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Davì conosceva Guzman da molti anni. Si erano incontrati per la prima volta a Capri, nella villa di un comune amico – un nobile napoletano con la passione per i cavalli.
Una sera, dopo cena, Guzman deliziò gli ospiti con una storia su un vulcano sottomarino che si troverebbe nel centro del Mediterraneo e che, una volta ogni cento anni, erutta facendo affiorare un’isoletta che rimane in superficie per qualche mese, prima di sprofondare nuovamente a causa di violenti terremoti.
«In passato, i naviganti che l’avvistavano pensavano si trattasse del purgatorio», affermò Guzman, avvolto dal fumo di un magnifico «puro» cubano che lo faceva somigliare a uno spirito in pena.
Davì provò subito un grande affetto per quell’uomo che, a differenza di quelli che lo circondavano, non si affannava per cercare il consenso ipocrita degli altri. Guzman provava piacere nell’essere piacevole. Per questo Davì lo elesse come suo unico amico.
Compirono insieme alcuni viaggi in cerca di montagne esotiche e sconosciute, durante i quali Davì si comportava come un discepolo, mettendo da parte gli eccessi e il carattere esuberante, e diventando incredibilmente docile e disponibile ad apprendere.
Poi, per un lungo periodo, le loro strade si separarono. Ma quando Guzman fece ritorno a Parigi insieme a Isabel, nel 1908, Davì era in città da qualche mese e aveva già avuto modo di crearsi una pessima fama.
Concordarono un incontro per rivangare i vecchi tempi.
Davì aveva sentito che l’amico aveva un amore e alcuni gli avevano raccontato la storia del Gran ballo dell’Ambasciata di Spagna di otto anni prima. Ma non aveva mai visto Isabel.
Quando Guzman gliela presentò, non riuscì ad aprire bocca. Si rese conto che, se rimaneva ancora un po’ in silenzio, avrebbe fatto certamente la figura dello stupido. Ma non gli era mai capitato d’essere spiazzato. Proprio lui che era abituato a provocare quell’effetto negli altri.
Isabel era una magnifica ribelle, una fiera che non si lasciava domare, senza padroni e, proprio per questo, bisognava costantemente conquistare le sue attenzioni.
Era di spirito, oltre che attraente. Aveva la battuta pronta e molta iniziativa. Era curiosa e imprevedibile, non c’era nulla che la scoraggiasse. Il suo sorriso spuntava all’improvviso, come il sole che non ti aspetti in una giornata di pioggia. Era spontanea laddove le altre donne avrebbero ragionato accuratamente – come togliersi le scarpe per arrampicarsi su uno spuntone di roccia su cui ha avvistato dei fiori di rododendro, o decidere di mettersi a dipingere, o fumare in pubblico.
Quella donna, magnifica presenza, quell’angelo con quel... coso, pensava Davì. Quell’uomo dalle mani gialle, con l’alito pesante, simpatico sì, buon parlatore, ma orrendo!
Per quanto volesse bene a Guzman, era incapace di trattenere il disprezzo. La verità, però, era un’altra. Davì cercava di mascherare a se stesso il fatto che si era innamorato immediatamente di Isabel.
Più che un’ingiustizia per gli occhi, la coppia era un affronto a sentimenti che non aveva mai provato. Ciò che nutriva per lei lo stava annientando. L’odio per Guzman gli sembrava il solo modo per non farsi soverchiare – come un animale in gabbia che non si rassegna ad aver perso la libertà e, perciò, continua a dibattersi, anche se in fondo sa che è inutile.
Iniziò a frequentare la coppia con costanza. Li si vedeva sempre in tre – all’opera, a cena nei bistrot, a teatro o nei musei. Davì non riusciva a fare a meno di stare vicino a Isabel, ma per questo doveva sopportare la vista di lei insieme a Guzman. Era lacerante.
Dopo qualche tempo, capì che doveva fare qualcosa. Perché andare avanti così non era più possibile.
Cominciò a mandarle dei segnali. Dapprima discreti – piccole galanterie per saggiare il terreno. Poi sempre più chiari – il dono di un quadro che lei aveva notato in una galleria, uno sguardo prolungato, l’accidentale sfiorarsi delle mani.
Lei non coglieva quei richiami, o fingeva di non coglierli, ma per Davì non faceva differenza. Perché più era costretto a insistere, più aumentava la sua determinazione. Isabel non dava l’impressione che le sue attenzioni la infastidissero, e per lui era già un segno.
Ma poi Isabel, in sua presenza, si gettava fra le braccia di Guzman e lo colmava d’affetto, come una ragazzina innamorata. E allora Davì provava la brusca sensazione di essere di troppo e di aver sperato inutilmente.
Le accortezze si rivelavano inefficaci. I messaggi che le mandava, sperando che si creasse un codice soltanto per loro, erano inutili richiami al vento. Doveva escogitare qualcos’altro. Aveva bisogno di capire quale fosse il punto debole del legame con Guzman. Non li vedeva mai discutere o litigare, erano in sintonia su tutto.
Ma poi accadde.
Durante una gita sulle Alpi svizzere. Erano in un rifugio, cercando riparo da un brutto temporale, lieti di potersi rintanare accanto a un fuoco, a ridere e a bere e a fumare. Era uno dei pochi momenti di serenità in cui Davì si accontentava di starle vicino e riusciva a godersi la compagnia di Guzman senza invidia, come un tempo.
La porta della baita si spalancò ed entrarono in quattro, una coppia e due bambini. Il chiasso festoso che facevano attirò la loro attenzione. Per lui e Guzman fu un attimo e poi ripresero a chiacchierare. Invece Isabel indugiò sul quadretto familiare. E Davì colse un’ombra di tristezza nel suo sguardo.
Ecco che cosa voleva Isabel e non poteva avere.
E in quel momento, Davì fu sicuro di aver scovato un modo per separarli.