31. Dove si riflette sulle cause di una vittoria così schiacciante, e si conclude che i cristiani godevano di una tale superiorità che non potevano non vincere

La strepitosa vittoria conseguita dai cristiani smentì i timori dei molti che nei mesi precedenti avevano insistito lugubremente sull’impreparazione e inesperienza delle truppe imbarcate. A maggio il duca d’Alba scriveva a don Juan: «vedo che non porta soldati vecchi di nessun genere, perché gli spagnoli che imbarcherà, e quelli che di presente si trovano in Italia, sono tutti bisoños e se anche fra loro c’è qualche soldato vecchio, alla fine le compagnie sono nuove; gli italiani lo sono talmente che stanno per essere tutti reclutati adesso». Garcia de Toledo confidava al Requesens il suo pessimismo: «la nostra flotta va piena di soldati nuovi, che sapranno appena sparare gli archibugi che i capitani gli hanno dato, e in quella dei turchi sapranno fare questo mestiere molto bene e trarre profitto dalle loro armi, essendo tutti soldati pratici». A Messina il Provana constatava desolato: «li nostri soldati tanto spagnuoli quanto italiani et tedeschi sono gente nova et della peggiore che si sia vista lungo tempo fa in mare». Il gesuita Montoya, imbarcato sulla galera del Santa Cruz, confermò poi: «oltre d’esser una gran parte di loro molto giovani, quasi tutti erano principianti».

In effetti, i reggimenti che combatterono a Lepanto consistevano di truppe levate all’ultimo momento e con fatica, dopo le gravi perdite subite nella guerra di Granada e nell’infelice campagna navale dell’anno precedente, in cui si erano logorati il tercio di Napoli e quello di Sicilia. Solo i comandanti pontifici erano contenti delle loro truppe: il Caetani riferiva compiaciuto che «tutti questi signori qua l’hanno lodate, e vi è gran differenza tra queste e quelle che ha fatto il conte di Sarno qua per il re», confermando peraltro che la fanteria italiana reclutata per la Spagna era piuttosto scadente1.

Quel che mancava in esperienza, però, venne largamente compensato dalla superiorità dell’equipaggiamento e dalla schiacciante superiorità numerica dei cristiani, ed è sorprendente che ancor oggi la storiografia eviti di sottolineare questi aspetti come meritano. Cominciamo coi numeri. Escludendo i quasi 4000 tedeschi stipati sulle navi da trasporto di don Cesare d’Avalos, che non raggiunsero la flotta in tempo per la battaglia, la fanteria imbarcata sulle galere contava in tutto 21.000 soldati. I veneziani, come sappiamo, avevano in aggiunta i loro scapoli: ufficialmente ne dichiaravano una cinquantina su ognuna delle 60 galere arrivate da Candia, e fino a una sessantina su ciascuna delle 48 che il Venier aveva portato da Corfù, cifre forse gonfiate: una relazione veneziana, dopo la battaglia, calcola in totale 4000 scapoli2.

Ad essi vanno aggiunti più di 2000 “venturieri”, in gran parte gentiluomini con i propri domestici, che s’erano imbarcati per partecipare alla grande impresa, e servivano a proprie spese: tutta gente motivata e ben armata. Su alcune galere capitane questa componente era poderosa e accresceva in modo significativo la capacità di combattimento: Alessandro Farnese, principe di Parma, aveva imbarcato su due galere della Repubblica di Genova «dieci signori titolati e ventidue cavalieri, e dieci capitani e gentiluomini privati, e centocinquantadue soldati italiani a sue spese, molto ben armati e molto buona gente»; nella Capitana di Savoia il principe di Urbino portava «centoquindici cavalieri e privati molto ben armati», e dodici servitori; don Luis de Requesens nelle sue due galere aveva 58 «cavalieri, capitani e gentiluomini, tutta gente scelta e di spicco», 50 archibugieri tedeschi della sua guardia e 65 servitori armati, in aggiunta al normale complemento di soldati3.

