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Le mattine sono tutte uguali, tranne che per il freddo d’inverno e il caldo d’estate. E la luce che cambia. Si inclina sulla parete e ne taglia una fetta, sempre più sottile, quando finisce la bella stagione.
Corrado si sveglia presto, prepara il caffè, si rade, si veste. Poi legge il giornale, glielo fanno trovare dietro la porta, e il caffè lo lascia raffreddare nella tazzina. Ne riempie una seconda, più tardi, e la beve in piedi, per abitudine, guardando fuori.
Dalla finestra si vede Roma, e la sua disperata bellezza.
Se la ricorda bene, tanti anni fa. Roma era diversa. C’era la gente, la speranza, la vita. Non come adesso, dice lui. Ma lui che ne sa? Cosa ne sa adesso, che non esce quasi più? Cosa ne sa di come è cambiato il mondo?
La prima volta che mise piede nella sede dell’Accademia di Arte Drammatica, in quel villino di piazza della Croce Rossa, aveva appena compiuto diciotto anni. La guerra era finita, ma Roma era ancora in ginocchio. Per lui che veniva da una famiglia semplice, dai bombardamenti, era l’ingresso nel Mondo. Non aveva paura.
Quanti anni sono passati. I sogni si confondono con le giornate. Il primo anno di corso lo trascorse tra la scuola e il convento di gesuiti, dove alloggiava temporaneamente e dove suo zio, gesuita anche lui, lo aveva raccomandato. Nessuno sapeva che stava studiando per fare l’attore. Nessuno doveva sapere. Corrado era bello, sfrontato, con un ciuffo nero sulla fronte. Alto, secco, con le spalle larghe. Avrebbe potuto fare carriera nello sport, giocava bene a calcio e a pallacanestro. Ma voleva fare l’attore, ed era testardo.
Si ricorda tutto di allora, come se fosse ieri. Perfino la bellezza delle privazioni, che lo rendevano invincibile. I viaggi, di andare e venire, dalla scuola al convento, e l’accordo silenzioso con lo zio. Non aveva più nessun altro, nessuno vivo.
Pensa a queste cose mentre si veste. Indossa una camicia stirata, una cravatta e una giacca da camera. Usa sempre un dopobarba al sandalo, taglia con cura le unghie, i peli del naso e delle orecchie. Controlla ogni mattina il viso allo specchio, stirando le rughe con i polpastrelli. Non c’è niente di peggio che una persona che non ha cura di sé, lo dice spesso. Lo dice spesso a nessuno.
La casa profuma di cera d’api e di gelsomino, il suo fiore preferito. Si fa mandare l’essenza da una vecchia signora che vive a Palermo e ha una profumeria artigianale. L’ha conosciuta una quarantina di anni fa, quando era in tournée.
Lo aveva colpito la scritta sull’insegna, mentre passeggiava nei pressi della chiesa di San Giuseppe dei Teatini, in un pomeriggio di aprile. SUPERBA MELODIA, c’era scritto così. Verniciato a mano su una tavola di legno. E allora entrò, la bottega di fiori e profumi sembrava l’antro di un mago, tanti scaffali pieni di cose, un disordine armonico e denso. La donna venne fuori dal retro del locale e gli andò incontro. Gli tese la mano, come se lo conoscesse, aveva una tuta da uomo e un grembiule, gli occhi chiari e i capelli biondi. No, non lo conosceva, non sapeva chi era, lui che in città lo fermavano tutte, le signore di Palermo. Aveva così poco tempo per andare a teatro, disse, il suo lavoro la assorbiva completamente. Corrado si guardò intorno e poi le chiese del nome sull’insegna, era curioso. E lei gli raccontò sorridendo che suo padre, Peppino Melodia, diceva sempre che una cosa bellissima lui l’aveva fatta nella vita, ed era sua figlia. E così l’aveva chiamata Superba. Superba Melodia era lei, e il suo profumo.
