28. Dove il Venier impicca un capitano spagnolo, don Juan sta per fare impiccare lui, poi ci ripensa; faticosamente si riesce a fare la pace fra i cristiani, e la flotta fa vela per Lepanto, anche se ormai nessuno crede più che il nemico uscirà dal porto

Il 26 settembre la flotta cristiana arrivò a Corfù, accolta dalla solita, frenetica sparatoria di benvenuto, e il Venier, sulle cui galere c’era pochissimo pane, andò subito a chiedere ai rettori quanto biscotto era stato fabbricato durante la sua assenza. Con sua costernazione, gli venne risposto che i turchi avevano bruciato i mulini, e che durante l’assedio il biscotto che c’era in magazzino era stato distribuito ai soldati, per cui ne rimaneva pochissimo. La situazione era talmente grave che i comandanti veneziani decisero di ridurre la razione di pane ai galeotti, e pagare la differenza in contanti; ciò che di fatto equivaleva ad affamarli, giacché di pane da comprare non ce n’era comunque. Però ebbero paura che gli spagnoli, venendolo a sapere, si attaccassero a questo pretesto per non andare più avanti, e stabilirono di applicare la riduzione solo dopo che la flotta fosse ripartita. «Ma loro, che sono soliciti in saper le cose», subodorarono lo stesso che i veneziani erano a corto di vettovaglie.

Fosse per questo, come sospettava il Venier, o semplicemente perché bisognava aspettare le galere mandate a imbarcare fanteria nei porti della Puglia e le navi del d’Avalos cariche dei fanti tedeschi, don Juan mise in discussione la possibilità di attaccare qualcuna delle piazzeforti nemiche a portata di mano: il forte di Sopotò o quello di Margariti, l’isola di Santa Maura, oppure, più a nord, Castelnuovo, la fastidiosissima fortezza turca che bloccava le Bocche di Cattaro, o il porto di Valona. Questa proposta dispiacque enormemente ai veneziani, convinti che gli alleati cercassero solo di evitare la battaglia navale. Il Venier nella sua relazione al Senato racconta di un aspro scambio di opinioni: alla sua insistenza che bisognava andare avanti e costringere il nemico a combattere o a ritirarsi nei Dardanelli, «mi fu opposto che haveva poco pane, et che ’l tempo era troppo avanti, et dettomi, se tu pensi menar questa armata in Arcipelago, tu ti inganni». Il litigioso veneziano ribatté in tono insultante, e lo riferisce con palese soddisfazione: «che dovemo fare adunque, diss’io; la impresa de Margariti? Questa parola credo li dispiacesse; ma non potei contenermi».

Il Venier non fa nomi, ma un’altra relazione veneziana attribuisce senz’altro al Colonna l’opinione che «per non commettere alle fortune del mare un’armata sì grande, non si doveva andare nell’Arcipelago», e piuttosto attaccare qualche base turca nell’Adriatico. Nel rapporto spedito al doge dopo Lepanto, Marcantonio sdrammatizza la vicenda, e com’è suo solito getta acqua sul fuoco. Don Juan aveva proposto quelle azioni soltanto «per non star in otio» finché non fossero arrivate le galere dalla Puglia; è vero che qualcuno, preoccupato per la stagione troppo avanzata, e persuaso che ormai la flotta nemica stesse facendo vela per Costantinopoli, avrebbe preferito qualche facile conquista a uno sterile inseguimento; ma alla fine il consiglio decise di ripartire appena possibile per raggiungere il nemico. Se poi si fosse accertato che i pascià erano rientrati negli Stretti, la flotta avrebbe potuto spingersi fino a Creta e svernare lì, come suggeriva il Venier, che sperava di approfittarne per riportare alla calma l’inquieta popolazione cretese.

