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Debuttarono a Fermo, al Teatro dell’Aquila. Il 27 novembre 1962.

Era una giornata freddissima.

Il borgo medievale si arrampicava su un’altura come un animale di pietra e le strade erano illuminate dalle lanterne. L’aria gelida entrava dalle narici. Non ci era mai stato, a Fermo, il teatro era bello. Fuori c’era la neve.

Guardava le strade ripide che si infilavano nel centro storico disegnando le curve, dietro la nube di vapore che il respiro gonfiava negli intervalli regolari del passo. Guardava e pensava, era come stare a casa, non essendoci mai. A volte si era fermato, nel corso degli anni. Aveva osservato le case nelle città, le strade, le piazze, dove era già passato, o dove non era stato mai. E gli era sembrato che alla fine fosse la stessa cosa, sempre. La stessa città, lo stesso scorrere del tempo. E questo gli metteva pace, in quella vita nomade c’era sempre qualcosa che sembrava casa, che ci fosse un fiume, o il mare aperto, oppure una montagna, dinanzi a sé.

Si era chiesto se questa cosa a cui non sapeva dare un nome ce l’avesse, un nome. O se per caso fosse sua, e di nessun altro. Ci pensa anche adesso, mentre sfoglia le carte, ricordando la vita trascorsa.

Lo spettacolo fu un grande successo. Avrebbero parlato a lungo di quell’Amleto di Corrado Lazzari.

Cerca e trova dei ritagli di giornale, e legge ad alta voce una recensione.

…seconda prova scespiriana, dopo il Sogno di una notte di mezza estate, commedia in cui aveva dato prova di solida struttura attoriale e di talento mimetico. In questo Amleto, quasi barbaro, Corrado Lazzari rivela tutte le sfaccettature di una personalità complessa e variegata, alternando la vigoria dell’eroe romantico alla feroce ironia che ben rappresenta il senso di molti passaggi del capolavoro del bardo…

La carta si sfarina sotto i polpastrelli. Corrado sfoglia le pagine delicatamente.

…bravissimo a sfumare e ad aggredire, a alludere e ad irridere, con una gamma ricchissima di intonazioni e di accenti…un Amleto che cerca di prendere di petto la realtà e n’è quasi travolto perché nemmeno la follia consente di afferrarne il volto mostruoso…

Se ne scrivono, pensa,

di cose

inutili.

Lascia scorrere i fogli, le foto, gli altri giornali. E sospira.

«Stronzate.»

Poi, ripiegata accuratamente tra i fogli, ritrova la locandina dello spettacolo.

Una silhouette nera di un uomo solo su fondo rosso, nella grafica essenziale ed elegante di quegli anni. Il suo nome, in grande, staccato dagli altri. E sotto l’illustrazione i personaggi e gli interpreti.

Claudio, re di Danimarca e zio di Amleto, Lorenzo Piccolomini

Gertrud, sua regina e madre di Amleto, Rebecca Stellato

Orazio, suo amico e consigliere, Ferdinando Bianchi

Polonio, ciambellano del regno di Danimarca, Stefano Morra

Ofelia, sua figlia, Maddalena Lipari

Resta qualche istante in silenzio.

«Sono tutti morti.»

Sorride. Senza malizia, col candore imprevisto di un bambino. Sono tutti morti.

«Tutti andati al Creatore.»

Voltimando, Cornelio, Marcello, Bernardo, Laerte.

E poi Rosencrantz e Guildenstern, Mario e Matteo Boselli, due fratelli. Morti.

Matteo l’anno prima, si era rincoglionito completamente. Meglio così, pensa Corrado. Meglio andarsene al Creatore che farsi imboccare da un’infermiera. Poi Fortebraccio principe ereditario di Norvegia, Benito Cappellani.

«Cappellani… Cappellani… Ecco, lui non lo so se è morto.»

Non aveva fatto una grande carriera, questo è certo, Benito Cappellani. Con quel nome che era diventato ingombrante. Corrado non ne aveva sentito più parlare. Ecco, magari Fortebraccio è vivo. Pensa questo, Corrado, Fortebraccio è salvo. Magari ha cambiato mestiere, si è messo a fare, non lo so, il parrucchiere.

«Era frocio, Cappellani, me lo ricordo. Bello come il sole. Diceva due battute alla fine e chiudeva tra gli applausi.»

Tutte innamorate di lui, inutilmente. Sempre l’ultimo a uscire, Cappellani, dopo lo spettacolo, stava ore nei camerini. Si truccava e profumava come una cocotte. Aveva un giro di ragazzini in tutte le città, nessuno sapeva come facesse ad avere tutti quei contatti. Bello come il sole. Neanche male, come attore.

Corrado resta a pensare per qualche istante. Poi, scrivendo nell’aria.

«Benito Cappellani… parrucchiere per signora. Vivo.»

Ride, sfidando di nuovo il silenzio solido di quella stanza, poi torna a sfogliare le carte.

«Allora… vediamo… 27 novembre 1962. Debutto di Amleto

E un velo di malinconia gli scende sul viso. La sera della prima gli arrivò un biglietto. Tre rose bianche e un biglietto. Ma non c’era scritto nulla. Era lei. Ne era sicuro, era nel suo stile.

