9

La verità spietata dei pomeriggi. Quando certi alberi, vicini alle case, sembrano allungarsi nella loro secchezza, in un gesto invernale. La luce misurata di quella stanza. La necessità quotidiana di affrontare il cambio dell’ora e l’arrivo della notte. Le camicie stirate, l’odore dei cassetti, il suono della puntina sui dischi, il silenzio centenario di quel palazzo.

Tutto sembra farsi udito. Come se il corpo si accorgesse del tempo dato, quello che rimane.

In queste settimane sembra tutto più chiaro.

Di tanto in tanto pensa alla morte.

Gli capita, senza che ci sia una causa precisa, un luogo. Lo attraversa un pensiero di cose finite.

Di distacco, di fissità degli sguardi, di nulla, che si sovrappone agli oggetti, alle voci. Nulla più.

Prima gli faceva paura. Ora no, non ha paura. È solo stupito dalla velocità.

Lo spazio della memoria si contrae, in un tempo ristretto, schiacciato dalle giornate che si ripetono, uguali. E gli sembra di aver vissuto pochissimo, di avere da dire e da fare troppe cose ancora, prima di morire. Forse per questo vuole ricordare tutto, per allungare il tempo che è andato.

Per questo ha deciso di farla entrare, quella sera.

Per rompere l’incantesimo dei giorni contati, per essere in scena, ancora una volta. Almeno una volta ancora.

A mezzanotte lo svegliano i tuoni. Allora si alza e va a chiudere le imposte.

Sente il rumore dell’elettricità, i cani abbaiare, i fantasmi del giorno passato sciamare e incontrare quelli del giorno che arriva. Poi chiude la finestra e si mette seduto. E gli viene naturale pensare a quella ragazza.

Gli sembra di averla conosciuta in giovinezza, quando è stato capace di cambiare il futuro. Si versa un bicchiere d’acqua, la beve. In queste settimane si sono incontrati ogni giorno, riducendo le distanze. È questo che pensa, è questo il pensiero che è entrato quel giorno nella sua testa. Si chiede se è vero, o se è un pensiero che vive lì, nella sua testa.

Forse è così. Forse è un pensiero senile, abbagliato dalla timida arroganza della giovinezza.

Ma cosa importa. Cosa importa.

Cosa diavolo importa.

Torna a dormire, si stende sul letto e guarda il soffitto. E si addormenta.

È dicembre, una giornata fredda, di sole diritto.

Dalla finestra della stanza Roma ha preso i colori della festa, e le luci intermittenti sulle vetrine scandiscono il tempo crudele delle solitudini.

Corrado adesso lavora ogni giorno, senza risparmio, al suo archivio. E ogni giorno Alessandra passa a trovarlo. Non gli porta soltanto il pranzo e la cena. Parlano. A volte pomeriggi interi.

Corrado racconta e lei ascolta, prende appunti, e ridono, perfino, quando c’è da ridere.

Quel pensiero è diventato una cosa più chiara, rotonda. Non sa quanto tempo gli resta, la verità è questa. Non tornerà mai sul palcoscenico, la verità è questa. Ma da qualche settimana è come se tutto fosse in ordine, e il pubblico fosse tornato a vederlo. Alessandra è il suo pubblico. E lui pensa che questo può bastare. Anche se fosse il suo ultimo pubblico. Può bastare.

È una mattina luminosa. Le finestre sono aperte. Corrado è in camicia, si è appena sbarbato e si passa sul viso il dopobarba, è di buon umore, accenna perfino una canzone. Sul tavolo sono sistemati in ordine documenti, libri e il copione di Amleto. Una bottiglia d’acqua e due bicchieri.

Sul frigorifero un mazzo di fiori, le viole del pensiero.

Squilla il telefono. Corrado va a rispondere.

«Pronto…»

«Corrado.»

«Valentina.»

«Come stai?»

«Bene, grazie. Molto indaffarato ma bene.»

«Lo sai che sono molto offesa con te.»

«Lo so. E hai ragione. Sono imperdonabile.»

