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Il lunedì è giorno di riposo.

Quando era in giro, il lunedì era dedicato agli spostamenti, da una città all’altra. Oppure alle passeggiate, alle visite nei musei, alla lettura dei giornali nei caffè. Alla ricerca di un accordo con i ritmi del mondo. Quando era in giro con gli spettacoli, cioè tutto l’anno, Corrado aveva sviluppato una geometria orizzontale del tempo. Vedeva i giorni della settimana schierati in una serie armonica che terminava il lunedì, una successione di settimane uguali, con un giorno di snodo, come se il tempo, le settimane, i giorni fossero un luogo distinto, a due dimensioni, fissato sulla carta.

Corrado non aveva il senso di sé, come persona con le altre persone. Se ne rende conto adesso, che l’ingranaggio si è interrotto. E non ha mai avuto davvero la percezione del possesso, anzi della proprietà, di una casa, di un’automobile. Infatti non ha mai posseduto una casa, e un’automobile.

Era come se le città fossero tutte la stessa città, con il percorso obbligato dalla stazione all’albergo, dall’albergo al teatro, dal teatro al ristorante. Luoghi uguali, intercambiabili. Un’esistenza protetta dai disturbi della normalità. Corrado si muoveva per le strade come un ospite, senza obblighi.

Quando ci pensa adesso non riesce più a capire, chi era, e chi è. E qual era la verità.

La città era una scena in movimento, le strade lo vedevano camminare e soffermarsi e chiedere un’informazione, come fosse soltanto uno di passaggio.

Solo quando rientrava in teatro avvertiva un senso di appartenenza, che tutti hanno nei confronti dei luoghi familiari, si sentiva dentro la sua stanza, la sua strada, la sua città. Non aveva importanza poi che quella stanza e quella città sarebbero state smontate la domenica sera, dopo l’ultima replica.

Oggi è lunedì. La finestra è aperta, i suoni di fuori si mescolano con quelli della radio a tutto volume. È una bella giornata, fredda.

Ogni lunedì Maria arriva puntuale alle nove e trenta, per fare le pulizie.

In casa una musica chiassosa, di quelle che lui non ama, e il rumore invadente di un aspirapolvere.

Maria è alta, robusta, con i capelli tinti di un biondo innaturale, la ricrescita nera. È rumena, sposata con un italiano molto più vecchio di lei. Porta un grembiule a fiori sopra una tuta scura.

Canta il pezzo che mandano in radio, aggravando la situazione, è stonata. Poi spegne l’aspirapolvere e passa a lavare i pavimenti e le superfici. Lo fa con energia e con metodo.

Corrado apre la porta del bagno e si affaccia, la donna lo blocca.

«Fermatevi, cavaliere, non vi muovete.»

«…»

«Sta tutto bagnato, ho dato cera, attenzione che non scivolate. Si deve asciugare.»

«Quanto tempo ci vorrà?»

Il volume della radio è alto, la donna non sente.

«Come?»

«Quanto tempo ci vuole?»

«Dovete parlare più forte, non sento.»

«Spenga la radio!»

Corrado fa un gesto, indicando l’apparecchio, e la donna diminuisce il volume.

«Dicevo, quanto ci vuole perché si asciughi?»

«Cinque minuti, se tenete aperta porta di bagno pure di meno.»

«Va bene.»

Resta fermo sulla soglia, immobile. Mantenendo il contegno di sempre.

«Che poi ho finito, vi ho lavato le calze e le mutande e le ho stese sopra stendino, sul pianerottolo. Ricordatevi di ritirarle stasera.»

Corrado la trova detestabile, per via di quel suo accento marcato, la piccola schiuma che le si forma agli angoli delle labbra, il passo pesante. Il suono stesso della sua voce.

«Volete che vi cucino qualche cosa?»

«No, grazie.»

«Che vi vedo un poco sciupato in faccia, state mangiando, sì?»

«…sì, mangio.»

«Forse vi dovete fare bella cura di ferro, come a mio marito, quello è anemico.»

«Non sono anemico.»

«Solo che dice che iniezioni bruciano, gliele faccio io iniezioni, ma mica è colpa mia se bruciano, io le faccio come a una piuma.»

«…»

«Volete che vi faccio iniezioni?»

«No, grazie. Non serve.»

«Guardate che non sentite niente, come a una piuma le faccio.»

«Bene, lo terrò presente.»

«Ah, vi ho comprato il detersivo per il bagno, che era finito. L’ho messo sotto al lavandino.»

«Va bene.»

«Lo scontrino sta sopra il tavolo, due euro e venticinque, ho preso confezione grande che così risparmiate.»

«Bene.»

«Che oggi come oggi non si arriva alla fine del mese.»

«…»

«…è giusto, cavaliere?»

«Giusto.»

«Mo’ a mio marito gli hanno tolto pure sussidio, lo sapete che c’ha sussidio per infortunio e invalidità, no? E stiamo in causa.»

