15. La crociera dell'animatore
Il lanciapalle era tornato silenzioso. Alle quattro del pomeriggio i giocatori cominciavano a lasciare i campi e si avviavano verso casa per un'ulteriore siesta. Aspettavo Bobby Crawford seduto nella Citroën, davanti al bar dove la notte incrociavano le puttane dilettanti. Una dopo l'altra le macchine attraversavano i cancelli del Club Nautico, con i guidatori stanchi ma felici, che sognavano A perfetto rovescio servito dal bell'apostolo della rete.
Crawford fu l'ultimo ad andarsene. Alle cinque e un quarto apparve in mezzo al cancello il muso da squalo della sua Porsche. La macchina si fermò mentre lui guardava la strada a destra e a sinistra, poi accelerò superandomi con un ruggito. Si era cambiato, e adesso non indossava più la tenuta da tennis, ma un giubbotto di cuoio nero da gangster, che spiccava sulla camicia bianca e sui capelli biondi appena lavati. Questa aria tenebrosa lo faceva sembrare un giovane attore nella fase James Dean, che si mordeva le nocche pensando al personaggio del suo prossimo film. Dietro la sua testa la chiusura del tettuccio, strappata, svolazzava nel vento.
Lasciai passare qualche macchina, poi lo seguii verso Plaza Iglesias. La Porsche era ferma al semaforo, seminando gas di scarico fra le motorette e i taxi diesel. Col parasole abbassato, mi accodai a un pullman per Fuengirola pieno di turisti inglesi abbarbicati ai loro souvenir di Estrella de Mar: busti dell'Apollo del Belvedere in miniatura, paralumi art déco e video delle produzioni di Stoppard e di Rattigan.
Con grande semplicità Crawford salutò i turisti, alzando allegramente il pollice in segno di approvazione per le loro scelte. Quando scattò a verde, sterzò bruscamente a destra davanti al pullman, evitando per un pelo il paraurti di un camion che arrivava dalla parte opposta, e imboccò calle Molina in direzione della città vecchia.
Nell'ora successiva lo seguii per tutta Estrella de Mar, lungo un itinerario che sembrava seguire una mappa segreta della mente di quest'uomo così impulsivo. Lui guidava quasi senza pensare, e io supponevo che tutte le sere, finito il suo lavoro di istruttore di tennis al Club Nautico, lui facesse quella strada per andare a visitare gli avamposti di un regno ben diverso.
Dopo un rapido giro per il Paseo Maritimo, Crawford tornò in Plaza Iglesias e scese dalla Porsche, lasciando acceso il motore. Attraversò i giardini in mezzo alla piazza dirigendosi verso il caffè all'aperto che stava vicino all'edicola: qui incontrò i due fratelli che passavano le sere davanti alla discoteca del Club Nautico. Nervosi ma affabili, questi ex venditori d'auto dell'East End mi offrivano talvolta a prezzi generosamente scontati l'ultimo hashish arrivato dal Marocco a bordo della potente motonave i cui motori erano così ben curati da Gunnar Andersson.
Lasciato il loro tè ghiacciato, i due si alzarono per salutare Crawford con la deferenza di due attendenti verso un giovane ufficiale di provata esperienza. Parlarono a bassa voce mentre Crawford esaminava la sua agenda, spuntando delle voci in quella che sembrava una lista degli ordini. Quando i due fecero ritorno al loro tè, con i rifornimenti assicurati, Crawford fece segno a un corpulento magrebino in uniforme scura che sedeva al banchetto del lustrascarpe.
Era l'autista di Elizabeth Shand, Mahoud, quello che mi aveva guardato accigliato prendendo nota della targa della mia macchina. Dopo aver ficcato in mano al ragazzino che gli puliva le scarpe un rotolo di pesetas, l'africano raggiunse Crawford nella Porsche. Fecero il giro della piazza, girarono in una stradina laterale e si fermarono davanti al ristorante libanese Baalbeck, un posto di appuntamenti molto popolare fra i ricchi arabi che navigavano lungo la costa provenienti da Marbella.
Mentre Crawford aspettava nella Porsche, l'autista entrò nel ristorante, e ne uscì qualche istante dopo in compagnia di due donne biondo platino vestite con microgonne di pelle, top chiassosi e scarpe bianche coi tacchi a spillo. Le due, una volta uscite, fecero finta di essere accecate, come se non avessero mai sperimentato direttamente la luce del sole. Con le loro borsettine di pelle lucida ricordavano due passeggiatrici di Pigalle, ma l'abbigliamento vistoso, per quanto male assortito, sembrava uscito dalle boutique più lussuose di Estrella de Mar.
