10
Adesso si ricorda suo padre. Non sa perché. Improvvisamente.
Riesce a vedere la stanza, la luce. Doveva essere una festa, c’era lo zio con un mantello nero, era arrivato con la sua moto, uno strano prete suo zio. La mamma aveva raccolto dei fiori, probabilmente, e li aveva messi in un vaso. Riesce a vedere la luce azzurrina del lume a carburo, sente la puzza di acetilene.
E tutti ridono. La mamma ha preparato un dolce, deve essere una festa, sì.
E a un certo punto suo padre entra nella stanza. E lo guarda. E sorride.
Ha gli occhi celesti suo padre.
Non c’era ancora la guerra.
Aveva gli occhi celesti.
«Mi stava dicendo del monologo del terzo atto. Le scelte di regia.»
La stanza sparisce, l’odore acre di acetilene. I fiori. Corrado guarda Alessandra, ha gli occhi fermi, su di lui.
«Sì.»
«Ho acceso. Sono pronta.»
«Bene.»
È come se avessi sognato, pensa Corrado. Per tutta la vita. Il tempo se ne è andato così velocemente, e adesso mi tocca contare i giorni. Perché non li ha contati prima, in tutti questi anni, pensa. Uno a uno. Conservando un ricordo al giorno. Adesso sarebbe di nuovo giovane, e potrebbe innamorarsi, ancora una volta.
«Abbiamo… abbiamo litigato per giorni interi, a proposito del monologo.»
«Essere o non essere.»
«Essere o non essere, certo. È una cosa così difficile da dire, anche solo da pronunciare.»
«È vero.»
«Il regista voleva che io fossi, come posso dire, tutto compreso nel mio ruolo tragico. Voleva che ogni parola suonasse come una campana, nel silenzio della scena. Io non ero d’accordo.»
«Perché non era d’accordo?»
«Essere o non essere. Riesce a sentirle? Queste parole hanno un suono differente. Troppe volte le sentiamo suonare come una campana, stonata. Appunto. E invece sono un soffio, il sussurro di una vita. Corre sopra le nostre teste e fugge, non la riusciamo a fermare.»
«Un soffio?»
«L’Amleto è il suono del silenzio.»
«Bello.»
«Sa cosa diceva Tomasi di Lampedusa?»
«No. Cosa diceva?»
«Il silenzio è il solo omaggio che gli spiriti inferiori ma onesti possono recare in dono a certe divinità. Parlava proprio di Shakespeare… sa quanti anni avevo quando ho interpretato Amleto?»
«Quanti ne aveva?»
«Trent’anni, appena compiuti. Quanti anni ha Amleto?»
«Intende quanti anni ha nella storia?»
«Sì.»
«Credo una trentina, appunto.»
«Una trentina. Sembrerebbe di sì. Però è universitario a Wittenberg e fresco fidanzato di Ofelia. Il padre e il fratello di lei temono che i suoi ormoni siano prepotentemente adolescenziali. A trent’anni non sei così.»
«No?»
«No.»
«Allora magari è giovane fino al quarto atto e ha trent’anni all’inizio del quinto. Il che vorrebbe dire che il viaggio in Inghilterra è durato diversi anni.»
«Giusto. Potrebbe essere così. Ma che strano no?»
«È strano, sì.»
«Questo salto temporale. In realtà è sempre stato un mistero. Quando penso ad Amleto mi capita di sovrapporre immagini diverse, e a volte lo immagino persino vecchio.»
«Vecchio?»
«È curioso no?»
«Sì.»
«Un uomo vecchio e solo.»
Corrado guarda fuori. Il cielo si sta riempiendo di nuvole. Sono basse e piene, rimandano le luci delle strade, e i rumori del traffico, come un diffusore acustico. Mentre guarda sembra pescare nella memoria.
«Quando quaranta inverni faranno assedio alla tua fronte, scavando trincee fonde nel campo della tua bellezza, l’imponente livrea dell’ammirata giovinezza sarà ridotta a uno straccio d’abito tenuto in poco conto…»
«…»
«Sa cos’è?»
