2. Dove facciamo conoscenza con un sultanoalcolizzato e con i suoi cinque visir, tutti naticristiani, con gli abitanti dell’harem e con un finanziere ebreo

Salito sul trono ottomano nel settembre 1566, il sultano Selim non aveva ancora dimostrato ai soldati e al popolo d’essere degno dei suoi antenati. Suo nonno, di cui portava il nome, Yavuz Sultan Selim ovvero Selim il Terribile, aveva conquistato la Siria, la Palestina e l’Egitto e imposto la sua autorità sulla Mecca, diventando protettore ufficiale dei Luoghi Santi e capo spirituale di tutti i musulmani sunniti. Suo padre, Kanuni Süleyman, Salomone il Legislatore, che gli occidentali chiamano Solimano il Magnifico, aveva conquistato la Croazia e l’Ungheria, spingendosi nei Balcani fino alle porte di Vienna e all’entroterra di Venezia; aveva strappato allo scià di Persia Baghdad e la Mesopotamia, occupato lo Yemen e cacciato gli spagnoli da quasi tutti i loro presidi in Nordafrica. Erede degli imperatori romani, dalla cui capitale, “Costantinopoli la Protetta”, datava orgogliosamente i suoi editti, Solimano aveva voluto prendere il loro posto come sovrano universale, destinato a far trionfare nel mondo, con l’aiuto di Dio, l’unica vera religione, realizzando il versetto coranico: «Noi t’abbiamo costituito vicario sulla terra» (Cor. 38.26).

Era perciò chiaro a tutti che anche suo figlio Selim doveva perseguire l’espansione dell’impero e il rafforzamento della fede islamica. Se lo aspettavano i soldati, cui le vittorie passate avevano fruttato generose gratifiche e distribuzioni di feudi nelle province conquistate. Far sì che «la pioggia degli emolumenti scenda copiosa», come si diceva nel ricercato linguaggio della corte ottomana, era indispensabile per la sopravvivenza politica d’un sultano, tanto più nel caso di Selim, che prima di prendere il potere aveva la cattiva fama di non essere molto liberale1. Se lo aspettavano i dottori della Legge, e non mancarono di ricordarglielo quando convocò l’architetto di suo padre, il grande Sinan, autore della moschea Süleymaniyé a Costantinopoli, per farne costruire una ancora più splendida nella sua città favorita, Adrianopoli. Sinan, ormai più che settantenne, si mise al lavoro, e ben presto venne aperto l’immenso cantiere della moschea Selimiyé, ancor oggi considerata il suo capolavoro: perfino il Barbaro include nei suoi rapporti più d’un accenno entusiastico alla «fabrica, che fa far in quella città, d’una superbissima moschea [...] la qual in vero serà cosa nobilissima, sì per grandezza come per eccellenza di colonne, di marmi et di pietre rare». Ma gli ulema avvertirono il sultano che secondo la tradizione della dinastia ottomana la fondazione pia, il collegio di studi, l’ospedale e la cucina per i poveri annessi alla moschea non dovevano essere pagati col denaro dei buoni musulmani, bensì con le rendite d’una nuova provincia strappata agli infedeli2.

Tutte queste aspettative pesavano sulle spalle di Selim. Ancora verso la fine del suo regno il sultano dava udienza sedendo su uno scranno foderato di seta, oro e pietre preziose, in una stanza col pavimento coperto da panni d’oro al posto di tappeti, però «non nel luogo ove sedeva Solimano suo padre, ma più in giù [...] dicendo non esser degno di sedere dove sedeva suo padre». Sull’uomo abbiamo pochissime testimonianze ottomane, e un coro fitto e rumoroso di pettegolezzi raccolti dai diplomatici veneziani. Bisogna utilizzarli con cautela; ma comunque non lasciano dubbi sul fatto che il sultano era un carattere disturbato, e lo era sempre stato. Tutti sapevano che beveva: uno scandalo agli occhi dei credenti, anche se tutt’altro che insolito in una capitale dove i quartieri cristiani ed ebrei erano pieni di taverne. La voce cominciò a circolare quando Selim era soltanto il secondo dei tre figli maschi di Solimano, e nessuno poteva ancora sapere che sarebbe stato proprio lui a succedere al padre: «questo sultan Selim è huomo de etade de anni 26, disoluto, ha fama de embriacarsi et esser de poco intelletto», si scriveva già nel 1550, sedici anni prima che salisse al potere3.

Quel giudizio spietato continuò ad accompagnare Selim per tutta la vita, non senza incongruenze che rivelano l’ostilità del coro occidentale: mangione, beone, grasso per il troppo cibo e l’assenza di esercizio fisico – benché tutti riconoscessero che amava la caccia –, d’ingegno torpido al punto da non saper quasi scrivere: «appena gli son noti i caratteri delle lettere», scrisse nel 1573 ser Andrea Badoer; eppure qualcun altro ci informa che il Gran Signore «fa professione [...] e si diletta della poesia», e in effetti Selim, com’era tradizione dei sultani ottomani, scambiava componimenti in versi turchi e persiani con i favoriti del Serraglio. I governi cristiani ricevevano regolarmente informazioni sui suoi eccessi, raccolte forse nelle taverne di Pera, il quartiere occidentale di Costantinopoli: il sultano è «grasso molto e corpulento, poco osservatore della sua religione nel bever vino, del quale si diletta in maniera, che si imbriaca ben spesso, e per bever più saporitamente mangia volentieri salumi, e astici massimamente, che incitano il bevere»; peggio ancora, «usa di bere ogni mattina mezza caraffa d’acqua vite, ed anche si diletta molto di mangiare, ed alcune volte sta tre giorni e tre notti di continuo a tavola con Ahmet visir, suo favorito»4.

