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Questa è la leggenda del sigaro di Rabes, ormai il sigaro di Guzman. Era fragile, perciò era avvolto in carta d’argento. Era prezioso, ma lo era ancor di più per il fatto che quel rotolo di tabacco aveva viaggiato per anni tra odori di zenzero e di zafferano e pepe, ma soprattutto vaniglia, fino a esserne impregnato. Era speciale, e Guzman decise che anche per lui quello sarebbe stato l’ultimo, un giorno. Per questo lo conservava.

Raccontava questa storia, lo mostrava con orgoglio per qualche istante, poi lo riponeva come una reliquia nella tasca interna della giacca. E infine diceva: «Quando l’accenderò, nel giorno della mia morte, nella prima nuvola di fumo riconoscerò la faccia rubiconda di Rabes. Così ce ne andremo insieme, come due vecchi amici. E lo siamo davvero perché, ne sono sicuro, l’anima di Rabes è qua dentro, prigioniera di questo vecchio sigaro».

Il suo palcoscenico erano le lobby dei grandi alberghi, gli ambulacri dei teatri d’opera, i café chantant e i club privati.

Guzman aveva un metodo per adescare i suoi spettatori. Gli bastava sedersi davanti a uno sconosciuto, accendere un sigaro e, quasi di punto in bianco, attaccare a raccontare. All’inizio i prescelti erano spaesati, ma subito venivano accalappiati dalle prime battute della storia e dimenticavano l’imbarazzo. Erano in trappola. Di lì a poco, una piccola folla di curiosi si radunava spontaneamente intorno a loro.

In principio si domandavano chi fosse quell’insolito omino che raccontava fumando, ma dopo un po’ avevano la sensazione di conoscerlo da sempre, come un vecchio amico.

E lui li aveva in pugno.

Con un sigaro fra le dita, Guzman creava per loro un gioco d’inganni. Si lasciava attraversare da quella bruma saporosa e stuzzicava il loro desiderio. L’aria scura dentro la sua bocca scivolava morbida e frusciante come velluto, si fermava un piccolissimo attimo, in attesa, e poi tornava fuori con le sembianze di un fantasma. E svaniva.

Dimenticava la propria morte, Guzman. E intanto era felice e non sapeva il perché. Spiegava: «Lo so, fa male, e un giorno ne morirò. Ma è la mia anima che mi costringe a farlo, e rinnega il corpo, e lo persuade a una lenta distruzione, perché è sicura di sopravvivergli. E chiede di essere dissetata ancora con quell’acqua dell’ozio che scorre invisibile e che la sa drogare. E lo fa solo per se stessa, per il proprio piacere».

La sua passione – ossessione – non si limitava al fumare e al raccontare storie. Era più complessa, articolata. C’era una terza componente, fondamentale quanto le prime due.

Le montagne.

Le montagne per Guzman avevano un preciso significato. Erano state messe lì dove si trovavano per ricordare agli uomini qualcosa: forse il senso della loro vita, la loro fragilità, o forse qualcos’altro. Per ognuno una cosa diversa.

Quando Guzman incontrava una montagna si fermava, si sedeva e la guardava. E la ascoltava cercando di capire cosa la montagna volesse dirgli. E poi lui, per salutarla, fumava.

Era stato sulle Alpi innevate, sui Carpazi, sui Pirenei. In piedi sulle vette del Tibet, a tremila metri, con l’aria rarefatta e un vento di fuoco che brucia la faccia e non consuma il tabacco. Perfino in Egitto, seduto davanti alle tre piramidi di Giza, montagne di deserto.

A Kilauea, in Polinesia, ancora raccontano di un uomo che fumava vicino al vulcano. E che il vulcano fumava con lui.

Così se ne stava Guzman, fermo a interrogare la sua anima: sapeva di averla da qualche parte dentro sé ma, come tutti, non sapeva dove fosse.

«Il tabacco lo sa», diceva. «La conosce, la seduce. Fumare, seguendo quel fumo fino a dove ci fa più piacere che arrivi, ottenebrandoci un poco nel percorso nel nostro corpo, giù nelle calde viscere, ascoltandone il rumore come il brontolio di una tempesta che si avvicina, nera, elettrica, e poi su, vorticando nel cervello, e poi chissà dove, dove non possiamo seguirlo ma dove lui sa arrivare, fino a toccarla, finalmente. L’anima.»

Guzman, sulle montagne, rigurgitava nuvole bianche e immaginava in ognuna di esse la forma della propria anima.

 

 

«In effetti, è un buon modo di trascorrere l’esistenza», notò Jacob Roumann. «Ma non vedo come ci si possa garantire il sostentamento con una simile predisposizione.»

«Sembra un’occupazione da poco, me ne rendo conto», ribatté il prigioniero. «Ma, che ci crediate o meno, è grazie a ciò che sapeva fare meglio che Guzman è diventato ricco.»

La Donna Dei Fiori Di Carta
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