8. Il postmodernismo e il mercato
La linguistica dispone di un espediente utile che purtroppo manca nell’analisi ideologica: essa può contrassegnare una determinata parola come “parola”, appunto, o come “idea”, alternando le barre o le parentesi. Così il vocabolo mercato, con le sue varie pronunce dialettali e la sua origine etimologica latina legata al commercio e alla merce, si stampa come /mercato/; dall’altro lato il concetto, così come l’hanno teorizzato filosofi e ideologi nel corso dei secoli, da Aristotele a Milton Friedman, si stamperebbe <<mercato>>. Per un istante magari si pensa che questo possa risolvere molti problemi nostri nell’affrontare un argomento di questo tipo, che rappresenta al contempo un’ideologia e un insieme di problemi istituzionali pratici, fino a che non ci si rammenta delle grandi manovre di attacco frontale e di accerchiamento della sezione inaugurale dei Grundrisse. In quella sede Marx cancella le speranze e i desideri di semplificazione dei proudhoniani, i quali ritenevano di potersi sbarazzare di tutti i problemi del denaro abolendolo, senza avvedersi che nel denaro vero e proprio si oggettiva e si esprime la stessa contraddizione del sistema di scambio, la quale continuerebbe a oggettivarsi ed esprimersi in uno qualunque dei suoi surrogati più semplici, come i buoni di tempo-lavoro. Osserva sarcasticamente Marx che questi ultimi, nel capitalismo in corso, non farebbero che convertirsi nuovamente in denaro, e così tornerebbero in vigore tutte le contraddizioni precedenti.
Lo stesso vale per il tentativo di separare ideologia e realtà: purtroppo l’ideologia del mercato non è un lusso o un ornamento integrativo dell’ideazione o della rappresentazione che si possa eliminare dalla problematica economica e spedire quindi in qualche obitorio culturale o sovrastrutturale, affinché gli specialisti lo dissezionino. Esso è in qualche modo generato dalla cosa in sé, come un’immagine residua oggettivamente necessaria: in un modo o nell’altro le due dimensioni vanno registrate assieme, nella loro identità come nella loro diversità. Esse sono, per ricorrere a un linguaggio contemporaneo ma già passato di moda, semiautonome, il che significa, ammesso che significhi qualcosa, che non sono davvero autonome o indipendenti l’una dall’altra, ma che in effetti non sono nemmeno la stessa cosa. La nozione marxiana di ideologia è sempre stata intesa a rispettare, a ripetere e declinare il paradosso della mera semiautonomia del concetto ideologico – per esempio, le ideologie del mercato – rispetto alla cosa in sé, ossia, nel nostro caso, i problemi odierni del mercato e della pianificazione nel tardo capitalismo così come nei paesi socialisti. Ma il concetto marxiano classico (che comprende la stessa parola ideologia, a sua volta una sorta di ideologia della cosa, rispetto alla propria realtà) spesso risulta manchevole proprio a tale riguardo, e diventa puramente autonomo per poi disperdersi come mero “epifenomeno” nel mondo delle sovrastrutture, mentre la realtà resta al di sotto, autentica responsabilità degli economisti di professione.
Naturalmente nello stesso Marx si rinvengono tanti modelli professionali di ideologia. Quello che scaturisce dai Grundrisse e attacca le illusioni dei proudhoniani è stato notato e studiato con minore frequenza, eppure è assai ricco e stimolante. Marx discute qui un aspetto particolarmente essenziale dell’argomento che mi interessa, vale a dire il rapporto delle idee e dei valori di libertà e uguaglianza con il sistema di scambio; egli sostiene, esattamente come Milton Friedman, che questi concetti e questi valori sono reali e oggettivi, organicamente generati dallo stesso sistema di mercato, al quale sono indissolubilmente legati in termini dialettici. Prosegue aggiungendo – stavolta stavo per dire a differenza di Milton Friedman, ma una pausa di riflessione mi consente di ricordare che anche i neoliberisti riconoscono queste conseguenze spiacevoli, e talvolta addirittura le magnificano – che nella prassi la libertà e l’uguaglianza finiscono per trasformarsi in illibertà e in disuguaglianza. Per contro, si tratta tuttavia dell’atteggiamento dei proudhoniani verso tale capovolgimento e del loro fraintendimento della dimensione ideologica del sistema di scambio e del suo funzionamento; entrambi veri e falsi, oggettivi e ingannevoli, circostanza che si cercava di rendere con l’espressione hegeliana «apparenza oggettiva»:
il valore di scambio e ancor più il sistema del denaro è effettivamente il sistema dell’uguaglianza e della libertà, e […] ciò che si contrappone a esse e le disturba nell’ulteriore sviluppo del sistema sono disturbi immanenti al sistema stesso, sono appunto la realizzazione dell’uguaglianza e della libertà che si palesano come disuguaglianza e illibertà. È pio quanto sciocco desiderare che il valore di scambio non si sviluppi in capitale o che il lavoro che produce valore di scambio non si sviluppi in lavoro salariato. Ciò che distingue questi signori [i proudhoniani, o, come diremmo oggi, i socialdemocratici] dagli apologeti borghesi è da un lato la percezione delle contraddizioni che il sistema racchiude; dall’altro l’utopismo di non comprendere la differenza necessaria tra configurazione reale e ideale della società borghese, e di volersi perciò assumere il compito superfluo di volerne realizzare nuovamente la espressione ideale stessa, giacché essa è in effetti soltanto l’immagine trasfigurata [Lichtbild] di questa realtà.124
Dunque siamo davvero di fronte a una questione culturale (nel senso contemporaneo del termine), che ruota attorno al problema della rappresentazione: i proudhoniani sono dei realisti, si potrebbe dire, del genere legato al modello dell’equivalenza. Essi pensano (insieme agli habermasiani di oggi, forse) che gli ideali rivoluzionari del sistema borghese – libertà e uguaglianza – siano proprietà delle società reali e osservano che, sia pure ancora presenti nell’immagine utopica ideale della società di mercato borghese, queste stesse caratteristiche disgraziatamente risultano assenti nella realtà che è servita da modello per quel ritratto ideale. Basterà quindi mutare e perfezionare il modello per far apparire infine nel sistema di mercato la libertà e l’uguaglianza, in carne e ossa.