Il coro attribuiva volentieri agli abusi alcolici anche l’infiammazione patologica che gli arrossava le guance: il sultano, si diceva, ha «tutta rovinata ed arrostita la faccia, sì dal soverchio vino, come dalla gran quantità d’acquavite che usa di bere per digerire». Col tempo, l’eritema assunse tali proporzioni che anche gli osservatori più malevoli furono obbligati a concludere che non poteva essere solo una conseguenza del vino: il sultano, si ammise, «patisce una malatia che se li sconza tutta la pelle». Fosse o no colpa del suo regime alimentare, non era un uomo sano, ed era facile prevedere che il suo regno non sarebbe durato a lungo: il Barbaro lo descrive «pieno di carne, con faccia rossa, e quasi piuttosto infiammata; di guardatura alquanto spaventosa, di età di anni cinquantatré, ai quali è comun giudizio che pochi ne abbia da aggiungere per la vita che tiene». Che il suo sguardo facesse paura è spesso ripetuto, e c’è motivo di pensare che Selim, sapendo di avere una faccia spaventosa, abbia deciso che tanto valeva approfittarne: perché il suo sguardo incutesse maggior terrore, «si tingeva intorno le palpebre di nero»5.

Gli occidentali erano persuasi che Selim fosse un ubriacone e una nullità; tanto che dopo lo scoppio della guerra ci si faceva coraggio ricordando «la dapocagine et imbriachezza del Turco, che è nota a tutti», e quando si sparse la falsa notizia che era morto, il Facchinetti si augurò che fosse smentita: sarebbe stata «mala nuova per il Christianesimo», perché l’alcolismo del sultano era «una delle principali cause umane per le quali si possa sperare un felice progresso in questa guerra». Ma il fatto che Selim beveva non significa che non avesse una politica, e l’insistenza degli osservatori veneziani sui suoi eccessi serve anche a nascondere il fatto spiacevole che penetrare le intenzioni della Porta, circondate com’erano d’una cortina di segreto, non era per niente facile. Uno di loro azzarda che Selim «favorisce gli hebrei», ricadendo però subito in un pettegolezzo da taverna («è universale opinione che egli sia di padre hebreo»), rivelatore soltanto del feroce antisemitismo che permeava in quegli anni la società veneziana6.

Le posizioni politiche di Selim avrebbero anche potuto apparire irrilevanti, perché era opinione diffusa che il sultano alcolizzato seguisse poco gli affari, lasciandoli nelle mani esperte del primo visir, Mehmet pascià; ma al tempo stesso si riconosceva che aveva delle idee, e anzi «quando si fissa in una opinione difficilmente se ne rimuove»7. Nei palazzi di Costantinopoli si notava però anche, e con un certo allarme, che diversamente dal padre il nuovo sultano si lasciava influenzare. Subito dopo l’avvento di Selim l’interprete capo della Porta, Ibrahim bey, mandato a Venezia a portare la notizia, descrisse così il cambiamento rispetto al regime di suo padre Solimano:

Il Signor è giovane, parla con molti; va a sollazzo; va alla caccia. Il capitano del mare, che è suo genero, lo leva spesso in galea, lo mena in mare, et ha piacere di farlo, perché parla seco commodamente, et esso capitano desidera stare sul mare, et fare delle fattioni, et imprese. Il Signor vecchio governava solo; non parlava con molti; era giusto, et amatore della quiete; questo ascolta tutti.

Per gli intriganti si preannunciava un’epoca propizia8.

All’inizio del regno di Selim il capitano del mare era l’esperto Pialì pascià, vincitore della flotta spagnola alla battaglia di Gerba; e il fatto che avesse tanta influenza sul sultano, e tante occasioni di abboccarsi in privato con lui, suonava particolarmente sinistro per i veneziani, perché lasciava prevedere che quando Selim si fosse impegnato in una nuova conquista avrebbe scelto una spedizione navale nel Mediterraneo: proprio dall’ampliamento della flotta di galere, infatti, e dal suo impiego in qualche grossa impresa, il kapudan pascià poteva trarre prestigio politico e colossali guadagni. D’altronde, ora che i confini dell’impero s’erano assestati sul Danubio e sull’Eufrate nessuna direttrice d’espansione appariva più logica di quella verso il Mediterraneo, che i turchi chiamano Akdeniz, il Mar Bianco, in opposizione al Mar Nero: perché nella loro lingua il colore nero evoca il buio del Nord, e il bianco la luce del mezzogiorno. Già il nonno del sultano, Selim il Terribile, aveva dichiarato: «Quello che chiamano Mar Bianco è un unico golfo, e in esso si trovano assembrati così tanti re e reami! Di grazia, è cosa degna e giusta che questo golfo intero non sia in potere dello Stato Sublime?»9.

Il sultano, tuttavia, non prendeva le sue decisioni da solo; anzi, la prassi voleva che fossero i suoi ministri a proporgliele. Il governo ottomano, il divan, si riuniva quattro volte alla settimana, il sabato, domenica, lunedì e martedì, prima di prendersi un lungo week-end di riposo culminante nella festività del venerdì. Al tempo di Selim vi sedevano, oltre al gran visir, altri quattro visir o pascià, che lavoravano tutto il giorno, consumando sul posto un frugale pasto a base di riso e montone; e con loro mangiavano a spese del sultano, nelle sale esterne e nei cortili del palazzo, centinaia di funzionari di rango minore e migliaia di salariati («Sarebbe veramente tale spesa eccessiva», commentò un veneziano, «se in quei paesi si usassero le delicatezze nostre d’Italia; ma si contentano di pane, riso, castrato, e acqua solamente»). Il sultano non partecipava alle sedute, ma se voleva poteva assistervi all’insaputa di tutti dietro una finestra nascosta da una grata, il che garantiva che il gran visir, quando veniva a riferirgli l’andamento della discussione e a chiedere il suo consenso per le decisioni prese, non poteva permettersi di mentire10.

