetto all’organismo umano, ma anche i limiti della figurazione e l’incapacità della mente umana di rappresentarsi forze tanto smisurate. Nel momento storico degli albori del moderno Stato borghese, Burke fu capace di concettualizzare queste forze soltanto nei termini del divino, mentre persino Heidegger continua ancora a intrattenere un rapporto fantasmatico con un certo paesaggio contadino organico precapitalista e con una società comunitaria, che è l’ultima forma dell’immagine della Natura nel nostro tempo.

Oggi, però, nel momento di un’eclisse radicale della Natura, è forse possibile pensare tutto questo in maniera diversa: il «sentiero nel bosco» di Heidegger tutto sommato è stato irrimediabilmente e irrevocabilmente distrutto dal tardo capitalismo, dalla Rivoluzione Verde, dal neocolonialismo e dalla megalopoli, che fa passare le sue autostrade sopra i campi di una volta e sui lotti di terreno liberi, e trasforma l’heideggeriana «casa dell’essere» in condomini, se non in squallidissimi, gelidi casamenti infestati dai topi. In tal senso l’altro della nostra società non è più la Natura, come avveniva nelle società precapitaliste, bensì qualcos’altro ancora da identificare.

Non vorrei che questo qualcosa venisse precipitosamente identificato con la tecnologia in quanto tale, poiché vorrei mostrare che la tecnologia qui costituisce a sua volta una figura che sta in luogo di qualcos’altro. Ciò nonostante, essa può fungere da utile termine abbreviativo per designare il potere propriamente umano e antinaturale del lavoro morto immagazzinato nelle nostre macchine, un potere alienato, quello che Sartre chiama la controfinalità dell’inerte pratico, che si rivolta su di noi e contro di noi in forme irriconoscibili e sembra costituire l’immenso orizzonte distopico della nostra prassi collettiva e individuale.

Tuttavia, nell’ottica marxiana lo sviluppo tecnologico è il risultato dello sviluppo del capitale e non un’istanza determinante in sé. Converrà dunque distinguere diverse generazioni di potere delle macchine, diversi stadi della rivoluzione tecnologica all’interno del capitale stesso. Seguo qui Ernest Mandel, il quale delinea tre fratture fondamentali o tre salti nell’evoluzione delle macchine nel capitalismo:

Le rivoluzioni fondamentali nella tecnologia – la tecnologia della produzione di macchine motrici per mezzo di macchine – appaiono dunque come il momento determinante nelle rivoluzioni della tecnologia nel suo complesso. La produzione meccanica di motori a vapore a partire dal 1848; la produzione meccanica di motori elettrici e a combustione fin dagli anni Novanta dell’Ottocento; la produzione meccanica di apparati elettronici e nucleari dagli anni Quaranta del Novecento: queste sono le tre rivoluzioni tecnologiche complessive generate dal modo di produzione capitalistico a partire dalla rivoluzione industriale “originaria” del tardo Settecento.27

La periodizzazione sottolinea la tesi generale del libro di Mandel, vale a dire che nel capitalismo ci sono stati tre momenti fondamentali, ciascuno dei quali segna un’espansione dialettica rispetto alla fase precedente. Sono il capitalismo mercantile, la fase monopolistica o imperialistica e il nostro momento, erroneamente denominato postindustriale, che invece si potrebbe definire meglio come capitalismo multinazionale. Ho già rilevato come l’intervento di Mandel nel dibattito sul postindustriale implichi l’affermazione che il tardo capitalismo, o capitalismo multinazionale o del consumo, tutt’altro che incoerente con la grande analisi ottocentesca di Marx, costituisce al contrario la forma più pura del capitale emersa finora, un’espansione prodigiosa del capitale in aree fino a oggi non mercificate. Questo capitalismo più puro del nostro tempo elimina così le enclave dell’organizzazione precapitalistica che fino a oggi aveva tollerato e sfruttato sul piano tributario. A tale proposito si è tentati di parlare di una penetrazione e di una colonizzazione nuove e storicamente originali della Natura e dell’Inconscio: si tratta cioè della distruzione dell’agricoltura precapitalista del Terzo Mondo operata dalla Rivoluzione Verde, e dell’ascesa dei media e dell’industria pubblicitaria. In ogni caso, sarà apparso chiaro che la mia periodizzazione culturale delle fasi del realismo, del modernismo e del postmodernismo è al contempo ispirata e confermata dallo schema tripartito di Mandel.

Si può dunque parlare della nostra epoca come della Terza Era delle Macchine; ed è a questo punto che occorre reintrodurre il problema della rappresentazione estetica già sviluppato esplicitamente nell’analisi kantiana del sublime, dato che sembrerebbe del tutto logico aspettarsi che il rapporto con la macchina e la rappresentazione della macchina si modifichino dialetticamente rispetto a ciascuna di queste fasi qualitativamente diverse dello sviluppo tecnologico.

Mi sembra giusto ricordare l’entusiasmo per le macchine nel momento del capitale precedente il nostro, in particolare l’eccitazione futurista e la celebrazione marinettiana della mitragliatrice e dell’automobile. Sono emblemi ancora visibili, nodi scultorei di energia, che rendono tangibili e raffigurabili le energie motrici di quel primo momento della modernizzazione. Si può misurare il prestigio di queste grandi forme aerodinamiche in base alla loro presenza metaforica negli edifici di Le Corbusier, vaste strutture utopiche che solcano come giganteschi transatlantici lo scenario urbano di una terra caduta più antica28. Le macchine esercitano un altro tipo di fascino nelle opere di artisti come Picabia e Duchamp, che in questa sede non ho tempo di considerare; mi si permetta tuttavia di ricordare ancora, per amore di completezza, il modo in cui alcuni artisti rivoluzionari e comunisti degli anni Trenta – come Fernand Léger e Diego Rivera – tentarono di fare proprio questo entusiasmo per l’energia della macchina in vista di una ricostruzione prometeica dell’intera società umana.

È immediatamente evidente che l’odierna tecnologia non possiede più la stessa capacità di rappresentazione: non la turbina, né i montacarichi per il grano o le ciminiere di Sheeler, e neppure le elaborazioni barocche di condotti e di cinghie di trasmissione o i profili aerodinamici dei treni – veicoli veloci ancora concentrati in stato di riposo –, ma piuttosto il computer, il cui involucro esterno non ha alcun potere emblematico o visivo, o persino i rivestimenti dei vari media, come quell’elettrodomestico chiamato televisore che non articola niente, e anzi implode e porta dentro di sé la propria superficie di immagini appiattite.

Queste macchine sono mezzi di riproduzione più che di produzione, e alla nostra facoltà di rappresentazione estetica pongono esigenze molto diverse rispetto a quanto faceva l’idolatria relativamente mimetica dei futuristi per la macchina, o una qualche vecchia scultura tutta velocità ed energia. Qui, più che con l’energia cinetica, abbiamo a che fare con tutti i nuovi tipi di processi riproduttivi; e nelle produzioni postmoderniste più deboli l’incorporazione estetica di questi processi tende spesso a ricadere in una facile rappresentazione puramente tematica del contenuto, in narrazioni che “parlano di” processi di riproduzione e comprendono cineprese, video, registratori, tutta la tecnologia della produzione e riproduzione del simulacro. (Il passaggio dal modernista Blow-up di Antonioni al postmodernista Blow Out di De Palma è in tal senso paradigmatico). Quando gli architetti giapponesi, per esempio, modellano un edificio sull’imitazione decorativa di pile di audiocassette, la soluzione resta tutt’al più tematica e allusiva, anche se spesso umoristica.

