35

Due ore. Ho tutto il tempo per preparare la valigia e togliermi la prima soddisfazione. Adesso. Lo devo fare adesso. Con l’adrenalina che ho in corpo, prima che si spenga… e prima di partire.

A piedi nudi Katherine uscì dalla stanza, attraversò l’appartamento buio fino alla porta del ripostiglio. La aprì, accese la luce, sollevò l’anta scorrevole dell’armadio e tirò fuori una scatola di cartone.

Una, due, tre, quattro… sì, dovrebbero bastare.

Prese le bombolette spray che aveva portato a casa un paio di mesi prima insieme ai rotoli di stoffa rosa avanzati dopo i preparativi per la gara di pattinaggio di Bianca. Le infilò in un sacchetto di plastica e tornò in camera.

Oltre a essere una campionessa di equitazione, la figlia di Bruce seguiva corsi di pattinaggio artistico e partecipava a tutte le competizioni che l’associazione sportiva le proponeva. Una mattina Bruce era entrato nell’ufficio di Katherine e le aveva detto che due giorni dopo Bianca avrebbe gareggiato al London Ice Skating Trophy.

“Ma tu stai partendo per Tokyo!” gli aveva risposto lei.

“Purtroppo il giorno della gara l’hanno deciso due settimane fa e io non ero più in tempo per spostare l’appuntamento. Sai come sono fatti i giapponesi: non capirebbero. Questo incontro è troppo importante per la 9Sense: potrebbe essere il primo passo per mettere le basi per una partnership con il leader di mercato locale. È da un anno che aspettiamo il meeting, non me la sento di rimandare. Rischieremmo di vanificare tutti gli sforzi fatti.”

“La accompagnerà Flora?”

Bruce aveva abbassato gli occhi. “Flora è in clinica per qualche giorno: si è rifatta il seno.”

“E chi ci sarà con Bianca, allora?”

“Mia mamma, e la tata.”

“L’hai già detto a Bianca?”

“Un attimo fa, quando l’ho portata a scuola.”

Dopo la partenza di Bruce, Katherine non aveva smesso di pensare a quella ragazzina ricca e disagiata al tempo stesso. Avrebbe scommesso che Bianca sarebbe stata disposta a cedere i propri privilegi in cambio di un po’ più di tempo con i genitori. Incapace di far finta di niente, alla fine di tutte le riunioni aveva convocato Lia e Danny.

Il giorno dopo, nella White Room, i suoi due assistenti giocavano con Marta e Cecile, le migliori amiche di Bianca. Si era premurata lei di chiedere il permesso alle madri di tenere le figlie il pomeriggio per portarle in serata alla gara di Bianca. Lia era andata in gastronomia a far scorta di stuzzichini e bevande, mentre Danny aveva procurato la stoffa per fare gli striscioni e le bombolette spray per scriverci sopra.

Quando tutti gli impiegati se ne erano andati, le due amiche stavano ancora mangiando pizza e pasticcini, soddisfatte degli striscioni che erano riuscite a preparare. Il più lungo riportava la scritta “Bianca ti vogliamo bene”. Era tutto disegnato con farfalle e fiori gialli e verdi, e le parole blu erano circondate da una miriade di cuoricini rossi. Gli altri due erano più corti e potevano essere tenuti da una persona sola. Quello di Marta diceva: “Bianca sei la migliore”, quello di Cecile: “Bianca siamo con te!”

Un’ora più tardi Katherine era seduta insieme alle due ragazze sulle gradinate dello stadio del ghiaccio del Lee Valley Center.

Quando Bianca era entrata in pista, ingentilita dal suo vestitino argentato, sembrava che stesse piangendo. Aveva la testa bassa e si muoveva distratta. Katherine si era alzata in piedi e aveva urlato il suo nome a squarciagola. Bianca aveva sollevato gli occhi, incrociando quelli delle amiche che sventolavano i due striscioni. Aveva sorriso e appena la musica era partita si era messa a danzare euforica. Durante i pochi minuti di gara Katherine aveva aiutato Marta e Cecile a mostrare lo striscione più lungo, convinta che Bianca lo avrebbe notato sebbene fosse concentrata sulla performance.

Quella sera Bianca non aveva guadagnato un posto sul podio, ma Katherine sapeva che avrebbe ricordato per sempre l’emozione provata.

Sono passati solo due mesi, eppure mi sembrano due anni.

Katherine si infilò un paio di jeans e una felpa nera pesante con cappuccio. Calzò un paio di Nike Air Max nere e si mise in tasca gli occhiali da sole e un paio di guanti. Si chiuse la porta blindata alle spalle e scese nel garage. Senza aprire la saracinesca, sgattaiolò fuori dall’uscita laterale.