I cinque visir, come quasi tutti i funzionari dell’impero, erano un prodotto del devs¸irme, “la Raccolta”, lo straordinario sistema per cui ogni quattro o cinque anni ufficiali dei giannizzeri visitavano i villaggi cristiani nelle province balcaniche dell’impero, sceglievano i ragazzini più promettenti e li portavano a Costantinopoli. Tecnicamente, a partire da quel momento essi diventavano “schiavi della Porta”, proprietà del sultano, che aveva su di loro diritto di vita e di morte; e questo spiega perché venissero reclutati fra i cristiani, dal momento che la legge vietava di ridurre in schiavitù i musulmani (a dire il vero, la legge proteggeva anche i sudditi cristiani dell’impero, per cui pare che la Raccolta non sia mai stata del tutto legale: ma si evitava di sollevare la questione). In media si prelevava un ragazzo ogni quaranta famiglie; i figli unici erano esenti, ed era buona politica lasciare in pace quelli delle persone influenti e dei preti ortodossi.

Essere scelti per la Raccolta era certamente un trauma per i ragazzi e per le loro famiglie, tanto più che comportava di routine la circoncisione e la conversione all’Islam; ma era anche un’opportunità straordinaria, tanto che le comunità musulmane della Bosnia chiesero e ottennero, in via eccezionale, che anche i loro figli fossero ammessi al reclutamento. A Costantinopoli, la maggioranza dei ragazzi erano avviati a un apprendistato che anni dopo avrebbe fatto di loro dei giannizzeri, con un buon salario e possibilità di avanzamento nel corpo; ma quelli che erano giudicati più interessanti entravano direttamente al palazzo imperiale di Topkapi, per servire il sultano ed essere educati sotto i suoi occhi. Fra di loro, quand’erano adulti, il Gran Signore sceglieva gli alti funzionari e i comandanti militari dell’impero, mentre gli altri diventavano sipahi, cavalieri della Guardia imperiale11.

Questo sistema sbalorditivo, per cui l’impero ottomano era governato esclusivamente da uomini di origine modesta, di etnia non turca e nati cristiani, impressionava profondamente gli occidentali. Il fiammingo Busbecq, che visitò Costantinopoli verso la metà del Cinquecento, testimoniò che essi costituivano un ambiente coeso, fierissimo d’essersi fatto strada solo grazie ai propri meriti fino ai vertici del potere mondiale: «quelli che ricevono i più alti uffici dal sultano sono in gran parte figli di pastori, e ben lungi dal vergognarsi della loro origine, ne vanno fieri, e ritengono di potersi vantare perché non debbono nulla all’accidente della nascita». Marcantonio Barbaro, che era costretto a trattare quotidianamente con loro, trovava insostenibile l’alterigia di questi parvenu, gente «tutta nata nella fede di Cristo», ma «ignobile, inesperta, abietta, servile, priva per propria natura di cognizione di governo, di giustizia, e di religione, nutrita solamente con affetti carnali, ripiena di lussuria, d’avarizia, e sopra tutto d’arroganza e di superbia».

È un’opinione comprensibile se si pensa all’enorme investimento che si faceva in Occidente sui concetti di nascita e di sangue. Questi turchi che della nobiltà non sapevano nulla non erano gente onorevole, come osservò il comandante della flotta veneziana a Lepanto, il vecchio Sebastiano Venier, sdegnoso di dover affrontare «un nimico, che non admette conti, né cavallieri, né gentilhuomini, ma solo mercanti». Eppure, più di un osservatore veneziano seppe identificare proprio nel principio del merito, anche se applicato col sistema stravagante e crudele della Raccolta, una delle forze dell’impero ottomano. Nel 1560, l’ambasciatore Marino di Cavalli disse apertamente che se voleva tener testa ai turchi la Repubblica avrebbe fatto bene a imitarli, conferendo gradi e autorità a «privati e bassi uomini» che se ne fossero dimostrati degni, e garantendosi così dei servitori assai più fedeli di quanto non fossero spesso i patrizi (è vero che anche il Cavalli, come nota il nunzio pontificio, «ha pochi parenti et di famiglia molto nuova»)12.

È attraverso questo percorso, dunque, che avevano fatto carriera i cinque visir del sultano Selim. Mehmet pascià detto Sokollu, contrazione del suo cognome di famiglia, Sokolovic´, era un serbo di Bosnia e aveva fatto carriera sotto Solimano il Magnifico, diventando kapudan pascià, poi governatore della Rumelia e infine gran visir. Il secondo visir, Perteu pascià, era albanese, ed era stato agà dei giannizzeri prima di entrare nel consiglio dei ministri. Il terzo visir non era altri che Pialì pascià, promosso a quel rango dopo essere stato, anche lui, kapudan pascià; ungherese, o forse croato, di nascita, pare fosse figlio d’un calzolaio, anche se correva voce che fosse stato trovato abbandonato in un fosso. Il quarto visir, Ahmet pascià, ungherese secondo alcuni, bosniaco secondo altri, ma comunque «bassissimo di condizione», era stato un favorito, e forse un amante, di Selim nel Serraglio, ed era tuttora il suo compagno preferito di bevute. Il quinto visir era Lala Mustafà pascià, di cui parleremo ancora molto; secondo alcuni era nato in Bosnia, secondo altri in Montenegro, «di sangue abietto»; uscito dal Serraglio come sipahi, divenne tesoriere e poi precettore (lala) del principe Selim, il che fece la sua fortuna13.

