8

La camera è in penombra. Tagliata da una lama di luce. È sera.

Suona il campanello di casa.

Corrado è ancora steso sul letto. Si è addormentato profondamente, nel pomeriggio.

Il campanello suona più volte. Dopo un po’ Corrado si alza, infila le pantofole e va ad aprire.

È Alessandra. Ha il viso allarmato.

«Sì?»

«Maestro… sono io, Alessandra.»

Corrado borbotta qualcosa, è ancora imbambolato dal sonno.

«Che succede?»

«Scusi… ero venuta a ritirare il vassoio, l’avevo lasciato qui, davanti alla porta prima, e avevo bussato… non mi aveva risposto, pensavo fosse successo qualcosa…»

«Che…»

«Nulla, scusi. È colpa mia, scusi, pensavo fosse successo qualcosa, visto che il vassoio era ancora qui fuori, intatto. Mi ero preoccupata… non ha cenato?»

«Che ora è?»

«Sono le dieci, le ventidue, in punto.»

«Le ventidue…»

«Le faccio riscaldare la cotoletta…»

«No, no, non serve.»

«Ci metto cinque minuti, il tempo di scendere…»

«Non ho fame… non serve.»

«Ma… almeno prenda le mele cotte.»

Corrado si ferma a osservare la ragazza, detesta la sua insistenza, detesta quel rumore di voci intorno. Quel suo volersi prendere cura, senza che nulla li leghi.

Negli ultimi tempi è diventato insofferente a tutto. A volte se ne rende conto, a volte no. Adesso la ragazza insiste, troppo. Vorrebbe che sparisse per sempre, vorrebbe tornare a letto e risvegliarsi vent’anni prima.

«Non ricordo il suo nome.»

«Scusi?»

«Lei come si chiama, signorina?»

«Alessandra…»

«Bene, Alessandra, per questa sera non ho fame.»

«Sì.»

«Quindi niente cotolette da riscaldare. Va bene?»

«…d’accordo.»

«E poi le mele cotte si danno ai malati.»

«…a me piacciono.»

«Cosa?»

«Mi piacciono le mele cotte. Me le faceva sempre mia nonna. Con i chiodi di garofano.»

«Invece mia nonna non me le faceva. Sono gusti.»

«Certo… ho capito.»

Alessandra raccoglie il vassoio e fa per allontanarsi. La luce nel pianerottolo è fioca, corre radente lungo la parete, segnando le vene dell’intonaco. In quel momento qualcosa passa nella testa di Corrado, non sa dire esattamente cosa. Somiglia a un’intuizione, forse un presentimento. Quella ragazza che va via in quella luce, così squallida, eppure così bella. Una perfetta luce di uscita. Forse un presentimento, sì. O magari soltanto il desiderio di essere, sempre e comunque, in direzione contraria.

«Anzi no, guardi, signorina.»

«Sì.»

«Ho cambiato idea, mi faccia una cortesia, metta le mele in quella scodella sopra il frigorifero e le ricopra, il piatto lo porti via con il resto.»

«Certo…»

«Detesto avere i piatti sporchi sulla tavola.»

Corrado si gira e va in bagno a sciacquarsi il viso. Ha sviluppato una sorta di allergia al contatto, con le altre persone. Condividere lo stesso ambiente, con qualcuno. È per questo che non esce quasi mai. Dover scambiare due parole di circostanza, quale circostanza? O peggio stringersi la mano, e sentirla molle, sudata, oppure secca, con le ossa che fanno rumore di cremagliera. È per questo che quando entra in un negozio sente l’ansia salire, il respiro farsi più corto e desidera la fuga.

Allora adesso se ne va in bagno, per non dividere il suo spazio.

Alessandra entra in casa e prende la scodella di plastica dal frigorifero, la poggia sul tavolo e la riempie con le mele, poi copre tutto con il coperchio. Compie l’operazione molto lentamente, con cura, e nel frattempo guarda i fogli e i documenti sul tavolo. Lo sa che non dovrebbe, ma è una tentazione irresistibile.

