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Da sempre ritengo che i sognatori si dividano in due categorie. I consapevoli e gli involontari.
I primi hanno ben in mente un obiettivo e lo perseguono con tenacia e dedizione finché non lo raggiungono. In questa schiera rientrano i grandi condottieri della Storia o i magnati dell’industria e del commercio.
Cercano la fortuna che benedica le loro imprese.
I sognatori involontari, invece, hanno un obiettivo iniziale che non è mai grandioso, però finisce col diventarlo senza che loro possano farci nulla. In definitiva, si tratta di persone che riescono a migliorare il mondo senza volerlo. Fra questi rientrano spesso gli esploratori, gli scopritori e gli inventori.
Nel caso specifico, però, la fortuna può diventare la loro maledizione.
Saprete di certo che Cristoforo Colombo voleva trovare una via più breve per raggiungere le Indie, non certo scoprire un nuovo continente. Fino al termine della sua vita si oppose inconsciamente all’idea che quella su cui era approdato fosse una nuova terra, anche se ormai fra molti navigatori serpeggiava tale sospetto. Colombo tenne fede alla visione iniziale. Si narra che, in una delle innumerevoli spedizioni, dopo aver esplorato l’isola che in seguito avrebbe preso il nome di Cuba, obbligò il proprio equipaggio a giurare davanti a un notaio che quella era in realtà la Cina.
Una delle tante leggende che circolano sull’invenzione dello champagne parla di un frate benedettino di nome Dom Pierre Pérignon che voleva creare un vino bianco per guadagnarsi i favori della corte di Francia. Solo che, a causa del clima freddo della propria regione, la fermentazione durava ben due stagioni, e ciò andava a detrimento del gusto. Tuttavia, provando a imbottigliare il prodotto prima del tempo, si generava fastidiosa anidride carbonica. Si dice che Dom Pérignon cercò per tutta la vita di eliminare le bollicine che l’avrebbero reso famoso, perché le riteneva l’insopportabile frutto di un errore.
Il fisico tedesco Wilhelm Conrad Röntgen stava cercando di ampliare la scoperta dei raggi catodici, avvenuta a opera del collega Eugene Goldstein. Il daltonismo che lo affliggeva lo costringeva a oscurare completamente il laboratorio in cui lavorava. Fu grazie al buio che notò una strana luminescenza e avvenne la casuale impressione della sua mano su una lastra fotografica. Tuttavia quella foto era speciale perché della mano mostrava lo scheletro. Per motivi morali, Röntgen si rifiutò sempre di attribuire il proprio nome alla scoperta, poiché la considerava solo un perfezionamento del lavoro altrui. Li chiamò raggi X, in quanto semplicemente sconosciuti.
Tali uomini sono solo alcuni esempi tratti dalla lunghissima schiera dei sognatori involontari. Il destino li aveva premiati oltre le loro aspettative, e loro non riuscivano a gestire la responsabilità del successo.
Lo stesso accadde a Dardamel.
Il musicista inventore, abbandonato ogni proposito suicida, s’incaponì nel proprio sogno. Dopo alcuni mesi di studio e lavoro intensissimi, concepì un innovativo strumento musicale.
Un oboe a gas.
Lo annunciò al mondo degli inventori e a quello dei musicisti in pompa magna. Ma ricavò il solito scherno, scatenando la consueta ilarità. Deciso a non mollare, depositò il progetto del nuovo strumento presso l’ufficio brevetti.
Qualche mese più tardi, ricevette un’anomala convocazione presso il ministero della Guerra.
Dardamel era un tipo gracilino e scarsamente coraggioso, quindi poco incline all’arte militare. Si domandò quale potesse essere la ragione dell’invito. Trascorse una nottata di tormenti, rigirandosi nel letto alla ricerca di una spiegazione, che non arrivò.
Il mattino dopo, si recò all’appuntamento.
Al seguito di un giovane militare, percorse gli ampi corridoi del palazzo del ministero della Guerra, facendo spaziare lo sguardo fra gli alti soffitti – voluti apposta per intimorire i visitatori – e i quadri e gli arazzi raffiguranti scene di battaglia. Stordito da tanta violenza, al termine del tragitto fu introdotto in un ampio salone. In fondo alla stanza, c’era una scrivania a cui era seduto un generale. Dardamel fu accolto da un sorriso di denti ingialliti e da una calorosa stretta di mano.