Oltre a soldati, scapoli e venturieri, parteciparono al combattimento tutti i cristiani imbarcati a qualsiasi titolo sulle galere. Ufficiali e marinai erano particolarmente numerosi nelle squadre ponentine, dove lo standard era di 50 per una galera sottile, e 75 per una Capitana o una Patrona: era la cifra prevista dall’asiento di Gian Andrea Doria, e quella che il re Filippo aveva stabilito come obbligatoria per tutte le sue galere. Diversi documenti dell’estate 1571 dimostrano che le galere di Napoli e di Sicilia avevano effettivamente a bordo i loro 50 “uomini di cavo”, e qualcuno di più le Capitane. Il trattato fra il papa e il granduca di Toscana ne prevedeva ben 60 per ogni legno, e infatti tutte le testimonianze sottolineano che le galere toscane erano cariche di uomini, mentre le veneziane ne avevano di meno, giacché la manovra delle vele era fatta impiegando anche gli scapoli. A conti fatti, possiamo ipotizzare 30 marinai per ogni galera veneziana, 50 per ogni ponentina, 60-70 per le capitane e le patrone, che nella flotta erano una trentina, per le dodici galere pontificie e per le sei galeazze: in tutto, altri 9000 combattenti4.

La flotta di don Juan, insomma, mentre si schierava a battaglia davanti alle Curzolari aveva a bordo più di 36.000 uomini di spada, cui vanno aggiunti i rematori sferrati: cioè tutti quelli delle galere veneziane, e la maggioranza di quelli delle ponentine, eccettuati soltanto gli schiavi. Questi, però, erano una percentuale consistente solo sulle galere del papa, di Malta e di Savoia, mentre costituivano appena un decimo delle ciurme sulle galere del re; per cui, a conti fatti, i rematori sferrati debbono essere stati circa 30.000. Resta da sottolineare un dato che risulta dall’organigramma della fanteria imbarcata, e che di solito non è messo abbastanza in evidenza: la distribuzione dei combattenti era paurosamente ineguale. Sulle galere veneziane, che costituivano più di metà del totale, c’erano in media 128 soldati, marinai e scapoli per ogni vascello, contro ben 212 sulle galere ponentine; anche se il dato è in parte riequilibrato dai rematori armati, che una volta sottratti gli schiavi debbono essere stati circa 150 per ogni galera5.

La capacità di combattimento delle galere veneziane, una volta giunti al corpo a corpo, era insomma inferiore a quella delle ponentine, nonostante l’imbarco di fanteria spagnola avesse ridotto il divario. Si comprende, così, perché la lotta sia stata particolarmente disperata sull’ala sinistra, composta in maggioranza da vascelli veneziani, e perché la vittoria sia costata ai veneziani molto più cara che ai loro alleati. Ma le cifre fin qui calcolate ci danno comunque, per ogni galera, un numero di combattenti superiore a quelli che si trovavano in condizioni normali sulle galere turche. Nel 1560 Marino di Cavalli scriveva che su ognuna c’erano di solito «quaranta giannizzeri ovvero sessanta spaì, ma vagliono più li quaranta che li sessanta». Negli anni di Lepanto le cifre erano rimaste più o meno le stesse, e anche il giudizio sulla superiorità dei giannizzeri rispetto ai sipahi: «dovendosi mandare giannizzeri sopra le galere, si dispensano a cinquanta per una finché ve ne sono, e al resto si danno gli spaì delle marine, che sono le più triste genti di Turchia». Quanto agli uomini d’equipaggio, ordinariamente una galera turca usciva dal porto con a bordo un massimo di otto o nove ufficiali, compreso il rais, scelti fra gli azap registrati all’Arsenale, e una ventina di marinai, coscritti o salariati, che per nostra confusione sono anch’essi chiamati azap dalle fonti: in tutto, dunque, meno di trenta uomini per galera.