Nei testi postmodernisti più vitali tende a emergere dell’altro ancora, ed è la sensazione che, al di là di ogni tematica o contenuto, l’opera sembra in qualche modo collegarsi alle reti del processo riproduttivo, consentendoci così di intravedere il sublime postmoderno o tecnologico, la cui efficacia e la cui autenticità sono documentate dal fatto che queste opere riescono a evocare tutto il nuovo spazio postmoderno che sorge intorno a noi. In questo senso l’architettura resta perciò il linguaggio estetico privilegiato, e i riflessi deformanti e frammentanti di un’enorme superficie di vetro su un’altra possono essere assunti come paradigmatici del ruolo centrale del processo e della riproduzione nella cultura postmodernista.

Tuttavia, come ho detto, vorrei evitare la conclusione che la tecnologia sia in qualche misura l’”istanza determinante” della vita sociale o della produzione culturale odierne: evidentemente, una tesi del genere in definitiva fa il paio con l’idea postmarxista di una società postindustriale. Vorrei piuttosto suggerire che le nostre rappresentazioni imperfette di una qualche immensa rete di comunicazioni e di computer sono esse stesse nient’altro che la raffigurazione distorta di qualcosa di ancora più profondo, vale a dire dell’intero sistema mondiale dell’attuale capitalismo multinazionale. La tecnologia della società contemporanea dispone dunque di un fascino ipnotico non tanto di per sé, ma perché sembra fornire uno schema rappresentativo sintetico e privilegiato per comprendere una rete di potere e controllo ancor più difficile da cogliere per la nostra mente e la nostra immaginazione: tutta la nuova rete globale decentrata della terza fase del capitalismo. Questo processo figurativo è oggi chiaramente osservabile in un intero filone della letteratura d’intrattenimento contemporanea – che si è tentati di definire “paranoia high-tech” – nella quale i circuiti di una presunta rete informatica universale vengono attivati a livello narrativo dalle intricate cospirazioni di agenzie di spionaggio autonome, ancorché fatalmente interdipendenti e concorrenti, con una complessità che spesso supera le capacità mentali del lettore medio. Eppure la teoria della cospirazione (e le sue vistose manifestazioni narrative) deve essere considerata come un tentativo degradato – attraverso la rappresentazione della tecnologia avanzata – di pensare la totalità impossibile del sistema mondiale contemporaneo. Soltanto nei termini di quell’altra realtà, enorme e minacciosa, delle istituzioni economiche e sociali, tuttavia appena percepibile, è a mio avviso possibile teorizzare adeguatamente il sublime postmoderno.

Tali narrazioni, che in un primo momento hanno cercato di trovare espressione nella struttura di genere del romanzo di spionaggio, soltanto di recente si sono cristallizzate in un nuovo tipo di fantascienza, denominato cyberpunk, che è un’espressione tanto delle realtà imprenditoriali transnazionali quanto della stessa paranoia globale: le innovazioni della rappresentazione attuate da William Gibson, in effetti, conferiscono alla sua opera il marchio di un’eccezionale realizzazione letteraria all’interno di una produzione culturale postmoderna prevalentemente visiva e uditiva.

V

Ora, prima di concludere, vorrei abbozzare l’analisi di un edificio del postmoderno maturo, un’opera che per molti versi non è caratteristica di quell’architettura postmoderna i cui fautori principali sono Robert Venturi, Charles Moore, Michael Graves o, più di recente, Frank Gehry, ma che a mio parere offre una lezione straordinaria sull’originalità dello spazio postmodernista. Mi si consenta di ampliare la figura che ha percorso le osservazioni precedenti e di renderla ancora più esplicita: sostengo che ci troviamo di fronte a una specie di mutazione dello stesso spazio edificato. La mia tesi è che noi stessi, i soggetti umani che irrompono in questo nuovo spazio, non abbiamo tenuto il passo con questa evoluzione; finora la mutazione nell’oggetto non è stata accompagnata da alcuna mutazione equivalente nel soggetto. Ancora non possediamo il corredo percettivo per armonizzarci con questo che chiamerò iperspazio, in parte perché le nostre abitudini percettive si sono formate in quel tipo antecedente di spazio che ho denominato spazio del modernismo avanzato. Pertanto l’architettura più recente – come molti altri prodotti culturali che ho evocato nelle osservazioni precedenti – si pone come una sorta di imperativo a sviluppare nuovi organi, a espandere le nostre funzioni sensoriali e il nostro corpo in nuove dimensioni ancora inimmaginabili e forse, in ultima analisi, impossibili.

L’edificio del quale enumererò molto rapidamente le caratteristiche è l’hotel Westlin Bonaventure, costruito nella nuova downtown di Los Angeles dall’architetto e immobiliarista John Portman, le cui altre opere comprendono vari Hyatt Regency, il Peachtree Center di Atlanta e il Renaissance Center di Detroit. Ho accennato all’aspetto populistico della difesa retorica del postmodernismo contro l’austerità elitaria (e utopica) delle grandi espressioni del modernismo architettonico; in altre parole, si afferma in genere che, da un lato, questi nuovi edifici sono opere popolari e, dall’altro, che rispettano la dimensione locale del tessuto urbano americano, ossia che non tentano più, come i capolavori e i monumenti del modernismo avanzato, di inserire un linguaggio diverso, distinto, elevato, nuovo e utopico, nel sistema di segni dozzinale e commerciale della città circostante, ma, al contrario, tentano di parlare quello stesso linguaggio adoperandone il lessico e la sintassi, come si è emblematicamente “imparato da Las Vegas”.

In relazione al primo di questi aspetti, il Bonaventure di Portman conferma in pieno l’affermazione: è un edificio popolare frequentato con entusiasmo tanto dagli abitanti della città quanto dai turisti (benché sotto questo aspetto gli altri edifici di Portman riscuotano un maggiore successo). L’inserimento populista all’interno del tessuto urbano è invece tutt’altra questione, ed è da essa che comincerò. Ci sono tre ingressi al Bonaventure, uno dalla Figueroa e gli altri due dai giardini pensili sull’altro lato dell’hotel, che è costruito su quel che resta del pendio della vecchia Bunker Hill. Nessuno dei tre assomiglia in alcun modo al tradizionale tendone o alla monumentale porte cochère con cui gli edifici sontuosi di ieri intendevano inscenare il passaggio dalla strada cittadina all’interno. Al Bonaventure si accede, per così dire, per vie laterali o piuttosto dal retro: i giardini retrostanti immettono al sesto piano delle torri e persino lì bisogna scendere una rampa di scale per trovare l’ascensore con il quale si accede al vestibolo. Mentre quella che si sarebbe ancora tentati di pensare come l’entrata principale, sulla Figueroa, immette armi e bagagli alla balconata per lo shopping del secondo piano, da cui occorre prendere una scala mobile per arrivare al banco principale della reception. La prima cosa che vorrei suggerire riguardo a questi accessi curiosamente non contrassegnati è che paiono essere stati imposti da una nuova categoria di chiusura che governa lo spazio interno dell’hotel (e questo al di là dei vincoli concreti entro i quali ha dovuto lavorare Portman). Credo che il Bonaventure, insieme a un certo numero di edifici postmoderni caratteristici, come il Beaubourg di Parigi o l’Eaton Centre di Toronto, aspiri a essere uno spazio totale, un mondo completo, una specie di città in miniatura; a questo nuovo spazio totale corrisponde una nuova pratica collettiva, una nuova maniera di muoversi e di riunirsi degli individui, una specie di pratica di un genere nuovo e storicamente originale di iperfolla. In questo senso, idealmente, la minicittà del Bonaventure di Portman non dovrebbe avere affatto degli ingressi, poiché l’entrata si configura sempre come la giuntura che collega l’edificio e il resto della città che lo circonda; esso infatti non desidera essere parte della città, bensì piuttosto un suo equivalente, un surrogato. Ovviamente ciò non è possibile, ed ecco quindi la riduzione dell’ingresso alla sua funzione minima29. Questo scollamento dalla città circostante è nondimeno diverso da quello dei grandi monumenti dell’International Style, nei quali lo scollamento era un atto violento, visibile, e aveva un significato simbolico molto reale, come nei grandi pilotis di Le Corbusier, il cui gesto separa radicalmente il nuovo spazio utopico del moderno dal tessuto urbano degradato e decaduto, che in questo modo viene esplicitamente rifiutato (sebbene la scommessa del moderno fosse che questo nuovo spazio utopico, nella virulenza del suo novum, si sarebbe propagato e avrebbe infine trasformato lo spazio circostante proprio grazie alla forza del suo nuovo linguaggio spaziale). Il Bonaventure, tuttavia, è soddisfatto di “lasciare che il tessuto cittadino decaduto continui a essere nel suo essere” (per parodiare Heidegger): non si aspetta né desidera alcun effetto ulteriore, alcuna trasformazione utopica protopolitica più ampia.