«No, non credo. È Amleto?»
«È un sonetto. I sonetti di Shakespeare sono meravigliosi, e molto tristi.»
«È molto triste, sì.»
«Insomma abbiamo divagato, stavamo dicendo?»
«Ma no… si stava parlando del regista e della scelta del monologo.»
«Ah ecco, certo.»
Allora racconta. Giuseppe D’Errico, il regista, era un uomo semplice, un lavoratore onesto del teatro, non era brillante, ma tutto sommato faceva il suo mestiere. Voleva che Corrado fosse eroico, tragico, marziale. Amleto non è Marcantonio, ribatteva lui. Lo aveva studiato, Corrado, letto e riletto, provando con fatica a tirare fuori un senso. Cercando la coerenza del pensiero, il mistero inafferrabile di quest’uomo che sembra vedere quello che gli altri non vedono, e per questo è travolto da una costernazione che diventa sgomento, incapacità di agire, e disprezzo per la sua stessa incapacità.
«Io volevo essere una voce flebile, lontana. Lui voleva un suono che facesse tremare il mondo.»
«E chi vinse?»
«Secondo lei?»
Alessandra sorride, dopo un po’ sorride anche lui.
«Lo sa cosa diceva Eliot? Amleto è un’opera piena di buchi, di mancanze. La prova del fallimento del suo autore. E tecnicamente direi che aveva ragione.»
«Che vuol dire?»
«Be’, ci sono delle cose rimaste irrisolte, nella storia, in alcuni personaggi. Ma proprio questa è la meraviglia. Tutti quei buchi, che sembrano essere sistemati ad arte, saranno riempiti dagli attori. Gli attori dovranno inventare ogni volta una storia che tutti noi crediamo di conoscere, ma in realtà perdiamo ogni volta.»
«Perdiamo?»
«Scivola via, la memoria non la trattiene, è un labirinto in cui ci ficchiamo ogni volta, e ogni volta ci perdiamo, in quel labirinto. E cosa esiste di più bello, al mondo, che perdersi?»
«…»
«La verità è che Amleto non ti consente di scegliere.»
«Di scegliere?»
«Sì. Non esiste. Non è un personaggio dato. È come se divenisse, insieme all’attore che lo interpreta. È una materia elastica, si adatta al corpo e alle voci. Può essere tutto. Lo puoi fare perché sei alto, forte, potente. Oppure basso, esile, asciutto. Puoi essere Amleto perché ti vergogni del mondo, oppure perché non riesci a perdonarti.»
«A perdonarti.»
«Sì. È uno spartito straripante con cui un attore dovrebbe confrontarsi tutta la vita. Fino a morirne. Le parole che si dicono contano quanto i silenzi, e talvolta anche meno. Per questo è l’opera più grande. Per questo, si ricordi, non ce ne importa niente se a scriverlo sia stato Shakespeare, Bacon oppure Marlowe. È Amleto. E basta.»
Poi si ferma. Alessandra non dice nulla, aspetta. E lui si alza, compie un piccolo giro della stanza, come se fosse solo. La guarda, e sorride.
«Io penso che Amleto sia un attore che recita Amleto.»
«Non capisco.»
«Play within the play.»
«Il teatro nel teatro.»
«Qualcosa di simile, ma non nella sua accezione più banale. Amleto è la metafora stessa di questo mestiere. Questo non riconoscersi mai, questa resistenza ostinata alla vita. Quella degli altri.»
Si è alzato il vento, fuori. Laura ha smesso di suonare e si sentono le automobili che attraversano il corso. Ci sono dei fiori di plastica, nella vetrina di quel negozio dell’angolo, che non moriranno mai. Poi Corrado si muove, gli viene un’idea, si avvicina alla ragazza e le offre la mano.
«Facciamo un gioco!»
Alessandra lo guarda stupita.
«Un gioco?»
«Un gioco, sì.»
«Ma cosa…»
«Venga, prenda il copione e salga sul tavolo.»
«Come sarebbe?»
«Salga. Di cosa ha paura? Non voglio guardarle sotto la gonna.»