«Ti aspettavo.»

«Hai ragione. Ma verrò a vederti alla ripresa, il prossimo autunno. Te lo prometto.»

Te lo prometto.

«Ci sei sempre stato.»

«Sono state settimane complicate, non ho avuto un attimo di quiete. Devi credermi.»

«Stai lavorando, quindi.»

«Sì… sì.»

«Ma dai! Racconta.»

«Te ne parlerò.»

«Sono curiosissima.»

«Te ne parlerò.»

Adesso non so neanche chi sei.

«Domani debuttiamo a Milano.»

«Al Piccolo?»

«Sì.»

«Bene.»

«È come se fosse sempre la prima volta.»

«È così.»

«Con Riccardo abbiamo avuto dei problemi. Lui dice che andando avanti nelle repliche il personaggio sta cambiando.»

«È una cosa che può succedere. Sta crescendo.»

«Lui dice che devo attenermi strettamente alle sue indicazioni. Che non posso snaturare una scelta così precisa.»

«E tu dagli ragione. Digli che è così, che ci farai attenzione.»

«Non mi piace come mi parla.»

«Tesoro, i registi non capiscono niente, quasi mai.»

«Mi fa sentire insicura. Ecco per esempio domani. Mi sta crescendo l’ansia.»

«Ricordati sempre di respirare.»

«Respiro.»

«Respira… esatto. E concentrati su un punto. Vedrai che andrà benissimo, nessuna paura.»

Corrado comincia a tossire, una tosse insistente. Infila una vestaglia.

«Tutto bene?»

«Certo sì… ho bevuto un goccio d’acqua e mi è andato di traverso.»

«Ma stai uscendo? Vedi qualcuno.»

«Vuoi sapere se mi sono fidanzato?»

«Dai, Corrado, è vero?»

«Valentina, non vedo nessuno. Studio, e leggo molto.»

«Come ti invidio.»

«Mi invidi?»

«Ormai non leggo quasi nulla. Non c’è mai il tempo.»

«Il tempo c’è sempre.»

«Quindi non vedi nessuno.»

A volte la vista si annebbia. Deve chiudere gli occhi, e riaprirli. Tutte quelle mosche che si muovono intorno.

«No, cioè sì, ho conosciuto una studiosa, una professoressa.»

«Ah.»

«Una docente universitaria, profonda conoscitrice del teatro elisabettiano, molto in gamba. Sta facendo una ricerca sui più importanti allestimenti del Novecento per una pubblicazione internazionale. Un capitolo intero è dedicato a un mio vecchio spettacolo, un Amleto, di tanti anni fa.»

«Ma dai, che bello.»

«Sì, quando è venuta a trovarmi neanche me lo ricordavo… ha così insistito.»

«Quindi la vedi.»

«Viene da me, ogni settimana, ho pensato che potevo ritagliarmi un po’ di tempo da dedicarle.»

«È già innamorata di te?»

«Non è innamorata di me…»

«Tutte sono innamorate di te.»

«Smettila di prendermi in giro.»

«Dico la verità.»

Non ho voglia di parlarti, Valentina. Non abbiamo niente da dirci. Apre e chiude gli occhi.

«Adesso scusami, ti devo lasciare.»

«Mi prometti che ti fai vivo ogni tanto?»

«Te lo prometto.»

«Ti amo, Corrado.»

«Ti bacio.»

«Un bacio a te.»

«Ciao.»

Corrado riattacca. Valentina è stata sua allieva, in accademia, molti anni fa. Era un’attrice giovane e promettente, aveva i capelli rossi, lunghi sulle spalle. E la pelle bianca, e le labbra dolci.

Ora è un fantasma.

Resta in piedi, poi si schiarisce la voce, e va a chiudere le finestre.