Provenienti da un analogo orizzonte e passati tutti attraverso la stessa, severa educazione del Serraglio, i cinque visir erano anche imparentati fra loro, perché la politica di Solimano era stata quella di far entrare in famiglia gli uomini a cui affidava le maggiori responsabilità. Nel 1562 fece sposare in uno stesso giorno a Mehmet e a Pialì due giovanissime figlie dell’erede al trono Selim, Esmihan e Geverhan; ad Ahmet diede in moglie un’altra nipote, figlia di sua figlia Mihrimah e del precedente gran visir Rüstem pascià; Lala Mustafà, mentre era pascià di Damasco, ebbe in moglie un’egiziana discendente della dinastia reale mamelucca spodestata dagli ottomani, ma quando rimase vedovo, Selim gli diede in sposa un’altra delle proprie figlie. Essere il marito di una sultana non era affatto comodo, giacché lo status della moglie era abissalmente superiore a quello del marito: i pascià non potevano prendere altre mogli e dovevano obbedire in tutto alle regali consorti. Politicamente, però, questi matrimoni accrescevano non soltanto il prestigio, ma il concreto potere di chi era così onorato, perché le figlie e le sorelle del Gran Signore avevano il permesso di entrare liberamente nel Serraglio e di parlare al sultano a loro piacimento, mentre i colloqui concessi ai visir erano rigidamente regolamentati e ristretti dal protocollo del divan.

Prodotti del devs¸irme, i visir erano coscienti di essere schiavi del sultano, che poteva farli strangolare se era insoddisfatto di loro e che alla loro morte avrebbe quasi certamente confiscato gli immensi patrimoni accumulati durante la loro carriera. Infatti, alla morte di Mehmet nel 1579 il nuovo sultano Murat, figlio di Selim, non esitò a impadronirsi delle sue ricchezze e di quelle del suo predecessore: «il che le par di poter fare con buona conscienza», annotava il bailo dell’epoca, «sapendo molto bene che tutto quello che hanno lasciato li predetti bassà lo hanno rubbato». Ma i tempi stavano cambiando, e i cinque visir dell’epoca di Lepanto furono anche i primi ad adoperarsi concretamente per far fare carriera ai propri figli e introdurre al vertice dell’impero il principio della nascita al posto di quello del merito. Il figlio maggiore di Mehmet a ventidue anni era sangiacco, cioè governatore, di Erzegovina, e quando morì, nel 1572, gli subentrò il fratello minore, figlio d’una schiava e appena diciassettenne; il figlio di Lala Mustafà governava l’importante sangiaccato di Aleppo, e un figlio di Pialì divenne sangiacco di Clissa, presso Spalato. Il Barbaro osservò che molti giudicavano scandalosi questi favoritismi, «né possono patire che nè anco un figlio di primi visiri sia fatto sangiacco per favore»; se si considera che il grado di sangiacco era comunque relativamente modesto, e anch’esso revocabile ad ogni istante, siamo ancora molto lontani dalla solidità delle famiglie principesche d’Italia o di Spagna14.

Questi, dunque, erano gli uomini con cui Selim discusse la possibilità di una guerra contro Venezia, coll’obiettivo della conquista di Cipro, e che una volta decisa la guerra furono incaricati di condurla. Il più incolore nei giudizi degli inviati veneziani è Perteu pascià, militare tutto d’un pezzo, «piccolo di corpo, ma di ardito cuore». Di lui si nota da più parti che è «molto più esperto nella milizia di terra che nelle cose marittime», un difetto, quest’ultimo, che avrà delle conseguenze a Lepanto; già da un pezzo, del resto, se ne parlava come di un uomo sorpassato dai tempi, e destinato ad andare presto in pensione. Ahmet pascià ne esce come un omaccione simpatico ma non molto acuto, che deve la sua posizione esclusivamente all’amicizia del sultano: è «uomo di poco consiglio, ma molto animoso», «di forte complessione, di bella presenza, allegro e gioviale», «huomo che non penetra molto ma gratioso nel suo proceder»; amante della bella vita, è facile farselo amico e non c’è da averne paura giacché «con i rappresentanti di questo Stato si dimostra tutto cortese, et gode allegramente senza desiderar cose nove le tante richezze della sultana sua socera». Pialì pascià suscitava giudizi più contrastanti: considerato da alcuni «persona né di molto valore né di molta prudenza», da altri era «tenuto buon marinaro, e valente soldato»; e quest’ultimo giudizio dev’essere più vicino al vero, perché alla vigilia di Lepanto la sua destituzione dal comando provocherà lo scontento dei marinai. Sul piano del carattere, però, il quadro si riempie di ombre: Pialì «ha pochi denari et ne vuol spender molti», ha il vizio dell’oppio e «spende assai per causa della sultana sua moglie. Ha circa trecento schiavi cristiani, che sono peggio trattati di tutti gli altri schiavi turchi»15.

Ma le due personalità più forti del divan erano il primo visir e l’ultimo. Lala Mustafà è passato alla storia per aver fatto scorticare vivo Marcantonio Bragadin, e non è senza sorpresa che lo vediamo giudicare dall’inviato Ragazzoni, pochi mesi prima del fattaccio, «uomo civile, prudente e valoroso». Un altro veneziano, a cose fatte, non si perita di ripetere che è «uomo stimato di grandissimo valore e di somma prudenza», anche se ormai l’ombra del patibolo di Famagosta si allunga e ne incupisce il ritratto: «è di statura piccola, ma di cera fiero, di natura pieno di fraude, insaziabile nella cupidità, carnefice», e così via. Nominato nel 1568 serdar, cioè comandante in capo dell’esercito che doveva domare la rivolta dello Yemen, era stato accusato di malversazioni e tradimento e aveva rischiato la testa, ma ne era uscito pulito grazie alla protezione personale di Selim. È evidente che era un uomo abile, irrequieto e ambizioso: ancora sette anni dopo la conquista di Famagosta, che segnò il vertice dei suoi successi, Lala Mustafà è descritto come «huomo di settanta anni, spiritoso et che non si contenta della presente fortuna ma, sapendo che sarebbe adoperato nelle cose importanti, desidera qualche novità et per dire il vero non vi è, seguendo la commune opinione, più atto a governar un essercito di lui, né che per esperientia et giudicio dovesse succieder al magnifico Mehemet bassà»16.