Francesca è stata l’unica donna con cui abbia mai pensato di avere dei figli. Era forte, intelligente. Cocciuta, testarda. Bellissima.

Quando ne parlavano, mentre facevano l’amore, lui le diceva che gli sarebbe piaciuto, avere dei figli. Ma magari più in là. Più in là, quando le cose sarebbero state più tranquille. Lei gli sorrideva, con quella faccia che non sorrideva, era d’accordo. Avrebbero aspettato.

Intanto sta facendo buio, come certi lunedì d’inverno. A un certo punto le cose cambiano, la luce, il giorno, i suoni per strada. C’è un momento in cui si passa dentro un’altra vita, con il cuore che rallenta, e gli occhi restano vigili, a osservare quel quadrato di mondo.

A volte si chiede cosa sarebbe successo, cosa sarebbe cambiato. E si ricorda.

Erano a Taormina, un paio d’anni prima. L’inizio dell’estate. Lei era agitata, nervosa, stavano provando l’Elettra. Francesca era un’attrice di grande talento. Spesso, di nascosto, lui la osservava, dietro le quinte, mentre si concentrava prima di entrare in scena. Aveva una forza innaturale, un’aura misteriosa, e gli occhi, così profondi, penetranti. Gli facevano quasi paura.

Lui non ce l’ha mai avuta, quella forza. Quegli occhi.

La verità è che l’ha sempre invidiata, in silenzio, senza dirglielo. Mai.

Si ricorda che era giugno. Taormina era meravigliosa, anche se avevano poco tempo per godersela. Passavano buona parte della mattina chiusi in una sale prove, all’interno di un palazzo barocco caldo e umido, con due grandi ventilatori che provavano a contrastare il calore accumulato dai corpi. Dopo un po’ che erano accesi ti sembrava perfino naturale, quel rumore di cigolio aereo, cadenzato, che le pale di alluminio suonavano nell’aria molle di quella stanza.

Quel pomeriggio si trasferirono nel teatro antico.

Dopo le prove lei gli disse che dovevano parlare. Era sfinita.

Aveva la faccia tirata, le labbra increspate dalla fatica. Gli occhi due bulbi neri, pulsanti, su quel viso gracile. Non sudava, Francesca non sudava mai.

«Sono incinta.»

«Cosa?»

Lo disse così, senza che la voce gravasse sulle parole, mentre stavano seduti sulle gradinate del teatro. Il sole era sparito dietro le colline, con le luci del litorale che scintillavano, come spilli di fuoco. Dietro le colonne.

«Scusami. Volevo esserne certa, prima di dirtelo.»

E ora non sapeva cosa fare. Le prove, lo spettacolo, e loro due.

Non se lo ricorda bene Corrado, cosa disse. Forse non disse nulla.

Sì. Avrebbero trovato una soluzione, non doveva preoccuparsi. Provò a essere amorevole.

Ricorda soltanto un’improvvisa fiacchezza, per quella notizia che cambiava il corso delle cose. Le disse di stare tranquilla.

Lei dopo un po’ si alzò e andò via. Senza dire niente.

Rimase da solo, sulle gradinate, ad aspettare il buio. Un senso di fragilità nei muscoli forti, di inadeguatezza sulla pelle. E una specie di rabbia sorda, l’egoismo che si impadroniva di tutto il resto e diventava un’ombra mostruosa.

Non decisero nulla. Non ce ne fu bisogno, il bambino non nacque mai. Francesca lo perse.

E qualcosa cominciò a cambiare, da allora.

La sera dopo la prima Francesca pianse, aggrappandosi alle sue spalle come un gatto. Affondando le unghie sulle sue spalle. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Ci riproveremo. Le disse così. Ci riproveremo. Ma la verità era un’altra, Corrado era sollevato. La teneva stretta, la abbracciava, e si sentiva più leggero. L’idea di avere un figlio gli aveva strozzato la gola, in quelle settimane.

«Un vigliacco.»

Lo dice, facendo suonare la parola sul tavolo. Cade come un sasso, sulla superficie ruvida.

Era un vigliacco. Oppure vedeva le cose come stavano. Né lui né Francesca avevano voglia di fermarsi e, se fosse nato, quel bambino li avrebbe costretti a rallentare, a cambiare, a dare un corso diverso alle loro vite. Non erano pronti. Non lo sarebbero stati mai.

Se fosse nato, quel bambino oggi avrebbe più di cinquant’anni.

Quanti ne aveva suo padre allora. Ci pensa. Adesso sarebbe il padre di suo padre.

E suo figlio avrebbe figli, e magari i figli altri figli.

Non sarebbero mai stati pronti, per questo.

Non lo sarebbe stato mai.

Tutto il mondo in quella stanza. E quella stanza è tutto il mondo.

Corrado si versa un bicchier d’acqua e beve, a piccoli sorsi, poi toglie gli occhiali e si alza.

Avverte dei dolori allo stomaco, e un formicolio alla mano sinistra. Si massaggia il braccio e va a sedersi sul letto. Poco dopo, si stende. Ha bisogno di riposare.

Resta a guardare il soffitto, come quel pomeriggio, da bambino, prima dei bombardamenti.