Mentre la più alta delle due arrancava sullo stretto marciapiede, sotto la parrucca platinata riconobbi un'altra delle partecipanti al funerale di Bibi Jansen, un'inglese, moglie di un agente marittimo che aveva l'ufficio al porticciolo. La donna stava facendo del suo meglio per sembrare una puttana, sporgendo le labbra e sculettando, tanto che mi chiesi se tutta quella messinscena non fosse il ghiribizzo di qualche regista teatrale d'avanguardia che stesse provando una versione all'aperto di "Mahagonny" o di "Irma la dolce".
Le donne raggiunsero Mahoud nel retro di un taxi, che partì spedito alla volta dei palazzi lussuosi della strada panoramica, su in alto. Soddisfatto di vederle andare al lavoro, Crawford uscì dalla Porsche e chiuse le portiere. Si infilò in una strada laterale e costeggiò le auto parcheggiate, provando le maniglie delle porte a una a una con la mano destra coperta dal giubbotto. Quando trovò aperta la porta del passeggero di una Saab argentata, si infilò dentro, scivolò al posto di guida e sì mise ad armeggiare sotto il volante.
Riparatomi sotto la porta di un negozietto di tapas, lo vidi collegare destramente i fili dell'accensione. Quando il motore si avviò fece uscire la Saab dal parcheggio e si gettò rapidamente giù per l'acciottolato della strada, facendo il pelo agli specchietti delle auto parcheggiate.
Nel tempo che ci misi a tornare alla Citroën, l'avevo già perso di vista. Girai con la macchina intorno alla piazza, poi mi diressi al porto e alla città vecchia, sperando di vederlo riapparire. Stavo quasi per arrendermi e tornarmene al Club Nautico, quando davanti al circolo teatrale Lyceum, in calle Dominguez, vidi un gruppo di turisti che cercavano di calmare un guidatore impaziente. La Saab rubata di Crawford era rimasta bloccata da un camioncino senza guidatore, carico di costumi egiziani destinati a una produzione dell'Aida.
Visto che non si riusciva a trovare il guidatore, Crawford ringraziò seccato e provò a districarsi infilandosi nello spazio tra il camioncino e la macchina parcheggiata davanti a lui. Ci fu uno stridio di metallo lacerato mentre una portiera si incurvava, e un faro si spaccava cascando a terra fra le ruote. I costumi oscillarono sui loro sostegni, come una fila di faraoni ubriachi. Sorridendo agli attoniti turisti, Crawford fece marcia indietro e poi spinse avanti la Saab ancora una volta, alzando le mani sconsolato quando vide che la portiera deformata del furgone gli grattava via la vernice dalla macchina.
Quando Crawford riuscì a liberarsi e riprese il suo giro per Estrella de Mar lo seguii, senza più curarmi di nascondermi. Il suo percorso, metà giro di ispezione, metà escursione criminale, lo portò per una Estrella de Mar nascosta, un mondo oscuro fatto di bar nelle strade secondarie, negozi di video hard core e farmacie equivoche. Non vidi mai soldi che cambiavano di mano, perciò conclusi che questa crociera turbinosa serviva prevalentemente a procurargli ispirazione: era un'estensione del suo ruolo di animatore al Club Nautico.
Alla fine Crawford parcheggiò in Plaza Iglesias, uscì dalla Saab e si immerse fra la gente che affollava i marciapiedi davanti alle librerie e alle gallerie d'arte. Sempre col sorriso sulle labbra e il viso aperto come quello di un adolescente, faceva l'amicone con tutti quelli che incontrava, e tutti sembravano volergli bene. I negozianti gli offrivano un pastis, i commessi lo corteggiavano, la gente si alzava dai tavolini dei caffè per scherzare con lui. Come sempre, ero stupito dalla sua generosità: si concedeva come se attingesse a una fonte illimitata di calore e di giovialità.
