5

Sono passati dei giorni, e il tempo della luce diventa più breve.

Ottobre è finito e novembre sembra cattivo, nel freddo pungente delle strade di pioggia.

È sera. Corrado rientra in casa. È uscito per qualche commissione. Ormai non esce quasi più, il percorso da casa al minimarket gli sembra ogni volta più lungo.

Ha con sé un paio di buste e un giornale. Si toglie l’impermeabile e lo appende, poi prende dalla busta un pacco di zucchero, il caffè e dei sacchetti di carta marrone. Tira fuori dai sacchetti tre mele rosse e due arance, le lucida con un panno, e le dispone in un cesto sopra il frigorifero.

Poi si ferma.

Ha il fiato un po’ corto. Tossisce.

Guarda l’ora, prende dal cassetto una scatola di pillole e ne ingoia una con un goccio d’acqua.

Va a sedersi sulla poltrona, con il giornale, ma non lo legge. Spegne la luce sul tavolino accanto alla poltrona. Resta seduto, senza fare nulla. Solo la luce della strada, lucida per la pioggia.

Resta senza fare nulla. Solo la luce gialla della strada.

Gli piace sentire i rumori.

E modulare la sintonia nell’orecchio, separando i suoni. Uno a uno.

Gli piace sentire il suono del pianoforte, per esempio. Arriva da una casa di fronte, può vedere l’intera facciata, ma non sa quale sia l’appartamento, dietro quale finestra socchiusa, dietro quali tende ci sia la ragazza che suona. Si è fatto l’idea che la finestra sia quella ad angolo, al terzo piano, con le tende spesse marroni, sempre in ombra.

La ragazza non esce mai di casa. Ogni mattina si siede al pianoforte e comincia. La stessa giornata che si ripete, con ordine, nella penombra.

In realtà non lo sa se è davvero una ragazza a suonare, potrebbe essere un bambino o una vecchia signora. Ma la immagina così. Conosce le musiche che esegue, le stesse da mesi, alla stessa ora.

Si è fatto l’idea che sia magra, con i capelli raccolti, ordinati. Si chiama Laura, per esempio.

Laura suona il pianoforte, tutti i giorni, alla stessa ora, in una casa dove non entra mai il sole.

Gli piacciono le vite degli altri.

Le finestre dei palazzi di fronte, quelle viste dal treno, nelle città di passaggio.

Gli sono sempre piaciute. Si immagina ogni volta una vita normale, una famiglia, una cucina, l’odore che c’è. Anche quando le vite sono noiose, uguali ogni giorno, gli piace pensarci.

E in quei momenti può sentire il rumore, piccolo. Quello delle posate, oppure le pagine di un libro, il cigolio di una sedia. Il rumore piccolo supera il rumore del treno. Che diventa niente. Diventa silenzio.

A volte pensa che quello che cerca è un mondo piccolo, di oggetti finiti, conservati negli armadi.

I pavimenti con le geometrie colorate. Le scale fatte al buio, i rientri a casa, le azioni necessarie, prima di andare a dormire. A volte pensa che tutto è diviso in due parti, quello che c’è e quello che c’è stato. Quello fuori è quello che c’è. Quello che c’è stato è una terra piatta senza confine, una tavola enorme apparecchiata da sempre.

Oggi è domenica.

Piove da giorni, sulla città.

Dentro questa stanza, ci sono poche cose. E la domenica il silenzio le incarta.

Libri, matite, radio, lampada. Tavolo, libreria, poltrona.

Ci sono due sedie soltanto e un vassoio che appare e scompare, con il resto del cibo, sotto la lampada.

E adesso piove, senza sosta. Le luci nei palazzi si accendono, denudano l’intimità delle case.

E Corrado aspetta.

Probabilmente qualcuno si ricorderà, qualcuno avrà sentito parlare di lui.

Da qualche parte, dentro quelle finestre. E intanto questa immobilità si gonfia, e rallenta, per diventare un’immagine fissa. Come in certi quadri di Hopper, che lui ama molto. Quando sembra che tutto stia per accadere, oppure che tutto sia già accaduto.

E si addormenta.