L’unico che potesse tenergli testa, nel divan, era appunto Mehmet. Un giorno, discorrendo coll’inviato veneziano Ragazzoni, il gran visir lasciò intendere che lui, in realtà, era di famiglia principesca, discendente dagli antichi despoti di Serbia («sebbene alcuni tengono altrimenti», aggiunge perfidamente il veneziano). Non era l’unico snobismo del gran visir, che si tingeva la barba per sembrare più giovane, e a settant’anni «dice averne solo cinquantacinque»; ma pare, in effetti, che la sua famiglia fosse di notabili, e che lo stesso Mehmet fosse destinato alla carriera ecclesiastica: quando, a diciott’anni, venne selezionato per la Raccolta era già diacono, e serviva messa per uno zio prete presso il monastero di San Saba in Bosnia. Durante la sua ascesa ai vertici del potere promosse spregiudicatamente gli interessi familiari, muovendosi a suo agio fra le due religioni: fondato in Bosnia un ricco vakf, una fondazione pia islamica, ne affidò l’amministrazione al padre; ma ottenne anche dal sultano l’istituzione di un patriarcato ortodosso a Pec´, con autorità su tutto il clero cristiano dei Balcani, e fece nominare patriarca prima suo fratello e poi due nipoti (Marino di Cavalli passò di lì durante il suo viaggio a Costantinopoli, e registrò le lamentele del clero di Skopje perché «uno patriarcha di Servia, greco, nuovamente creato per favor d’uno suo barba, che è bassà, havea ottenuto dal Signor Turco un commandamento, che tutti li christiani così latini come greci gli pagassero»).

Sulla statura di uomo di stato di Mehmet pascià il consenso era entusiastico e universale. Il bailo Barbaro è pieno di ammirazione e stupore per l’enorme mole di lavoro che sbriga da solo e per la cortesia dei suoi modi:

sta il pascià paziente, indefesso in queste fatiche, nelle quali mai non manca. Risponde gratamente, né s’insuperbisce [...]. È religioso, sobrio, amico della pace, non vendicativo, né rapace [...]. È sano, di buona complessione, grave di presenza, grande, ben formato di corpo, e d’ottima memoria. Ha la moglie giovine ed assai bella, e cionciossiaché egli sia di sessantacinque anni, si fa però più giovane, ed ogni anno fa un figliuolo, ma tutti gli muoiono.

Il Ragazzoni, che trattò con Mehmet per alcuni mesi nel 1571, non esita a concludere il suo rapporto alla Signoria, ancora in piena guerra e poco prima di Lepanto, dichiarandosi dispiaciuto per il fallimento delle trattative, ma comunque felice di aver potuto «conoscere e negoziar con il più savio, giusto, prudente e valoroso governatore di un imperio che oggidì viva in terra». Quando tornò da Costantinopoli dopo la conclusione della pace il Barbaro si fece fare un ritratto, oggi al Kunsthistorisches Museum di Innsbruck, sullo sfondo del Corno d’oro, e con in mano una lettera indirizzata Domino Mehmet Musulmanorum Visiario amico optimo17.

I veneziani erano persuasi che le rivalità personali fra i membri del divan avessero un ruolo enorme nell’orientare la politica dell’impero, e anche per questo si fidavano tanto di Mehmet. Prima dello scoppio della guerra il segretario Buonrizzo si spinse ad affermare che i pascià erano talmente guidati dagli interessi personali da non «haver alcun riguardo all’utile et al servitio del loro principe», e il Barbaro confermò più tardi che proprio in quell’occasione si era capito quanto i visir si odiavano a vicenda, al punto da intrigare «per levarsi l’un l’altro i gradi, l’onore e la vita». L’uomo che si attirava la maggiore ostilità era il favorito più recente del sultano, quello che aveva fatto la carriera più fulminea, Lala Mustafà, che tutti gli altri avrebbero volentieri visto morto; a sentirsi minacciato dalla sua ascesa era soprattutto il gran visir, che aveva dovuto inghiottire la sua promozione da pascià di Damasco a membro del governo. Così stando le cose, non sorprende che gli osservatori italiani abbiano ricostruito la discussione nel divan intorno alle prospettive d’una guerra contro Venezia come uno scontro fra queste due individualità dominanti: a spingere per quella decisione era soprattutto Mustafà, sicuro di ottenere dal sultano il comando dell’esercito mandato a Cipro; mentre Mehmet era «alienissimo da quella guerra», perché non voleva offrire questa occasione di distinguersi al suo nemico mortale18.

Anche dopo lo scoppio della guerra i veneziani rimasero persuasi che Mehmet non l’aveva voluta, e aveva fatto di tutto per scongiurarla. Poiché non esistono verbali del divan e tutte le ordinanze erano pubblicate a nome del sultano, è impossibile stabilire fino a che punto avessero ragione; ma quand’anche così fosse, il gran visir, pur maneggiando tutti gli affari, non poteva opporsi a una volontà espressa del sovrano. «Il Gran Signore l’ama e lo stima, e con tutto che egli faccia ciò che vuole, dove però non conosce esser contraria la volontà del Gran Signore, pure è quasi impossibile di credere con quanto timore e rispetto procede anco in ogni minima cosetta», osservava il Barbaro con una punta di fastidio. Un membro della delegazione venuta a negoziare la pace dopo Lepanto sentì dire da Mehmet ch’egli non avrebbe osato contraddire il sultano nemmeno se gli avesse dato un ordine impossibile da eseguire:

sebbene conosceva poter molto col Gran Signore, non ardirebbe però dirgli, se gli commettesse che si armassero due mila galere, che lo stato di Sua Maestà non fosse bastante per farle.