Eppure, con la stessa naturalezza rubava e taccheggiava. In una profumeria della Calle Molina lo vidi mettersi in tasca uno spray, per poi salterellare sul marciapiede spruzzando profumo sui gatti. Nella galleria Don Carlos controllò il trucco di una passeggiatrice, esaminando il suo eye-liner con la serietà di un professionista, poi si infilò in una fiaschetteria e si servì di due bottiglie di Fundador che andò a posare fra i piedi degli ubriaconi che sonnecchiavano in un vicolo lì vicino. Con la destrezza di un prestigiatore fregò dalla vetrina, sotto il naso del commerciante, un paio di scarpe di coccodrillo, e qualche minuto dopo uscì da una gioielleria con un piccolo diamante al mignolo.
Credevo che non si fosse accorto dì me che lo seguivo a una ventina di metri di distanza, ma quando attraversammo i giardini di Plaza Iglesias lui salutò Sonny Gardner, che se ne stava sui gradini della chiesa anglicana col telefonino attaccato alle labbra grassocce. Il ragazzo, un po' barman un po' marinaio, mi fece un cenno quando gli passai accanto, e io capii che probabilmente Crawford avrebbe avuto compagnia nella sua sarabanda di crimini serali.
Tornato alla Saab ammaccata, Crawford aspettò che mi mettessi al volante della Citroën e avviassi il motore surriscaldato. Stanco della città e della sua folla di turisti, lasciò la piazza e si avviò oltre la zona dei negozi, verso le strade residenziali che si snodavano sui pendii boscosi sotto la casa degli Hollinger. Mi fece scorrazzare su e giù per i viali fiancheggiati dalle palme avendo sempre cura di non perdermi di vista: mi chiedevo se intendesse fare irruzione in una delle ville.
Poi, dopo che avevamo percorso per la terza volta la stessa rotatoria, accelerò all'improvviso, finì il giro, si accodò per un istante alla Citroën che aveva doppiato e si allontanò da me a tutto gas, scomparendo nel labirinto dei viali. Il suo clacson emise una serie di colpi allegri che morirono lungo la collina, come il più amichevole degli addii.
Venti minuti dopo vidi la Saab davanti al viale di accesso di una grande villa con le travi a vista, a duecento metri dal cancello della proprietà degli Hollinger. Dietro all'alto muro e alle telecamere di sorveglianza un'anziana donna mi osservava dietro da una finestra del piano superiore, Decisi che Crawford doveva essersi fatto dare un passaggio da un automobilista che passava di lì, e che per quel giorno il giro per Estrella de Mar in cerca di ispirazione era finito.
Mi avvicinai alla Saab per dare un'occhiata alla carrozzeria tutta ammaccata e al sistema di accensione violato. Le impronte digitali dì Crawford sarebbero state sparse per tutto il veicolo, ma ero sicuro che il proprietario non avrebbe denunciato il furto alla Guardia Civil. Quanto alle forze di polizia private, la loro funzione principale sembrava quella di mantenere l'ordine criminale esistente piuttosto che quella di catturare i mascalzoni. Durante la gita di Crawford per Estrella de Mar, per due volte le Range Rover dei volontari gli avevano fatto da scorta, e avevano tenuto d'occhio la Saab rubata mentre lui taccheggiava in Plaza Iglesias.
La fatica di tener dietro a Crawford mi aveva esaurito: mi sedetti su una panchina di legno a una fermata dell'autobus, lì vicino, e fissai la macchina ammaccata. A pochi metri da me una scalinata di pietra tagliava il fianco della collina verso la sommità rocciosa, sopra la casa degli Hollinger. Forse per una coincidenza, Crawford aveva lasciato la Saab quasi nello stesso posto in cui era stata trovata la Jaguar di Frank con il fiasco di etere e benzina. Mi venne in mente allora che l'incendiario doveva aver raggiunto la limonaia passando per quella scalinata. Al ritorno, vedendo la Jaguar alla fermata dell'autobus, aveva pensato di approfittare dell'occasione e dì coinvolgere il proprietario dell'auto, lasciando il fiasco inutilizzato sul sedile posteriore della macchina.
Lasciai la Citroën alle cure delle telecamere di sorveglianza della vecchia signora e cominciai a salire i gradini di calcare consunto. Più vecchia di Estrella de Mar di qualche secolo, a quanto avevo letto su una guida locale, la scalinata portava a un posto di osservazione costruito durante le guerre napoleoniche. I muri perimetrali delle ville vicine la costringevano in uno spazio assai angusto, tanto che c'era posto appena per una persona. Al di sopra dei cespugli, nel cielo senza una nuvola volteggiava un deltaplano: il casco del pilota si stagliava contro le grandi ali fruscianti.