Tuttavia Marx è, per così dire, un modernista; e questa particolare teorizzazione dell’ideologia – che, soltanto vent’anni dopo l’invenzione della fotografia, si ispira alle figure fotografiche sue contemporanee (mentre in precedenza Marx ed Engels avevano prediletto la tradizione pittorica, con la sua camera obscura) – lascia intendere che la dimensione ideologica è intrinsecamente radicata nella realtà, che la occulta come un aspetto necessario della propria struttura. Tale dimensione è perciò profondamente immaginaria in senso reale e positivo; ciò significa che essa esiste ed è vera nella misura in cui è un’immagine, il cui marchio e destino è quello di restare tale, essendo la sua irrealtà e la sua irrealizzabilità quanto di vero c’è in essa. Penso a certi episodi dei drammi di Sartre che potrebbero servire da utili allegorie da manuale di questo processo specifico: per esempio il veemente desiderio di Elettra di uccidere la propria madre, che tuttavia non è stato concepito per essere realizzato. A cose fatte Elettra scopre che non voleva davvero sua madre morta (<<morta>>, cioè morta nella realtà): quel che voleva era continuare a desiderarla /morta/ con ira e rancore. E lo stesso accade, come vedremo, nel caso di questi due aspetti piuttosto contraddittori del sistema di mercato, libertà e uguaglianza: ognuno le vuole, ma non si possono realizzare. L’unica cosa che può succedere loro è che scompaia il sistema che le genera, abolendo così gli “ideali” insieme alla stessa realtà.
Ma restituire all’”ideologia” questo complesso rapporto con le sue radici nella realtà sociale significherebbe reinventare la dialettica, cosa che ogni generazione, alla propria maniera, non riesce a fare. La nostra, anzi, non ci ha nemmeno provato; e l’ultimo tentativo, l’episodio althusseriano, ha superato da tempo l’orizzonte insieme agli uragani di ieri. Parallelamente, ho l’impressione che soltanto la cosiddetta teoria discorsiva abbia cercato di colmare il vuoto rimasto da quando la nozione di ideologia è stata gettata nel baratro insieme al resto del marxismo classico. Si potrebbe prontamente sottoscrivere il programma di Stuart Hall, basato, per come lo intendo, sull’idea che il livello essenziale sul quale si conduce la battaglia politica è quello della lotta per la legittimità dei concetti e delle ideologie; che da questo nasce la legittimazione e che, per esempio, il thatcherismo e la sua controrivoluzione culturale si fondavano tanto sulla delegittimazione dell’ideologia dello stato sociale o socialdemocratica (che chiamavamo progressista) quanto sui problemi strutturali inerenti allo stesso stato sociale.
Questo mi permette di esprimere la mia tesi nella sua forma più energica: la retorica del mercato ha rappresentato una componente fondamentale e sostanziale di questa lotta ideologica, di questo conflitto per la legittimazione o la delegittimazione del discorso della sinistra. La resa all’ideologia del mercato nelle sue varie forme – mi riferisco alla sinistra, per non parlare di tutti gli altri – è stata impercettibile, eppure di un’universalità preoccupante. Ormai chiunque è disposto a farfugliare, come fosse una concessione insignificante fatta di sfuggita all’opinione pubblica o al buon senso comune (ovvero ai presupposti condivisi della comunicazione), che nessuna società può funzionare efficacemente senza il mercato e che la pianificazione è evidentemente impossibile. È il secondo aspetto del destino di quel vecchio discorso, la “nazionalizzazione”, che segue circa vent’anni dopo, proprio quando, in generale, il postmodernismo pieno (specialmente in campo politico) si è rivelato il seguito, la continuazione e il compimento del vecchio episodio della “fine dell’ideologia” degli anni Cinquanta. In ogni caso, all’epoca andavamo borbottando il nostro consenso alla tesi sempre più diffusa che il socialismo non aveva nulla a che vedere con la nazionalizzazione; il risultato è che oggi ci troviamo a dover concordare con l’affermazione che in realtà il socialismo non ha più nulla a che vedere con il socialismo medesimo. Non si può permettere che il teorema “il mercato è nella natura dell’uomo” resti incontestato; secondo me, esso è il terreno maggiormente decisivo del conflitto ideologico della nostra epoca. Se lo si lascia passare perché sembra un’ammissione irrilevante o, peggio ancora, perché si è giunti davvero a credervi “nel profondo del cuore”, allora il socialismo e il marxismo ne verranno in egual misura sostanzialmente delegittimati, almeno per un po’. Sweezy ci ricorda che, prima di approdare definitivamente in Inghilterra, in molti luoghi il capitalismo non riuscì a prendere piede, e che se i socialismi attuali vanno in fumo, in futuro ce ne saranno altri, di migliori. Lo credo anch’io, ma non dobbiamo farne una profezia fine a sé stessa. In questo spirito vorrei aggiungere alle formulazioni e alla tattica dell’«analisi del discorso» di Stuart Hall lo stesso genere di qualificativo storico: il livello fondamentale sul quale si conduce la lotta politica è quello della legittimità di concetti come pianificazione o mercato, almeno adesso e nella situazione attuale. In avvenire, la politica trarrà da questo delle forme di maggiore attivismo, esattamente com’è accaduto in passato.
Su questo punto metodologico, occorre infine aggiungere che l’intelaiatura concettuale dell’analisi del discorso non è più convincente delle fantasticherie dei proudhoniani, sebbene ci consenta, in epoca postmoderna, di praticare comodamente l’analisi ideologica senza chiamarla così: conferire autonomia alla dimensione del /concetto/ e chiamarlo «discorso» lascia intendere che tale dimensione è potenzialmente priva di relazioni con la realtà e possa essere fatta fluttuare da sola affinché fondi la propria sottodisciplina e sviluppi i propri specialisti. Preferisco ancora chiamare /mercato/ quello che è, cioè un ideologema, e premettervi ciò che si deve premettere a proposito di tutte le ideologie: che purtroppo dobbiamo parlare delle realtà esattamente come dei concetti. Il discorso del mercato è semplicemente una retorica? Lo è e non lo è (per ripetere la grande logica formale dell’identità dell’identità e della non identità); e per capirlo bene occorre parlare dei mercati veri come della metafisica, della psicologia, della pubblicità, della cultura, delle rappresentazioni e degli apparati libidici.