Abbiamo anche testimonianze dirette sulle 80 galere partite a maggio con Perteu pascià. Il Barbaro sostiene che erano state rafforzate con più uomini del solito, in vista dello scontro con la flotta cristiana, ma una spia napoletana, che probabilmente aveva notizie più dirette, precisa che non c’erano né giannizzeri né sipahi: ogni galera imbarcava soltanto 60 scapoli, reclutati più o meno a forza. Possiamo supporre che quelle uscite in precedenza col capitano del mare avessero, invece, equipaggi a pieno organico, ma anche così si parla al massimo di ottanta o novanta combattenti: quelle veneziane, come s’è visto, anche senza contare i rematori sferrati ne avevano molti di più, e le ponentine addirittura più del doppio6. Meglio armate erano le galeotte di Algeri, che quando andavano in corsa imbarcavano fino a un centinaio di giannizzeri, e le fuste dei corsari, che secondo Gian Andrea Doria di solito «portano fino a ottanta et 100» combattenti7. Quanti fossero a Lepanto questi legni minori è impossibile dirlo perché, come si è visto, le valutazioni variano; ma anche adottando quelle massime, non si arriva per l’intera flotta a molto più di 20.000 combattenti.

Quando la squadra era entrata in porto a Lepanto, gli organici dovevano essere ancora più ridotti, perché per mesi gli equipaggi erano stati decimati dalle malattie. Già a marzo il kapudan pascià scriveva da Chio che le galere rimaste fuori durante l’inverno erano infettate, al punto che aveva dovuto lasciarne indietro parecchie. Quelle partite con Perteu avevano la peste a bordo e si lasciavano dietro una scia di cadaveri buttati in acqua già mentre attraversavano gli Stretti. Quando aveva attaccato Creta a giugno, la flotta aveva a bordo il tifo petecchiale; i rapporti che giungevano a Costantinopoli e a Venezia riferivano concordi che era in difficoltà «per la gran malatia che vi è sopra». Quando partì da Prevesa per Lepanto, le spie riferirono «che in essa è il mal del flusso», cioè la dissenteria; e ancora pochi giorni prima della battaglia un rinnegato catturato in mare da don Juan de Cardona riferì che a bordo «havia peste muy grande». In altre parole, le galere erano state in mare da cinque a sette mesi, e anche di più nel caso delle guardie, e per tutto il tempo avevano avuto il contagio a bordo; i rematori portati via dalla malattia potevano essere sostituiti reclutando coscritti con la forza o catturando schiavi in paese nemico, ma sostituire i giannizzeri e i sipahi non era altrettanto semplice8.

E infatti i rapporti che giungevano ai comandanti cristiani avevano ripetuto per mesi che il nemico era a corto di uomini. Già a giugno, quando passò da Creta, la flotta del kapudan pascià aveva «molte galee mal ad ordine d’homini da remo et con poche genti da combatter». L’11 agosto Zúñiga scriveva al re che il papa e i veneziani «sono persuasi che la flotta del Turco è così a corto di gente che quella della Lega sarà molto superiore». A Corfù il Baffo confermò che le galere turche «si trovavano tutte malissimo armate, essendovi morta gran quantità di genti, non meno da remo che da combattere». Gli insorti greci avevano informato i comandanti cristiani che il nemico era senza uomini: «non ci sono truppe nelle navi; le galere sono vuote; venite!». Gli schiavi fuggitivi confermavano che la flotta «è malissimo ad ordine, eccetto trenta galee da fanò». Una volta ormeggiata a Lepanto, poi, la flotta perse molti altri combattenti, i quali riuscirono a farsi congedare o se ne tornarono direttamente a casa senza permesso: il Foglietta scrive addirittura che «l’armata turchesca, quando venne il tempo della battaglia, si trovò quasi vuota di guerrieri»9.