«Mi dispiace.»

«Quello, mio marito è stato sempre sfortunato, sempre qualche cosa, non si può stare mai tranquilli.»

«…»

«Pure voi state un po’ sciupato però, la faccia pallida…»

Corrado la vorrebbe morta. In quello stesso istante. Ma quella donna gli è utile, ed è giovane. Non morirà.

«Volete che vi cucino qualche cosa?»

«No, grazie. Me lo ha già chiesto. Ho già ordinato il pranzo, come ogni giorno.»

«Chissà che vi fanno mangiare…»

«Adesso posso passare?»

«Sì, sì, si è asciugato, entrate. Vi chiudo la finestra.»

Corrado prende dal mobile una borsa con un vecchio portafogli. Nel frattempo la donna toglie il grembiule e le ciabatte. Mette tutto in una borsa fiorata. Corrado vorrebbe darle fuoco, a quella borsa, e a quei fiori volgari stampati sulla plastica unta. Non è mai stato paziente, ma c’era un tempo che poteva permetterselo. Farsi cambiare la stanza in albergo la notte, perché il rubinetto gocciolava soltanto un po’. Strappare le multe, sapendo che non le avrebbe mai pagate. Cacciare di casa il prete che aveva benedetto casa solo perché il prete, anziano, lo aveva rimproverato perché non conosceva il Padre Nostro a memoria.

«E tu lo conosci il quinto canto dell’Inferno a memoria, eh, lo conosci?»

«Cosa?»

«Cosa?»

«Che avete detto, cavaliere, cosa devo conoscere, non ho capito?»

«No, niente, una cosa mia.»

«Ah, fate come a mio marito, che ogni tanto parla da solo.»

«…»

«Fa proprio discorsi, lunghi. Le domande, le risposte.»

«…»

Entra ed esce dal bagno, portandosi appresso quell’odore misto, di sudore e deodorante alla vaniglia.

«Be’… che tra una cosa e l’altra ce ne andiamo a casa pure oggi.»

«Già.»

«Non so come la vedo la giornata, c’è il sole, ma può darsi pure che viene a piovere. Che quando viene a piovere le strade qui sono impossibili, piene di pozzanghere.»

«Quanto le devo, allora?»

«Cavaliere, sempre quello è. Ho fatto due ore e sono diciotto euro più detersivo… fanno venti euro e venticinque centesimi, facciamo venti euro… va bene?»

«Va bene. Grazie.»

Corrado cerca i soldi e li conta, poi li passa alla donna che nel frattempo ha cambiato le scarpe e infila un cappotto di pelo. Gli occhi che alla luce diventano quelli di un gatto, e quando sorride la cicatrice sul sopracciglio si allunga sulla prima ruga della fronte.

«Grazie a voi, allora, e buona giornata.»

«Buona giornata.»

«E ricordatevi di ritirare le calze e le mutande, dovesse venire a piovere.»

«Me ne ricorderò.»

«Be’, io vado… ciao cavaliere, la prossima settimana vi porto una bella fetta di torta con le mele.»

«Va bene, grazie.»

«Statemi bene… e tante belle cose.»

La donna esce e Corrado resta solo, respira. Si guarda nello specchietto appeso al mobile vicino alla porta, si dà un paio di buffetti sul viso. Gli occhi per un istante sono quelli fulminanti, diabolici, di qualche decennio prima.

«Cavaliere…»

Poi prende dall’armadio la scatola con i documenti e la poggia sul tavolo. Sulla vetrina c’è anche una cornice, dentro un diploma e una medaglia d’argento con un nastro tricolore. La tira fuori e la spolvera con un panno. Legge ad alta voce.

«Il Presidente della Repubblica italiana conferisce… la benemerenza per l’alto merito culturale… eccetera, eccetera, in data… eccetera…»

Tossisce e si schiarisce la voce.

«Non sono cavaliere, sono Benemerito della cultura di seconda classe. C’è la prima, la seconda e la terza classe. Io sono benemerito di seconda classe.»

Chissà poi chi lo decide se uno è benemerito di prima o di seconda, pensa. Certo poi quelli benemeriti di terza classe quando gli consegnano il diploma, non è proprio una grande soddisfazione. Benemerito di terza classe.

«Appena appena benemerito, non sapevamo se darle la benemerenza perché non è che se la merita proprio, ma insomma, via, le diamo la terza classe, va’…»

Sorride ancora.

Poi, lentamente, comincia a ridere.

Una di quelle risate che non riesci a fermare.

Ride di gusto, ma un riso che riempie la stanza, e rende la solitudine più certa, il silenzio più netto. Con un fazzoletto si asciuga gli occhi e il naso, lo soffia, rumorosamente.

Ripone la cornice nell’armadio e torna al tavolo.

Mette i documenti impilati con ordine sul tavolo, come al solito, inforca gli occhiali e riprende a catalogare, con cura.

«Allora… vediamo… 27 novembre 1962.»