Questo implica però che si aggiri il vasto continente della filosofia della politica, il quale è a sua volta una sorta di “mercato” ideologico a sé stante, nel quale, come in un gigantesco sistema combinatorio, sono reperibili tutte le varianti e le combinazioni possibili di “valori”, opzioni e “soluzioni” di carattere politico, a patto che ci si ritenga liberi di scegliere tra di essi. In questo grande emporio, per esempio, possiamo combinare la proporzione della libertà rispetto all’uguaglianza secondo la nostra indole, come quando si contrasta l’intervento statale per via del danno che procura a una certa fantasia di libertà individuale o personale; oppure quando si deplora l’uguaglianza perché i suoi valori conducono a esigenze di correzione dei meccanismi del mercato e all’intervento di “valori” e priorità d’altro genere. La teoria dell’ideologia esclude questo carattere opzionale delle teorie politiche, non solo perché i “valori” come tali hanno origini più profonde, inconsce e di classe, rispetto a quelli della mente cosciente, ma anche perché la teoria è a sua volta una specie di forma determinata dal contenuto sociale e rispecchia la realtà sociale secondo modalità più complesse di come una “soluzione” rispecchia il proprio problema. Qui si può osservare in azione la legge dialettica fondamentale della determinazione di una forma da parte del suo contenuto: essa non è attiva nelle teorie o nelle discipline in cui non si dà alcuna differenziazione tra il livello dell’”apparenza” e quello della “sostanza”, e nelle quali fenomeni come l’etica o la pura e semplice opinione politica si possono modificare mediante la decisione cosciente o la persuasione razionale. In effetti, una straordinaria osservazione di Mallarmé – «il n’existe d’ouvert à la recherche mentale que deux voies, en tout, où bifurque notre besoin, à savoir, l’esthétique d’une part et aussi l’économie politique»125 – rivela che le affinità profonde tra la concezione marxiana dell’economia politica in generale e la sfera dell’estetico (come, per esempio, nell’opera di Adorno o di Benjamin) vanno individuate precisamente qui, nella percezione, condivisa da ambedue le discipline, di questo immenso doppio movimento di un piano della forma e di un piano della sostanza (per adoperare il linguaggio alternativo del linguista Hjelmslev).
Questo parrebbe confermare la lamentela tradizionale a proposito del marxismo, cioè che esso manca di una qualunque riflessione politica autonoma, cosa che tuttavia tende ad apparire come una forza invece che come una debolezza. Il marxismo di fatto non è una filosofia politica del genere Weltanschauung, né tanto meno cammina “carponi” con l’ambientalismo, il progressismo, il radicalismo, il populismo o quel che sia. Esiste certamente una pratica marxista della politica, ma il pensiero politico del marxismo, quando non è pratico in tal senso, riguarda esclusivamente l’organizzazione economica della società e i criteri di cooperazione tra gli individui per organizzare la produzione. Ciò significa che il “socialismo” non è esattamente un’idea politica, o, se si preferisce, che presuppone la fine di un certo pensiero politico. Significa inoltre che noi abbiamo i nostri omologhi tra i pensatori borghesi, che però non sono i fascisti (i quali a tale riguardo dispongono di un pensiero piuttosto scarso, e in ogni caso sono storicamente estinti), bensì i neoliberisti e i sostenitori del mercato. Anche per loro la filosofia della politica è inutile (per lo meno una volta che ci si è sbarazzati delle argomentazioni del nemico marxista, collettivista), mentre “politica” significa ormai semplicemente cura e sostentamento dell’apparato economico (in questo caso il mercato, e non i mezzi di produzione posseduti e organizzati collettivamente). Anzi, sostengo che abbiamo molto in comune con i neoliberisti, per la verità pressoché tutto, tranne l’essenziale.
Tuttavia si deve prima dire quello che è ovvio, cioè che lo slogan del mercato non solo copre una grande varietà di referenti e di interessi diversi, ma che quasi sempre rappresenta una designazione impropria. Tanto per cominciare, oggi, in tempi di oligopolio e di multinazionali, non esiste alcun libero mercato; anzi, Galbraith sosteneva molto tempo fa che gli oligopoli fossero il nostro imperfetto surrogato della pianificazione e della programmazione di tipo socialista.
Contemporaneamente, nella sua accezione generale il mercato come concetto ha raramente a che vedere con la scelta o la libertà, dal momento che esse sono tutte determinate per noi a priori, che si parli di nuovi modelli di auto, di giocattoli o di programmi televisivi: non c’è dubbio che operiamo una selezione tra essi, ma non si può certo dire che abbiamo effettivamente voce in capitolo in questa scelta. Così l’omologia con la libertà è, nella migliore delle ipotesi, un’omologia con la nostra democrazia parlamentare di carattere rappresentativo.
Inoltre nei paesi socialisti il mercato sembrerebbe avere a che fare più con la produzione che con il consumo, giacché il problema che si pone in rilievo con maggiore urgenza è quello della fornitura di pezzi di ricambio, di componenti e di materie prime ad altre unità produttive (problema rispetto al quale si fantastica il mercato occidentale come soluzione). Ma presumibilmente lo slogan del mercato, con tutta la retorica che lo accompagna, è stato concepito per garantire una svolta decisiva, uno spostamento dalla concettualità della produzione a quella della distribuzione e del consumo, cosa che in effetti sembra fare di rado.
Esso sembra inoltre, tra l’altro, eliminare la questione piuttosto cruciale della proprietà, di fronte alla quale i conservatori hanno avuto delle notorie difficoltà intellettuali: qui l’esclusione della «giustificazione dei titoli di proprietà originari»126 sarà considerata come una formulazione sincronica che esclude la dimensione della storia e il mutamento storico sistemico.
Infine occorre rilevare che, secondo l’opinione di molti neoliberisti, non solo non abbiamo ancora un libero mercato, ma ciò che abbiamo al suo posto (e quello che talvolta contro l’Unione Sovietica viene difeso come “libero mercato”127) – vale a dire un compromesso e una corruzione reciproci di gruppi di pressione, interessi particolari e quant’altro – è di per sé, secondo la nuova destra, una struttura assolutamente contraria al vero libero mercato e al suo instaurarsi. Questo tipo di analisi (a volte denominata teoria della scelta pubblica) è il corrispettivo di destra dell’analisi dei media e del consumismo condotta da sinistra: in altre parole, la teoria necessaria della resistenza, la descrizione di ciò che nella sfera pubblica in genere impedisce alle persone di adottare un sistema migliore, oltre a ostacolare la comprensione e la ricezione di questo medesimo sistema.