Tra i documenti c’è un’edizione rilegata del copione di Amleto. Sente un’emozione di bambina, dinanzi al pacco nascosto dalla Befana. Prima guarda verso la porta del bagno, poi la sfoglia, furtivamente. Sono pagine scritte a macchina, su una carta sottile, che si sfarina. Accanto alle battute, appunti a margine e segni misteriosi, piccole spirali che si fanno strisce continue, trattini che segnano il ritmo come gli accenti di una partitura. Alessandra sente l’odore. Quell’odore che c’è nelle case dei vecchi, ma non solo. Sente il tabacco, tutte le pagine ne sembrano impregnate, e una traccia lontana di profumo. Le sembra gelsomino.

Corrado esce dal bagno. Per qualche istante restano in silenzio, uno di fronte all’altra.

La ragazza ha gli occhi sbarrati, che hanno i bambini, quando hanno rubato qualcosa. Posa il copione sul tavolo.

«Mi scusi… non volevo.»

«Può lasciare la scodella sul frigorifero, grazie.»

«Sì… certo.»

«E dica alla signora che domani…»

«Sì?»

«…che…»

Corrado smette di parlare, impallidisce. Barcolla un po’, fa un piccolo giro su se stesso e poi si accosta al tavolo. Sente una pressione sul petto.

«Maestro, tutto bene?»

«…»

«Maestro…»

«…»

«Non si sente bene?»

Corrado si siede sulla poltrona, respira con la bocca aperta. Sta sudando, improvvisamente sente freddo.

«Vado a chiamare qualcuno.»

Alessandra fa per muoversi, ma lui le fa un cenno con la mano.

«No.»

«Chiamo la signora Franca, chiamo un medico, qualcuno…»

«No… ferma.»

«Ma ha bisogno di…»

«Un goccio d’acqua… mi dia un goccio d’acqua. Per cortesia.»

«Sì.»

Lei prende la bottiglia e riempie il bicchiere velocemente, le trema la mano, lo porge all’uomo, che beve a piccoli sorsi. Alessandra lo guarda e resta in attesa di un cenno.

«Cosa posso fare? Mi dica se posso fare qualcosa.»

Corrado le dice che non ha bisogno di nulla, va meglio. Lei rimane ferma, con quello sguardo che hanno i bambini, quando sono spaventati.

«Sto meglio… un piccolo malessere, niente di grave.»

«È sicuro? Vado a prenderle qualcosa in farmacia?»

«No… grazie.»

«Non mi costa nulla.»

«Va meglio, decisamente meglio. È stato solo un piccolo mancamento.»

«…»

«Ho un cuore capriccioso, ma niente di importante. Adesso sto bene.»

«È sicuro? Le ripeto, non mi costa nulla…»

«Sono sicuro.»

«D’accordo.»

«Grazie. Vada pure, è tutto a posto.»

Dopo qualche istante di indecisione Alessandra raccoglie il vassoio e si avvia alla porta. Corrado la guarda uscire di scena, ancora una volta. Gli passa per la testa quel pensiero veloce, lo stesso di poco prima.

«Un momento…»

«Sì?»

Non lo sa perché ha chiamato la ragazza. Non lo sa ancora. Esita, prende tempo.

«Mi scusi… come ha detto che si chiama?»

«Alessandra.»

«Sì, giusto, Alessandra.»

Non vuole restare solo. Forse è soltanto questo. Forse per la prima volta ha veramente paura. Non vuole restare solo, questa sera. Vuole soltanto fare due chiacchiere e lasciare che il tempo passi, poi tutto tornerà come prima. È veramente così? Il pensiero gira veloce. Non riesce a dare una forma a quel pensiero. E allora improvvisa.

«Alessandra…»

«…sì.»

«Quanti anni ha, Alessandra?»

«Ne ho ventuno, quasi ventidue… tra una settimana.»

«Ventuno.»

«Sì.»

«Ventun anni.»

Corrado insegue un punto sul pavimento, nelle losanghe con le geometrie floreali. Sospira. Alessandra lo guarda, in attesa.