Quel pomeriggio chiacchierarono a lungo, per motivi diversi avevano tempo da usare, diventarono amici, lei gli offrì un bicchiere di latte di mandorla e gli raccontò strane storie di piante e di fiori. Poi gli fece annusare alcune essenze che stava preparando. Una di queste era Jasminum sambac, il gelsomino d’Arabia. Corrado rimase stordito, c’era qualcosa di misterioso in quel profumo, come se custodisse un segreto. Ne acquistò una boccetta, e continuò ad acquistarne ancora e farsele spedire, per tutto il resto della vita. Il suo camerino ha sempre profumato di gelsomino.
A Corrado Lazzari piace ascoltare la filodiffusione, oppure mettere un disco sul giradischi.
A volte alza un po’ il volume, gli sembra che il suono si propaghi in tutto quel vuoto del palazzo vuoto. L’edificio se l’è comprato una banca per farci gli uffici, e a poco a poco gli inquilini sono andati via tutti. Lui però non vuole andarsene, fino a quando la legge glielo consente, fino a quando potrà.
Gli piace il silenzio nudo delle case antiche. Tutti i suoni delle cose, una sintonia sottile.
Gli piace sentire il rumore, le pagine dei giornali che gracchiano, la frizione liscia del velluto sulla poltrona, le posate che fanno la scherma e diventano sasso sulla tavola di legno crudo. Quella stanza lontana dai rumori del tempo che è andato. A volte non se li ricorda neanche più i rumori, e le luci negli occhi. Quelle facce che ridono, i bicchieri e le automobili nelle città. A volte invece è come se si aprisse una porta, ed entrasse una luce che acceca.
E quel mondo torna.
Conserva ancora una parte della sua collezione di dischi. Il resto in questa casa non ci stava, quando ha fatto il trasloco. E ha regalato i dischi, a un’amica, anni fa. Ha tenuto però tutto quello che poteva di Mozart, e Puccini, Mascagni, Leoncavallo. Oltre a tutte le incisioni del Duca, la sua preferita è Such Sweet Thunder, la suite ispirata alle opere di Shakespeare. Sulla copertina del disco c’è la dedica: To Corrado, my friend. Duke Ellington.
Pensa a tutti gli incontri che ha fatto nella vita. Adesso che è fermo, pensa a quel mondo in movimento, i treni, gli aerei, gli alberghi. Le camere di passaggio, i cambi di biancheria, le colazioni lente, l’odore di inchiostro sui giornali, e le sigarette. Gli sguardi incrociati negli scompartimenti riscaldati, di inverno, nei corridoi stretti dei wagon lit, le promesse fragili, lunghe quanto un viaggio, gli addii. Tutto sembra scorrere, dinanzi ai suoi occhi.
Come quella sera che si era seduto, per la prima volta, in un sushi bar, a New York. Rimase ipnotizzato dalla processione lenta delle scodelle sul nastro trasportatore. Era quasi buio, una luce dal bancone rendeva i volti morbidi, galleggianti nell’oscurità. E il taglio più netto degli occhi della ragazza vestita di nero, di cui non riusciva a decifrare lo sguardo. La ragazza si chiamava Mizuki, era bellissima. Passarono la notte insieme, in una stanza d’albergo.
Mentre lei dormiva, la luce che arrivava dalla finestra le accarezzava la linea elegante dei glutei. Non ricorda una sola parola di quell’incontro. Mizuki la mattina presto scivolò via dal letto silenziosamente e andò via.
Fatta di acqua, il suo nome significava questo, se lo ricorda bene. Non l’ha vista mai più.
Quando si ferma ci pensa. A quella diversità felice. A tutto quel tempo trascorso a progettare il futuro dentro stanze di passaggio. Alla consistenza perfetta della pelle, sui fianchi e sui glutei di Mizuki.
Corrado si muove lentamente. Ogni gesto è preciso, elegante, misurato.
Quando riempie un bicchiere d’acqua, oppure quando si mette a leggere, sulla poltrona di velluto rosso. Ogni cosa prende un posto, sommessamente.