Prende da un cassetto l’astuccio con le pillole e ne ingoia una con un goccio d’acqua. Controlla l’ora. Si accerta che i documenti sul tavolo siano al loro posto, sistema meglio le pile, sfoglia il copione e infila un segnalibro. Si annoda la cravatta e prende la giacca dall’armadio, toglie la vestaglia e la appende, poi indossa la giacca. Prende il libro, inforca gli occhiali. Rimette a posto il libro e va alla finestra. Si guarda nel riflesso del vetro, passa le dita sul viso. Sente la superficie liscia della guancia, la curva solida della mandibola. Sente il respiro.

«Non è puntuale.»

Pensa al numero dei giorni. Quando li contava, prima di andare in scena.

Tutti i giorni, prima del debutto. Li contava sempre, pronunciando il numero, ogni mattina, e avvertiva una piccola scossa di piacere. Mancavano sette giorni al debutto. Il numero sette suonava nella stanza da bagno, di fronte allo specchio, e sembrava che un fluido entrasse nel suo corpo. Era immortale. Non sarebbe mai morto.

Sette.

Squilla il campanello.

«Ecco…»

Corrado lascia passare alcuni secondi. Poi si avvicina alla porta.

«Chi è?»

«Maestro…»

«Ah, sì… un attimo.»

Resta fermo, torna indietro come preso da un impegno inesistente, conta fino a dieci e poi ritorna alla porta e apre. Fa entrare la ragazza.

Alessandra indossa un maglioncino celeste, sotto il piumino. E una gonna a quadri. Sembra uscita da una cartolina di cinquant’anni prima.

«Mi scusi tanto per il ritardo, ho avuto un problema col motorino.»

«Che ora è?»

«Le dieci e un quarto.»

«Stavo sbrigando delle cose.»

«Se oggi è impegnato possiamo rimandare, non vorrei…»

«No, si accomodi.»

«Grazie.»

Alessandra toglie il piumino e lo appende, apre lo zaino e tira fuori un quaderno per gli appunti, una copia dell’Amleto e un piccolo registratore con un microfono. Da qualche giorno stanno lavorando sul testo, e Corrado le ha permesso di registrare quello che dice. La ragazza sistema tutto sulla tavola. Profuma di bagnoschiuma. Corrado prende una scodella con dei biscotti.

«Vuole una tazza di tè? Un biscotto?»

«No, grazie.»

«Sono buoni, con l’amarena.»

«Ho fatto colazione un po’ tardi.»

Alessandra prende una sedia, mentre Corrado si accomoda in poltrona. Profuma di aria fredda.

«Oggi come si sente?»

«Bene.»

«Sono contenta.»

«Perché?»

«No, dicevo, sono contenta, mi sembrava che ieri…»

«Ieri?»

«Sì, insomma, non vorrei averla affaticata in questi ultimi giorni.»

«Nessuna fatica.»

«A volte non mi rendo conto di quanto io possa essere invadente, magari…»

«Sto benissimo. Sono abituato a ben altri ritmi.»

«Certo, sì.»

«Procediamo?»

«Sì, subito.»

Corrado assaggia un biscotto. Sente il gusto dolce e acidulo dell’amarena. Accavalla le gambe, e resta in attesa.

«Allora… eravamo arrivati all’inizio del terzo atto. Mi stava dicendo di Rosencrantz e Guildenstern, tutta la questione del tradimento…»

«Sì.»

«Riprendiamo da lì?»

«Va bene.»

«Accendo il registratore.»

Alessandra fa per accendere, ma Corrado le fa cenno di aspettare.

«Sì?»

«Voglio farle prima una domanda.»

«Sì…»

Corrado attende qualche istante, è un tempo studiato. Si pulisce le labbra con un fazzoletto e comincia.

«Lei ha amici, amiche?»

Alessandra posa il registratore sul tavolo e lo guarda.

«Sì, certo.»

«Amiche di cui si fiderebbe ciecamente?»

«Credo di sì, non lo so.»

«Non lo sa?»

«Come si fa a dire se ci si può fidare ciecamente di qualcuno?»

«Quindi non è certa di potersi fidare.»

«Be’, non al cento per cento.»

«Non al cento per cento.»

«No.»

Ancora qualche istante. Non c’è nessuna fretta, pensa Corrado.