Ma l’accenno più inquietante è infilato quasi per caso nel discorso che Ibrahim bey tenne nel 1567 davanti al Senato. Venuto a portare la lieta notizia dell’accesso al trono di Selim, il dragomanno assicurò i veneziani che il gran visir era loro amico e avrebbe fatto di tutto perché la pace fosse duratura; ma dovevano capire che neppure lui poteva opporsi alla volontà del sultano. «Il bassà è prudente et savio; et sebene desidera la pace con la Serenità Vostra, et fa buoni officii, non vuole però pigliare contradittione, et contentione», concluse il dragomanno. Per chi si fosse fermato a riflettervi, non era un accenno rassicurante19.

Selim non si confrontava soltanto con gli alti funzionari. Molto più vicini a lui erano gli abitanti del Serraglio: le donne, gli eunuchi, i favoriti. L’amicizia, l’amore, il sesso intrecciavano attorno al sultano bevitore tutto un mondo di rapporti umani intensi e distorti al tempo stesso, come quello col favorito del momento, Sciaus, che si sapeva destinato ai più alti onori, e che infatti prima della fine del secolo sarà per ben tre volte gran visir. Ungherese o croato di nascita, era tanto caro al sultano «che lui solo haveva auttorità di parlar col Signor anco quando era guasto dal vino»; più brutalmente, altri scrissero che era stato «goduto» da Selim, il quale decise di lasciarlo uscire dal Serraglio e affidargli il suo primo incarico politico proprio nei mesi in cui si progettava la guerra contro Venezia, e più tardi gli diede in sposa una delle sue molte figlie. Altrettanto intenso e più segreto era il rapporto del sultano con il muto Rara, «favoritissimo dal Signor et suo continuo commensale», che un giorno fece passare un brutto quarto d’ora al Barbaro andando a trovarlo senza preavviso, cosa rarissima perché non si allontanava quasi mai dal Serraglio. Il bailo era sulle spine, perché immaginava che il muto fosse stato incaricato di qualche missione dal suo regale padrone, ma «costui se ben havea il suo dragomano in mutesco, col mezo del quale ragionassimo diverse cose», si limitò a chiacchierare del più e del meno, commentando piacevolmente certe pitture di Costantinopoli e di Venezia che erano appese nella stanza, poi se ne andò lasciando il Barbaro più perplesso che mai20.

Può stupirci scoprire che molti abitanti dell’harem erano veneziani, pienamente disposti a rivendicare il proprio legame con la madrepatria e a favorirla quando se ne presentava l’occasione. Era suddita veneziana, nata a Corfù, la concubina più amata del sultano, Nur Banu, la «Signora Luce», madre di suo figlio Murat. Selim la sposerà nel febbraio 1571 contro la tradizione dei sultani più antichi, che non sposavano le schiave, ma seguendo l’esempio di suo padre Solimano, che aveva sposato sua madre Hürrem. Fra i contemporanei correva voce che Nur Banu fosse addirittura una patrizia di casa Baffo; e la sultana si guardava bene dallo smentirlo, anche se si trattava con ogni probabilità di un’impostura, e la donna era più verosimilmente una greca di Corfù. Veneziano era anche l’eunuco preferito di Selim, Gazanfer agà, che per molti anni occupò le cariche più importanti nel palazzo di Topkapi; catturato bambino nell’Adriatico e poi persuaso a subire l’operazione per poter servire nell’harem, sosteneva d’essere un Michiel, anche se può darsi che come nel caso della Baffo questa identità patrizia fosse una millanteria21.

Veneziani, catturati in mare e poi convinti a rinnegare, non mancavano anche fra i giovani del Serraglio, giacché un gentiluomo italiano era fra i regali più pregiati che un corsaro poteva fare al Gran Signore. Ce n’erano anche nel gruppo ristrettissimo di coloro che servivano nella sua camera, che talvolta andavano a letto con lui, e che erano destinati a fortunate carriere, una volta che fosse spuntata loro la barba e il sultano avesse deciso di lasciarli uscire. Un mese prima di Lepanto, annota un dipendente del Barbaro, «il Gran Signor cavò fuora del suo Serraglio 300 giovani, tra quali gli fu un Pesaro gentil huomo veneto, qual era delli 12 che servevano alla camera»; anziché entrare come quasi tutti gli altri nella cavalleria della Guardia, costui andò a occupare un posto importante nell’organigramma della corte ottomana. A quanto si riseppe, il suo successo era dovuto alla raccomandazione di un altro italiano, «il Cigala, qual è gentiluomo genovese». Figlio di un famoso corsaro, Scipione Cigala era stato catturato in mare insieme al padre nel 1561, ed era diventato uno dei favoriti del Serraglio: un viaggiatore lo vide cavalcare al seguito di Selim come «il Dio d’amore che seguitasse il trionfo del Padre Baccho», con i capelli lunghi profumati e intrecciati e con «certe vesti addosso molto vaghe e lascive». Al Barbaro risultava che era «il primo della camera, et il più favorito che habbia il Signor appresso di lui, di essi giovani, et si crede che riuscirà qualche cosa». Altra previsione azzeccata, perché il Cigala, nonostante quest’inizio effeminato, diverrà molti anni dopo Sinan kapudan pascià, uno dei più famosi ammiragli ottomani, nonché protagonista d’una canzone di Fabrizio De André.