Tale diagnosi è a mio parere confermata dalla grande pellicola di vetro riflettente che riveste il Bonaventure, della cui funzione darò adesso un’interpretazione alquanto diversa da quella di qualche istante fa, allorché ho rilevato il fenomeno della riflessione in generale come lo sviluppo di una tematica della tecnologia riproduttiva (comunque le due letture non sono incompatibili). Ora vorrei sottolineare piuttosto il modo in cui il rivestimento di vetro respinge la città esterna: si tratta di una repulsione analoga a quella esercitata dagli occhiali da sole a specchio, che rendono impossibile all’interlocutore vedere gli occhi di chi li porta e in tal modo si caricano di aggressività e potere sull’Altro. Allo stesso modo, la pellicola di vetro realizza una peculiare e incollocabile dissociazione del Bonaventure dal suo ambiente: non è neppure un esterno, dato che quando si tenta di guardare le pareti esterne dell’albergo non si vede quest’ultimo, ma soltanto le immagini distorte di tutto ciò che lo circonda.

Ora vorrei prendere in considerazione le scale mobili e gli ascensori. Dato l’autentico diletto che arrecano a Portman, soprattutto i secondi, che l’artista ha definito «gigantesche sculture cinetiche», ai quali certamente si deve buona parte dello spettacolo emozionante offerto dall’interno – in particolare negli Hyatt, dove salgono e scendono incessantemente come funivie o grandi lanterne giapponesi –, considerato che sono messi intenzionalmente in evidenza come tali, credo che in questi «sposta-persone» (sono parole dello stesso Portman, prese in prestito da Disney) si debba vedere qualcosa di più della loro semplice funzione e delle loro componenti ingegneristiche. In ogni caso, è noto che la teoria architettonica più recente ha cominciato a prendere in prestito l’analisi narrativa da altri campi, e a cercare di vedere le nostre traiettorie fisiche attraverso questi edifici come storie o narrazioni virtuali, come percorsi dinamici e paradigmi narrativi che noi visitatori dobbiamo eseguire e portare a compimento con il nostro corpo e i nostri spostamenti. Tuttavia nel Bonaventure si rinviene un’intensificazione dialettica di questo processo: mi sembra che le scale mobili e gli ascensori d’ora in avanti sostituiscano il movimento, ma anche e soprattutto designino sé stessi quali nuovi segni riflessivi ed emblemi del movimento propriamente detto (circostanza che diverrà evidente quando giungerò a porre la questione di cosa resti in questo edificio delle precedenti forme di movimento, specialmente del camminare). Qui la passeggiata narrativa è stata sottolineata, simbolizzata, reificata e sostituita da una macchina trasportatrice, la quale diventa il significante allegorico della passeggiata di una volta, che ormai non ci è più permesso di condurre per conto nostro. E ciò costituisce un’intensificazione dialettica dell’autoreferenzialità di tutta la cultura moderna, che tende a riferirsi a sé stessa e a designare come suo contenuto la propria produzione culturale.

Mi ritrovo più perplesso allorché si tratta di comunicare la cosa in sé, l’esperienza dello spazio che si fa quando da tali dispositivi allegorici si scende nel vestibolo, nell’atrio, con la sua grande colonna centrale circondata da un lago in miniatura, il tutto collocato tra le quattro torri residenziali simmetriche con i loro ascensori, e cinta da gallerie aggettanti sormontate da una specie di copertura tipo serra al sesto piano. Sono tentato di dire che questo spazio rende impossibile adoperare il linguaggio del volume o dei volumi, giacché non è possibile afferrarli. Anzi, i festoni pendenti che invadono questo spazio vuoto distraggono sistematicamente e deliberatamente da qualsiasi ipotesi di forma; mentre un’attività incessante dà l’impressione che qui il vuoto sia assolutamente stipato, che sia un elemento dentro il quale noi stessi siamo immersi, privati di quella distanza che una volta consentiva la percezione della prospettiva o del volume. Siamo dentro questo iperspazio fino agli occhi e con tutto il corpo e, se prima poteva sembrare che quella cancellazione della profondità di cui ho parlato a proposito della pittura e della letteratura postmoderne fosse difficilmente realizzabile in architettura, forse ora questa immersione sconcertante potrà fungere da equivalente formale nel nuovo mezzo espressivo.

Eppure anche scale e ascensori in questo contesto si configurano come opposti dialettici, e vorrei suggerire che il magnifico movimento della cabina dell’ascensore costituisce inoltre una compensazione dialettica allo spazio pieno dell’atrio. Esso offre la possibilità di un’esperienza spaziale notevolmente diversa ma complementare, quella di essere come sparati velocemente fuori dal soffitto lungo una delle quattro torri simmetriche, con il referente, la stessa Los Angeles, che si stende davanti a noi, con un effetto mozzafiato e addirittura allarmante. Ma anche questo movimento verticale è frenato: l’ascensore conduce a una di quelle sale da cocktail rotanti, in cui, stando seduti, veniamo di nuovo fatti girare passivamente mentre ci viene offerto lo spettacolo contemplativo della città, trasformata ora nelle immagini di sé stessa dalle vetrate attraverso cui la si ammira.

Si può concludere tornando allo spazio centrale del vestibolo (osservando di sfuggita che le camere dell’hotel sono visibilmente collocate ai margini: i corridoi dei settori residenziali hanno il soffitto basso e sono bui, funzionali in modo assai deprimente; mentre si può dedurre che le camere sono di pessimo gusto). La discesa risulta alquanto drammatica: si precipitata nuovamente attraverso il tetto fino al lago in miniatura. Quel che accade quando si arriva giù è qualcosa di ancora diverso, che si può descrivere soltanto come una confusione schiacciante, come una specie di rivincita che questo spazio si prende su coloro che tentano ancora di attraversarlo a piedi. Data l’assoluta simmetria delle quattro torri, è pressoché impossibile non perdere l’orientamento in questo vestibolo; recentemente sono stati aggiunti codici cromatici e segnali direzionali, nel tentativo pietoso e rivelatore, ancorché disperato, di ripristinare le coordinate dello spazio di una volta. Il risultato pratico più spettacolare di questa mutazione spaziale ritengo sia il noto dilemma dei negozianti nelle gallerie: sin dall’inaugurazione dell’hotel nel 1977, è stato subito evidente che nessuno sarebbe mai riuscito a trovare questi negozi e, quando anche avesse localizzato la boutique giusta, molto probabilmente questa fortuna non si sarebbe presentata una seconda volta; di conseguenza i gestori sono disperati e gli articoli in vendita hanno prezzi da liquidazione. Se si rammenta che Portman è un uomo d’affari oltre che un architetto e un immobiliarista miliardario, un artista che è insieme e nello stesso tempo un vero capitalista, non si può non avvertire che anche qui è in atto una sorta di “ritorno del represso”.