«Ho capito.»

«Cosa?»

«Riflettevo.»

«Su cosa?»

Nessuna fretta. Una costruzione lenta.

«Amleto.»

«Amleto? Cosa?»

«Non ha amici.»

«Amleto non ha amici?»

«No.»

«Pensava a questo?»

«Sì.»

«Ah.»

«Pensavo questo.»

«E Orazio?»

«Certo, c’è Orazio, è l’unico che gli resta fedele fino alla fine.»

«Infatti.»

«Secondo lei, Orazio che cosa pensa veramente di Amleto?»

«Cosa pensa?»

«Già.»

«Non lo so.»

«Provi a immaginare.»

«Non lo so. Potrebbe pensare che è pazzo?»

«Probabilmente sì. Forse non è un caso.»

«Cosa intende dire?»

«Forse è proprio Amleto a desiderare che sia così.»

«Vuol dire che desidera che tutti pensino che sia pazzo?»

«Direi di sì.»

«Perché?»

«Amleto è un uomo solo. Lei ha ancora frequentazioni con le sue amiche di scuola?»

«Che c’entro io?»

«Mi risponda, per cortesia. Frequenta le sue ex compagne di scuola?»

«Sì… un paio, non ci vediamo quasi mai in realtà, però siamo rimaste in contatto.»

«E quando vi vedete che fate?»

«Che significa?»

«Quello che ho detto.»

«Mah, non lo so, chiacchieriamo. Alla fine si fanno sempre le solite cose.»

«Per esempio?»

«Bah, per esempio ricordiamo le cose della scuola… appunto.»

«È divertente?»

«Sì. Oddio, alla fine ci raccontiamo sempre…»

«Le stesse cose.»

«Sì.»

È un piacere lento. Giocare con l’attesa, con le domande e le risposte, con il disagio e il silenzio. Sentire che hai di nuovo in pugno qualcuno.

«Loro cosa fanno?»

«Intende dire se studiano o qualcosa del genere?»

«Esatto.»

«Elena studia, un corso di laurea breve, fisioterapia, credo. Non ho mai capito bene. Teresa lavora col padre. Hanno un negozio di ferramenta e lei si occupa dell’amministrazione.»

«Bene, a loro parla dei suoi studi?»

«Dei miei studi?»

«Sì.»

«No.»

«Come mai?»

«Non capisco, credo di non capire queste domande.»

«La prego, mi faccia concludere. Come mai non parla alle sue amiche dei suoi studi?»

«Be’, non so come dire. Non abbiamo… Abbiamo interessi diversi, a me piace leggere, esco poco la sera, guardo poca tv, sono un po’ strana.»

«Lei è un po’ strana?»

«Sì, voglio dire… sono molto affezionata a loro, ma abbiamo preso strade diverse. Tutto qui.»

«E quindi quando vi incontrate parlate delle solite cose, di quando eravate ragazzine, e poco altro.»

«Sì, credo di sì.»

«Capisco.»

«Ma perché mi fa queste domande?»

Corrado resta ancora in silenzio, non risponde.

«Adesso sia sincera. Lei è dinanzi a un bivio…»

«…un bivio?»

«Immagini di trovarsi dinanzi a un bivio. Da una parte una grossa opportunità per il suo futuro, faccia conto quella borsa di studio per l’estero di cui parlava ieri, come si chiama…»

«Fulbright.»

«Ecco, Fulbright. Da una parte Fulbright, questa opportunità e la scelta anche dolorosa di abbandonare, magari per sempre, le sue cose, il suo mondo, e quindi anche queste due care amiche di infanzia.»

«…»

«Dall’altra la vita che continua, in questa città, un lavoro precario, magari più in là qualche supplenza. In compenso ci sarebbero le sue amiche di infanzia a portata di mano, che ogni tanto può incontrare ancora e rispolverare i bei tempi delle elementari.»

«…»

«Cosa sceglie?»

«Cosa scelgo?»

«A cosa è disposta a rinunciare?»