È probabile che molti di coloro che vivevano nel Serraglio e dividevano il letto di Selim avessero le loro opinioni sulla guerra che stava per cominciare. Purtroppo, nessuna fonte ci permette di conoscere quella di Nur Banu, che all’epoca non faceva ancora politica attiva, come invece cominciò a fare dopo l’accesso al trono di suo figlio, giocando un ruolo non secondario nelle relazioni tra Venezia e la Porta. Uno squarcio inatteso s’incontra invece nella corrispondenza del Barbaro a proposito del giovane veneziano della famiglia da Pesaro. Nel gennaio 1570 il bailo racconta che il suo medico, l’ebreo Abram Abensantio, chiamato a palazzo durante un’assenza del sultano, ha potuto parlare «col figlio del magnifico messer Marin da Pesaro», l’ha ammonito che essendo veneziano doveva ricordarsi della patria, e gli ha domandato che cosa si diceva in Serraglio sulla destinazione della flotta. «Il giovine gli rispose, che non essendo il Signor qua, lì dentro non si ragionava di tal cose», ma che al ritorno del sultano avrebbe cercato di informarsi; e siccome non era così facile rivedersi, concordarono un segnale: se avesse appurato che la flotta era destinata a invadere Cipro, il Pesaro avrebbe fatto richiedere al medico una certa «conserva» per curare un suo male. Di lì a poco il medico venne a riferire al Barbaro «che ’l predetto giovane li ha fatto dir che ’l li faci far in ogni modo di quella conserva». Un simile contatto fra le mura di Topkapi era prezioso, ma il medico rifiutò di continuare, perché la faccenda gli pareva troppo rischiosa, e in ogni caso il giovane Pesaro venne ben presto risucchiato dal sistema: quando apprese che era stato addetto al servizio della camera di Selim, il bailo concluse, rassegnato, che con tali speranze di grandezza il giovane si sarebbe dimenticato della patria, e la profezia non tardò ad avverarsi22.

Secondo i veneziani, però, c’erano altri uomini che avevano assai più influenza sul sultano di quanta potessero averne le donne e i giovani del Serraglio, ed erano i grandi finanzieri operanti a Costantinopoli. Nell’impero ottomano il credito era interamente privato, affidato all’attività di singoli individui, cristiani o ebrei, ben forniti di denaro e di relazioni, appaltatori di gabelle e commerci, frequentati dagli ambasciatori occidentali che trovavano in loro una preziosa fonte di informazioni. Uno di costoro era il vecchio principe greco Michele Cantacuzeno, più noto al popolo di Costantinopoli come Shaitan-oghlu, il Figlio del Diavolo, e destinato, anni dopo, a finire impiccato per le sue ruberie. Appaltatore di tutte le saline dell’impero, avrebbe potuto avere un interesse diretto nella conquista di Cipro, giacché proprio il sale era uno dei principali prodotti dell’isola. Ma era creditore con Venezia d’una somma considerevole, che la guerra gli impedì di riscuotere: sicché è poco probabile che abbia contribuito alla decisione di aprire le ostilità, anche se i suoi rapporti col bailo, proprio a causa di quel credito non pagato, erano diventati molto tesi23.

Il suo principale concorrente era il formidabile portoghese João Migues, alias Josef Nasi24. Studente a Lovanio e poi banchiere ad Anversa, nobilitato da Carlo V, il Migues era uno dei tanti marranos, discendenti di ebrei convertiti a forza al Cristianesimo, che i sospetti dell’Inquisizione convinsero a lasciare i domini asburgici per cercare accoglienza altrove. Intorno alla metà del secolo si era stabilito a Venezia, dove si trovavano già le sue zie, doña Gracia e doña Brianda Nasi, anch’esse ebree portoghesi convertite, vedove di due banchieri e titolari di un’immensa fortuna. I testamenti dei mariti ne attribuivano l’amministrazione a doña Gracia, per cui le due sorelle erano in cattivi rapporti. La Repubblica era molto interessata al destino di quel capitale, e agendo ufficialmente nell’interesse della figlia e unica erede di doña Brianda, Beatriz, obbligò le due donne a depositarne metà presso la Zecca.

Quando doña Gracia decise di lasciare Venezia per Costantinopoli, dove voleva tornare all’ebraismo, il suo viaggio venne discusso al massimo livello dai due governi, data l’entità colossale del capitale in gioco, e un ambasciatore fu mandato apposta da Costantinopoli per appianare i contrasti patrimoniali fra le due sorelle. Si decise che metà del capitale sarebbe partito con doña Gracia, mentre l’altra metà sarebbe rimasta a Venezia, dove si sperava che l’erede Beatriz avrebbe finito per sposare un patrizio veneziano. A questo punto entrò in scena il nipote João Migues, che da tempo aiutava la zia nell’amministrazione della sua fortuna: nel gennaio 1553 sedusse la dodicenne Beatriz, la convinse a fuggire con lui in barca ad Ancona e lì la sposò. Il Consiglio dei Dieci, furibondo, condannò “Zuan Micas” al bando perpetuo dal territorio veneziano, sotto pena dell’impiccagione.

Dopo quest’avventura picaresca Beatriz venne ripresa e riportata dalla madre a Venezia, mentre il Migues approdò a Costantinopoli, dove nel frattempo era giunta anche doña Gracia Nasi, accolta da trionfali festeggiamenti. Entrambi tornarono all’ebraismo e in breve tempo divennero personaggi di spicco della comunità ebraica, grazie al loro denaro e ai loro collegamenti d’affari in tutte le piazze d’Europa. Il governo ottomano sapeva servirsi di persone così utili e il Migues, che intanto aveva cambiato nome e si faceva chiamare don Josef Nasi, divenne uno degli uomini d’affari più potenti dell’impero, titolare, fra l’altro, del dazio sull’importazione del vino nella capitale. Selim II lo apprezzava e lo vedeva volentieri; secondo gli occidentali, è perché il Migues lo riforniva dei vini migliori e faceva preparare per lui le ricette più raffinate della cucina sefardita, ma la realtà è che di mercanti e banchieri in grado di gestire affari complessi in Occidente l’impero aveva un gran bisogno. Nel 1567 il sultano decise di spossessare uno dei suoi vassalli cristiani, il duca dell’isola di Nasso, nelle Cicladi, e assegnò quel possedimento al Nasi, che a partire da quel momento prese ufficialmente il titolo di duca di Nasso.