Arrivo finalmente al punto principale della mia analisi: quest’ultima mutazione dello spazio – dell’iperspazio postmoderno – è riuscita infine a trascendere le capacità di orientarsi del singolo corpo umano, di organizzare percettivamente l’ambiente circostante e, cognitivamente, di tracciare una mappa della propria posizione in un mondo esterno cartografabile. Si può dire ormai che questo allarmante punto di separazione tra il corpo e l’ambiente edificato – che sta all’iniziale disorientamento del modernismo come la velocità dell’astronave a quella dell’automobile – possa a sua volta configurarsi quale simbolo e analogo di quel dilemma ancor più spinoso che è l’incapacità delle nostre menti, almeno al presente, di tracciare una mappa della grande rete comunicazionale, globale, multinazionale e decentrata, nella quale ci troviamo impigliati in quanto soggetti individuali.

Tuttavia, siccome mi sta a cuore che lo spazio di Portman non venga percepito come qualcosa di eccezionale, oppure di apparentemente marginale o confinato al tempo libero, sul genere di Disneyland, concluderò accostando a questo spazio piacevole e divertente (ancorché sconcertante) per il tempo libero il suo analogo in un ambito molto diverso, ossia lo spazio della guerra postmoderna, così come lo evoca in particolare Michael Herr in Dispacci, il suo grande libro sull’esperienza del Vietnam. Le straordinarie innovazioni linguistiche di quest’opera possono comunque essere considerate postmoderne, per l’eclettismo con il quale il suo linguaggio fonde in maniera impersonale un’intera serie di idioletti collettivi contemporanei, specialmente la lingua del rock e quella dei neri; sono però dei problemi di contenuto a dettare tale fusione. Questa prima, terribile guerra postmodernista non può essere raccontata secondo nessuno dei paradigmi tradizionali del romanzo o del film di guerra; anzi, tra i temi principali del libro c’è proprio la disgregazione di tutti i precedenti paradigmi narrativi, insieme a quella di ogni lingua condivisa mediante la quale un reduce potrebbe trasmettere tale esperienza, e si potrebbe dire che tale disgregazione inauguri lo spazio di una riflessività totalmente nuova. La descrizione che Benjamin dà di Baudelaire e dell’emergere del modernismo da una nuova esperienza della tecnologia della città, che trascende tutte le precedenti abitudini della percezione corporea, risulta al contempo singolarmente pertinente e singolarmente antiquata alla luce di questo nuovo balzo in avanti, pressoché inimmaginabile, nell’alienazione tecnologica:

Era abbonato a vivere come bersaglio mobile, un autentico figlio della guerra, perché, tranne quelle rare volte che si finiva bloccati o inguaiati da qualche parte, il sistema era congegnato in modo da tenerti mobile, se era questo che volevi. Come tecnica per restare vivi sembrava piuttosto sensata, sempre che, naturalmente, tu fossi lì tanto per cominciare e volessi vedere da vicino; all’inizio la cosa filava via liscia e dritta, ma andando avanti formava un corso, perché più ti muovevi, più vedevi, più vedevi, più cose rischiavi oltre alla morte e alle mutilazioni, e più rischiavi tutto questo e più un giorno avresti dovuto lasciarlo andare in quanto “sopravvissuto”. Alcuni di noi si mossero come pazzi da un punto all’altro della guerra finché non fummo più capaci di vedere neppure da che parte ci stava portando quella corsa, soltanto la guerra, ovunque in superficie, con occasionali, impreviste penetrazioni. Fintantoché potevamo utilizzare gli elicotteri come taxi ci voleva uno sfinimento totale o una depressione al limite del collasso nervoso o una dozzina di pipe d’oppio per tenerci anche solo apparentemente tranquilli, e ancora, sotto la pelle, eravamo in preda a una smania come se qualcosa ci stesse alle calcagna, ah ah, La vida loca. Nei mesi successivi al mio ritorno le centinaia di elicotteri su cui avevo volato cominciarono a unirsi fino a formare un metaelicottero collettivo, e nella mia mente quella era la cosa sessualmente più eccitante che ci fosse; salvatore-distruttore, procacciatore-dissipatore, mano destra-mano sinistra, svelto, scorrevole, abile e umano; acciaio rovente, grasso, cinghie di tela impregnate di giungla, sudore che rinfresca e di nuovo riscalda, il rock and roll delle cassette in un orecchio e il fuoco della mitragliatrice del portello nell’altro, carburante, calore, vitalità e morte, e la morte stessa, non proprio un’intrusa.30

In questa nuova macchina, che non rappresenta il movimento come le precedenti macchine del modernismo, la locomotiva o l’aeroplano, ma che può essere soltanto rappresentata in movimento, si concentra un po’ del mistero del nuovo spazio postmodernista.

VI

La concezione del postmodernismo qui delineata ha un carattere storico piuttosto che meramente stilistico. Non insisterò mai abbastanza sulla distinzione radicale tra una prospettiva secondo la quale il postmoderno è uno stile (opzionale) tra i tanti altri a disposizione, e un’ottica che si sforza di intenderlo come la dominante culturale della logica del tardo capitalismo. In effetti i due orientamenti generano due modi molto diversi di concettualizzare il fenomeno nel suo insieme: da un lato i giudizi morali (ed è indifferente che siano positivi o negativi), dall’altro un tentativo autenticamente dialettico di pensare il nostro presente dentro la Storia.

Di una certa valutazione morale positiva del postmodernismo c’è poco da dire: la celebrazione compiacente e camp (ma delirante) di questo nuovo mondo estetico (compresa la sua dimensione socioeconomica, salutata con pari entusiasmo con lo slogan della «società postindustriale») è sicuramente inaccettabile, malgrado sia un po’ meno evidente quanto le fantasie correnti sulla natura salvifica dell’alta tecnologia, dai chip ai robot – fantasie coltivate non soltanto dai governi in difficoltà, sia di sinistra che di destra, ma anche da molti intellettuali –, si accordino nella sostanza con più volgari apologie del postmodernismo.

Tuttavia in tal caso coerenza vuole che si rifiutino le condanne moralistiche del postmoderno e della sua essenziale banalità, se le si contrappone alla “profonda serietà” utopica dei grandi movimenti del modernismo: anche questi sono giudizi che si ritrovano sia nella sinistra che nella destra radicale. E non c’è dubbio che la logica del simulacro, con la sua trasformazione di realtà precedenti in immagini televisive, non si limita a riprodurre semplicemente la logica del tardo capitalismo: la avvalora e la intensifica. Nel frattempo, i gruppi politici che tentano attivamente di intervenire nella storia e di modificarne il corso altrimenti passivo (con l’intento vuoi di incanalarla in direzione di una trasformazione socialista della società, vuoi di deviarla verso la restaurazione regressiva di un qualche passato illusorio più semplice) non possono non deplorare e trovare riprovevole una forma culturale di dipendenza dall’immagine, la quale, con la trasformazione del passato in una serie di miraggi visivi, di stereotipi o di testi, abolisce effettivamente ogni senso del futuro e del progetto collettivo. In tal modo si abbandona il pensiero di un cambiamento futuro in favore di fantasie di catastrofe assoluta e inspiegabili cataclismi, dalle visioni del “terrorismo” a livello sociale a quelle del cancro sul piano personale. Ma se il postmodernismo è un fenomeno storico, allora il tentativo di concettualizzarlo in termini di morale o di giudizi moraleggianti dev’essere in ultima analisi considerato un errore categoriale. Tutto questo si fa più evidente se si prende in esame la posizione del critico della cultura o del moralista: come tutti noi, quest’ultimo è ormai così profondamente immerso nello spazio postmodernista, così profondamente pervaso e contagiato dalle sue nuove categorie culturali da non potersi più permettere il lusso della critica dell’ideologia vecchio stile, della denuncia morale indignata.