«A ventun anni studiavo in accademia…»

«Cosa?»

«Alla sua età studiavo, in accademia.»

«La Silvio D’Amico?»

«Allora si chiamava soltanto Accademia Nazionale d’Arte Drammatica.»

«Ah, sì. Certo.»

«Ero… ero bravo… eravamo in molti a essere bravi. Una bella classe. Lei cosa studia?»

«Lettere, con indirizzo teatrale.»

«Ah ecco, sì, deve avermelo già detto.»

Sente arrivare sulla pelle l’allergia del contatto. Le parole di circostanza. Le parole che servono a riempire il vuoto. Lui non lo ha mai dovuto riempire, il vuoto. Il silenzio è sempre stato ugualmente importante, delle parole. È quello che ha insegnato per anni ai giovani attori, l’importanza dei pieni e dei vuoti.

«E quanto le manca per finire?»

«Spero di farcela entro quest’anno. Al massimo l’inizio del prossimo, sto lavorando alla tesi e mi mancano due esami.»

«Chiuda la porta, si sieda qualche minuto. Le va?»

«Sì, volentieri.»

Corrado non lo sa, se questa è una resa o un cambio di rotta, dentro quella giornata. Alessandra chiude la porta, prende una sedia e si siede. Lui la guarda. Porta un abito di lana nero e delle calze colorate, a strisce orizzontali, sopra un paio di scarponcini senza lacci. Accenna un sorriso. Adesso si sente invogliata a parlare. Prende coraggio.

«Prima guardavo… le sue carte.»

«Sì, me ne sono accorto.»

«Mi scusi, non ho resistito.»

«Non ha resistito.»

«Sono molto affascinata. Capisce, sono cose che studio, e mi emoziona, come posso dire, mi emoziona molto poter vedere certe cose che… sì, insomma, alla fine le studi solo sui libri.»

«Stava guardando il copione di Amleto

«Sì.»

«Sono tutte le carte di una vecchia messa in scena.»

«1962, compagnia Lazzari-Piccolomini, regia di Fausto D’Errico.»

«Sì… è esatto.»

La guarda intensamente, incuriosito.

«E lei come lo sa?»

«Ho riconosciuto la locandina, me la ricordavo benissimo.»

«Se la ricordava?»

«L’ho vista riprodotta sui libri. È un’emozione vedere l’originale.»

«Ah…»

«Ho fatto una ricerca su quella messa in scena, in facoltà ho trovato tanto materiale: documenti, articoli, anche le riprese di un vecchio reportage giornalistico.»

«Davvero?»

«Sì, certo.»

«Con le immagini dello spettacolo?»

«Sì… solo alcune scene, però.»

«Ah, questa è bella. Non credo di averle mai viste quelle immagini.»

«Se vuole posso provare a chiedere la cassetta in prestito al dipartimento, lei ha un videoregistratore? Purtroppo non hanno riversato il materiale in digitale, neanche in DVD

«Non ho un videoregistratore. Non ho neanche il televisore, come vede.»

«Posso provare a trasferirle sul mio portatile, le riprendo col cellulare.»

«A trasferirle dove?»

«Ne faccio una copia in digitale e posso mostrargliele con il mio computer portatile.»

«Non credo di aver capito esattamente, ma se vuole…»

«Lo faccio volentieri.»

«Va bene, grazie.»

«Benissimo, mi ci vorranno alcuni giorni, credo.»

Corrado tossisce, ha ancora un po’ di affanno.

«E come sono?»

«Cosa?»

«Che impressione le hanno fatto… quelle immagini?»

«Be’, sono, non so come dire…»

«Sono?»

«Strane.»

«Strane?»

«Lei era… lei è molto bravo ovviamente. C’è qualcosa però che non sembra appartenere a quel tempo…»

«Cioè? Si spieghi.»

«Non lo so, mi è sembrato molto… moderno. Tutto molto essenziale, nessuna azione di maniera. Moderno, sì. Perlomeno per quegli anni, no?»

«Sì… non è sbagliato. Fu un lavoro complicato, un’edizione che sollevò molte polemiche, per certi aspetti persino impopolare.»