Alessandra lo guarda. In quel momento prova un sentimento obliquo, si sente a disagio, stretta in un angolo, senza motivo. Eppure in qualche modo c’è qualcosa che vuole scoprire, a cui non riesce a dare un nome. Come quando cammini su un sentiero di montagna, e sai che oltre la staccionata c’è il nulla. Hai paura ad affacciarti, ma desideri farlo. Adesso è così. Capisce che quello strano discorso potrebbe avere un senso. A cosa è disposta a rinunciare?

«È una domanda retorica. Lei lo sa.»

«No, non lo so, me lo dica.»

«Va bene. Io credo… credo che rinuncerei.»

«Rinuncerebbe?»

«Credo che non riuscirei a rinunciare alla borsa di studio, mettiamola così. Devo andarmene da qui, voglio partire.»

«Vuole andarsene.»

«Sì.»

«Lo capisco.»

«Ecco.»

«Bene, Alessandra, adesso che me lo ha detto si sente una traditrice?»

«Una traditrice? Perché? Che significa?»

«Quello che ho detto. Si sente di aver tradito?»

«Ma no, non credo.»

«Ne sono lieto.»

«Però…»

«Però?»

«…non mi sento del tutto a mio agio, ecco.»

«Neanche Rosencrantz e Guildenstern lo erano.»

Silenzio. Restano zitti. Alessandra distoglie lo sguardo e osserva i suoi piedi, sulla calza destra c’è una piccola smagliatura che disegna una virgola sul polpaccio. Corrado si alza e prende dalla credenza una tazza. Sente un applauso, da qualche parte, arrivare.

Adesso lei lo guarda, mentre è di spalle. Sembra più giovane, versa l’acqua da un bollitore. Ha delle belle spalle, larghe, dritte. I movimenti sembrano più fluidi. Sono, più fluidi.

«Forse ho capito quello che dice.»

«Bene.»

«E lei?»

«Io cosa?»

«Lei cosa sceglierebbe?»

«Io ho già scelto.»

Si gira verso di lei e accosta la tazza alle labbra, e beve lentamente. Poi assaggia un biscotto. Chiude gli occhi, per sentire il gusto dell’amarena, più intensamente. Li riapre e guarda Alessandra. Il suo viso incrocia la luce della lampada, che taglia i lineamenti nel chiaroscuro invernale. Adesso è bella. Adesso è veramente bella. Poi riprende.

«Sa che cos’è la cosa straordinaria di quest’opera, dell’Amleto dico?»

«Cos’è?»

«È che alla fine dei conti, i sentimenti, così controversi, che animano i personaggi, i conflitti, il dolore, l’invidia, l’ironia, la rabbia, il desiderio cieco di vendetta…»

«…»

«Ecco tutti quei sentimenti… ci rendono uguali.»

«…»

«Almeno una volta nella sua vita lei sarà Rosencrantz o Guildenstern. Io lo sono stato, più di una volta.»

Ancora una volta il silenzio. Un tempo perfetto, nessuna sbavatura, un’esecuzione impeccabile. E anche lei non è stata male, pensa Corrado, seduta sulla sedia, con metà del viso al buio.

«Posso sapere quando?»

«Non adesso.»

«Va bene.»

«Passiamo al terzo atto?»

«Sì, certo.»

Alessandra si scuote, prende il copione, posiziona il microfono e accende il registratore. Chissà com’era a vent’anni, il maestro. Chissà come sarebbe stato incontrarsi, per caso.

Corrado torna a sedersi sulla poltrona.

Dalla finestra arriva il suono del pianoforte. Riconosce la musica. Bach, sarabanda in do minore. Arriva da un’altra vita. Ricorda un passaggio dentro le stanze di quella casa, da una camera all’altra, con la musica che si avvicina. E la vita che si deposita negli oggetti, sulla polvere che apparecchia i mobili, sui divani imbavagliati nei lenzuoli. Cammina in quella casa, mentre Francesca suona il pianoforte, qualche giorno prima di andarsene. Lo ha sognato una di queste notti, nitidamente.