Il febbrile imbarco di truppe a Lepanto e nel Peloponneso cui i pascià si dedicarono negli ultimi giorni prima di salpare servì a riempire una parte di quel vuoto, ma certamente non a colmarlo: nei primi interrogatori i prigionieri parlarono di 1500 soldati imbarcati, «i migliori della Morea». È istruttivo constatare che questo dato venne ripreso dagli autori occidentali con cifre progressivamente gonfiate: il cavaliere di Malta, Romegas, citò l’informazione alla lettera ma quadruplicò la cifra, scrivendo che i pascià avevano imbarcato «seimila sipahi e giannizzeri dei migliori della Morea»; nel cronista spagnolo Fernando de Herrera, che copia a sua volta la stessa notizia, la cifra sale come se niente fosse a «più di quindicimila vecchi soldati, sipahi e giannizzeri, i migliori della Morea».

L’unica fonte coeva che azzarda il totale dei combattenti a bordo della flotta è costituita ancora dall’interrogatorio di Lala Mehmet: «Richiesto che numero di gente avevano in questa flotta, e di che qualità, disse: che c’erano fino a 25.000 uomini, di cui 2500 giannizzeri, e poi sipahi e altra gente». Può anche darsi che i giannizzeri fossero più numerosi di quello che credeva Lala Mehmet, giacché secondo il Baffo rinnegato erano 4500 al momento dell’attacco a Corfù. Anche accettando questa valutazione più alta, bisogna concludere che a Lepanto neppure un centinaio di galere aveva il suo complemento ordinario di quaranta o cinquanta giannizzeri, tutte le altre erano dotate di combattenti meno agguerriti. Quanto al totale dei soldati imbarcati, la valutazione di Lala Mehmet è abbastanza vicina ai 20.000 da noi calcolati, da confermare che l’ordine di grandezza doveva essere più o meno quello, decisamente inferiore rispetto ai 36.000 combattenti schierati dai cristiani10.

Inoltre, l’aggiunta dei galeotti tolti dai banchi e armati modificò ancora di più l’equilibrio a favore della Lega, dato che la percentuale degli schiavi era molto più alta fra i rematori delle galere ottomane, dopo le razzie dell’estate. Se si aggiunge che gran parte dei rematori liberi erano greci cristiani, il numero di quelli che i rais possono aver deciso di togliere dal remo ed armare è certamente molto limitato rispetto a quel che accadde sulla flotta di don Juan, dove i galeotti sferrati permisero in pratica di raddoppiare il numero dei combattenti. Contando anche loro, è inevitabile concludere che la flotta della Lega aveva più del doppio, e anzi quasi il triplo, di uomini di spada rispetto al nemico.

Come se non bastasse, i cristiani godevano di una superiorità decisiva nell’armamento. La dottrina dominante prevedeva che i combattimenti navali fossero decisi dall’archibugio, e non dal corpo a corpo. Gian Andrea Doria se n’era convinto al suo primo scontro con i turchi, nel 1556, quando aveva preso cinque galeotte dei corsari di Valona; allora, ricordò da vecchio, aveva dovuto «imparar la forma del combattere con li Turchi in mare, perché era creduto da tutti che quello che conveniva era l’investire, saltar dentro di colpo et venir alle mani». Al momento buono, un giovanissimo Doria scoprì che avanzare sul ponte del vascello nemico disalberato era tutt’altro che facile, perché l’albero bloccava la corsia, e i remi i banchi: «et essendo tutti li Turchi ritirati dall’albero a prora, con archibugi et archi ferirono tutta la meglio gente ch’era saltata dentro, e fu forza che alla prora della mia galera si ripigliassero l’archibugi che havevano lasciato per andar a rubbare». Tornati in gran fretta sulla galera, i soldati del Doria spazzarono il ponte della galeotta con la potenza di fuoco dei loro archibugi, e tornarono all’arrembaggio solo dopo aver ucciso o ferito quasi tutti i nemici11.