A lui non piacerebbe, detta così. Ha sempre provato fastidio per l’enfasi, tutte le parole che non servono, ha sempre provato a starne lontano, sul palcoscenico. La sua voce è stata netta, essenziale, necessaria. Per questo è stato il più grande. Il più grande attore del Novecento.
È una sera di novembre. Fuori la luce dei lampioni attraversa le tende e colora la parete. Si sente il suono di Roma che non si interrompe mai, anche quando non c’è nessuno per strada. Corrado sta leggendo, e come ogni sera, alla stessa ora, squilla il campanello di casa. Il fischio stridulo lacera la quiete programmata di quella sera, uguale alle altre.
Allora si alza e va ad aprire. Lascia la catenella attaccata al gancio e si sporge.
«Chi è?»
«Sono io, ho portato la cena.»
Apre e fa entrare la ragazza. Alessandra ha con sé un vassoio coperto da un tovagliolo. Indossa un paio di jeans e una maglia dolcevita. I capelli raccolti sulla nuca.
«Buonasera, Maestro.»
«Buonasera.»
«Posso?»
«Prego, faccia pure.»
Non è né bella né brutta, ma si muove con grazia. Ha una piccola cicatrice sulla guancia, le taglia il sorriso, prolungandolo un po’. Corrado pensa che non la noterebbe mai, camminando per strada, quella cicatrice. La sua attenzione è il risultato di quel passaggio obbligato. Gli tocca vederla ogni giorno, e la guarda.
«Metto qui, sul tavolo?»
«Sì, grazie.»
La ragazza posa il vassoio. Quando gli passa accanto Corrado avverte un sentore acido provenire dal suo corpo, quasi impercettibile. Lei non è a suo agio, lui non è accogliente. Come sempre.
«…passo più tardi a riprenderlo.»
«Sì.»
«Ah, mi ha detto la signora che le mezze maniche erano finite, le ha fatto i rigatoni.»
«…»
«Va bene?»
«Sì.»
«…e poi c’è il formaggio, e una mela…»
«Va bene.»
«Ha bisogno di qualcos’altro?»
«No, grazie.»
«Allora torno più tardi.»
«Sì.»
«A dopo…»
«A dopo.»
La ragazza esce e Corrado chiude la porta. Come sempre resta in ascolto, fino a quando il suono svanisce. L’ascensore, i passi sulle scale, il portone che si chiude. I piccoli rumori diventano netti, e si amplificano, nel silenzio del palazzo. Non ci è rimasto nessuno, sono andati tutti via. A volte prova a immaginarla, vista da fuori, la sua finestra accesa su una facciata di finestre cieche. Come fosse l’ultimo sopravvissuto, nella città morente.
Poi attraversa la stanza, sceglie un disco, lo mette sul giradischi. Il suo braccio trema appena: Mozart, concerto per flauto e arpa. Va a lavarsi le mani.
La musica si diffonde nell’ambiente, sembra rivestire ogni cosa, in una sintonia misteriosa con gli oggetti. La stanza è uno spazio che respira, vuota, come la scena di uno spettacolo.
Ecco, c’è questo. La casa di Corrado Lazzari sembra vivere, vuota e silenziosa, anche quando lui non c’è.
Quando rientra dal bagno apre le tende, la luce della strada adesso si affaccia in casa, e tutta la parete diventa gialla, disegnando i rilievi minuti della carta da parati. Il lampadario centrale, sospeso sul tavolo, è la testa rovesciata di una Gorgone.
Riempie d’acqua una bottiglia di vetro e la mette in tavola, insieme con un bicchiere e un tovagliolo bianco. Poi si siede e, con ordine, scopre il vassoio, dispone i piatti sul tavolo curandone la simmetria, sistema il tovagliolo sulle gambe, e prende la forchetta.
Comincia a mangiare. Lentamente, un boccone dopo l’altro. Versa un po’ d’acqua e beve piano.
E ascolta Mozart. Si percepisce appena, il suono della masticazione. Il picco più alto nel contatto fortuito del bicchiere con il piatto. E il silenzio, quando il disco finisce di suonare.
Dopo un tempo lungo, di nessun rumore, la luce sfuma.