La distinzione che propongo qui conosce una forma canonica nella differenziazione hegeliana tra il pensiero della morale individuale o moralizzante (Moralität) e l’ambito assai diverso di valori e pratiche sociali collettive (Sittlichkeit)31. Ma essa trova la sua forma definitiva nell’esposizione marxiana della dialettica materialista, soprattutto in quelle pagine classiche del Manifesto che impartiscono la dura lezione di un modo più autenticamente dialettico di pensare lo sviluppo e il cambiamento storici. Tema della lezione è naturalmente lo sviluppo storico dello stesso capitalismo e il dispiegarsi di una cultura specificamente borghese. In un passo molto noto, Marx ci esorta a fare l’impossibile, ossia a pensare questo sviluppo negativamente e positivamente allo stesso tempo; ad acquisire, in altre parole, un modo di pensare in grado di cogliere, all’interno di un singolo pensiero e senza attenuare la forza di ciascuno dei due giudizi, le caratteristiche manifestamente rovinose del capitalismo insieme con il suo straordinario dinamismo liberatorio. Dobbiamo, in qualche modo, portarci con il pensiero al punto da riuscire a comprendere che il capitalismo è al tempo stesso la cosa migliore che mai sia capitata alla razza umana, e la peggiore. La caduta da questo austero imperativo dialettico nella più comoda condizione di assumere posizioni di natura morale è inveterata e fin troppo umana eppure l’urgenza dell’argomento esige che per lo meno si compia uno sforzo per pensare dialetticamente l’evoluzione culturale del tardo capitalismo, a un tempo come catastrofe e come progresso.

Uno sforzo del genere suscita degli interrogativi immediati, con i quali concluderò queste riflessioni. Si può davvero individuare un qualche “momento di verità” dentro i più evidenti “momenti di falsità” della cultura postmoderna? E, ammesso che lo si possa fare, non c’è al fondo qualcosa di paralizzante nella visione dialettica dello sviluppo storico proposta sopra? Non tende a smobilitarci e a consegnarci alla passività e all’impotenza, annullando sistematicamente le possibilità di azione nella nebbia impenetrabile dell’inevitabilità storica? Converrà discutere questi problemi (collegati) nei termini delle attuali possibilità di realizzare un’efficace politica culturale contemporanea e di costruire un’autentica cultura politica.

Affrontare il problema in tal modo significa naturalmente sollevare immediatamente la questione più fondamentale del destino della cultura in generale, nonché della funzione della cultura in termini specifici, come livello o istanza sociale, nell’era postmoderna. Tutta l’analisi precedente suggerisce che ciò che ho chiamato postmodernismo non si può disgiungere – né si può pensare senza – dall’ipotesi di una qualche mutazione di fondo della sfera culturale nel mondo del tardo capitalismo, la quale implica un’importante modificazione della sua funzione sociale. Le vecchie riflessioni sullo spazio, sulla funzione o sulla sfera della cultura (in particolare il classico saggio di Herbert Marcuse Il carattere affermativo della cultura) hanno insistito su quella che un linguaggio diverso chiamerebbe la “semiautonomia” dell’ambito culturale: la sua esistenza fantasmatica eppure utopica, nel bene e nel male, al di sopra del mondo pratico dell’esistente, del quale rimanda l’immagine riflessa in forme che variano dalle legittimazioni di una lusinghiera somiglianza alle accuse contestatorie della satira critica o del tormento utopico.

Ora bisogna chiedersi se non sia precisamente questa semiautonomia della sfera culturale a essere stata distrutta dalla logica del tardo capitalismo. Ma sostenere che oggi la cultura non è più dotata della relativa autonomia di cui godeva un tempo, come uno dei livelli tra gli altri, nelle prime fasi del capitalismo (per non parlare delle società precapitaliste), non implica necessariamente dichiararne la scomparsa o l’estinzione. Al contrario, occorre spingersi oltre e affermare che la dissoluzione di una sfera autonoma della cultura va immaginata piuttosto in termini di esplosione: un’immensa espansione della cultura nell’intero ambito sociale, al punto che si può dire che tutto nella nostra vita sociale – dal valore economico al potere statale fino alle pratiche e alla stessa struttura della psiche – sia diventato “culturale” in un senso originale finora mai teorizzato. Nella sostanza questa affermazione è assolutamente coerente con la precedente diagnosi di una società dell’immagine o del simulacro e di una trasformazione del “reale” in tanti pseudoeventi.

Essa suggerisce inoltre che alcune delle nostre più amate e venerande idee radicali sulla natura della politica culturale possono rivelarsi obsolete. Per quanto distinte possano essere state tali concezioni – che vanno dagli slogan della negatività, dell’opposizione e della sovversione alla critica e alla riflessività –, condividevano tutte un unico presupposto, fondamentalmente spaziale, che si può riassumere nella formula parimenti veneranda della “distanza critica”. Nessuna attuale teoria di sinistra relativa alla politica culturale è stata in grado di fare a meno della nozione di una sia pur minima distanza estetica, della possibilità di collocare l’atto culturale fuori dell’Essere enorme del capitale, e da qui attaccare quest’ultimo. Il motivo di fondo delle pagine precedenti induce tuttavia a pensare che la distanza in generale (e in particolare la “distanza critica”) sia stata proprio abolita nel nuovo spazio del postmodernismo. Siamo a tal punto immersi nei suoi volumi stipati e saturi che i nostri corpi ormai postmoderni sono privati delle coordinate spaziali e in pratica (per non dire poi in teoria) incapaci di distanziamento; per contro, è già stato rilevato come la nuova prodigiosa espansione del capitale multinazionale finisca con il penetrare e colonizzare quelle stesse enclave precapitaliste (la Natura e l’Inconscio) che offrivano all’efficacia della critica punti di appoggio extraterritoriali e archimedici. Per questa ragione, nella sinistra risulta onnipresente il linguaggio eufemistico della cooptazione, anche se esso parrebbe ormai offrire una base teorica del tutto inadeguata per capire una situazione in cui noi tutti, in un modo o in un altro, sentiamo oscuramente che non soltanto le forme controculturali di resistenza o di guerriglia culturale puntuali o locali, ma persino interventi esplicitamente politici come quelli della band dei Clash vengono tutti in qualche modo segretamente disarmati e riassorbiti da un sistema di cui essi stessi possono a buon diritto essere considerati parte, dato che non possono distanziarsene.

Occorre adesso affermare che il “momento di verità” del postmodernismo è esattamente questo nuovo spazio globale, straordinariamente demoralizzante e oltremodo deprimente. Quello che è stato designato come “sublime” postmodernista rappresenta soltanto il momento in cui tale contenuto si è fatto più esplicito, si è maggiormente avvicinato alla superficie della coscienza, come un nuovo e coerente tipo di spazio, nonostante siano tuttora in atto una certa dissimulazione e un certo inganno di carattere figurativo, soprattutto nelle tematiche high-tech nelle quali viene ancora rappresentato e articolato il nuovo contenuto spaziale. Eppure, le caratteristiche iniziali del postmoderno che ho enumerato sopra possono ora essere viste tutte quali aspetti parziali (quantunque costitutivi) del medesimo oggetto spaziale generale.