Non è certamente un caso se è proprio uno storico genovese, il Foglietta, a riferire che durante i consigli di guerra convocati da don Juan a Messina si decise che la battaglia doveva essere combattuta coll’archibugeria, e si ordinò ai soldati di non salire sulle galere nemiche se non quando l’avversario fosse stato indebolito dal fuoco: indicazioni che riflettono punto per punto l’esperienza fatta a suo tempo dal Doria. Ma esperienze analoghe convinsero, in quegli anni, tutti gli uomini di mare occidentali. Quando Garcia de Toledo era ancora generale della flotta spagnola, un memoriale gli segnalava la necessità che tutti i soldati imbarcati fossero archibugieri, accentuando la tendenza che già si stava verificando nei tercios a ridurre il numero dei picchieri a vantaggio delle armi da fuoco. Nel 1570, dando istruzioni ai capitani incaricati di reclutare le compagnie di fanteria per le galere pontificie, Marcantonio Colonna aveva ordinato a ciascuno di loro: «Vostra Signoria ha da fare dugento soldati, cioè centonovanta archibugieri, e dieci corsaletti con alabarde». I 3000 fanti reclutati da Sforza Pallavicino per la flotta veneziana comprendevano 2400 archibugieri e 600 corsaletti, e nel gennaio 1571 Giulio Savorgnan sostenne che si era addirittura esagerato: non bisognava più fare «come l’anno passato che non si desiderava altro che archibugieri», ma prevedere che un terzo dei fanti fossero picchieri. Il parere, però, si riferiva alla fanteria destinata alle fortezze12.

La fanteria che combatté a Lepanto, dunque, era composta quasi interamente da archibugieri, che lasciavano l’archibugio per impugnare la spada e andare all’arrembaggio solo dopo aver indebolito il nemico con salve ben aggiustate. Sulle galere del duca di Savoia vigeva una vera e propria organizzazione del lavoro, destinata ad accelerare il ritmo del fuoco: ogni soldato aveva due archibugi e 50 colpi, con cartucce già preparate, e un rematore era assegnato ad ognuno per caricargli l’archibugio. In questa fase del combattimento la parte più esposta era la testa, e i comandanti dell’epoca, proprio come accadrà di nuovo all’inizio della Prima guerra mondiale, erano arrivati alla conclusione che ogni soldato doveva avere l’elmo. «I detti archibugieri hanno da avere tutti li morioni alla moderna: perché colui che non n’havesse, non sarà passato alla banca», ammoniva il Colonna; quanto alla fanteria veneziana, il morione era fornito ai soldati insieme all’archibugio per conto della Repubblica, e il loro costo dedotto dalla paga13.

Ma anche gli scapoli, i marinai e perfino i galeotti liberati dai ferri erano equipaggiati con l’archibugio e talvolta con celata e corazzina, oltre alle armi bianche che giustificavano il termine corrente di uomini di spada e che servivano nel corpo a corpo finale. Per armare tutta questa gente, ogni galera stivava una certa quantità di armi, e gli inventari sono molto istruttivi. Quattro galere armate dal marchese di Santa Cruz nel 1572 avevano ognuna 50 archibugi, 50 picche, 36 partigiane, 50 morioni, 50 corazzine, 50 spade, 100 rotelle. Nel 1575 una galera dei Lomellini aveva 50 archibugi, 16 picche e altre 50 armi bianche, 46 celate e 50 corazze. E questo era soltanto l’armamento ordinario, ma durante la preparazione della spedizione di Lepanto il governo spagnolo provvide ad acquistare grandi quantitativi di armi da distribuire alla flotta: il 14 settembre 1571, due giorni prima che don Juan salpasse per il Levante, un galeone raguseo portò a Messina 1650 morioni bianchi e 50 morioni color granata da ufficiale, stivati in 65 casse, più 456 archibugi e 149 corsaletti14.