«Complimenti», disse il generale.
«Grazie. Ma per cosa?»
«Per il vostro brevetto.»
Era la prima volta che qualcuno s’interessava alla sua opera, ma Dardamel non capiva perché stranamente non riuscisse a gioirne. Seguì un’infilata di elogi del generale all’inventore e all’invenzione. Quindi un predicozzo sull’importanza che ogni cittadino servisse la nazione. Infine si avventurò a ipotizzare scenari apocalittici qualora venisse meno il fondamentale senso del dovere che dovrebbe guidare gli uomini nelle proprie scelte.
Dardamel era confuso. «Non stiamo parlando di musica, vero?»
«No di certo», rispose cordialmente l’alto in grado.
Dardamel non sapeva esattamente come prendere la cosa. Ci pensò un attimo, in silenzio, cercando le parole. Alla fine disse: «Cosa credete che sia la mia invenzione?»
«Un lanciafiamme.»
«È un oboe a gas», protestò.
«No, è un lanciafiamme», ripeté il generale senza perdere il sorriso fisso.
«Ribadisco: oboe a gas.»
«Insisto: lanciafiamme.»
Andò avanti così per un quarto d’ora. Poi il generale mostrò a Dardamel l’indecorosa somma di denaro che il ministero era disposto a pagargli per acquistare il brevetto dell’oboe lanciafiamme – come avevano convenuto di chiamarlo per dirimere almeno la controversia sulla definizione.
Davanti all’inusitata offerta, Dardamel prima tentennò, poi cedette. Di lì a qualche mese, lo strumento fu impiegato con successo per vincere una campagna militare.
Apprendendo la notizia, Dardamel cadde nello sconforto e nella frustrazione. Dal momento in cui era diventato ricco, nessuno lo derideva più ma non riusciva nemmeno a inventare strumenti musicali che producessero nuovi suoni.
La sua esistenza era gravata da insopportabile silenzio.
Impiegò quasi un anno a ritrovare il giovane che, sul ciglio del precipizio, gli aveva fornito una motivazione per salvarsi. Lo scovò, povero e affamato, in una bettola di Varsavia, mentre cercava di rifilare a un pubblico di ubriachi una storia di montagne. Ormai fumava solo scarti di tabacco avvolti in carta pesante e grezza.
«Ecco, è vostro», gli disse mettendogli davanti tutto il denaro che possedeva. «Io non lo voglio.»
E quando Guzman – dopo essersi domandato se tutto ciò stava accadendo realmente o se era il frutto di un’allucinazione dovuta all’indigenza – gli chiese il perché, Dardamel rispose che rivoleva il vecchio sogno, anche a costo di non vederlo mai realizzato.
Guzman gli fece notare che non meritava quei soldi perché in fondo non aveva fatto nulla, ma l’ex musicista inventore gli spiegò che invece lo considerava alla stregua di un socio. Perché a volte non è necessario che qualcuno ti finanzi o condivida il rischio d’impresa. A volte, c’è semplicemente bisogno di qualcuno che creda in te.
Guzman, però, avvertiva ancora l’esigenza di capire. «Perciò non lo state facendo per una sorta di scrupolo di coscienza, per via di tutti i morti ammazzati con la vostra invenzione.»
«Non sono moralmente irreprensibile. Per cui non m’importa quell’aspetto», ammise candidamente – e spietatamente – Dardamel. «E poi penso che, anche senza l’oboe lanciafiamme, i militari troverebbero altri modi per farsi fuori.»
«Allora perché?»
«Perché dovete raccontare le vostre storie. Compresa la mia. Se vi infastidisce l’origine di quella somma, fate finta che io sia una specie di mecenate.»
Nessuno dei due aggiunse altro. Guzman prese il denaro, Dardamel si riprese la sua vita e si separarono. Si sarebbero rivisti un’ultima volta, ma nessuno dei due poteva saperlo ancora.
Dardamel sarebbe morto un anno dopo, suicidandosi.
Guzman si sarebbe innamorato.