Era ancora buio e il cielo rimandava un colore plumbeo. Si avviò sulla strada che percorreva tutti i sabati mattina per andare da Zia Rosa, la pasticceria dove era solita prendere il cappuccino con una fetta di crostata di mele. Sui marciapiedi non c’era anima viva e le macchine dei residenti sostavano lungo il bordo strada. Katherine camminava a passo deciso, con le dita strette intorno al sacchetto che conteneva le bombolette spray. Attraversò un paio di incroci, superò la serranda abbassata della pasticceria e raggiunse la fermata dei taxi. Era vuota. Speriamo che ne arrivi uno! Aspettò un paio di minuti prima di vedere sbucare dall’angolo una macchina nera con la luce gialla accesa. Tese la mano e il taxi si fermò. Diede all’autista l’indirizzo, calcò sulla testa il cappuccio della felpa, si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi.

«Va bene qui?» chiese l’uomo, accostando davanti a un Boots Store, con le luci spente.

«Perfetto! Quant’è?»

«Quindici sterline.»

Katherine pagò e scese. Restò immobile per qualche secondo, con lo sguardo fisso e le mani fredde. Ma che cazzo sto facendo? Si girò verso la strada, spinta dal desiderio di richiamare il taxi. Desistette e lasciò che la rabbia che le bruciava dentro scacciasse via gli ultimi dubbi. Inspirò e cominciò a correre. Più accelerava e più sentiva l’adrenalina diffondersi in tutto il corpo. Imboccò la strada sulla sinistra e proseguì fino alla fine dell’isolato. Si bloccò appena raggiunse Oxford Street. Gli occhi le caddero sull’edificio scuro della 9Sense Publishing e non poté fare a meno di cercare la finestra del suo ufficio. Era quello che le serviva per tenere al massimo il livore. Oltrepassò la fermata della metropolitana. Le luci dei negozi illuminavano a giorno, ma in giro non c’era nessuno. Solo un cane che annusava un lampione e tre barboni avvolti in sacchi a pelo sgualciti, sdraiati uno di fianco all’altro sopra un cartone.

Ora o mai più. Katherine indossò guanti e occhiali. Le lenti scure la disorientarono. Dovette fare qualche passo prima di abituarsi. Si strinse nelle spalle e procedette spedita finché trovò ciò che cercava: uno dei negozi che si vedevano dal suo ufficio era stato chiuso per ristrutturazione qualche settimana prima. La serranda della vetrina doppia che dava sulla strada era sempre abbassata.

Ho cinque minuti. Se sono fortunata posso arrivare a otto, in caso contrario ne ho solo tre. Si guardò intorno per l’ultima volta. Via libera! Lasciò cadere il sacchetto per terra ed estrasse due bombolette spray. Mise il dito sull’erogatore e premette. Appena il getto blu colpì la serranda, Katherine sentì le ginocchia cedere. Sono un’incosciente!

Mentre la mano scriveva veloce sul metallo, la sua mente ripercorreva ogni scena della cena di beneficenza di otto mesi prima.

Era una serata dedicata alla ricerca scientifica e promossa da Mark Trevor, un famoso mecenate inglese. La festa si teneva in un edificio vittoriano vicino al Tower Bridge. Bruce le aveva chiesto di accompagnarlo e in quell’occasione le aveva presentato molta gente. Tra cui Tomas McKey.

E la prima bomboletta è finita.

A metà cena erano usciti tutti sul balcone per vedere i fuochi d’artificio che avrebbero danzato sul Tamigi.

Cazzo, questa bomboletta non funziona! Katherine la lanciò a terra e ne prese un’altra. Verde! Machissenefrega. Va bene lo stesso.

Terminati i fuochi avevano riacceso le luci e un boato era serpeggiato tra gli invitati: qualcuno aveva scritto sul muro di recinzione della villa: “Ricerca scientifica truffa. Mark Trevor delinquente”.

Tieni duro, Katherine… ci sei quasi!

Quando avevano visto l’atto vandalico, Tomas era di fianco a Bruce. Lei lo aveva sentito mormorare a denti stretti: “Povero bastardo di un Mark, che vergogna! Se fossi io al suo posto, morirei dall’imbarazzo per la figura di merda!”.

Un bel punto esclamativo e ho finito… Fatto!