Il ragionamento a difesa di una certa autenticità di queste produzioni, altrimenti patentemente ideologiche, dipende dall’affermazione precedente secondo la quale quello che ho chiamato spazio postmoderno (o multinazionale) non è soltanto un’ideologia o una fantasia culturale, ma possiede una realtà autenticamente storica (e socioeconomica) in quanto terza grande fase originale di espansione del capitalismo nel mondo (dopo le precedenti espansioni del mercato nazionale e del vecchio sistema imperialista, che hanno avuto ciascuna la propria specificità culturale e hanno generato nuovi tipi di spazio adeguati alle loro dinamiche). I tentativi distorti e irriflessi della produzione culturale più recente di esplorare e di esprimere questo nuovo spazio devono essere anche considerati, alla loro maniera, come altrettanti approcci alla rappresentazione della (nuova) realtà (per ricorrere a un linguaggio più antiquato). Per quanto paradossali possano sembrare, i termini potrebbero dunque essere letti, seguendo un’opzione interpretativa classica, come nuove forme peculiari di realismo (o almeno di mimesi della realtà) e nello stesso tempo parimenti analizzati come altrettanti tentativi di distrarci e di sviarci da quella stessa realtà o di mascherarne le contraddizioni per risolverle sotto le spoglie di varie mistificazioni formali.

Nondimeno, per quanto concerne la realtà stessa – lo spazio originale, non ancora teorizzato, di un nuovo “sistema-mondo” del tardo capitalismo o capitalismo multinazionale, spazio i cui aspetti negativi o rovinosi sono fin troppo evidenti –, la dialettica richiede che si proceda ugualmente a una valutazione positiva o “progressiva”, come ha fatto Marx per il mercato mondiale quale orizzonte delle economie nazionali, o Lenin per la vecchia rete globale imperialista. Né per Marx né per Lenin il socialismo comportava un ritorno a sistemi di organizzazione sociale più limitati (e quindi meno repressivi e complessi); anzi, le dimensioni raggiunte dal capitale all’epoca venivano interpretate come la promessa, la cornice e la precondizione del compimento di un socialismo nuovo e più complesso. E questo non vale a maggior ragione per lo spazio sempre più globale e totalizzante del nuovo sistema-mondo, che esige la presenza e l’elaborazione di un internazionalismo di tipo radicalmente nuovo? A sostegno di questa posizione si può addurre il disastroso riallineamento della rivoluzione socialista con i precedenti nazionalismi (non soltanto nel Sudest asiatico), i cui esiti hanno giocoforza indotto la sinistra a una seria riflessione.

Se le cose stanno così, diviene evidente almeno una possibile forma di nuova politica culturale radicale: con un’ultima clausola estetica che va rilevata velocemente. I produttori e i teorici culturali della sinistra – in particolare quelli formatisi sulle tradizioni culturali borghesi di ascendenza romantica, che valorizzano quindi le forme spontanee, istintive o inconsce del “genio”, anche per delle ovvie ragioni storiche come lo zˇdanovismo e le tristi conseguenze degli interventi politici e di partito sulle arti – spesso per reazione si sono lasciati intimidire eccessivamente dal rifiuto, proprio dell’estetica borghese e soprattutto del moderno avanzato, di una delle funzioni più antiche dell’arte: quella pedagogica e didattica. Ma tale funzione istruttiva dell’arte è sempre stata sottolineata nell’epoca classica (sebbene assumesse principalmente la forma di lezione morale), mentre l’opera di Brecht, straordinaria e ancora non perfettamente compresa, riafferma, in maniera nuova e formalmente originale per il moderno propriamente detto, una nuova e complessa concezione del rapporto tra cultura e pedagogia. Analogamente, il modello culturale che intendo proporre mette in primo piano le dimensioni cognitive e pedagogiche dell’arte e della cultura politiche, dimensioni rimarcate secondo criteri assai diversi da Lukács e da Brecht (rispettivamente, per i momenti distinti del realismo e del modernismo).

Non si può comunque tornare a delle pratiche estetiche elaborate sulla base di situazioni e dilemmi storici che non sono più nostri. Inoltre, la concezione dello spazio che ho sviluppato fin qui lascia intendere che un modello di cultura politica adeguato alla nostra situazione dovrà necessariamente avere quale fondamentale interesse organizzativo le questioni di ordine spaziale. Pertanto definirò provvisoriamente l’estetica di questa nuova (e ipotetica) forma culturale un’estetica della cartografia cognitiva.

Nel classico Limmagine della città, Kevin Lynch ci insegna che la città alienata è innanzi tutto uno spazio in cui le persone non sono in grado di tracciare una mappa (mentale) sia della propria posizione sia della totalità urbana: griglie come quelle di Jersey City, che non possiede nessuno dei segnali tradizionali (monumenti, intersezioni, confini naturali, prospettive costruite), sono gli esempi più evidenti. La disalienazione nella città tradizionale implica dunque la riconquista pratica di un senso del luogo e la costruzione o ricostruzione di un insieme articolato che si possa tenere a memoria, su cui il soggetto individuale possa disegnare e ridisegnare mappe lungo le tappe di traiettorie mobili, alternative. L’opera di Lynch è limitata dalla deliberata restrizione della sua materia ai problemi della forma della città come tale; eppure diventa straordinariamente suggestiva se proiettata sui più ampi spazi nazionali e globali cui ho accennato. Né si deve supporre in maniera avventata che il suo modello – laddove suscita chiaramente questioni cruciali sulla rappresentazione – sia in qualche modo facilmente inficiato dalle convenzionali critiche poststrutturaliste dell’”ideologia della rappresentazione”, della mimesi. La mappa cognitiva non è esattamente mimetica, in quel senso tradizionale; anzi, le questioni teoriche che pone consentono di rinnovare l’analisi della rappresentazione a un livello più alto e decisamente più complesso.

C’è, tra l’altro, un’interessantissima convergenza tra i problemi empirici studiati da Lynch in termini di spazio urbano e la grande ridefinizione althusseriana (e lacaniana) dell’ideologia in quanto «“rappresentazione” del rapporto immaginario degli individui con le proprie condizioni di esistenza reali»32. Sicuramente è proprio questo che è chiamata a fare la mappa cognitiva, nel quadro più limitato della vita quotidiana nella città fisica: rendere possibile al soggetto individuale una rappresentazione situazionale di quella totalità più ampia, propriamente irrappresentabile, che è l’insieme delle strutture sociali nel loro complesso.

L’opera di Lynch suggerisce però un’ulteriore linea di sviluppo, in quanto la stessa cartografia ne costituisce l’istanza mediatrice principale. Una ricognizione della storia di questa scienza (che è anche un’arte) mostra che, di fatto, il modello di Lynch ancora non corrisponde realmente a ciò che sarà la cartografia. Piuttosto, i soggetti di Lynch sono chiaramente implicati in operazioni precartografiche, i cui risultati sono tradizionalmente descritti come itinerari invece che come mappe: diagrammi ancora organizzati in funzione del soggetto centrato o del viaggio esistenziale, lungo il quale sono segnate le varie caratteristiche significative, oasi, catene montuose, fiumi, monumenti e simili. La forma più altamente sviluppata di tali diagrammi è l’itinerario nautico, la carta nautica o portolano, ove sono annotati gli aspetti della costa a uso dei navigatori del Mediterraneo, che raramente si avventurano in mare aperto.

La bussola introduce improvvisamente una nuova dimensione nelle carte nautiche, una dimensione che trasformerà completamente la problematica dell’itinerario, e che permette di porre in maniera molto più complessa il problema di una cartografia autenticamente cognitiva. Infatti i nuovi strumenti – bussola, sestante e teodolite – non corrispondono semplicemente a nuovi problemi geografici e di navigazione (la difficoltà di determinare la longitudine, sulla superficie curva del pianeta, rispetto alla questione più semplice della latitudine, che i navigatori europei possono ancora determinare empiricamente con l’ispezione visiva delle coste africane); essi introducono anche una coordinata del tutto nuova: il rapporto con la totalità, in quanto mediata dalle stelle e da nuove operazioni come la triangolazione. A questo punto la cartografia cognitiva, in senso più ampio, esige la coordinazione di dati esistenziali (la posizione empirica del soggetto) con concezioni non vissute, astratte, della totalità geografica.