Alessandra prende il copione e timidamente sale sulla sedia, Corrado la aiuta a salire sul tavolo. Lei resta immobile, presa da un’improvvisa vertigine.
«Bene, adesso si rivolga da quella parte. Immagini di essere su un palcoscenico e che lì ci sia il pubblico. Lo vede?»
«Che vuol dire?»
«È su un palcoscenico. Ha il pubblico di fronte a lei. Tutta la sala gremita.»
«Io…»
«Riesce a vederlo?»
«Non lo so.»
«Riesce a vederlo?»
«Sì… va bene. Lo vedo.»
«Adesso legga.»
«Cosa?»
«Legga l’inizio del monologo.»
«Ma non capisco.»
«Non è necessario capire sempre tutto, accidenti. Legga, ragazza, poche storie.»
Alessandra respira, e apre il copione. Esita, guarda un punto della parete, le sembra di stare in equilibrio sopra un asse con un piede solo.
«Coraggio.»
«Mi sento ridicola.»
«Non sia ridicola, appunto. Legga il monologo.»
«Perché?»
«Legga!»
Allora deglutisce, posa l’altro piede sopra l’asse, e comincia.
«Il monologo del terzo atto?»
«Stiamo parlando di quello.»
«Io…»
«La prego, legga quell’accidenti di monologo!»
«Va bene… Essere o… non essere. Questo… questo è il problema.»
Restano in silenzio per un po’. Improvvisamente Corrado vorrebbe accendersi una sigaretta. Sente il sangue in circolo irrorare i tessuti, e il respiro potente, pieno. Cosa darebbe per una sigaretta.
«Come si sente?»
«Ridicola.»
Corrado scoppia a ridere. La guarda, posando lo sguardo sulle scarpe, sulle gambe, sulla gonna a quadri, sul maglioncino celeste. E sul viso.
«Be’ sì, lo è abbastanza.»
«Io non sono un’attrice.»
«Non conta niente. Non è questo che ci interessa.»
«Conta, invece. Io non so leggere, non so come si fa, sono ridicola.»
«Riprovi.»
«Preferirei di no.»
«Riprovi!»
«Accidenti, non me la sento.»
«Ho detto riprovi, cazzo!»
Alessandra è agitata, vorrebbe scendere da quel tavolo e scappare via. Ha vent’anni, dovrebbe essere lontano da lì. Dovrebbe essere in giro, con le sue amiche, con il suo fidanzato, dovrebbe divertirsi, essere altrove. Non dentro quella stanza nascosta al resto del mondo, che puzza di carte accatastate e giornali, sola con un vecchio che sembra aver perso la ragione. Poi prova a calmarsi. Respira, e ricomincia a leggere.
«…essere o non essere, questo è il problema.»
«Vada avanti.
«…se sia più nobile per, se sia più nobile per l’animo sopportare i colpi della fortuna oltraggiosa o… prendere armi.»
«L’armi.»
«…o prendere l’armi contro un mare di guai e combattendo por fine ad essi.»
«Ora si fermi.»
Alessandra resta in equilibrio. Corrado le gira intorno, dopo qualche istante riprende a parlare.
«Cosa c’è che non funziona?»
«Non so leggere.»
«Va bene, non sa leggere, e a parte questo?»
«Non lo so.»
«Cosa c’è che non funziona?»
«Non lo so… sono…»
«È…?»
«Sono tutta… non so come dire, sono fuori… fuori.»
«Che intende dire? Si spieghi meglio.»
«Voglio dire che non ci sono, sono artefatta, sto ripetendo un cliché, leggo come una cretina che vuole fare Amleto, ecco cosa c’è che non funziona!»
Silenzio. Corrado osserva la ragazza e torna a sedersi sulla poltrona. La sua voce adesso è più calma, ma ugualmente ferma.
«Molto bene, Alessandra, ottima intuizione.»
«…io non sono un’attrice.»
Corrado resta a guardarla, lì, in piedi, con le braccia che scendono lungo i fianchi. E il respiro che le gonfia il petto.