I motivi del successo dell’ideologia del mercato non si possono pertanto ricercare nel mercato in sé (anche qualora si riesca a vagliare esattamente quale di questi numerosi fenomeni è designato meglio dalla parola). Ma è meglio iniziare con la versione metafisica più forte ed esauriente, che associa il mercato alla natura umana. Tale prospettiva si presenta sotto tante forme, spesso impercettibili, ma è stata opportunamente formalizzata in un vero e proprio metodo da Gary Becker, nel suo approccio mirabilmente totalizzante: «sostengo che l’approccio economico fornisce una preziosa struttura unitaria per la comprensione di ogni comportamento umano»128. Così, per addurre un esempio, si può sottoporre il matrimonio a una sorta di analisi di mercato: «La nostra analisi implica che persone simili o diverse si accoppieranno se questo massimizza l’output totale di produzione familiare su tutti i possibili matrimoni, indipendentemente dal fatto che la caratteristica che li accomuna o divide sia finanziaria (come il saggio di salario o il reddito di proprietà), genetica (come l’altezza o l’intelligenza) o psicologica (come l’aggressività o la passività)»129. Ma qui risulta essenziale la nota chiarificatrice, che dà modo di iniziare a intendere quanto è davvero in gioco nella interessante proposta di Becker: «Mi sia concesso di porre ancora l’enfasi sul fatto che il prodotto in termini di beni non è la stessa cosa del prodotto nazionale come viene normalmente misurato, ma include i figli, la compagnia, la salute, e molti altri beni». Salta così immediatamente all’occhio il paradosso – della massima portata come sintomo per il turista teorico marxiano – che il più scandaloso di tutti i modelli di mercato è in realtà un modello di produzione! Il consumo vi viene esplicitamente descritto come produzione di una merce o di un servizio specifico: in altri termini un valore d’uso che può configurarsi come qualunque cosa, dall’appagamento sessuale a un luogo adatto dove occuparsi dei propri figli se il mondo esterno si dimostra inclemente. Ecco il centro della descrizione di Becker:
Il quadro della funzione di produzione familiare mette in evidenza i servizi paralleli effettuati dalle aziende e dalle famiglie in quanto unità organizzative. Simile all’azienda tipica analizzata nella teoria della produzione standard, la famiglia investe in capitale patrimoniale (risparmi), in capitale di attrezzature (beni durevoli) e in capitale incarnato dalla sua “forza lavoro” (capitale umano dei membri della famiglia). In quanto unità organizzativa, la famiglia, come l’azienda, partecipa alla produzione utilizzando questa manodopera e questo capitale. Ciascuno è considerato come teso a massimizzare la propria funzione oggettiva soggetta alle limitazioni delle risorse e della tecnologia. Il modello della produzione non solo sottolinea che la famiglia è la giusta unità fondamentale dell’analisi nella teoria del consumo, ma mette anche in risalto l’interdipendenza di numerose decisioni familiari: da un lato, nell’analisi di un singolo periodo di tempo, le decisioni sull’apporto di manodopera familiare, sul tempo e le spese in beni; dall’altro, nell’analisi di un ciclo di vita, quelle riguardanti il matrimonio, le dimensioni della famiglia, l’assegnazione di forza lavoro, le spese in beni e gli investimenti in capitale umano.
Il riconoscimento dell’importanza del tempo come risorsa insufficiente nella famiglia ha esercitato un ruolo necessario nello sviluppo delle applicazioni empiriche dell’approccio della funzione di produzione familiare.130
Devo ammettere di pensare che tutto ciò sia accettabile e che fornisca una visione perfettamente realistica e sensata non solo di questo mondo dell’uomo, bensì di tutti, fino a quello dei primi ominidi. Vorrei sottolineare alcuni tratti cruciali del modello di Becker: il primo è l’accento posto sul tempo in quanto risorsa (un altro suo saggio fondamentale si intitola “Una teoria dell’allocazione del tempo”). Naturalmente si tratta della medesima visione della temporalità che ha Marx, così come emerge massimamente dai Grundrisse, dove ogni valore in definitiva si risolve in una questione di tempo. Inoltre vorrei indicare la coerenza e l’affinità tra questa proposta specifica e buona parte della teoria o della filosofia contemporanee, che hanno implicato un’enorme espansione di quello che si considera comportamento razionale, deliberato. La mia opinione è che – principalmente dopo la diffusione della psicoanalisi, ma anche con la graduale dissoluzione dell’”alterità” in un mondo che si restringe e in una società pervasa dai media – resta molto poco che si possa considerare “irrazionale” nella vecchia accezione, cioè “incomprensibile”. Le forme più abiette del comportamento e del processo decisionale umano – la tortura da parte di sadici e l’intervento estero aperto o velato da parte dei governanti – sono ormai comprensibili per tutti (nei termini, diciamo, del Verstehen di Dilthey), quale che sia la nostra opinione in merito. Ben altra questione, piuttosto interessante, è poi se tale concetto tanto esteso di Ragione abbia un valore normativo (come pensa ancora Habermas) in una condizione nella quale il suo contrario, l’irrazionale, si è praticamente ridotto all’inesistenza. Tuttavia i calcoli di Becker (in lui la parola non implica affatto l’homo oeconomicus, ma, al contrario, il comportamento quotidiano di ogni genere, irriflessivo, “preconscio”) appartengono a quella corrente dominante; in effetti, il sistema mi fa pensare più di qualunque altra cosa alla libertà sartriana, nella misura in cui implica una responsabilità per tutto quello che facciamo. La scelta sartriana, che allo stesso modo ha certamente luogo su un livello del comportamento quotidiano che non è autocosciente, designa la costante produzione individuale o collettiva dei «beni» di Becker (che non hanno bisogno di essere edonistici in senso stretto, essendo l’altruismo, per esempio, esattamente uno di questi beni economici, di questi piaceri). Le conseguenze di una prospettiva come questa sulla rappresentazione spingono ormai a pronunciare tardivamente la parola postmodernismo per la prima volta. Soltanto i romanzi di Sartre (che sono esemplari; frammenti enormi e incompiuti) danno davvero una qualche idea di come potrebbe essere una rappresentazione della vita che interpretasse e narrasse ogni atto, gesto, desiderio e decisione dell’uomo secondo i criteri del modello di massimizzazione di Becker. Tale rappresentazione rivelerebbe un mondo singolarmente privo di trascendenza e prospettiva (la morte, per esempio, qui è soltanto un’ennesima questione di massimizzazione del profitto), e davvero senza trama nel senso tradizionale, dal momento che tutte le scelte sarebbero equidistanti e sul medesimo livello. L’analogia con Sartre suggerisce comunque che questo tipo di lettura – che dovrebbe configurarsi come un demistificante faccia a faccia con la vita quotidiana, senza distanza e abbellimenti – non potrebbe essere integralmente postmoderna nelle accezioni più eccentriche di quell’estetica. Becker sembra non avere inteso le forme più sregolate di consumo che offre il postmoderno, il quale altrove è capace di mettere in atto un vero delirio del consumo della stessa idea di consumo; nel postmoderno, anzi, è la medesima idea di mercato a essere consumata con immensa soddisfazione: un bonus, per così dire, un’eccedenza del processo di mercificazione. I lucidi calcoli di Becker sono ben lontani da tutto questo, non necessariamente perché il postmodernismo è incoerente o incompatibile con il conservatorismo politico, ma soprattutto perché quello di Becker è in ultima analisi un modello di produzione e non di consumo, come ho indicato prima. Echi della grande introduzione ai Grundrisse, dove la produzione si trasforma in consumo e in distribuzione e poi ancora ritorna incessantemente alla sua forma produttiva basilare (nella categoria sistemica ampliata di produzione con cui Marx intende sostituire quella tematica o quella analitica)! In effetti, ci si può lamentare del fatto che gli attuali apologeti del mercato – i conservatori teorici – non riescono a mostrare molto piacere, una particolare jouissance (come vedremo più avanti, il loro mercato funge principalmente da poliziotto destinato a tenere lontano Stalin, dal che sorge peraltro il sospetto che Stalin sia a sua volta semplicemente una parola in codice per designare Roosevelt).