La sparatoria di gioia inscenata dai forti di Corfù per accogliere don Juan aveva impressionato tutti: i veneziani disponevano lì di un’enorme quantità di artiglieria. Tutti quei cannoni non erano serviti a difendere l’isola, come testimoniavano le rovine ancora fumanti di casali e sobborghi, ma ai generali venne voglia di imbarcare un po’ di quell’artiglieria sulle loro galere, per disporre di qualche pezzo da assedio nel caso che alla fine avessero dovuto accontentarsi di un’impresa terrestre. Il Venier non era affatto contento: «mal volentieri li levavo dalla fortezza, et tanto più che vedevo esser superfluo et solo per metter tempo, che era una fantasia metter in terra fanterie et artellarie da battere, havendo alle spalle un’armata de dugento et più galee». Tuttavia finì per acconsentire, e con un’orgogliosa dimostrazione di efficienza fece calare sei cannoni pesanti dai baluardi e li imbarcò sulle galere in un solo giorno, insieme con seimila palle e la polvere necessaria. Questa, almeno, è la sua versione; un cronista ben informato riferisce invece che era stato il Colonna ad impegnarsi a caricarli «in poche hore», il Venier non voleva darli senza un ordine espresso della Signoria, e Marcantonio aveva dovuto menzionare i poteri conferiti a don Juan dal trattato della Lega per convincere l’ostinato veneziano1.

Il motivo principale del passaggio da Corfù era di imbarcare la numerosa fanteria che i veneziani sostenevano di avere pronta laggiù. Alla fine si scoprì che sull’isola c’erano più colonnelli che truppe: agli ordini del più anziano, Paolo Orsini, che faceva le veci di generale, ce n’erano ben tre, Correggio, Ronconi e Acquaviva, i quali sulla carta avrebbero dovuto avere fino a duemila fanti ciascuno; in realtà ce n’era in tutto un migliaio, e poiché bisognava pur lasciare un po’ di guarnigione a Corfù, ne vennero imbarcati appena 500. Per rendere la faccenda ancora più spiacevole, il Correggio, che aveva prestato servizio sull’isola coll’accordo d’imbarcarsi poi sulla flotta, ebbe invece ordine dal governatore di Corfù di restare sul posto; il colonnello, che voleva partecipare a tutti i costi alla grande impresa, s’impuntò, il governatore si ostinò a sua volta, e il Correggio finì per dimettersi dal servizio della Repubblica e imbarcarsi come privato “venturiero”. I fanti imbarcati rimasero così agli ordini del Ronconi, quello stesso di cui il Venier avrebbe poi scritto di averlo mal giudicato, perché gli era parso un Orlando, ma era un coniglio2.

Durante la sosta vennero interrogati i prigionieri turchi fatti sull’isola nei giorni precedenti. Il più importante di tutti, il Baffo rinnegato, confermò le notizie già in possesso dei cristiani circa le cattive condizioni della flotta nemica: è vero che c’erano in tutto quasi trecento vele, ma solo 160 erano galere, il resto galeotte, fuste e brigantini corsari; a bordo c’era scarsità di rematori e di soldati, per la strage provocata dall’epidemia; la forza da combattimento consisteva essenzialmente in 4500 giannizzeri. I pascià – riferì il Baffo – sapevano benissimo che la loro flotta era più debole, e «non poteva egli credere, ch’ella fosse mai per risolversi di combattere con la cristiana»: secondo il rinnegato non c’era dubbio che i turchi avrebbero fatto vela per Costantinopoli. Altri rapporti confermarono che la flotta era uscita da Prevesa in pessime condizioni, lasciando a terra un gran numero di ammalati, ed era entrata nel golfo di Lepanto, e che i pascià intendevano rimandare a casa almeno le galere più malconce. Il Venier non pensava che avrebbero combattuto, ma proprio per questo insisteva che bisognava inseguirli, se necessario fino a Negroponte, approfittandone per fare quelle «honorate imprese» che si sarebbero offerte all’occasione, e per mandare soccorsi a Famagosta; giacché nessuno sapeva ancora che quasi due mesi prima la fortezza aveva capitolato3.

Nel frattempo erano arrivate le galere che avevano caricato a Taranto e Otranto le ultime compagnie del tercio di Napoli e la milizia pugliese4, e la flotta si preparò a ripartire. Il 28 settembre don Juan salpò da Corfù col grosso delle galere e andò a dar fondo al porto della Molina, verso l’estremità meridionale dell’isola. Il Venier e il Colonna rimasero indietro fino al mattino dopo, per caricare picche e polvere dai ben forniti magazzini della fortezza, e soprattutto per stivare sulle galeazze 6000 staia di grano che i generali veneziani, se si fosse presentata l’occasione, volevano portare a Famagosta. Il 30 settembre la flotta, di nuovo riunita, approfittò dello scirocco e attraversò lo stretto braccio di mare che separa l’isola di Corfù dalla terraferma epirota; siccome però il vento si faceva pericoloso, venne deciso di attraccare nel ben riparato porto di Igumenitza. Benché non ci fossero bastioni né artiglieria a difendere la città, si trattava pur sempre di terra ottomana; un po’ di cavalleria turca si fece vedere sulla spiaggia, e i comandanti cristiani provarono l’emozione di sbarcare per la prima volta sul suolo nemico5.