Superai l'ultima villa e percorsi gli ultimi gradini che portavano alla piattaforma di osservazione. Seduto sul muro merlato, presi fiato inspirando l'aria fresca. Sotto di me si allungava la penisola di Estrella de Mar. Quindici chilometri a est le torri degli alberghi di Fuengirola fronteggiavano il sole che tramontava, e i loro muri pieni di tende erano giganteschi schermi in attesa dello spettacolo serale di "son et lumière". Dalla piattaforma di pietra A terreno digradava fino al boschetto di limoni carbonizzati e al cancello posteriore che portava all'appartamento sul garage dietro la casa devastata dal fuoco.
Lasciai la piattaforma e mi diressi verso la limonaia, cercando sul terreno pietroso qualche eventuale impronta dell'incendiario. Sulla mia testa sentivo il fruscio e il cigolio della tela e della pelle. Curioso di vedere chi fossi, il pilota del deltaplano fluttuava nell'aria sopra di me, così vicino che i suoi stivali toccavano quasi la mia testa, mentre i suoi occhi erano nascosti dal visore del casco. Troppo distratto per salutarlo, mi inoltrai in mezzo ai ceppi bruciati degli alberi di limone, calpestando i pezzi di carbone di cui era disseminato il terreno.
Una trentina di metri più in là l'autista degli Hollinger stava in piedi accanto al cancello, dando la schiena alla vecchia Bentley che stava nel viale. Mi guardava nello stesso modo fisso un po' minaccioso, le braccia conserte sul petto. Quando mi avvicinai fece un passo avanti, e i suoi stivali si trovarono a pochi centimetri da una fossa scavata nel terreno.
Attaccato a un ceppo c'era un pezzo di nastro giallo della polizia, e io pensai che esso segnasse il buco in cui l'incendiario aveva nascosto le sue bottiglie la notte prima dell'incendio. Il deltaplano, quasi in segno di rispetto, si allontanò dalla cresta della collina, facendo scricchiolare la tela. Miguel stava in piedi sull'orlo della fossa, calpestando il suolo calcinato. Nonostante atteggiamento aggressivo, era chiaro che aspettava che io parlassi. Non poteva aver visto, anche solo di sfuggita, l'assassino...?
«Miguel...» Andai verso di lui, levando una mano in segno di saluto. «Ci siamo già visti, sono venuto qui con l'ispettore Cabrera. Sono il fratello di Frank Prentice. Vorrei parlarle.»
Lui abbassò gli occhi e guardò la fossa, poi girò i tacchi e tornò al cancello. Lo chiuse dietro di sé e scese svelto gli scalini, per scomparire nel garage con le spalle curve.
«Miguel...?»
Irritato dalla presenza del deltaplano, guardai ai miei piedi. Al suolo, in mezzo ai detriti bruciati, c'erano due monete d'argento; forse erano l'espressione del disprezzo dell'autista per chi aveva ucciso i suoi datori di lavoro.
Mi inginocchiai e spostai le monete con la mia penna stilografica: allora mi resi conto che non erano monete, ma un paio di chiavi di una macchina, legate insieme da una catenella di metallo e parzialmente sepolte nella terra. Senza riflettere, conclusi che le chiavi erano quelle della Bentley cadute all'autista mentre mi aspettava. Le strofinai per liberarle dallo sporco, pronto a renderle a Miguel. Ma il motore della Bentley stava andando, cacciando fuori fumo dal tubo di scappamento. Le chiavi allora potevano essere cadute a un poliziotto della scientifica. Le tenni in mano cercando di capire di quale macchina fossero, ma sul metallo piatto non c'era alcun marchio. Sospettai allora che esse potessero appartenere all'incendiario, che le aveva perse o dimenticate quando era andato a recuperare le bottiglie sepolte.
Il deltaplano volteggiò sopra la mia testa, con i tiranti d'acciaio che cantavano. Le mani guantate del pilota stringevano la barra di controllo come se fossero le redini di un cavallo alato. L'apparecchio si inclinò decisamente verso il basso e si tuffò sulla limonaia: la sua ala sinistra mi passò rasente la faccia.