«Adesso scenda e si metta a sedere, la prego.»
Alessandra scende e si siede di fronte al maestro. Restano in silenzio. Bisognerebbe fermarsi, pensa Corrado. Bisognerebbe avere vent’anni e non smettere più. Bisognerebbe non invecchiare, mai.
«Giri la sedia da quella parte, non mi guardi.»
Alessandra non replica, si gira nella stessa direzione di prima. Verso il pubblico.
«Ora provi a tenere il corpo abbandonato, sulla sedia, provi a sentirlo pesante.»
«Che vuol dire?»
«Provi ad abbandonare le braccia.»
Corrado si alza e si avvicina alla ragazza, è alle sue spalle. Posa le sue mani sugli omeri. Alessandra ha un piccolo sussulto, per un istante irrigidisce il collo e le spalle.
«Stia tranquilla. Più morbida, rilasci le spalle, e le braccia.»
Corrado tiene le mani sugli omeri della ragazza. Le dita compiono una pressione leggera e costante. Alessandra si concentra e lascia che le braccia scivolino lungo i fianchi.
«Così?»
Così. Corrado controlla che le braccia siano abbandonate. Le tocca. Sono belle le braccia di Alessandra, lunghe, con il giusto tono muscolare.
Adesso vorrebbe accarezzarle ancora, sentire il contatto dei polpastrelli. E forse anche lei lo desidera, si abbandona.
«Molto bene, adesso chiuda gli occhi.»
Alessandra esita ma poi li chiude. Decide di affidarsi a quella voce, dietro di lei.
«Adesso immagini che le sue braccia e le sue gambe… si concentri… immagini che braccia e gambe perdano consistenza, perdano peso.»
Si abbandona. È un suono di ipnosi. Lascia andare le braccia e le gambe. Solo la voce, dietro di lei.
«E mentre le sue braccia perdono forma, si sciolgono, senza aprire gli occhi… senza aprire gli occhi, mi ripeta le prime parole… le prime parole del monologo, quelle che ricorda, soltanto quelle che ha voglia di dire.»
Alessandra sente un ingombro, dentro di sé, un inciampo, qualcosa che ostruisce il fiato, ma resta sospesa nel buio e ci prova. Dopo un tempo lungo emette un suono, e la voce ricomincia a parlare
«Essere o… non essere. Questo è il problema.»
Galleggiano nel buio. Tutte le parole. Viaggiano come piccoli voli acerbi. Sente il corpo raccogliersi nel respiro. Dietro di lei la voce la aiuta. Come venisse da un’altra vita.
«…se…»
«Se sia più nobile per l’animo… sopportare i colpi della fortuna oltraggiosa o prender l’armi… contro…»
«…un mare…»
«Un mare di guai e combattendo por fine ad es… si.»
«E combattendo por fine ad essi.»
Restano in silenzio adesso. Alessandra respira, ha il collo sudato, sente caldo. Corrado avverte il calore del corpo, vede il petto gonfiarsi e sgonfiarsi, sente la resa. Si stacca da lei, piano. Le sfiora i capelli e respira, anche lui.
«Molto bene, Alessandra, molto bene.»
La ragazza riapre gli occhi, lentamente, è smarrita. E fatica a parlare.
«Cosa ha sentito?»
«Non lo so, ma ero…»
«Era dentro.»
«Sì.»
«Sì.»
«Era questo che intendeva, per voce flebile… lontana?»
«Be’, questa era la direzione, sì. Con un’altra qualità, ma la direzione era questa.»
Sorridono, entrambi.
Non lo sa perché, ma Alessandra si ricorda di quando da piccola aveva la febbre. Le ritorna in mente la luce invernale nella sua stanza, la pila dei fumetti accanto al letto, l’odore caldo delle lenzuola. E la voce di nonna Nina che le racconta storie di guerra. Magari se le inventa, chi lo sa. Non ha importanza, sente la voce, Alessandra vuole sentire quella voce, arrochita da milioni di sigarette. La mano secca, piena di vene azzurre, che accarezza la sua. Le dita più scure, consumate dal tabacco, e le due fedi all’anulare. Sua nonna faceva la staffetta per rubare le patate oltrarno, durante la guerra. Era piccola e agile, i tedeschi non l’hanno mai beccata.