«Ho letto tutte le recensioni. Di lei parlano sempre bene, però.»

«Lavorammo sulla versione ultima della tragedia, ma anche recuperando spunti da quella precedente, quasi sconosciuta.»

«Il primo Amleto

«Esatto.»

«L’ho letto. E riletto.»

«Ha letto Il primo Amleto

«Sì, certo.»

«Mi sorprende. Non lo conoscono in molti…»

«È un Amleto più cupo, arcaico, più sanguinoso, dicono che non era di Shakespeare.»

«Questo non ha importanza.»

«Forse era di Kyd.»

«Era di Shakespeare, chiunque sia stato a scriverlo.»

«Non capisco.»

Corrado la osserva. Si chiede se abbia un senso, parlare adesso. Se ha un senso raccontare quello che pensa. Deve vincere una resistenza tenace, dei muscoli molli. Poi parla, senza averlo deciso.

«Mi ascolti, Alessandra… lei mi ha parlato di Kyd, avrebbe potuto parlarmi di Bacon, di Marlowe, non fa molta differenza.»

«Che vuol dire?»

«Le grandi opere del teatro, quelle che sono state scritte cento, mille anni fa, sono, mi passi l’espressione, una sostanza senza forma.»

«…»

«Senza tempo. Sopravvivono ai loro autori, ai registi, agli attori. Sono il respiro della terra. La linfa… è la linfa che nutre.»

«…»

«Quindi che importanza ha chi abbia scritto il Faust o Amleto

Sente che si è lasciato andare all’enfasi. Alle parole con un suono, quelle da portare in giro nello spazio. Ma va bene così, pensa. Per adesso va bene così. Alessandra ha gli occhi tondi, con lo sguardo di allarme per lo stupore, quello che hanno i bambini.

«Che bello.»

«Cosa?»

«Il respiro della terra.»

Corrado beve un goccio d’acqua. Poi osserva la ragazza, soffermandosi sul suo aspetto.

«Lei calza sempre queste scarpe militari?»

Alessandra ride.

«No, e comunque non sono scarpe militari.»

«Ne hanno tutto l’aspetto.»

«Sono anfibi. Sono comodi, quando fa freddo. Li uso spesso sul lavoro.»

«Immagino. È molto faticoso?»

«Non più di tanto. Oddio, certi giorni non ci si ferma fino a notte tarda. Ma tutto sommato non è male. Mi permette di pagarmi gli studi.»

«Giusto così. Anzi, mi rendo conto che le sto facendo perdere molto tempo, adesso vada.»

«Oggi è la mia giornata libera. Non ho nessuna fretta.»

«E come mai è qui?»

«Perché mi fa piacere. Abito qui vicino, e non mi costa nulla portarle la cena.»

Restano in silenzio. Quel pensiero, nella testa di Corrado, comincia a muoversi, prende una forma. Allora decide di fare una cosa che non avrebbe fatto, soltanto dieci minuti prima.

«Avrebbe voglia di guardare il copione?»

«Davvero? Posso?»

«Sì, certo.»

«È il copione originale dell’Amleto

«Sì.»

«Mi piacerebbe moltissimo.»

«Gli dia un’occhiata, prima che cambi idea.»

Adesso sembra quasi bella, mentre è assorta. Il modo in cui sposta i capelli dal viso, accompagnandoli con la mano destra, mentre la sinistra tiene il bordo della pagina. E il peso morbido delle gote, mentre il viso è chino, nella lettura. E la curva dei seni, sotto l’abito scuro.

Poi Alessandra solleva il viso e lo guarda.

«È… non so come dire…»

«…»

«Io amo il teatro, sin da quando ero bambina. Mi ci portava mio padre. Queste cose le ho sempre studiate sui libri, mi sono sempre fatta un’idea dall’esterno, ma è la prima volta che mi sembra di vedere davvero.»

«Vedere davvero.»

«Non so come dire, starci dentro, ecco sì, starci dentro. Non so se riesco a spiegarmi.»