Agli occidentali il Nasi, ch’essi continuavano a chiamare Micas o Miches, appariva uno degli uomini più pericolosi di Costantinopoli. I mercanti veneziani che trafficavano nell’impero ottomano erano costretti a operare attraverso intermediari ebrei che prelevavano una parte consistente dei loro profitti, rinfocolando il brutale antisemitismo e l’ossessione del complotto ebraico già alimentati a Venezia dalla Controriforma: «è purtroppo grande la insolentia di questi ebrei», scriveva nel 1566 il predecessore del Barbaro, Soranzo, e rincarava l’anno dopo: «cresce ogni dì tanto l’insolentia di questa canaglia»25. Il Migues, che grazie alla rete dei suoi corrispondenti disponeva sempre di informazioni aggiornatissime, divenne agli occhi dei cristiani un personaggio da leggenda, il capo occulto dell’ebraismo internazionale. Quando si seppe che don Josef e doña Gracia avevano ottenuto dal sultano la concessione d’una città in Palestina per impiantarvi una colonia ebraica, la cosa venne gonfiata fino a far circolare la voce che il Nasi voleva farsi re degli ebrei. Quando scoppiò l’incendio nell’Arsenale di Venezia, la voce popolare lo attribuì subito a un complotto dei suoi agenti. E quando si cominciò a temere che Selim avesse delle mire su Cipro, ci si convinse che ad alimentarle era l’onnipotente Nasi, il quale aveva già in mano il commercio dei vini dell’isola, e ora aspirava a diventare re di Cipro26.

In realtà, alla vigilia della guerra i rapporti dei diplomatici occidentali segnalavano che le fortune dell’«ebreo Miches», come lo chiama sprezzantemente il Barbaro, erano in declino. Il re di Francia tardava a rimborsargli un credito di 150.000 scudi, e l’ambasciatore francese osservò che il Nasi era «schiacciato dai debiti» e rischiava la bancarotta. Su sua richiesta erano state sequestrate per rappresaglia le merci di certi mercanti francesi, e ne era nato un litigio così spinoso che il dragomanno Mahmud bey dovette andare in Francia per risolverlo. Prima di partire confermò al Barbaro che don Josef era carico di debiti e non sapeva come pagarli, «non si ritrovando un quatrino», e profetizzò «che questa signoria di Nixia serà causa della sua compita rovina»27. Proprio allora il gran visir, che odiava il Migues, aprì un processo contro di lui, accusandolo di aver usurpato la signoria dell’isola di Andros, adiacente a Nasso, e arrivò a chiedere al Barbaro di segnalargli eventuali lamentele dei mercanti veneziani contro di lui, per rovinarlo con maggior sicurezza; ma il Nasi aveva anche amici potenti, fra cui Pialì pascià e Lala Mustafà, e riuscì a ottenere dal sultano che il processo fosse archiviato28.

Date le circostanze, è verosimile che il finanziere si sia schierato con chi appoggiava la guerra contro Venezia, giacché questo era l’orientamento dei suoi protettori; ma per lui sarebbe stato lo stesso se i pascià si fossero rivolti piuttosto contro il re di Spagna29. Le sue ambizioni personali su Cipro erano certamente una favola, come dimostra fra l’altro il fatto che di lì a poco Selim conquistò davvero l’isola, e il Nasi non ebbe alcun ruolo nella sua successiva gestione come provincia ottomana. L’ostilità di Venezia e il bando che gravava su di lui danneggiavano i suoi affari, e fino a poco tempo prima don Josef aveva fatto di tutto per farsi perdonare, vantando l’autorità e l’influenza di cui godeva presso il nuovo sultano, e assicurando che non desiderava altro se non l’occasione di adoperarle a vantaggio della Serenissima. Alla luce di questi maneggi, l’idea che il Nasi abbia alimentato l’ostilità di Selim contro Venezia e che l’aggressione a Cipro sia stata dovuta ai suoi consigli appare inverosimile; eppure a Venezia era diffusa ovunque. Perfino il doge e il Collegio, il massimo organo dirigente della Repubblica, quando le cose si furono guastate dichiararono la loro convinzione che gli ebrei «siano stati autori di questa guerra», suscitando nel nunzio pontificio la caritatevole aspettativa «ch’essi si risolvano di cacciarli da Venetia»30.

Vera o falsa che fosse, la certezza che proprio il Migues, magari non in quel momento ma in tempi lontani, avesse suggerito a Selim la conquista di Cipro venne confermata dallo stesso Mehmet pascià, che peraltro aveva tutto l’interesse a rovinarlo. Il gran visir raccontò a Marcantonio Barbaro che il sultano gli aveva confidato d’aver deciso la conquista di Cipro già prima di succedere al trono; e affermò «che Gio. Miches meritava ogni male, essendo egli stato causa che si faci questa impresa di Cipro, havendola persuasa al Signor fin quando l’era principe». Ma se le cose stavano davvero così, bisogna dire che il carattere disturbato di Selim lo portò a non saper più neppure lui quel che voleva, e a lasciarsi trascinare dagli eventi assai più che a dirigerli; perché il processo decisionale che tra la fine del 1569 e i primi mesi del 1570 portò infine alla guerra fu assai più contorto di quanto non lascino supporre le affermazioni del gran visir31.