Come la descrizione, dunque, il modello di Becker mi pare davvero impeccabile e molto fedele riguardo alle circostanze della vita, per come le conosciamo; naturalmente quando diventa prescrittivo ci troviamo di fronte alle forme più insidiose della reazione (le mie due conseguenze pratiche preferite sono per prima cosa che le minoranze oppresse peggiorano la propria situazione reagendo e, in secondo luogo, che la «produzione familiare», nel senso particolare esposto sopra, subisce un calo di produttività se la moglie ha un lavoro). È tuttavia agevole vedere perché le cose stanno così. Nella sua struttura di transcodifica, il modello di Becker è postmoderno; vi si combinano due distinti sistemi esplicativi mediante l’affermazione di un’identità fondamentale (della quale si dichiara sempre che non è metaforica, segno più certo dell’intenzione di metaforizzare): da una parte il comportamento umano – preminentemente quello della famiglia e dell’oikos – e dall’altra l’azienda, l’impresa. La riscrittura di fenomeni come il tempo libero e i tratti della personalità in termini di potenziali materie prime genera molta chiarezza ed efficacia. Non ne consegue però che si possano eliminare le parentesi figurali come si toglie trionfalmente il velo a una statua, consentendo quindi di ragionare sulle faccende domestiche secondo i criteri del denaro e dell’economia. Ma è esattamente così che Becker “deduce” le proprie conclusioni politico-pratiche. Anche qui dunque pecca di assoluta postmodernità, giacché il processo di transcodifica ha come conseguenza la sospensione di tutto quello che era “letterale”. Becker intende mettere ordine nel dispositivo della metafora e dell’identificazione figurale, per tornare soltanto al momento della conclusione al livello letterale (che nel frattempo, nell’epoca del tardo capitalismo, gli si è dissolto sotto i piedi).
Perché non trovo nulla di tutto questo particolarmente scandaloso? E quale potrebbe esserne l’”uso appropriato”? Come nel caso di Sartre, secondo Becker la scelta ha luogo entro condizioni già predeterminate, che Sartre teorizza come tali (le chiama «la situazione»), mentre Becker invece le trascura. In entrambi assistiamo a una gradita riduzione del soggetto vecchio stampo (l’individuo, l’ego), il quale ormai è poco più di un punto della coscienza rivolto alla riserva di materiali a disposizione nel mondo esterno e prende decisioni su quelle informazioni “razionali” nel nuovo e più ampio senso di ciò che potrebbe comprendere qualunque altro essere umano (nel senso di Dilthey, o di Rousseau, di tutto quello con cui ogni altro essere umano potrebbe “solidarizzare”). Ciò significa che ci siamo affrancati da ogni sorta di mito più propriamente “irrazionale” sulla soggettività, e che possiamo rivolgere la nostra attenzione verso quella stessa situazione, a quell’inventario di risorse disponibili costituito dal mondo esterno, che in effetti occorre ormai chiamare Storia. Il concetto sartriano di situazione rappresenta un modo nuovo di pensare la storia in quanto tale; Becker evita giustamente qualunque mossa comparabile. Ho insinuato che si può benissimo immaginare che le persone agiscano secondo il modello di Becker anche nel socialismo (come nei primi modi di produzione). A essere diversa sarà però la situazione: la natura della «famiglia», la riserva di materie prime, anzi la forma e il genere dei «beni» da produrre. Così il mercato di Becker non si risolve affatto in un’altra celebrazione del sistema di mercato, ma piuttosto riconduce involontariamente la nostra attenzione verso la storia medesima e la varietà di situazioni alternative che offre.
Bisogna pertanto sospettare che le difese essenzialiste del mercato comportino in realtà tutt’altre tematiche e questioni: i piaceri del consumo costituiscono poco più delle fantasiose conseguenze ideologiche a disposizione dei consumatori ideologici che sottoscrivono la teoria del mercato, di cui non fanno essi stessi parte. Anzi, una delle grandi crisi della nuova rivoluzione culturale conservatrice – e analogamente una delle sue grandi contraddizioni interne – è stata messa in luce da questi stessi ideologi, allorché si è cominciato a diffondere un certo nervosismo rispetto al successo con cui l’America consumista ha sopraffatto l’etica protestante ed è stata capace di gettarne al vento i risparmi (e i profitti futuri) esercitando la propria nuova natura, nella veste dell’acquirente professionale a tempo pieno. Ovviamente le due cose non possono andare d’accordo: non esiste un mercato fiorente e attivo la cui clientela sia fatta di calvinisti e di tradizionalisti operosi che conoscono il valore del dollaro.
La passione per il mercato è stata infatti sempre di ordine politico, come ci ha insegnato il grande libro di Albert O. Hirschman, Le passioni e gli interessi. Più che con il consumo, per l’”ideologia del mercato” quest’ultimo ha a che vedere in ultima analisi con l’intervento governativo, e certamente con i mali della libertà e della stessa natura umana. Una descrizione rappresentativa del famoso “meccanismo” del mercato la fornisce Barry:
Per processo naturale Smith intende ciò che accadrebbe o quale schema di eventi emergerebbe dall’interazione individuale, in assenza di uno specifico intervento umano, sia esso violento o di natura politica.
Il funzionamento di un mercato è un esempio ovvio di questi fenomeni naturali. Le capacità di auto-regolazione del sistema di mercato non sono il prodotto di una mente progettuale ma sono l’esito spontaneo del meccanismo dei prezzi. Da certe uniformità esistenti nella natura umana, compreso ovviamente il desiderio naturale di “migliorare noi stessi”, si può dedurre che cosa accadrebbe nel caso in cui il governo disturbi i processi di auto-regolazione. Così Smith mostra come le leggi sull’apprendistato, i vincoli sul commercio internazionale, i privilegi delle corporazioni ecc., intacchino, senza tuttavia sopprimerle del tutto, le tendenze economiche naturali. L’ordine spontaneo del mercato è il prodotto dell’interdipendenza delle parti costitutive ed ogni intromissione in tale ordine è semplicemente destinata al fallimento. «Nessun regolamento di commercio può incrementare la quantità di attività produttiva di una società, al di là di quella che il suo capitale può mantenere. Esso può solo deviare una parte di tale capitale in una direzione in cui altrimenti non sarebbe andato». Con l’espressione «libertà naturale» Smith intende quel sistema in cui ogni uomo, sempre che non violi le leggi (in negativo) di giustizia, è lasciato perfettamente libero di perseguire il proprio interesse nel modo che crede e di portare sia la sua industria che il suo capitale a competere con quelli di qualunque altro uomo.131
La forza del concetto di mercato sta dunque nella sua struttura “totalizzante”, come si dice al giorno d’oggi, vale a dire nella sua capacità di produrre un modello di totalità sociale. Essa offre un altro criterio per spostare il modello marxiano, distinto dall’ormai noto passaggio weberiano e postweberiano dall’economia alla politica, dalla produzione al potere e al dominio. Ma lo spostamento dalla produzione alla circolazione non risulta meno profondo e ideologico, e dispone del vantaggio di sostituire le fantasiose rappresentazioni piuttosto antidiluviane che hanno accompagnato il modello della “dominazione” da 1984 e Il dispotismo orientale fino a Foucault – narrazioni alquanto comiche per la nuova era postmoderna – con rappresentazioni di un genere completamento diverso. (Tra breve dimostrerò che queste non sono soprattutto legate al consumo).