«Credo di sì.»

«Le note a margine.»

«Non aveva mai visto un copione?»

«Non così, con tutte le cancellature, questi disegni…»

Corrado sorride e si fa passare il dattiloscritto.

«Questi scarabocchi li facevo durante la lettura a tavolino, mi annoiavo molto, le confesso, non vedevo l’ora di alzarmi e provare. E allora disegnavo. Tutti i miei copioni sono pieni di disegni.»

«Anche i miei appunti, durante le lezioni. Come i diari di quando ero bambina.»

«Lei è toscana.»

«Sì. Si sente, vero?»

«Si sente, è fiorentina.»

«Sì. Ci provo a controllarmi, ma l’accento si sente, non se ne va più.»

Sorride. I denti sono piccoli e bianchi. Adesso nella stanza è come se la tensione si fosse allentata, o meglio, la tensione ha preso una forma diversa. È una irrequietezza leggera, sembra espandere i sensi. Corrado sente l’odore, il profumo, la traspirazione del corpo giovane. Vede meglio i tratti del viso, i piccoli segni dell’espressione, niente trucco, solo la matita sugli occhi. La ragazza ha una piccola cicatrice sul labbro.

«E comunque, tutto sommato, mi piace sentirlo, il mio accento. È un suono di casa.»

«Abita a Firenze?»

«Non più, ci ho abitato fino a quattro anni fa.»

«E poi, che è successo?»

«Poi i miei si sono separati, e io sono venuta a stare qui con mia madre.»

«Suo padre è rimasto a Firenze?»

«Sì… è morto l’anno scorso.»

Restano in silenzio per un po’.

«Mi dispiace.»

Lei sposta i capelli dalla fronte, e accompagna una ciocca dietro le orecchie. Le labbra le tremano appena, solo per un istante.

«Non riesco ad abituarmici.»

«Non credo che ci si debba abituare.»

«Sì.»

«Deve solo darsi tempo.»

«Sì.»

«Deve accettare.»

«Lo so.»

Lui non vuole essere così. Accogliente, capace di ascoltare e di usare le parole che servono.

«È che non so se riesco a tornarci, a Firenze.»

«Non vuole più tornarci?»

«Adesso mi fa troppo male. Rivedere i posti della mia infanzia, in questo momento mi sembra una cosa insopportabile.»

«Lo posso capire.»

«Amo la mia città, davvero. Ma ora, e non so per quanto, devo starci lontana.»

«Dove abitava, a Firenze?»

«Abitavamo in via San Gallo, ha presente?»

«Certo, la conosco bene. Quella strada stretta stretta, come un piccolo fiume con gli argini alti.»

«È proprio quella. Mio padre mi diceva una cosa simile, diceva che era un torrente dentro la foresta di pietra. Si curvava, si stendeva, cambiava direzione. Da bambina mi piaceva toccare i muri di quelle case, lui mi teneva per mano. Facevamo un gioco, io chiudevo gli occhi e papà mi portava. Io toccavo i muri e sapevo riconoscere le porte, i negozi. Facevamo isolati interi, così. Lui parlava e io con gli occhi chiusi. Non so come spiegarlo, ma camminare con gli occhi chiusi mi faceva sentire protetta.»

Corrado la guarda. Questa vicinanza, imprevedibile. Non riesce a capire. Questa strana somiglianza dei sensi.

«La sua mamma vive con lei?»

«No, lei ha un compagno. Io vivo sola, da un anno, sto in una casa insieme ad altri studenti. Per questo lavoro dalla signora Franca, in trattoria.»

«Non la sente?»

«Mia madre? Sì, certo. Mamma mi dà anche una mano. Voglio dire, non abbiamo mica litigato, è che… quando è morto mio padre ho sentito che era arrivato il momento, non so come dire, dovevo andarmene.»

«Di cosa si occupava suo padre?»

Alessandra sorride, intenerita. Le luccicano gli occhi, grandi e neri.

«Mio padre faceva il maestro elementare, e nel tempo libero continuava a fare il mestiere del nonno, l’intagliatore.»