Infine, con il primo mappamondo (1490) e con l’invenzione, all’incirca nello stesso periodo, della proiezione di Mercatore, compare una terza ulteriore dimensione della cartografia, che implica d’un tratto ciò che oggi si chiamerebbe la natura dei codici di rappresentazione, le strutture intrinseche dei vari media, l’intervento, all’interno di concezioni mimetiche della cartografia più ingenue, della nuovissima questione fondamentale dei linguaggi della rappresentazione, e, in particolare, il dilemma irresolubile (quasi heisenberghiano) del trasferimento di uno spazio curvo su carte piane. A questo punto diventa chiaro che non ci possono essere mappe veritiere (e al contempo diviene altrettanto chiaro che invece può esserci un progresso scientifico o, meglio ancora, un avanzamento dialettico, nei diversi momenti storici della produzione di mappe).

Traducendo tutto questo nella problematica molto diversa della definizione althusseriana di ideologia, vorrei precisare due punti. Il primo è che il concetto althusseriano consente ora di ripensare tali questioni specialistiche, geografiche e cartografiche, in termini di spazio sociale, per esempio di classe sociale, di contesto nazionale o internazionale, o dei modi in cui noi tutti necessariamente costruiamo anche cognitivamente mappe del nostro singolo rapporto sociale con le realtà di classe locali, nazionali e internazionali. Ma riformulare il problema in questa maniera significa anche scontrarsi duramente contro quelle medesime difficoltà della cartografia sollevate in modo intenso e originale dallo spazio globale del momento postmodernista o multinazionale qui in discussione. Non si tratta di questioni meramente teoriche: esse hanno infatti conseguenze politiche e pratiche urgenti, come risulta evidente dalla sensazione comune dei soggetti del Primo Mondo, ossia di abitare davvero esistenzialmente (o “empiricamente”) in una “società postindustriale”, dalla quale è scomparsa la produzione tradizionale e in cui le classi sociali di tipo classico non esistono più; convinzione che ha effetti immediati sulla prassi politica.

La seconda osservazione da fare è che un ritorno ai fondamenti lacaniani della teoria althusseriana può offrire alcuni utili e suggestivi spunti metodologici. La formulazione di Althusser riprende la precedente distinzione marxiana, divenuta poi classica, tra scienza e ideologia, che ancor oggi non cessa di avere un certo valore. L’esistenziale – il collocarsi del soggetto individuale, l’esperienza della vita quotidiana, il “punto di vista” monadico sul mondo al quale siamo necessariamente limitati in quanto soggetti biologici – nella formula di Althusser è implicitamente opposto all’ambito della conoscenza astratta, ambito che, come ricorda Lacan, non è mai posto o attualizzato da alcun soggetto concreto, bensì da quel vuoto strutturale denominato le sujet suppo savoir (il soggetto supposto sapere), un luogo-soggetto della conoscenza. Con ciò non si afferma che noi non possiamo conoscere il mondo e la sua totalità in qualche maniera astratta o “scientifica”. La «scienza» marxiana prevede proprio questo: un modo di conoscere e concettualizzare il mondo in astratto, nel senso in cui, per esempio, il notevole libro di Mandel offre una conoscenza ricca ed elaborata di tale sistema globale, che qui non ho mai dichiarato inconoscibile ma soltanto irrappresentabile, questione affatto diversa. In altre parole, la formula althusseriana designa uno scarto, una frattura, tra l’esperienza esistenziale e la conoscenza scientifica. L’ideologia riveste allora la funzione di inventare in qualche misura una modalità di articolazione tra quelle due dimensioni distinte. In un’ottica storicista, a questa definizione si potrebbe aggiungere che tale coordinazione, la produzione di ideologie attive e vive, è diversa a seconda delle varie situazioni storiche e, soprattutto, che possono darsi situazioni storiche in cui quella coordinazione è del tutto impossibile, e questa sembrerebbe essere precisamente la nostra situazione nella crisi attuale.

Tuttavia il sistema lacaniano è triplice, e non dualistico. All’opposizione marxiano-althusseriana di ideologia e scienza corrispondono solamente due delle funzioni tripartite lacaniane: rispettivamente l’Immaginario e il Reale. La digressione sulla cartografia, con la scoperta finale di una dialettica propriamente rappresentazionale dei codici e delle capacità dei linguaggi individuali o dei media, ci ricorda che finora è stata omessa una dimensione, quella del Simbolico lacaniano.

Un’estetica della cartografia cognitiva – una cultura pedagogica e politica che tenti di dotare il soggetto individuale di una nuova, accresciuta consapevolezza della sua posizione nel sistema globale – dovrà necessariamente rispettare questa dialettica della rappresentazione ormai enormemente complessa, nonché inventare forme totalmente nuove per renderle giustizia. Questa non è dunque, chiaramente, un’esortazione al ritorno a un certo macchinismo anteriore, a un vecchio e più trasparente spazio nazionale, o a un’enclave prospettica o mimetica più tradizionale e rassicurante: la nuova arte politica (ammesso che sia davvero possibile) dovrà attenersi alla verità del postmodernismo, vale a dire al suo oggetto fondamentale – lo spazio mondiale del capitalismo multinazionale – e allo stesso tempo dovrà progredire verso un nuovo modo, per ora inconcepibile, di rappresentarlo, in cui si possa ricominciare a intendere la nostra posizione in quanto soggetti individuali e collettivi e a riconquistare una capacità di agire e lottare, che al presente è neutralizzata dalla nostra confusione spaziale e sociale. La forma politica del postmodernismo, se mai ce n’è una, avrà quale propria vocazione l’invenzione e la proiezione di una cartografia cognitiva globale, su scala sociale e spaziale.

11 Cfr. R. Venturi — D. Scott Brown — S. Izenour, Learning from Las Vegas, Cambridge (MA), MIT Press, 1972 [Imparando da Las Vegas, trad. di M. Sabini, Venezia, Cluva, 1985].

12 L’originalità del pionieristico libro di Charles Jencks, The Language of Post-Modern Architecture (1977), sta nella combinazione pressoché dialettica di architettura postmoderna e un certo tipo di semiotica, ciascuna delle quali è chiamata a giustificare l’esistenza dell’altra. La semiotica risulta adatta quale criterio di analisi della nuova architettura in virtù del populismo di quest’ultima, la quale manda segni e messaggi a un “pubblico lettore” spaziale, diversamente dalla monumentalità del moderno avanzato. Parimenti, in tal modo si convalida l’architettura nuova, nella misura in cui è accessibile all’analisi semiotica, il che prova che si tratta di un oggetto essenzialmente estetico (a differenza delle costruzioni transestetiche del moderno avanzato). Qui pertanto l’estetica corrobora un’ideologia della comunicazione (riguardo alla quale dirò di più nel capitolo conclusivo), e viceversa. Oltre ai tanti validi contributi di Jencks, cfr. anche H. Klotz, Moderne und Postmoderne. Architektur der Gegenwart 1960-1980, Braunschweig, Wiesbaden, Vieweg & Sohn, 1984 (trad. ingl. di R. Donnell, The History of Postmodern Architecture, Cambridge (MA), MIT Press, 1988); P. Portoghesi, Dopo larchitettura moderna, Roma, Bari, Laterza, 1980.