In ogni caso, è prima di tutto necessario intendere le condizioni di possibilità di tale nozione alternativa della totalità sociale. Rileva Marx (ancora una volta nei Grundrisse) che la circolazione o il modello del mercato precederanno sul piano storico ed epistemologico altre forme di cartografia e forniranno la prima rappresentazione tramite la quale si comprende la totalità sociale:
La circolazione è il movimento nel quale l’espropriazione universale appare come appropriazione universale e l’appropriazione universale come espropriazione universale. Per quanto l’insieme di questo movimento appaia come un processo sociale, e per quanto i singoli momenti di questo moto abbiano origine nella volontà cosciente e nei fini particolari degli individui, la totalità del processo appare come una connessione oggettiva che sorge spontaneamente; essa risulta effettivamente dall’azione reciproca degli individui coscienti, ma non risiede nella loro coscienza, né viene sussunta sotto di essi come totalità. Il loro scontrarsi gli uni con gli altri crea una potenza sociale estranea che li sovrasta; crea la loro interazione come processo e potenza indipendente da essi. La circolazione, essendo una totalità del processo sociale, è anche la prima forma in cui non solo il rapporto sociale – ciò avviene anche per il pezzo di moneta e per il valore di scambio –, ma anche la totalità del movimento sociale stesso appare come un’entità indipendente dagli individui.132
Quel che c’è di notevole in queste riflessioni è che esse paiono identificare due cose che quasi sempre si è pensato fossero diverse l’una dall’altra come concetti: il «bellum omnium contra omnes» di Hobbes e la «mano invisibile» di Adam Smith (che qui compare mascherata da «astuzia della ragione» alla Hegel). Io vorrei asserire che la nozione marxiana di «società civile» corrisponde all’incirca a quello che si verifica quando si combinano questi due concetti in maniera inopinata (come la materia e l’antimateria). Qui tuttavia il fattore rilevante sta nel fatto che ciò che teme Hobbes è, in un certo senso, quanto ispira fiducia a Smith; il carattere più profondo del terrore hobbesiano viene curiosamente illuminato dal compiacimento della definizione di Milton Friedman: «Un liberale è, per natura, timoroso della concentrazione del potere»133. La concezione di una certa violenza feroce inerente alla natura umana, messa in atto nella Rivoluzione inglese, a partire dalla quale viene teorizzata da Hobbes («con paura»), non è modificata o migliorata dalla «douceur du commerce» di Hirschman134; essa è precisamente identica (in Marx) alla concorrenza di mercato in quanto tale. La differenza non è politico-ideologica, ma storica: Hobbes ha bisogno del potere statale per domare e controllare la violenza della natura umana e della concorrenza; in Adam Smith (e su un altro piano metafisico anche in Hegel) il sistema della concorrenza, il mercato, opera da sé tale controllo, senza esigere più lo Stato assoluto. Ma in tutta la tradizione conservatrice è evidente il suo essere motivata dalla paura e dall’inquietudine, perciò la guerra civile o la criminalità urbana non sono altro che figure della lotta di classe. Il mercato è dunque il Leviatano sotto i panni della pecora: non ha la funzione di favorire e perpetuare la libertà (tanto meno la libertà di ordine politico), bensì piuttosto di reprimerla; e in relazione a queste immagini si possono riprendere gli slogan degli anni dell’esistenzialismo: paura della libertà, fuga dalla libertà. L’ideologia del mercato ci garantisce che gli esseri umani provocano disastri quando cercano di controllare le proprie sorti («il socialismo è impossibile») e che siamo fortunati a disporre di un meccanismo interpersonale – il mercato – che può sostituire la superbia umana e la pianificazione, nonché rimpiazzare del tutto le risoluzioni dell’uomo. Dobbiamo soltanto tenerlo pulito e ben oliato ed esso – come faceva il monarca tanti secoli addietro – provvederà a noi e ci terrà a freno.
Perché questo consolante sostituto della divinità debba essere oggi tanto universalmente allettante è tuttavia una questione storica di specie diversa. Attribuire la nuova adesione totale alla libertà del mercato alla paura dello stalinismo e di Stalin è commovente, ma comporta un leggero errore temporale, anche se indubbiamente l’attuale Industria del Gulag è stata un elemento essenziale nella “legittimazione” di queste rappresentazioni ideologiche (insieme all’Industria dell’Olocausto, i cui rapporti peculiari con la retorica del Gulag esigono uno studio culturale e ideologico più minuzioso).
La critica più intelligente che sia stata mossa a una lunga analisi degli anni Sessanta che ho pubblicato una volta135 la devo a Wlad Godzich, il quale ha espresso un certo stupore socratico di fronte all’assenza, dal mio modello globale, del cosiddetto Secondo Mondo, e in particolare dell’Unione Sovietica. La nostra esperienza della perestrojka ha rivelato dimensioni della storia sovietica che avvalorano con forza l’opinione di Godzich e rendono il mio errore oltremodo deplorevole, perciò farò ammenda in questa sede esagerando nell’altra direzione. In effetti, l’opinione che mi sono formato è che il fallimento dell’esperimento di Chrusˇcˇëv non è stato disastroso esclusivamente per l’Unione Sovietica, ma in una certa misura è stato cruciale per il resto della storia globale, e non da ultimo per l’avvenire dello stesso socialismo. Nell’Unione Sovietica, anzi, si dà a intendere che la generazione di Chrusˇcˇëv è stata l’ultima a credere nella possibilità di un rinnovamento del marxismo, per non dire del socialismo; o meglio ancora, al contrario, che è stato il suo fallimento a determinare la totale indifferenza di oggi verso il marxismo e il socialismo da parte di parecchie generazioni di intellettuali più giovani. Ma penso che tale insuccesso sia stato determinante anche per gli sviluppi più basilari di altri paesi, e per quanto non si voglia addossare tutta la responsabilità della storia globale ai compagni russi, mi sembra comunque di scorgere una certa analogia tra ciò che la rivoluzione russa ha significato in termini positivi per il resto del mondo e gli effetti negativi di quell’ultima occasione perduta di restaurare quella rivoluzione e contemporaneamente trasformare il partito. Tanto l’anarchismo occidentale degli anni Sessanta quanto la Rivoluzione Culturale cinese vanno attribuiti a quel fallimento, il cui prolungarsi, molto tempo dopo la fine di entrambi quei fenomeni, spiega il trionfo universale di quella che Sloterdijk chiama «ragione cinica» nell’onnipresente consumismo del postmoderno di oggi. Non sorprende dunque che questa profonda disillusione nei confronti della prassi politica possa sfociare nella popolarità della retorica dell’abnegazione al mercato e nella resa della libertà umana a una mano invisibile ormai prodiga.