«L’intagliatore?»

«Scolpiva il legno, cornici, sedie, cassepanche, di tutto.»

«Bello.»

«Bellissimo. Da bambina stavo ore e ore a guardarlo in bottega, tirava via i riccioli dal legno come burro. Raccontava e scolpiva. Mi ipnotizzava. Aveva le mani piccole, nervose, piene di tagli, sembravano le mani di una donna, tagliate nel legno. Era un uomo delicato, e fragile.»

Corrado la ascolta. E pensa alla capacità che hanno le parole di certe ragazze, di disegnare un mondo di cose piccole. Pensa alla voce, di certe ragazze. E al modo in cui quella cicatrice sul labbro si allunga nel sorriso. Poi tossisce, una tosse che lo scuote. Beve ancora un goccio d’acqua.

«Scusi.»

«No, mi scusi lei. Mi sono persa. Le ho raccontato cose che non c’entrano niente, stavamo parlando del copione, degli scarabocchi e non so come mi è venuto in mente.»

Corrado le porge nuovamente il copione.

«Ha voglia di leggerlo?»

«Ah, certo, mi piacerebbe molto.»

«Ci provi, allora. Legga.»

Ecco, quel pensiero. Di nuovo, insistente.

«In che senso?»

«Provi a leggere, ad alta voce.»

«Come?»

«Apra il copione a caso, adesso, e legga.»

«Adesso?»

«Certo, adesso.»

«No, non sono capace.»

«Di cosa non è capace?»

«Leggere ad alta voce qui, davanti a lei.»

«Non abbia paura, legga.»

«Ma…»

«Legga.»

Alessandra sfoglia il copione e si sofferma su una pagina, poi guarda l’uomo.

«Un pezzo qualsiasi?»

«Un pezzo qualsiasi.»

Adesso lui sembra diverso. Le rughe si tendono in un’espressione vigile, gli occhi sono dritti, puntati su di lei. E allora lei vorrebbe fermarsi, e rinunciare. Poi però prende un respiro e comincia a leggere, sottovoce.

«Sono un po’ sordo, è bene che lo sappia.»

È a disagio, ma ricomincia.

«…sebbene ancora sia verde la memoria della morte del caro fratello Amleto, e a noi si convenga portare in cuore questa pena…»

E lui continua.

«…e a tutto il regno contrarsi in una sola fronte di dolore, pure tanto la ragione in noi ha lottato contro la natura che con saggio cordoglio siamo memori di lui e insieme non immemori di noi stessi…»

«…sì.»

«Atto primo, scena seconda, monologo del re Claudio.»

C’è un silenzio. Nell’aria un po’ tesa. Nella camera fredda.

«Vada avanti…»

«Continuo?»

«Apra a caso e legga.»

Lei avverte un calore, sul collo e sul viso. Non aveva mai fatto caso, davvero, al suono della voce. Di come sta, nella stanza vuota. E allora legge.

«Madre, per amor di dio, non ti ungere l’anima con questo linimento che non sia la tua colpa ma la pazzia a parlare, confessati al cielo, pentiti del passato…»

«…e non dare il concime alla malerba per renderla più fetida… perdonami la mia virtù, che in questi tempi obesi è la virtù che chiede scusa al vizio e si piega e l’implora per poterlo aiutare… Atto terzo, scena quarta, Amleto e Gertrude.»

Adesso guarda Corrado, sente il sudore scorrere sul dorso, sotto le ascelle, continua a sfogliare e riprende a leggere.

«Che nobile mente distrutta… occhio, lingua, spada d’un principe, di uno studioso, di un soldato, la rosa e la speranza di uno stato felice, lo specchio della moda, il modello del gusto, l’idolo di ogni suddito…»

«…finito, tutto finito. Ed io, la più infelice e sventurata delle donne, che bevvi il miele delle sue dolci promesse, ora sento quella mente nobile e sovrana, che stride e stona come una campana sbattuta…»

«…e vedo quel giovane fiorente, senza pari, bruciato dalla pazzia.»

