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C’è una campana che suona ogni sera, per la messa delle diciotto, in una chiesa a due passi da lì.
È poco più grande di una stanza, gli arredi sono essenziali, le pareti scrostate, solo una luce sull’altare dove è sospeso un crocifisso di legno. Se rimani seduto su una panca e guardi il crocifisso, dopo un po’ il resto si annulla, assorbito nell’oscurità. E il crocifisso comincia a muoversi, appena.
Corrado non crede in Dio. Ma, per una sorta di accordo reciproco, è amico di quel crocifisso. Ogni tanto, quando esce di casa, entra in chiesa e si siede sulla panca. E ci parla.
Ma non esce quasi più. Adesso che il tempo diventa più stretto forse comincia a sentirne la mancanza, vorrebbe trovare le energie per cercarlo. Dio. Ma non succederà.
Quando si esaurisce la scia più fiacca dell’ultimo rintocco, ritorna il silenzio. La testa di Gorgone manda un crepitio sommesso, di elettricità. E tutto sembra pochissimo, intorno. Eppure è esattamente quello che serve.
A ottobre cominciarono le prove di Amleto. In un piccolo teatro di provincia. Francesca lo aveva lasciato il giorno del suo compleanno, il 25 settembre.
Sono infelice, addio. Gli aveva scritto solo un biglietto, ed era partita.
Corrado si sentì sperso. Disse a se stesso che sarebbe tornata, che non ce l’avrebbe fatta a staccarsi davvero. Avevano avuto altre crisi, altre volte, ci avrebbe ripensato. E invece non successe.
La odiò, profondamente. Ma non la cercò, non le corse dietro, non fece nulla per fermarla. Restò immobile, convinto di essere invulnerabile, come sempre.
«L’ho tradita tante volte…»
Lo dice a mezza voce, parlando a nessuno. Ha amato Francesca, e l’ha tradita, non ricorda più quante volte. Quindi chissà cosa è vero, e cosa non lo è. I ricordi sono insetti che volano, controvento, e attraversano i vortici, come se non avessero corpo da opporre, ma fossero solo ali, che tagliano l’aria.
Beve ancora un sorso d’acqua, e respira.
Quando era in giro con gli spettacoli gli sembrava inevitabile concedersi. Era bello, e le donne lo cercavano. Qualcuna se la portava a letto, per compagnia, per solitudine, per soddisfare quella fragile domanda di onnipotenza. Erano storie di una notte soltanto, questo bastava a sanare il senso di colpa. E adesso non si ricorda nessuna di quelle facce.
Forse solo Justine. Forse perché è stata l’ultima, prima che Francesca lo lasciasse. Forse perché lei era triste, e sorrideva, nella penombra di quella stanza misera, mentre lui le accarezzava il viso e le prometteva cose che non avrebbe mantenuto. Justine sapeva che non si sarebbero visti mai più.
Corrado respira profondamente.
I suoni di Roma arrivano molli, sui palazzi di fronte ci sono lenzuola, che il vento agita, come le bandiere di una resa.
La incontrò un anno dopo, per caso, in un negozio di cappelli. Era di spalle e ne stava provando uno nero con una corona di fiori bianchi intorno, sembravano sospesi sulla sua testa, magnolie di seta finissima. Era bella, sorrideva alla commessa. Quando lo vide, riflesso nello specchio, smise di sorridere e distolse lo sguardo. C’era un uomo con lei, era elegante, non bello, con una presenza forte, imponente. Rassicurante. Francesca si fece incartare il cappello e uscirono, non si girò. Li vide allontanarsi dalla vetrina, l’uomo aprì lo sportello di un’auto sportiva e le offrì il braccio. Lei entrò e l’auto partì.
«Non si è girata a guardarmi.»
Non la incontrò più.
Una volta, era a Milano, gli sembrò di vederla in platea, nelle prime file, gli parve di riconoscerla, nella penombra. Perse l’orientamento, e per qualche istante anche la memoria. Quando lo spettacolo terminò, durante gli applausi, la cercò con lo sguardo. Ma non c’era più.
Chissà dov’è adesso Francesca. Chissà dove vive. Chissà se è viva.
Non rimane niente. Ecco, non resta niente, delle persone con cui abbiamo vissuto e diviso una intimità che ci è sembrato un dono da conservare. Nessun contatto, nessun segnale.
Come se la vita fossero scatole. Vivi dentro una scatola, quell’anno, quei giorni meravigliosi o terribili. E puoi riviverli ancora, nella consistenza variabile del ricordo, ma non sai come sarebbe adesso, di cosa parleresti. O se magari preferiresti restare in silenzio, ancora una volta.
E guardarle il viso.
Francesca era una donna piena di grazia. Non riesce a trovare una forma diversa per dirlo. L’eleganza del gesto, della figura, la voce, non era questo soltanto. Ma la grazia. Quel movimento necessario, del braccio e della mano, la curva delle sopracciglia, le caviglie. Le parole usate, non per convenzione o necessità. E il fruscio della veste, che la rendeva presente e irraggiungibile.
Come quella volta. Erano a Roma, di sera, a due passi dal Pantheon. Lei portava un vestito giallo, scoperto sulle spalle, e niente trucco. Avevano bevuto un bicchiere di vino, in una trattoria all’aperto, e stavano ridendo. Ora ci pensa, a come suonavano le loro voci, in quella strada piccola, dove potevi sentire i passi delle persone andare e venire. A come tutto sembrò fermarsi quando lei lo guardò e smise di sorridere. La baciò allora, per la prima volta, sentendo le labbra e il vino. E tutta la perfetta felicità di giugno.
«Io mi sono innamorato di te.»
«Dillo di nuovo.»
«Mi sono innamorato di te.»
«Dillo ancora.»
Dillo ancora. Chissà dov’è Francesca. Adesso vive in quella scatola.
Squilla il telefono. Corrado lo lascia squillare, tre quattro cinque volte. Smette di squillare.
Poi ricomincia, allora si alza e va a rispondere.
«Sì?»
«Il signor Lazzari Corrado?»
«Corrado Lazzari, chi parla?»
«Buongiorno, signor Lazzari, le chiedo di dedicarmi un minuto del suo tempo.»
«Lei chi è?»
«La chiamo da Cubo Television.»
«Chi?»
«Sono Mattia, le chiedo di dedicarmi un minuto del suo tempo, la chiamiamo da Cubo Television. So che lei è stato utente Rai in passato, giusto?»
«No, guardi… non mi interessa, non guardo la televisione.»
«Non possiede un apparecchio televisivo?»
«No. Non possiedo un apparecchio televisivo.»
«Anche per chi guarda la tv solo in streaming noi abbiamo…»
«La prego, non so neanche di cosa stia parlando. Mi lasci in pace.»
«Non è il caso di essere scortese, però. Faccio il mio lavoro.»
«E io il mio. La prego di lasciarmi in pace.»
«Va bene, grazie per l’attenzione, signor Corradi.»
Lazzari, semmai. Corrado Lazzari.
«Buongiorno.»
Riattacca. Resta in piedi. Poi torna al tavolo e si siede.
Rimane senza fare nulla per un po’.
Millenovecentosessantadue.
Fu un ottobre freddo.