In ogni caso, nessuna di queste cose, che implicano ancora il pensiero e il ragionamento, contribuisce più di tanto a spiegare la caratteristica più sorprendente di tale sviluppo discorsivo, cioè come mai la monotonia dell’impresa e della proprietà privata, il carattere polveroso dell’imprenditorialità e il sapore quasi dickensiano del titolo e dell’appropriazione, della rendita da titoli, delle fusioni aziendali, dell’investimento bancario e di altre transazioni del genere (dopo la fine della fase eroica dell’impresa, quella dei magnati senza scrupoli) nella nostra epoca si siano dimostrati così sexy. Secondo me, l’eccitazione della noiosa rappresentazione del libero mercato propria degli anni Cinquanta discende dall’illecita associazione metaforica con una rappresentazione di tipo molto diverso: intendo dire gli stessi media nel più ampio senso contemporaneo e globale (compresa l’infrastruttura di tutti gli ultimissimi dispositivi e le tecnologie avanzate dei media). L’operazione è quella postmoderna cui si è accennato in precedenza, secondo la quale due sistemi di codici si identificano in modo tale da consentire che le energie libidiche dell’uno pervadano l’altro, senza generare comunque una sintesi, una nuova combinazione, un nuovo linguaggio combinato o altro (come in momenti precedenti della nostra storia culturale e intellettuale).
Horkheimer e Adorno hanno osservato molto tempo fa, nell’epoca della radio, le peculiarità della struttura di un’«industria culturale» commerciale i cui prodotti erano gratuiti136. L’analogia tra media e mercato è in effetti consolidata da tale meccanismo: le due cose sono paragonabili non perché i media sono come il mercato, ma perché il “mercato” è diverso dal proprio “concetto” (dall’idea platonica) esattamente come i media lo sono dal loro. I media offrono programmi gratuiti e, malgrado il consumatore non faccia alcuna scelta riguardo al contenuto e all’assortimento, la selezione viene ribattezzata “libera scelta”.
Nella graduale scomparsa del mercato come luogo fisico e nella tendenziale identificazione della merce con la sua immagine (con il marchio o il logo) si compie certamente un’altra, più intima simbiosi tra il mercato e i media. I confini si superano (in maniera profondamente tipica del postmoderno) e al posto della vecchia separazione tra cosa e concetto (o per meglio dire tra economia e cultura, base e sovrastruttura) prende progressivamente piede una indifferenziazione dei livelli. Tra l’altro i prodotti venduti sul mercato diventano il vero contenuto dell’immagine mediatica, tanto che, per così dire, in entrambi i campi sembra mantenersi lo stesso referente. Si tratta di una circostanza molto diversa da una situazione maggiormente primitiva, nella quale a una serie di segnali informativi (notizie di cronaca, pagine culturali, articoli) si aggiunge una postilla che pubblicizza un prodotto commerciale irrelato. Oggi i prodotti si diffondono, per così dire, in tutto lo spazio e il tempo dei settori dell’intrattenimento (o addirittura dell’informazione), come parte di quel contenuto, al punto che in alcuni casi ben pubblicizzati (specialmente nella serie Dynasty137) talvolta non è chiaro quando finisce il segmento narrativo e comincia la pubblicità (dal momento che gli stessi attori compaiono anche nel messaggio pubblicitario).
L’interpenetrazione attraverso il contenuto si intensifica poi in maniera un po’ diversa grazie alla natura degli stessi prodotti: soprattutto quando ci si trova di fronte a degli stranieri esaltati dal consumismo americano, l’impressione è che i prodotti formino una specie di gerarchia il cui apice è situato precisamente nella tecnologia della riproduzione, che si estende ormai ben oltre il classico televisore ed è arrivata in generale a incarnare la tecnologia dell’informazione e l’informatica della terza fase del capitalismo. Occorre pertanto postulare un altro tipo di consumo: il consumo dello stesso processo di consumo, al di là del contenuto e dei prodotti commerciali immediati. È necessario parlare di una sorta di bonus tecnologico del piacere offerto dalle nuove macchine e, per così dire, simbolicamente rimesso in atto e divorato a livello rituale a ogni seduta del consumo mediatico ufficiale. Non è davvero un caso che la retorica conservatrice che spesso ha accompagnato la retorica del mercato in questione (che, a mio modo di vedere, rappresentava una strategia di delegittimazione piuttosto diversa) avesse a che fare con la fine delle classi sociali, conclusione sempre dimostrata e “provata” dalla presenza della televisione nelle abitazioni dei lavoratori. Gran parte dell’euforia del postmodernismo scaturisce da questa celebrazione dello stesso processo di informatizzazione avanzata (essendo la prevalenza delle attuali teorie della comunicazione, del linguaggio o dei segni un derivato di questa “visione del mondo” più generalizzata). Come avrebbe detto Marx, siamo dunque di fronte a un secondo momento in cui – come il «capitale in generale» rispetto ai «molti capitali» – si pongono per certi versi in primo piano e si sperimentano i media “in generale”, in quanto processo unificato (invece che il contenuto delle proiezioni dei singoli media). E sembrerebbe essere questa “totalizzazione” a consentire la realizzazione di un collegamento verso le immagini di fantasia del “mercato in generale” o del “mercato come processo unificato”.