«Atto terzo, scena prima, Ofelia.»

Mentre dice “Ofelia”, Corrado la guarda. Appiccicandole il nome addosso. Lei non dice nulla, si sente invasa, distoglie lo sguardo, chiude il copione. Restano in silenzio.

Avrebbe potuto esserlo, Ofelia, pensa Corrado, potrebbe esserlo. C’è una forza negli occhi, e uno smarrimento, la voce, imperfetta, gli risuona nella testa. C’è qualcosa che si muove, dentro quel pensiero che si muove, nella sua testa.

«Cosa ha notato?»

«Cosa ho notato?»

«Sì.»

«Be’…»

«Dica.»

«Lo sa tutto a memoria, mi sembra chiaro.»

«Ma no, non mi riferivo a quello, cosa ha notato in quello che ha letto?»

«Ah… oddio, non lo so.»

«Non lo so non significa nulla. Si ricorda esattamente cosa ha letto?»

«Sì, insomma, non esattamente.»

«Era concentrata a leggere e non ricorda quello che ha letto.»

«Sì, forse sì.»

«Succede spesso… lei non legge mai ad alta voce?»

«No, forse da piccola. Ma adesso no.»

«Fa male.»

Corrado avverte il fremito sulle dita, come un solletico. Come se le energie fossero richiamate, in quel momento, in quella stanza, nel palazzo vuoto.

«Conosce qualche poesia a memoria?»

«Sì… no, non credo.»

«La conosce, sì o no?»

«Ricordo le poesie… me le recitava mio padre, ma non le ho mai imparate a memoria.»

«E a scuola?»

«No, mai imparata a memoria una poesia a scuola.»

Ai suoi tempi le facevano imparare.

«Ai miei tempi ce le facevano imparare.»

«Lo so.»

«E io me le ricordo tutte.»

«Su questo non ho dubbi.»

Sorride. Quella ragazza potrebbe essere Ofelia, sì, anche se non lo sa. Anche se non ne ha voglia, non ci ha mai pensato. Gli occhi sono dritti su di lui, adesso. C’è qualcosa di innocente e impudico, allo stesso tempo.

«Quello che volevo dirle è che deve fare attenzione al suono.»

«Devo fare attenzione…»

«A come suonano le parole. Serve per ricordare.»

«Non ho capito.»

«Nel momento in cui le parole hanno un suono, quello che sia, cominciano a prendere vita e restano impresse. Lei potrà riflettere meglio, anche nei suoi studi, quando avrà dato un suono alle parole.»

«Non sono sicura di riuscirci. Però ci penserò.»

«Ci pensi.»

È come un duello che comincia. Come il principio di una danza, nello spazio vuoto.

«Forse è ora che vada, adesso.»

«Sì.»

Alessandra si alza e riprende il vassoio. Fa movimenti di donna adesso, gira il fianco, e solleva gli avambracci.

«Se vuole, un’altra volta, leggiamo qualche altro passo di Amleto

«Ci pensiamo.»

«Sì… Bene, adesso vado, la signora mi avrà dato per dispersa.»

«Le dica che l’ho trattenuta io, si inventi qualcosa.»

Lei sorride, e Corrado capisce cos’è quella cosa che gira nella sua testa.

«Allora vado… A domani.»

«A domani.»

«Buonanotte, Maestro.»

«Buonanotte.»

Alessandra si chiude la porta alle spalle. Lui si alza e cammina verso la porta, poi avanti e indietro, nella stanza, contando i passi. Come una piccola febbre, sulla pelle, mentre misura i confini stretti di quello spazio. Si accorge del torpore che sembra cogliere ogni oggetto, sorpreso in una quiete sintetica, incastrato come un fossile, nel cimitero dei ricordi.

Poi si ferma, e respira, tossisce. Respira ancora, profondamente.

Prende una pillola da una scatola di madreperla, la ingoia con un goccio d’acqua. Spegne la luce e apre le imposte, lascia che la luce della strada si riversi nella stanza. Prende una sedia e la mette vicino alla finestra. Resta lì, in silenzio a guardare.