13

Si trattava di un sottufficiale. Non era una sorpresa, Jacob Roumann se l’aspettava da un giorno all’altro ormai. Non il campo di battaglia stavolta, bensì la polmonite.

Era riuscito a mantenerlo in vita con impacchi caldi sulla schiena e sul torace, e suffumigi di olio di canfora. Ma sapeva che erano solo palliativi. Ultimamente il paziente era peggiorato, respirare si era fatto sempre più faticoso.

Il dottore gli posò una mano sulla fronte, con delicatezza, come se bastasse una semplice pressione a farlo andare in frantumi. Scottava. La febbre lo stava consumando in fretta, come fuoco sotto la paglia.

«Sta morendo», sentenziò il sergente, che era fra coloro che non si accontentano della semplice impressione, ma hanno bisogno di dare alla realtà consistenza di parole.

Jacob Roumann non rispose. Invece, si domandò, in cuor suo, se quel ragazzo fosse pronto ad andarsene. Se, come gli aveva detto il prigioniero riferendo le parole che Guzman aveva sentito dal padre, aveva fatto della sua vita la ragione stessa per cui vivere.

Il sottufficiale era ricoverato in una zona appartata della trincea. La motivazione dell’isolamento, comunemente accettata dai commilitoni, era che a ridosso del terrapieno avrebbe trovato maggiore riparo dal vento che sferzava la montagna. Ma Jacob Roumann, come tutti d’altronde, sapeva che si trattava solo di una scusa. In realtà, nessuno tollera la vista di un moribondo se la fine avviene per mano di un nemico a cui non si può semplicemente sparare – un morbo o una malattia. È uno scontro impari.

Il respiro affannoso dell’infermo nascondeva il rantolo che avrebbe scandito i suoi ultimi minuti sulla terra.

In quel momento, sopraggiunse il maggiore. Scortato dal suo attendente, con il solito piglio marziale, incurante del soldato che stava morendo, si rivolse al medico di guerra. «Avete trascorso più di due ore nella grotta insieme al prigioniero, quindi sono stato bravo a immaginare che con voi si sarebbe deciso a parlare», disse con esagerata vanagloria.

«In effetti, abbiamo aperto un dialogo, ma non so dove ci porterà», ammise Jacob Roumann, senza contrariarlo.

«Non perdetevi in chiacchiere inutili, dottore», lo redarguì. «Non c’è tempo per le frivolezze.»

«C’è, invece. Fino all’alba, o sbaglio? Il termine non era quello? E voi non mi avete dato altre scadenze.» S’impuntò, come non aveva mai fatto prima. Anche perché adesso che aveva aperto uno spiraglio nell’ostinazione del prigioniero, sentiva di potersi permettere un nuovo atteggiamento nei confronti del superiore. Almeno fino all’indomani. Perché, in verità, Jacob Roumann non era sicuro che sarebbe riuscito nell’intento di far confessare nome e grado all’italiano. Aveva la sua parola, certo. Ma era costretto anche a chiedersi perché il prigioniero avesse scelto proprio lui per raccontare la sua storia.

«Allora fatelo parlare», ribadì il maggiore. «Ne siete direttamente responsabile», minacciò. «Se dovessi scoprire che state socializzando col nemico, io...»

Il moribondo lo interruppe dicendo qualcosa. Tutti lo fissarono ma nessuno aveva capito. Il maggiore stava per riprendere il discorso.

«Aspettate», gli intimò Jacob Roumann. L’altro parve indispettirsi per quell’ordine, ma il medico non se ne curò e si chinò sul paziente, appoggiando l’orecchio quasi alle sue labbra.

«Una coperta di lana», ripeté con un filo di voce.

Il dottore fece cenno al sergente, che provvide ad aggiungerne un’altra alla pesante pila che già lo ricopriva. Il sottufficiale non fece neanche segno di rendersene conto. I suoi occhi azzurri erano pieni di compassione per il mondo che lasciava. La vita stava perdendo un altro testimone, e sembrava che ciò addolorasse il moribondo più che la sua stessa morte. Contò il proprio ultimo secondo, poi spirò.

Jacob Roumann gli chiuse gli occhi con la solita carezza, gentilmente. Poi si rivolse al superiore. «Possedete una tabacchiera?»

Il maggiore sembrava scandalizzato dalla domanda. «Certamente, ma a voi che importa?»

Il dottore allungò il palmo. «Dovete consegnarmela, fa tutto parte della strategia.»

«Che strategia?»

«Caro maggiore, domattina avrete ben altro che un nome e un grado.» Nel momento in cui pronunciò la menzogna, Jacob Roumann capì che, in fondo, non gli importava delle conseguenze.

Il maggiore lo squadrò in tralice, poi trasse dalla tasca interna della giubba una tabacchiera d’avorio e la consegnò al dottore. «Verrete a riferirmi gli sviluppi fra un’ora.»

Jacob Roumann provò ad accennare una protesta.

Il maggiore lo gelò. «È un ordine.» Gli voltò le spalle e se ne andò, seguito a ruota dall’attendente e dal sergente.

Rimasto solo col giovane cadavere, il dottore si infilò in tasca la tabacchiera e prese la sua agenda del 1916 dalla copertina nera. Aprendola, scivolò per terra qualcosa che era conservato fra le pagine. Un fiore di carta. Jacob Roumann lo raccolse e, noncurante, lo rimise nel libretto. Rilesse l’ultimo appunto della lista del giorno 14 aprile.

Ore 20.07. Soldato semplice: «Appare».

Quindi consultò l’orologio da taschino e aggiunse un’altra voce, subito sotto.

Ore 22.27. Sottufficiale: «Una coperta di lana».

Jacob Roumann soppesò le parole. Poi annuì, soddisfatto. Aveva un senso.

La Donna Dei Fiori Di Carta
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