Prefazione all’edizione italiana
di Fredric Jameson

Questo libro, nato nel 1984 come raccolta di una serie di conferenze in Cina e negli Stati Uniti, fu inizialmente ispirato dalle novità in campo architettonico, dove non solo si era finalmente verificata una svolta “teorica” in termini filosofici, grazie all’opera di Peter Eisenman e di altri sulla scia della pionieristica semiotica dell’architettura di Charles Jencks, ma in cui si iniziavano effettivamente a costruire edifici di tipo nuovo – accoglienti, piacevoli, decorativi, dai colori brillanti (Charles Moore, Michael Graves, Robert Venturi) –, dallo stile incompatibile con la grande tradizione del modernismo novecentesco quanto la musica di Philip Glass o di John Adams rispetto al sistema dodecafonico. Questa nuova produzione artistica cominciò a essere identificata con uno stile, che a sua volta divenne noto come postmodernismo. E seguendo il tipico destino degli stili, soggetti, come la produzione di merci nel tardo capitalismo, a un sempre più rapido ricambio, questo cosiddetto stile “postmoderno” divenne in breve sorpassato, e così ci si iniziò a chiedere cosa sarebbe venuto dopo questo postmodernismo dal nome ormai paradossale: ci sarebbe stato un post-postmodernismo?

Una domanda simile è stata rivolta anche a questo libro ed ecco perché è cruciale insistere che qui a essere proposta è una tesi sulla periodizzazione storica e non una descrizione di uno stile artistico o, si potrebbe aggiungere, filosofico, se si pensa a espressioni come “filosofia postmoderna”.

La confusione fu generata fin dal principio dal mio titolo, che all’epoca non rispecchiava a sufficienza la distinzione che vorrei fare oggi tra “postmodernismo” in quanto stile (che sia dell’architettura, della filosofia, della pittura, della musica o di qualsiasi altra cosa) e “postmodernità” come specifico periodo storico. Uno degli obiettivi centrali di questo libro era in effetti sostenere che la postmodernità costituisce la terza fase del capitalismo, separata da una frattura radicale rispetto al periodo precedente della modernità (ossia quella che Lenin denominava fase dell’imperialismo). Stando così le cose, malgrado sia plausibile, anche se piuttosto faticoso, parlare di un post-postmodernismo dei vari stili culturali, sarebbe utopico o reazionario evocare qualcosa come una post-postmodernità. Siamo tuttora profondamente immersi nel capitalismo – nonostante l’11 settembre – ed è probabile che vi resteremo ancora a lungo, per quanti nuovi stili possa generare questa struttura economica (e per quanti nuovi tipi di strategie e programmi politici – persino stili politici – si possano sperimentare entro i suoi limiti fondamentali).

La mia periodizzazione è stata anticipata in diversi modi: l’idea di Daniel Bell di una società postindustriale, per esempio, teorizza alcuni specifici aspetti di un’epoca ai suoi albori e al contempo profetizza ingenuamente un postcapitalismo amministrato da filosofi-re incarnati dagli scienziati. L’hegeliana «fine della storia» di Fukuyama (che replica elementi della vecchia tesi della “fine dell’ideologia”) ne offre un’altra versione, volgendo a proprio vantaggio l’esperienza che la sinistra ha fatto della crisi della postmodernità. In una serie influente di formulazioni, Jean-François Lyotard propone una grande narrazione della storia in cui le grandi narrazioni della storia sono esse stesse in crisi, e documenta la comparsa di nuove forme di conoscenza che segnano una frattura rispetto a quelle precedenti del moderno. Tuttavia egli stesso, profondamente moderno per temperamento estetico e politico, cerca di salvare l’arte dalle banalità del postmodernismo postulando che la postmodernità non succede alla modernità, ma la precorre, ne costituisce il preparativo storico per la sua rinascita! E anzi molte delle più vacue teorie politiche dell’epoca attuale, conformandosi alla resa della socialdemocrazia al sistema del libero mercato, cercano di resuscitare una specie di nuova modernità come programma utopico e di distrarre l’attenzione dai nuovi problemi, ardui e originali, posti da un capitalismo specificamente postmoderno sia in campo tecnologico che finanziario. Per quanto riguarda la sinistra, sarà essenziale dal mio punto di vista reinventare un nuovo marxismo e una nuova dialettica dello spazio, in grado di opporsi al libero mercato sul suo stesso terreno, nonché di inventare una nuova visione globale del socialismo.

E questo perché l’altra grande assenza da segnalare in questa teoria della postmodernità pubblicata nei primi anni Novanta è la totale mancanza di consapevolezza politica, culturale o sociale rivolta alla globalizzazione in quanto tale. Rispetto ad allora abbiamo però scoperto che la globalizzazione è la postmodernità e viceversa, che si tratta cioè di due nomi diversi per descrivere esattamente lo stesso fenomeno storico e lo stesso periodo economico: uno sottolinea la sua espansione economica, l’approssimarsi a un mercato mondiale definitivo, l’altro mette a fuoco le strutture e le forme culturali nelle quali è giunta a esprimersi questa mutazione. Oggi una teoria adeguata della postmodernità (e del postmoderno) non può fare a meno di articolare in modo esplicito il suo intrinseco rapporto con la globalizzazione.

In questo libro propongo una teoria specificamente marxista della postmodernità, proprio perché quest’ultima resta una fase storica del capitalismo come tale, la terza, quella della globalizzazione (Spätkapitalismus, come dicono i tedeschi). L’affermazione comporta l’insistenza dialettica sull’interazione di identità e differenza, che non è una mera sottigliezza filosofica. Infatti lo scopo generale di questa descrizione è segnare la frattura radicale tra le nostre pratiche e le nostre esperienze di oggi e quelle della fase precedente del capitalismo, quella del moderno (la fase «suprema» di Lenin, che ha ormai lasciato il posto alla terza, la nostra). Ma scivoleremmo pericolosamente in una qualche celebrazione pseudoutopica della nostra epoca “internettiana”, se al contempo non affermassimo la continuità tra la soggiacente dinamica economica della postmodernità e della globalizzazione e le strutture analizzate da Marx nelle prime epoche del capitalismo. Anzi. Ernest Mandel ha asserito che il nostro è un capitalismo più puro, in piena sintonia con le analisi di Marx, rispetto a quelle prime compagini sociali che costituivano tutti gli esempi a sua disposizione, compagini che recavano ancora le tracce di sistemi più antichi, feudali o altro, da cui a loro volta erano emerse. Sto dicendo che la modernità è l’espressione di una modernizzazione incompiuta e la postmodernità di una modernizzazione e di una mercificazione tendenzialmente molto più compiute rispetto a quanto si è visto finora nella storia. La teoria della postmodernità resta pertanto il quadro più fecondo entro il quale perseguire e concettualizzare tutti i nuovi problemi – tanto politici quanto sociali e culturali – davanti a cui ci pone il nuovo momento storico.

FREDRIC JAMESON
Killingsworth, luglio 2007