Il terzo aspetto del complesso insieme di analogie tra i media e il mercato che sta alla base della forza dell’attuale retorica di quest’ultimo si può dunque individuare nella stessa forma. È il momento di tornare alla teoria dell’immagine, richiamando la pregevole deduzione teorica di Guy Debord (l’immagine come forma finale della reificazione138). A questo punto il processo si inverte e non sono i prodotti commerciali del mercato a diventare immagini nella pubblicità, ma, al contrario, sono gli stessi processi narrativi e di intrattenimento della televisione commerciale che a loro volta si reificano e si trasformano in altrettante merci: si va dal serial a episodi, con i suoi segmenti temporali e le sue interruzioni dal carattere formulaico e rigido, a ciò che le riprese della telecamera fanno allo spazio, al racconto, ai personaggi e alla moda, fino a comprendere il nuovo processo di creazione di stelle e di celebrità che appare difforme dall’esperienza storica precedente, a noi più familiare, e converge ormai con i fenomeni fino a oggi “secolari” dell’ex sfera pubblica (persone e fatti veri nei notiziari serali, trasformazione dei nomi in una specie di logo delle notizie ecc.). Molte analisi hanno dimostrato che i telegiornali si strutturano esattamente come serial a episodi; contemporaneamente, alcuni di noi, appartenenti a quell’altro recinto della cultura ufficiale, “alta”, hanno cercato di mostrare il declino e l’obsolescenza di categorie come “finzione” (nel senso di qualcosa di contrario al “letterale” o al “reale”). Tuttavia penso che vada teorizzata una profonda trasformazione della sfera pubblica: la nascita del nuovo ambito della realtà dell’immagine, che è al contempo immaginario (narrativo) e reale (anche i personaggi dei serial sono intesi come vere star dotate di un “nome” e di storie esterne che si possono leggere). Come la vecchia e classica “sfera della cultura”, tale ambito diviene ormai semiautonomo e sta sospeso al di sopra della realtà, però con una fondamentale differenza storica: nel periodo classico la realtà persisteva indipendentemente da quella “sfera culturale” sentimentale e romantica, mentre adesso sembra avere perduto quel modo di esistere separato. Oggi la cultura ha un tale impatto sulla realtà al punto che rende problematica qualunque forma indipendente o, per così dire, non o extraculturale (in virtù di una specie di principio di Heisenberg della cultura di massa che si frappone tra l’occhio e la cosa in sé). E alla fine i teorici uniscono le loro voci nella nuova doxa, secondo cui il “referente” non esiste più.
In questo terzo momento, comunque, i contenuti dei media si sono ormai mutati in merci, le quali vengono poi lanciate in una versione del mercato più vasta, a cui si associano al punto che le due cose risultano indistinguibili. Qui dunque i media, in quanto mercato sognato, fanno ormai ritorno al mercato, e diventandone parte integrante suggellano e certificano che l’identificazione un tempo metaforica o analogica è una realtà “letterale”.
In conclusione, a queste analisi astratte del mercato si deve aggiungere un qualificativo pragmatico, una funzionalità segreta come quella che a volte diffonde una luce completamente nuova – che illumina a metà altezza, livida – sul discorso apparente. È ciò che, al termine del suo utile libro, Barry si lascia sfuggire per disperazione o per esasperazione, cioè che la verifica filosofica delle varie teorie neoliberiste si potrebbe condurre esclusivamente in una sola situazione fondamentale, che potremmo definire (non senza ironia) “la transizione dal socialismo al capitalismo”139. In altre parole, le teorie del mercato restano utopiche, in quanto non sono applicabili a questo fondamentale processo di “deregolamentazione” (deregulation) del sistema. Lo stesso Barry aveva già illustrato l’importanza di tale giudizio in un capitolo precedente, dove, analizzando i sostenitori della scelta razionale, rilevava che per loro nelle condizioni odierne la situazione ideale del mercato è utopica e irrealizzabile quanto lo sono, per la sinistra, la rivoluzione o la trasformazione in senso socialista dei paesi del capitalismo avanzato. Vorrei aggiungere che qui il referente è duplice: non solo gli sviluppi dei vari paesi dell’Est che sono stati interpretati come tentativi di restaurare in un modo o nell’altro il mercato, ma anche gli sforzi fatti in Occidente, soprattutto con Reagan e la Thatcher, per sbarazzarsi delle “regole” dello stato sociale e tornare a una forma più pura delle condizioni del mercato. Bisogna mettere in conto la possibilità che ambedue questi tentativi possano fallire per ragioni strutturali, ma bisogna pure mettere in rilievo in maniera instancabile lo sviluppo interessante secondo cui il “mercato” in ultima istanza finisce per essere utopico come di recente si è detto del socialismo. Dinanzi a tali circostanze, a nulla serve sostituire una struttura istituzionale inerte (la pianificazione burocratica) con un’altra struttura istituzionale inerte (cioè il mercato). Quello che ci vuole è un grande progetto collettivo al quale partecipi la maggioranza attiva della popolazione, come a qualcosa che le appartiene ed è costruito dalle sue stesse energie. La messa a punto delle priorità sociali – che nella letteratura socialista è nota anche come pianificazione – dovrebbe essere parte di tale progetto collettivo. Dovrebbe comunque risultare chiaro che il mercato, quasi per definizione, non può essere affatto un progetto.
124 K. Marx, Grundrisse, cit., vol. I, pp. 192-193.
125 S. Mallarmé, “Magie”, in Variations sur un sujet, in Oeuvres complètes, Parigi, Gallimard, 1945, p. 399 [“Magia”, in S. Mallarmé, Opere. Poemi in prosa e opera critica, a cura di F. Piselli, Milano, Lerici, 1963, p. 311: «Alla ricerca mentale non esistono aperte che due vie, e basta, in cui si biforca il nostro bisogno, vale a dire l’estetica da una parte, e l’economia politica dall’altra»]. La frase, che ho adoperato come epigrafe al mio Marxismo e forma, scaturisce da una complessa riflessione sulla poesia, la politica, l’economia e la classe scritta nel 1895, agli albori del modernismo avanzato.
126 N.P. Barry, On Classical Liberalism and Libertarianism, New York, St. Martin’s Press, 1987 [Del liberalismo classico e del libertarianismo, trad. di A. Vannucci, Roma, EliDiR, 1993, p. 15].
127 Ivi, p. 232.
128 G. Becker, The Economic Approach to Human Behavior, Chicago, University of Chicago Press, 1976, p. 14.
129 Ivi [trad. parziale di C. Osbat e A. Pettini, in L’approccio economico al comportamento umano, Bologna, il Mulino, 1998, p. 243].
130 Ivi, p. 141.
131 N.P. Barry, op. cit., p. 37.
132 K. Marx, Grundrisse, cit., pp. 133-134.
133 M. Friedman, Capitalism and Freedom, Chicago, University of Chicago Press, 1962 [Efficienza economica e libertà, trad. di R. Pavetto, Firenze, Vallecchi, 1967, p. 69].
134 Cfr. A.O. Hirschman, The Passions and the Interests, Princeton, Princeton University Press, 1977 [Le passioni e gli interessi, trad. di S. Gorresio, Milano, Feltrinelli, 1979, parte I].
135. “Periodizing the Sixties”, in The Ideologies of Theory, cit., vol. II, pp. 178-208.
136 M. Horkheimer — T.W. Adorno, op. cit., pp. 126-131.
137 Cfr. J. Feuer, “Reading Dynasty: Television and Reception Theory”, in «South Atlantic Quarterly», LXXXVIII, 1989, n. 2, pp. 443-460.
138 G. Debord, La Societé du spectacle, Parigi, Buchet/Chastel, 1967 [La società dello spettacolo, trad. it. di P. Salvadori e F. Vasarri, Milano, Baldini & Castoldi, 1997, cap. 1].
139 Cfr. N.P. Barry, op. cit., pp. 236-241.