Katherine udì il rumore di una sirena in lontananza. Raccolse il sacchetto, ci infilò tutte le bombolette e sgusciò nella prima via a destra. Si mise a correre più forte che poteva. Il cuore batteva all’impazzata e il sangue le scoppiava nelle vene. Vide un cassonetto dell’immondizia aperto e buttò dentro il sacchetto. Il rumore della sirena si avvicinava. Non c’è nemmeno un angolo dove nascondersi! Se l’auto della polizia svolta da questa parte, mi beccano subito. Con il fiato in gola attraversò la strada e si gettò in un’altra via. Il sole non era ancora sorto, ma le luci degli appartamenti iniziavano ad accendersi. Correndo in questo modo attiro l’attenzione… ma non posso di certo fermarmi. Girò l’angolo e si trovò di fronte due ragazzi che si baciavano davanti a un cancello. Cazzo! Ci mancavano solo i due innamorati. Spinse gli occhiali sulla faccia e chinò la testa. Non rallentò, nonostante la fitta alla milza iniziasse a diventare insopportabile.

Sentì delle voci dietro di sé. Saranno già i poliziotti? Se mi fermano, cosa dico? Che stavo facendo due passi in piena notte e non sono stata io? Quando scopriranno chi sono, capiranno subito che ho mentito. Penseranno che vivo consumata dal rancore. Le gambe spingevano e il respiro era in affanno. Mi metteranno dentro per teppismo?

Un’auto la affiancò e Katherine ebbe un sussulto. Tirò un sospiro di sollievo nel constatare che alla guida c’era un uomo in giacca e cravatta, indaffarato a impostare il navigatore.

Un taxi, devo trovare un taxi… e volatilizzarmi da qui il prima possibile.

Katherine cambiò strada, arrancò per un altro centinaio di metri prima di portarsi le mani ai fianchi e piegarsi in avanti. Non ce la faccio più… Ma perché non ho escogitato un piano migliore, prima di fare questa stronzata?

Katherine si rese conto di essere arrivata all’hotel Radisson. Due portieri in divisa parlottavano tra loro e non l’avevano notata. Katherine tolse gli occhiali e lasciò scivolare il cappuccio dietro la schiena. Scosse la testa e si passò le mani tra i capelli, facendoli appoggiare morbidi sulle spalle. Espirò per un paio di volte e si avvicinò ai due uomini, li salutò con un sorriso convinto e si infilò nella hall.

«Sono Katherine Sinclaire della 9Sense Publishing. Ho bisogno di una camera» disse all’impiegato al desk.

«Benvenuta. È già stata nostra ospite?» Il giovane uomo le lanciò uno sguardo incuriosito, che Katherine sapeva dipendere dall’ora e dal fatto che l’avesse vista entrare senza valigie.

«Forse lei non ha capito chi sono. Può digitare il mio nome e vedere che cosa le appare sul monitor?» Katherine usò il tono più antipatico che aveva, con la speranza di incutere un minimo di soggezione e fare in modo che l’uomo si sbrigasse.

«Mi scusi» si giustificò lui dopo aver letto le informazioni sul computer. «Non ho mai avuto il piacere di conoscerla di persona, signora Sinclaire. Vuole la solita camera e anche la sala riunioni?»

«Solo la camera, grazie.» Dammi quel cazzo di chiave e fammi sparire da qui!

Katherine prese la chiave e si diresse all’ascensore. Era l’hotel che la 9Sense Publishing usava per le riunioni internazionali ogni volta che arrivavano a Londra i responsabili delle filiali dei vari Paesi. I meeting duravano due giorni interi e Bruce preferiva che avvenissero fuori dall’ufficio, in un luogo accogliente. Durante quegli incontri si pranzava e si cenava in una sala vicino alla meeting room. La sera si finiva tardi e la mattina si cominciava prestissimo. E spesso lei si fermava a dormire in hotel.

Katherine strisciò la carta magnetica ed entrò nella stanza. Si precipitò alla finestra, spostò le tende e osservò la strada. Era tutto calmo. Forse non se ne sono accorti. Forse la sirena non era nemmeno per me. In ogni caso, a nessun poliziotto verrà in mente di entrare qui. E anche se i due portieri gli dicessero di aver visto una donna che corrisponde alla descrizione, il ragazzo della reception, per evitare di fare la seconda stronzata nel giro di pochi minuti con un dirigente della 9Sense Publishing, ci penserà bene prima di pronunciare il mio nome.

Katherine accese la televisione per vedere l’ora. Erano le cinque e quarantasette della mattina. Si sedette sul letto e aspettò. Dopo mezz’ora si fece chiamare un taxi.

Mentre era sull’auto che la riportava a casa, guardò fuori dal finestrino e sentì l’emozione stringerle lo stomaco quando i suoi occhi lessero la scritta a caratteri cubitali che troneggiava di fronte agli uffici della 9Sense Publishing.

TOMAS MCKEY LADRO!

K - I Guardiani Della Storia
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