Sulle galere veneziane l’armamento era ancora più imponente, perché si prevedeva ufficialmente di imbarcare archibugi, morioni, celate e corazzine a sufficienza per armare tutti i marinai e gli scapoli, e i regolamenti stabilivano che anche ai galeotti si dovevano distribuire spade, corazzine e se possibile archibugi. I cronisti veneziani confermano che i rematori parteciparono alla battaglia «tutti armati di corazzine, spade e targhe, sì come gli altri indifferentemente», e accennano addirittura a una difficoltà di manovra delle loro galere per «l’impedimento delle corazze delle quali in caso di battaglia usano armar i galiotti». L’armamento dei rematori era previsto non come una misura d’emergenza, ma come la procedura normale, e dunque s’imbarcavano armi espressamente per loro: un inventario elenca «corazine et zellade et spade bone per galliotti». Ce n’è abbastanza per concludere che praticamente tutti i 36.000 combattenti fra soldati, scapoli e marinai avevano l’archibugio, per cui l’affermazione del Caracciolo secondo cui «in ciascuna galea non si trovavano meno di centotrenta archibugieri» appare perfettamente credibile, e anzi addirittura sottostimata; al momento del corpo a corpo, alla loro forza d’urto si aggiunse quella di almeno 30.000 galeotti armati di spada, e la maggioranza di tutti questi uomini erano protetti da elmo e corazza15.

Sulla flotta turca, per contro, non si usavano armature, e i soldati armati di archibugio erano una minoranza, perché soltanto i giannizzeri lo usavano come arma d’ordinanza. Lasciamo stare se avesse ragione il Caracciolo ad affermare che gli archibugieri turchi «non sono così atti, né destri come i nostri per esser gli archibugi molto lunghi e gravi, e han le serpentine sì piccole che ad ogni tiro metton la miccia di nuovo, e perdon tempo nel caricare mettendo la polve con la pianta della mano». L’affermazione che i turchi «nel tirrar l’archibuso non riescono più che tanto», che presso di loro l’archibugio «da pochi è ben adoperato, non si vedendo alcuno che abbia la perizia delle fanterie cristiane», era un luogo comune, e come tale sospetto; non è impossibile trovare analoghe lamentele sulla cattiva qualità degli archibugi forniti, ad esempio, ai tercios spagnoli, e sull’incapacità dei soldati di adoperarli16. Il fatto decisivo è che solo una minoranza dei combattenti imbarcati sulle galere turche erano muniti di archibugio: i soldati, infatti, erano in maggioranza sipahi, e gli ordini di convocazione diramati dalla Porta li obbligavano a portare con sé lancia, scudo, arco e frecce, oltre a un barile d’acqua e biscotto per otto mesi; di archibugi non si fa menzione17. E l’arco, con la spada, era l’arma principale degli azap, che facevano da scapoli e marinai sulle galere, tanto che una stampa veneziana coeva traduceva «azappi, cioè arcieri di galea». L’imbarco di volontari, spesso armati di archibugio, può aver migliorato la situazione, ma in ogni caso è certo che nella manga archibugieri e arcieri erano in numero pari, per cui l’inferiorità della flotta ottomana quanto a potenza di fuoco appare indiscutibile18.

Per di più, i cristiani erano coperti di ferro; e le relazioni della battaglia contengono frequenti testimonianze di come morioni, rotelle e corazzine potessero difendere non solo dalle frecce, ma con un po’ di fortuna addirittura dalle armi da fuoco. Il Provana racconta che «fra gli altri a me toccò un’archibugiata in mezzo della testa; et se bene havevo il morione forte, la botta fu però tanto grande che mi fece gran ferita et mi gittò a terra tramortito, che per spatio di mezza hora non li vedevo niente, né sapevo ove mi fossi»; dopodiché, però, si riebbe e riprese il suo posto, anche se il giorno dopo aveva un gran mal di testa. Il marchese di Santa Cruz di archibugiate ne ricevette due, ma aveva una rotella di ferro di prima qualità che resse ad entrambe; don Diego Enríquez, comandante del tercio di Sicilia, ne ebbe addirittura tre, ma sempre nella rotella, e senza danno. Onorato Caetani ricevette «due archibugiate, una alla celata, che venne tanto fiacca che appena ammaccò poco il ferro, l’altra nel petto», e non si fece nessun male19.