13 M. Heidegger, Lorigine dellopera darte, trad. it. di P. Chiodi, in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp. 19 e 21.

14 R. Ceserani, “Quelle scarpe di Andy Warhol”, in «il manifesto», 1° giugno 1989.

15 R. Stang, Edvard Munch: The Man and his Art, New York, Abbeville Press, 1979, p. 90.

16 È il momento di affrontare un notevole problema di traduzione e dire perché, secondo me, l’idea della spazializzazione postmoderna non è incompatibile con l’influente attribuzione, da parte di Joseph Frank, di una «forma essenzialmente spaziale» al moderno avanzato. A posteriori, quella che descrive Frank è la vocazione dell’opera moderna a inventare una specie di mnemotecnica spaziale, che ricorda Larte della memoria di Frances Yates, una costruzione “totalizzante” in senso stretto dell’opera stigmatizzata, autonoma, in virtù della quale il particolare in un certo modo include una serie di ritenzioni e protensioni che collegano la frase o il dettaglio all’Idea della stessa forma totale. Adorno cita un commento su Wagner del direttore d’orchestra Alfred Lorenz precisamente in questo senso: «Quando si padroneggia completamente una grande opera in tutti i suoi dettagli, a volte si sperimentano dei momenti nei quali la coscienza del tempo svanisce di colpo e l’intera opera sembra essere per così dire “spaziale”, cioè tutto è presente alla mente simultaneamente e con precisione». Tuttavia questa spazialità mnemonica non potrebbe mai contrassegnare i testi postmoderni, che sfuggono alla “totalità” quasi per definizione. La forma spaziale modernista di Frank è dunque quella della sineddoche, mentre non serve nemmeno come inizio evocare il termine metonimia per l’urbanizzazione universale del postmodernismo, per non parlare del suo nominalismo del qui e ora.

17 Per altre osservazioni sugli anni Cinquanta, cfr. il capitolo 9.

18 Cfr. anche “Art Déco”, nel mio Signatures of the Visible, New York, Routledge, 1990 [Firme del visibile. Hitchcock, Kubrick, Antonioni, a cura di G. Pedullà, trad. di D. Turco, Roma, Donzelli, 2003].

19 “Ragtime”, in «American Review», VIII, 1974, n. 20, pp. 1-20.

20 L. Hutcheon, A Poetics of Postmodernism, New York, Routledge, 1988, pp. 61-62.

21 Cfr. J.-P. Sartre, “LÉtranger de Camus”, in Situations II, Parigi, Gallimard, 1948 [“Spiegazione dell’Étranger di Camus”, in Che cosè la letteratura?, trad. di L. Arano-Cogliati et al., Milano, Il Saggiatore, 1966].

22 Il rimando fondamentale, nel quale Lacan esamina Schreber, è “D’une Question préliminaire à tout traitment possible de la psychose”, in Écrits, Parigi, Seuil, 1966 [“Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti, a cura di G. Contri, Torino, Einaudi, 1974, pp. 527-579]. La maggior parte di noi ha recepito questa visione classica della psicosi per il tramite dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari.

23 Cfr. il mio “Imaginary and Symbolic in Lacan”, in The Ideologies of Theory, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1988, vol. I, pp. 75-115.

24 M. Séchéhaye, Journal dune schizophrène, Parigi, Presses Universitaires de France, 1950 [Diario di una schizofrenica, presentazione di C.L. Musatti, trad. di C. Bellingardi, Firenze, Giunti Barbera, 1980, p. 9].

25 B. Perelman, in Primer, Berkeley, This Press, 1981.

26 J.-P. Sartre, Che cosè la letteratura?, cit., p. 95.

27 E. Mandel, Der Spätkapitalismus, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1973 [Late Capitalism, trad. ingl. di J. De Bres, Londra, Verso, 1978, p. 118].

28 Su questi motivi in Le Corbusier, si veda in particolare G. Kähler, Architektur als Symbolverfall: Das Dampfermotiv in der Baukunst, Braunschweig, Vieweg, 1981.

29 «Dire che una struttura di questo tipo “si volge di spalle” è indubbiamente un eufemismo, mentre parlare del suo carattere “popolare” significa non intenderne la segregazione sistematica rispetto alla grande città ispano-asiatica che sta all’esterno (le cui folle preferiscono lo spazio aperto della vecchia Plaza). Anzi, equivale in pratica a sottoscrivere la somma illusione che cerca di trasmettere Portman, cioè che dentro gli spazi ricercati dei suoi supervestiboli egli abbia ricreato il tessuto popolare autentico della vita cittadina. Di fatto, Portman ha soltanto costruito un vasto vivarium per le classi medio-alte, protetto da sistemi di sicurezza straordinariamente complessi. Quasi tutti i nuovi centri del nucleo urbano potrebbero benissimo essere stati costruiti sulla terza luna di Giove. La loro logica di fondo è quella di una colonia spaziale claustrofobica che tenti dentro di sé di miniaturizzare la natura. Così il Bonaventure ricostruisce una nostalgica California meridionale di gelatina: aranci, fontane, viti in fiore e aria pulita. Fuori, in una realtà avvelenata dallo smog, le ampie superfici a specchio riflettono e allontanano non solo lo squallore della grande città, ma anche la sua esuberanza irrefrenabile e la sua ricerca dell’autenticità, compreso il movimento murale di quartiere più emozionante dell’America del Nord» (M. Davis, “Urban Renaissance and the Spirit of Postmodernism”, in «New Left Review», XXVI, 1985, n. 151, p. 112). Davis suppone che io sostenga una posizione compiacente o corrotta rispetto a questo esempio di rinnovamento urbano di second’ordine; il suo articolo è tanto ricco di informazioni e di analisi utili quanto lo è di malafede. Le lezioni di economia impartite da chi pensa che le aziende che sfruttano i dipendenti siano “precapitaliste” non sono affatto utili; per contro non è chiaro quale profitto si possa trarre dall’attribuzione alla propria parte («le rivolte dei ghetti alla fine degli anni Sessanta») l’influsso formativo sulla nascita del postmodernismo (stile egemonico o da “classe dirigente” quant’altri mai), per non parlare dell’imborghesimento. Ovviamente la sequenza si svolge al contrario: prima viene il capitale (con le sue innumerevoli “penetrazioni”) e soltanto in seguito può svilupparsi una “resistenza” contro di esso, anche se sarebbe bello pensare il contrario. («Neppure l’associazione degli operai, quale si presenta in fabbrica, è quindi posta da loro, bensì dal capitale. La loro associazione non è la loro esistenza concreta, bensì l’esistenza concreta del capitale. Rispetto al singolo operaio essa si presenta come accidentale. Questi si riferisce alla sua propria associazione e cooperazione con altri operai come a fatti estranei, a modi di operare del capitale», K. Marx, Grundrisse, trad. cit., vol. I, p. 578). La replica di Davis è tipica di alcuni dei toni più “militanti” della sinistra; di solito le reazioni da destra al mio articolo prendono la forma di geremiadi estetiche e, per esempio, deplorano la mia apparente identificazione dell’architettura postmoderna in genere con una figura come Portman, il quale rappresenta, per così dire, il Coppola (se non l’Harold Robbins) dei nuovi centri urbani.

30 M. Herr, Dispatches, New York, Knopf, 1977 [Dispacci, trad. di M. Bignardi, Padova, Alet, 2005, pp. 16-17].

31 Cfr. il mio “Morality and Ethical Substance”, in The Ideologies of Theory, vol. cit.

32 L. Althusser, “Idéologie et appareils idéologiques d’État”, in Positions, Parigi, Ed. Sociales, 1976 [“Ideologia ed apparati ideologici di Stato”, in Freud e Lacan, trad. di C. Mancina, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 99].