Che fine ha fatto, la voce di sua nonna. E il sapore delle arance spremute, il suono della radio, nell’altra stanza, la pila dei fumetti accanto al letto. E suo padre.
Vorrebbe sentire l’odore, adesso. Quando andava a trovarlo nel laboratorio, e lui la abbracciava, con quell’odore intenso di colla, legno e dopobarba.
Tutto quello che ricorda somiglia alla bellezza.
L’abbandono e la bellezza.
Adesso guarda Corrado, è fermo, davanti a lei.
«Posso chiederle una cosa?»
«Certo.»
Alessandra spegne il registratore. Esita un po’.
«È una domanda personale, posso?»
«Sentiamo.»
«Forse non dovrei.»
«La ascolto.»
«Va bene. Lei…»
«Coraggio.»
«…è stato mai sposato?»
«Come?»
«Mi scusi… sì, insomma, sono invadente, mi chiedevo se si fosse mai sposato.»
«…»
«Sono stata invadente, mi scusi.»
«No, non mi sono mai sposato.»
«Ah.»
«Ho sempre avuto troppo da fare.»
«È una risposta…»
«…idiota. È una risposta idiota.»
Corrado prende un altro biscotto. Nella stanza la luce sta calando, e la lampada adesso segna i contrasti. Ecco, questo variare della luce, sugli oggetti, lo ha sempre affascinato. A volte resta delle ore seduto, a guardare cambiare le cose immobili intorno, per come la luce le forma. Ha molto tempo, pensa. Non ne ha molto ancora, pensa.
«Lei è fidanzata?»
«Sì.»
«Come si chiama il suo fidanzato?»
«Francesco.»
«Francesco.»
«Sì, io però lo chiamo Chicco.»
«Peccato.»
«Perché?»
«Francesco è un bel nome.»
«Chicco è un vezzeggiativo. È un nomignolo.»
«È un nomignolo, appunto.»
«Okay, è un modo affettuoso per chiamare qualcuno, sarà capitato anche a lei.»
«Può darsi. Anche io ho amato una donna che si chiamava Francesca. La chiamavo Francesca.»
«Era un’attrice?»
«Sì. Poi ha smesso.»
«Ha smesso?»
«Succede, a volte. Di non poterne più.»
«…»
«È bello?»
«Cosa?»
«Chicco, il suo fidanzato.»
«Ah sì, credo. O forse non lo è. A me sembra bello, non mi piacciono gli uomini appariscenti.»
«Già.»
Francesca non è mai stata appariscente, ma non passava mai inosservata. Aveva quella qualità così difficile da definire, le parole disegnano formule abusate, spesso. Era dotata di una grazia così rara, e di una forza che intimidiva le persone.
«Non l’ho mai sposata, ci siamo persi di vista.»
«Che vuol dire persi di vista?»
«Lei è andata via. Io non l’ho cercata.»
«È passato molto tempo?»
«Sì, molto.»
«Era bella?»
«Era bella sì. Molto.»
Era bella, sì. Molto. Anche se adesso Corrado non lo sa, se quello che ricorda è un ricordo. O un lavoro di orefice nella memoria. Forse quella che ricorda non è neanche lei. Adesso non lo sa più.
«Posso prendere un biscotto?»
«Certo.»
«Mi è venuto un po’ di appetito.»
«Possiamo fare una pausa e mangiare qualcosa, se vuole.»
«Sì, se ne ha voglia.»
«Ne ho voglia.»
«Bene, cosa vuole che le prepari?»
«Non saprei. Temo di non avere una dispensa molto fornita.»
«E io non sono una grande cuoca, quindi è perfetto.»
«Facciamo una pasta.»
«Ha degli spaghetti?»
«Sì, credo di sì.»
«Olio, aglio? Peperoncino?»
«Dovrebbero esserci.»
«Ci penso io.»