A maggior ragione, le frecce si rivelarono inefficaci contro le armature e gli abiti imbottiti dei cristiani. Ettore Spinola, comandante delle tre galere della Repubblica di Genova, fu ferito da tre frecce alla gamba, e ogni volta non fece altro che chinarsi ad estrarle; la terza gli salvò la vita, perché chinandosi «mi passò un’archibusiata sopra la testa che mi toccò il morione, et se io ero dritto passava gran pericolo». Il conte Silvio da Porcia, imbarcato sulla galera del Barbarigo, ferito da una freccia al fianco si ritirò in cabina, si fece medicare la ferita e tornò subito a combattere. Il Venier ebbe «una frezzata nel genochio destro che non penetra molto», e non si mosse dal suo posto di comando. Il Caetani riferisce a suo zio il cardinale di Sermoneta che «nelle braccia ebbi tre frezzate, ma le maniche che Vostra Signoria Illustrissima mi donò tutte le ritennero». Sulla sua galera i morti erano stati pochissimi, molti invece i feriti leggeri: «Giambattista Contusio è ferito in un braccio ed in una coscia, di poca importanza, di una frezza e di sassate; Vitale in un piede, non è niente; Adriano del signor don Virgilio in una gamba, ed il signor Paolo [...] due frezzate in un braccio; il segretario una frezzata in un dito». È evidente che le frecce piovevano fittissime, ma che solo di rado erano davvero pericolose, come sperimentò anche il Colonna: «il signor Marcantonio, avendo avuto infinite frezze addosso, non è restato ferito»20.

Non meno importanti si rivelarono le pavesate di cui erano provviste le galere cristiane. Siccome la fanteria cristiana non usava più da un pezzo archi e frecce, i turchi non le montavano, come osservava Marino di Cavalli:

Non portano pavesate, ma tutte le galere sono rase, e lo fanno perché dai nemici non temono di freccie, dalle quali le pavesate li difenderiano, ma ben d’archibusi, al che quelle non servono. Noi faremo in vero benissimo a portarne, ma saria bene che facilmente si potessero levare.

Quest’ultimo consiglio non venne seguito dai veneziani, e ancora nel 1602 il Crescenzio osservava: «hanno questo difetto le pavesate delle galee venetiane, che sono sempre arborate essendo i pavesi inchiodati a’ filari», e quindi col vento contrario facevano ostacolo al movimento, mentre quelle dei ponentini, fatte di pioppo leggero, si potevano smontare durante la navigazione. Ma non c’è dubbio che in combattimento la presenza delle pavesate, cui in molte galere si aggiunsero ripari improvvisati con materassi e trapunte imbottite, rappresentò un vantaggio materiale e psicologico, rendendo meno efficaci gli archi dei sipahi, e più efficaci invece gli archibugi dei cristiani, che vi appoggiavano la canna per mirare meglio21.

