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Guzman è un eroe dell’ozio.
La sua non era accidia o indolenza. Certi uomini vengono al mondo per compiere imprese, e altri sono qui per ricordare al mondo quanto sia piacevole, in fondo, vivere. Abbiamo bisogno della seconda categoria quanto della prima.
Per questo, dopo l’esperienza di garzone per la lavanderia di Madame Li, Guzman non ha più lavorato.
Ma chi non gode di rendite più o meno illimitate e non è predisposto per l’accattonaggio, prima o poi deve trovare un mestiere o un modo per mantenersi. Siccome Guzman non rientrava nel rango dei possidenti ed era generalmente troppo felice per indurre qualcuno a fargli l’elemosina, sembrava non rimanergli scelta.
Non scansava la fatica, era solo scettico sul fatto che ci fosse un lavoro adatto a lui.
Ogni uomo ha almeno un talento – così dice la Bibbia –, e Guzman sapeva bene che il proprio comprendeva il fumare e, unitamente, raccontare storie.
Ma spesso non è sufficiente possedere un talento. È necessaria anche una vocazione – lì dove s’intende la speciale predisposizione a mettere a frutto la propria dote.
Seguendo tale logica, il talento di narratore di Guzman l’avrebbe certamente favorito in una carriera di romanziere. Ma la parte del fumare era essenziale. E pur potendo indicare cosa aspirare e i punti della narrazione in cui farlo, non avrebbe certo potuto imporre il vizio al lettore.
E poi Guzman non avrebbe accettato che le sue storie finissero prigioniere dell’incantesimo di una pagina scritta. Erano vive, e ogni volta si arricchivano di nuovi particolari che spesso prendevano il posto di quelli ormai desueti, in un continuo ricambio. Come accade alle piante, che si liberano dei rami, delle foglie e dei frutti, e mutano incessantemente senza perdere la propria identità. Fissare le storie nell’inchiostro significava privarle del proprio spirito. In altre parole, farle appassire.
Come un artigiano, Guzman cesellava frasi, sceglieva sinonimi, modificava ritmo e musicalità. Spesso era il pubblico a suggerirgli le variazioni necessarie, perché si accorgeva dalle reazioni delle loro facce se un passaggio era privo di mordente oppure se un colpo di scena era davvero efficace.
«Io sono l’ultimo aedo», diceva di se stesso, puntando un dito al cielo, ubriaco di fumo e di risate. «Come un moderno Omero, sono un apolide condannato a un continuo vagabondare per portare agli uomini il conforto dell’immaginazione.»
Guzman cominciò a maturare tale convinzione molto presto, diciamo verso i vent’anni. All’epoca versava ancora in una dignitosa indigenza – non tanto povero da morire di fame ma abbastanza per disperare che la situazione sarebbe mutata in breve tempo. Doveva ingegnarsi per procurarsi un pasto caldo.
Tanto per cominciare, investì gli ultimi risparmi in un frac di seconda mano, malmesso ma ancora rispettabile, che gli vendette un impresario di pompe funebri – ma Guzman non volle conoscerne l’esatta provenienza.
Con quell’abito indosso, sceglieva un ristorante di lusso e si presentava all’ora di cena. Puntava nella sala un cliente intento a mangiare da solo e, senza bisogno di presentazioni, andava ad accomodarsi al suo tavolo. Prima che il prescelto potesse rendersi conto di quanto stava accadendo, Guzman attaccava con una storia. Aveva calcolato che al cliente di solito occorrevano fra i cinque e i dieci secondi per superare l’iniziale smarrimento e accennare una protesta, perciò aveva solo quel breve intervallo per catturare la sua attenzione. L’attacco delle storie era fondamentale – come il direttore che, all’inizio del concerto, con un solo gesto deve conferire simultaneità all’orchestra, così lui doveva esordire con una frase che fulminasse.
«La sentite la puzza di incenso e fiori marci che proviene dal mio frac? Non ci crederete, ma per molto tempo è appartenuto a un cacciatore di fantasmi...»
Il cliente che stava già richiamando l’attenzione del maître, solitamente si bloccava con il braccio a mezz’aria, come per l’effetto di una tossina paralizzante. Guzman lo aveva colpito al cuore, inoculandogli nel sangue il veleno della curiosità.
L’unico antidoto, a quel punto, era ascoltare.
All’epoca, le storie di Guzman non erano così curate. Spesso improvvisava, mescolando, come al suo solito, verità e leggenda. Aveva bisogno di vicende forti – storie di spettri, ammazzamenti e con risvolti pruriginosi –, che gli garantissero rapidi risultati. Il commensale, pur di conoscere il seguito, faceva aggiungere un secondo coperto. In fondo, aveva considerato Guzman quando gli era venuto in mente quell’espediente, a nessuno piace mangiare da solo. Così tutti finivano per gradire la compagnia dei suoi racconti e lui riusciva a rimediare un pasto e, a volte, una piccola mancia.
«Un giorno, nel futuro», mi diceva Guzman, «tutte le famiglie all’ora di cena avranno qualcuno che si siederà a tavola con loro e gli racconterà delle storie. Sarà una cosa normalissima, vedrai. Come avere il teatro in casa.»
Siccome parlava molte lingue – retaggio del lungo girovagare assieme alla madre –, Guzman non aveva difficoltà a farsi capire ovunque andasse. Poteva viaggiare gratis, perché nelle carrozze dei treni o sulle navi trovava sempre un ricco annoiato o una comitiva di amici disposti a pagargli il prezzo del biglietto purché li intrattenesse. E siccome il suo bagaglio di storie era pressoché inesauribile, riusciva ad andare avanti anche per ore.
Una volta a Londra decise di tentare il vecchio trucco del ristorante. Nella sala era seduta un’anziana signora che mangiava da sola. Nonostante non fosse più una ragazzina, non aveva rinunciato ad apparire: indossava gioielli e un elegante abito da sera. Guzman immaginò che avrebbe di certo gradito un giovane ospite al proprio tavolo che sapesse apprezzare lo sforzo di sembrare ancora piacente. Si accomodò.
«La sentite la puzza di fiori marci e incenso che proviene dal mio frac?»
«Lo riconosco, apparteneva a un bastardo cacciatore di fantasmi.» Gli puntò in faccia i suoi occhi azzurrissimi e glaciali e, seria, aggiunse: «È da quando sono morta che lo aspetto qui tutte le sere».
Sul volto di Guzman dovette apparire un’espressione davvero spiazzata, perché la vecchia esplose subito in una risata fragorosa, incurante di cosa potessero pensare gli altri clienti del locale.
«Come facevate a sapere...»
«Perché dopo che mi hanno parlato di te, ho pensato che l’unico modo per incontrarci fosse presentarmi a cena tutta sola. Vado avanti così da una settimana. Ce ne hai messo di tempo, Guzman», lo rimproverò.
«Mi dispiace», si giustificò lui, pur non capendo esattamente di cosa dovesse scusarsi.
«Dimmi, ragazzo: la sapresti raccontare una vera storia? E non intendo vera in quanto veritiera – sono troppo vecchia per una cosa tanto crudele come la verità –, ma in quanto ti entra nella pancia prima di risalire fino al cuore. Una di quelle storie che fanno tremare i polsi e poi commuovere, ma che sono pure divertenti ed emozionanti come poche al mondo.»
«Quale storia?» domandò Guzman, per la prima volta incuriosito.
«Ovvio, la mia.»