Mi accucciai fra gli alberi bruciati mentre A deltaplano girava in cerchio sopra di me, pronto a fare un'altra picchiata se mi fossi azzardato a tentare di raggiungere il cancello degli Hollinger. Mi misi a correre a testa bassa verso il fianco della collina che si trovava oltre il muro esterno della proprietà. Il deltaplano salì di nuovo, cavalcando le correnti d'aria calda che salivano dai pendii aperti. Il pilota sembrava non accorgersi che io mi stavo arrampicando e incespicavo sotto di lui, e apparentemente teneva gli occhi fissi sulle onde che rotolavano verso la spiaggia di Estrella de Mar.
In mezzo agli eucalipti che si stendevano al di là del limite inferiore della proprietà degli Hollinger mi apparve una fila di ville. I cortili e i giardini dietro le case erano protetti da altre mura, e l'espressione allarmata che vidi sul volto di una ragazza al balcone di una delle ville mi fece capire che non solo nessuno degli abitanti sarebbe venuto in mio soccorso, ma che non avrei neppure potuto trovare rifugio nei loro giardini.
Coperto di polvere e di cenere dalla testa ai piedi, ruzzolai contro il muro posteriore del cimitero protestante. Lo sconsiderato pilota se n'era tornato nell'alto dei cieli, e faceva qualche giro prima di tuffarsi all'ingiù, per atterrare su una delle spiagge.
Accanto al cancello del cimitero c'era un cesto di pietra per le immondizie, pieno di fiori e di corone appassite. Mi pulii le mani con uno di quei mazzi sfioriti, cercando di togliere tutto lo sporco dai palmi ruvidi. Spazzando via con le mani la polvere dalla camicia, aprii il cancello e mi avviai fra le tombe.
Il cimitero era vuoto, a parte un visitatore. Un uomo mingherlino vestito di grigio mi voltava le spalle, stringendo fra le mani un mazzo di gigli e di felci che sembrava non voler posare sulla lapide. Quando superai la tomba lui si girò e si ritrasse da me, quasi l'avessi colto mentre era immerso in pensieri proibiti. Riconobbi immediatamente l'uomo evitato da tutti al funerale di Bibi Jansen.
«Dottor Sanger...? Posso aiutarla?»
«No... grazie.» Sanger stava toccando la superficie della lapide, e le sue dita leggere accarezzavano le lettere incise nel marmo levigato. La pietra argentea aveva lo stesso colore dei suoi capelli e del suo vestito, e i suoi occhi mi sembrarono ancora più malinconici di quanto ricordassi. Alla fine si decise a posare i gigli contro la tomba e fece un passo indietro, mettendomi una mano sul gomito.
«Bene... cosa glie ne pare?»
«E' una bella tomba», lo rassicurai. «Sono contento che siano venuti tutti.»
«L'ho ordinata io stesso. Bisognava che qualcuno lo facesse.» Mi offrì il fazzoletto. «Si è fatto male alla mano... devo darle un'occhiata?»
«Non è niente. Vado di fretta. Un deltaplano mi ha attaccato.»
«Un deltaplano...?»
Guardò il cielo, poi mi seguì mentre mi avviavo all'ingresso. Aprii il cancello e andai in strada, appoggiandomi al tetto di un'auto parcheggiata. Cercai di capire i contorni delle colline. La Citroën era lontana quasi un chilometro, parcheggiata sul lato della collina a est della proprietà degli Hollinger.
Aspettai per un po' che arrivasse qualche taxi, portando dei visitatori al cimitero, poi inspirai profondamente preparandomi al lungo cammino. A una cinquantina di metri da me, davanti all'ingresso del cimitero cattolico, un motociclista in tuta di pelle e casco stava a cavalcioni del suo veicolo, con una sciarpa sul viso. Le mani guantate stringevano il manubrio, e riuscivo a sentire il borbottio dei gas di scappamento. La ruota davanti girò impercettibilmente e sembrò puntare verso di me.
Esitai prima di staccarmi dal marciapiede. La strada costeggiava le ville solitarie, poi scendeva verso Estrella de Mar scomparendo dal campo visivo. In aria girava ancora il deltaplano, come un apparecchio da ricognizione: le sue ah si frapponevano tra me e il sole, e il tessuto risplendeva come il piumaggio di un uccello di fuoco.
«Signor Prentice...?» Il dottor Sanger mi toccò il braccio. Adesso che aveva lasciato il cimitero il suo viso era tranquillo. Indicò una macchina lì vicino. «Posso darle un passaggio? Forse sarebbe più sicuro...»