Un ultimo vantaggio, notato da molti, erano le rembate, le piattaforme mobili che si erigevano a prua, e che permettevano alla fanteria imbarcata di trovarsi in posizione dominante rispetto alla galera nemica nel momento dell’impatto: da cui il termine, ancor oggi in uso, di “arrembaggio”. «I castelli delle rombate, che i Turchi non hanno», sono citati espressamente dal Caracciolo fra le cause della vittoria. In verità, rembate vere e proprie erano solo quelle delle galere ponentine, mentre le veneziane montavano una struttura meno imponente, e non è escluso che invece qualche galera ottomana ne fosse provvista: i corsari algerini, secondo più di una testimonianza, le usavano, anche se non sulle galeotte. Nell’insieme, però, è plausibile che il vantaggio d’una posizione sopraelevata abbia contribuito alla buona prestazione della fanteria. Le rembate, inoltre, fornivano una protezione anche alla batteria di prua e ai suoi artiglieri, che si trovavano al di sotto della piattaforma, ed erano dunque meglio riparati dal fuoco nemico, mentre i turchi si trovavano allo scoperto, col risultato che «i loro bombardieri, scoperti e colti di mira da colpi de’ cristiani, erano continovamente ammazzati», e i loro pezzi ridotti al silenzio22.

Una fanteria cristiana molto più numerosa, dotata di morioni e corazzine, armata di archibugio e istruita tatticamente a trarre il massimo vantaggio dalla potenza di fuoco e dal riparo delle pavesate prima di venire al corpo a corpo con la spada, godeva di un vantaggio incolmabile rispetto a una truppa nemica nettamente inferiore di numero, che usava l’arco forse più dell’archibugio, e completamente sprovvista di ripari e armature. Lo sottolinea chiaramente il Paruta, osservando che

combattevano i nostri armati, contra i disarmati: e ove i Turchi, adoperando i più di loro l’arco e le freccie, lasciavano a’ nostri, feriti con esse, forze da poter ancora combattere, i colpi de’ nostri archibugieri erano tutti mortali; né per la frequenza de’ tiri perdevano il vigore, come avveniva a’ nemici, fiaccandosi col tirar frequente l’arco, e la mano.

Un altro cronista veneziano, il Tiepolo, dopo aver osservato che si combatté «usando i turchi più le freccie [...] et cristiani più senza comparatione l’arcobuso», conclude che ovviamente dopo un duello combattuto a questo modo le galere turche finivano per trovarsi semivuote; «et dapoi che in alcuna galera si vedevano mancar gli uomini abbattuti, si saliva colle spade et altre armi curte sopra di quella et ammazzando o facendo prigioni quei che restavano, si finiva di conquistarla»23.

La dinamica della battaglia di Lepanto, insomma, appare paurosamente semplice, e inevitabile il suo risultato, sebbene i comandanti in mare, quel mattino, non potessero esserne così certi. Gli uomini di mare turchi che sopravvissero alla catastrofe, quanto a loro, non ebbero nessun dubbio sulle sue motivazioni. Già nel 1573, un anno e mezzo dopo Lepanto, il Garzoni andato a Costantinopoli a negoziare la pace scoprì che i turchi fabbricavano archibugi a ritmi forsennati, grazie al ferro delle miniere di Valacchia e Moldavia: «in sei mesi che io sono stato in Costantinopoli, ne hanno fatti più di sessanta mila [...] ed hanno dato principio a farne in tanta quantità dopo la rotta dell’armata, che è uno stupore, essendo ben chiari del servigio degli archi e delle freccie». Gli ordini spediti dalla Porta ai sangiacchi delle province intimavano di provvedere affinché tutti i loro sipahi imparassero il maneggio dell’archibugio, e la composizione della manga era ora prevista ufficialmente a due archibugieri e un arciere. Tutti coloro che sapevano usare l’archibugio vennero invitati a presentarsi volontari; ai sudditi cristiani fu intimato di consegnare quelli che possedevano, sotto pena della galera. La flotta ricostruita l’anno dopo Lepanto imbarcava, secondo lo stupefatto ambasciatore francese, «venticinquemila archibugieri, cosa che non si è mai vista in quest’impero. Uluç Alì, che è il loro generale, ha insegnato ai turchi a lasciare a casa i loro archi, dicendo che ha fatto questa pratica nell’ultima battaglia di Lepanto». La lezione era stata imparata, ma a caro prezzo24.