Intanto l’infaticabile Gil de Andrade aveva toccato Zante e Cefalonia, dove lo informarono che la flotta nemica era a Lepanto, e che pochi giorni prima erano passate al largo dell’isola almeno sessanta galere, trascinando al rimorchio due navi da carico. Si trattava di Uluç Alì, che andava a Modone a caricare uomini e vettovaglie, ma le voci riferite all’Andrade erano discordi quanto alla sua destinazione. Secondo alcuni andava a Costantinopoli per portare al sultano il bottino delle scorrerie di quell’estate; secondo altri era diretto a Tunisi, carico di vettovaglie requisite nel Peloponneso; secondo altri ancora, portava a Corone gli ammalati della flotta, per sbarcarli lì e reclutare gente fresca. Quest’ultima versione era la più vicina alla verità e anche Gil de Andrade la ritenne più probabile, ma valutò comunque che se i cristiani si fossero mossi in fretta, avrebbero potuto attaccare il nemico prima che Uluç Alì fosse di ritorno. Perciò spedì subito una fregata per riferire la notizia, e si spinse in esplorazione fino all’imboccatura del golfo di Lepanto; lì, però, scoprì che i castelli costruiti dai turchi sulle due sponde dello stretto impedivano l’accesso alle acque interne. Per un po’ rimase a incrociare nella zona, per sorvegliare ulteriori movimenti del nemico; ma la sua presenza venne notata, il mare cominciò a popolarsi di vele, e il commendatore pensò bene di andarsene di lì prima di cadere in trappola.

Il 1° ottobre Gil de Andrade raggiunse don Juan a Igumenitza, e le notizie che aveva portato vennero discusse in consiglio. Tutti conclusero che le due navi al rimorchio dovevano essere la Moceniga e la Costantina, catturate in precedenza dal nemico, e adesso cariche di malati. La convinzione che Uluç Alì non fosse diretto semplicemente a Modone o a Corone, da dove avrebbe potuto tornare a Lepanto in pochi giorni, ma avesse fatto tappa lì prima di proseguire per altra destinazione ignota accrebbe il desiderio di andare avanti, per affrontare una flotta nemica ormai così ridotta di numero: i comandanti cristiani furono d’accordo che appena le condizioni del tempo lo avessero consentito, la flotta sarebbe uscita in mare, diretta alla bocca del golfo di Lepanto, per provocare il nemico a battaglia6.

Intanto, però, il maltempo continuava, e bisognò fermarsi tre giorni a Igumenitza. Ogni giorno i galeotti scendevano a terra per far acqua e legna, scortati da squadre di archibugieri. Uno di quei forzati era il toscano Aurelio Scetti, che eccezionalmente sapeva leggere e scrivere, perché era un musicista condannato alla galera per aver assassinato la moglie. I turchi – riferisce in un suo memoriale –, anche se non avevano potuto impedire alle galere di entrare in porto, non erano mai molto lontani, e scendere a terra era pericoloso. Don Juan dovette rimanere «sempre con li speroni delle galere volti in terra, perché nel far acqua venivano a esser noiati assai da cavalli e fanteria nemica, e Don Giovanni voleva posser difendersi con l’artiglierie». I soldati di scorta sostenevano continue scaramucce, e diversi spagnoli vennero catturati dalla cavalleria albanese e trascinati via. Per rappresaglia i cristiani misero a terra un maggior numero di soldati e bruciarono i casali dei dintorni, sperando di scoraggiare gli abitanti dal dare manforte ai turchi7.

Per impiegare utilmente il tempo, don Juan decise di ispezionare le galere in assetto di guerra, con tutti i soldati ai posti di combattimento e montando le pavesate, cioè le paratie di legno che proteggevano rematori e archibugieri. Il principe visitò la maggior parte delle galere, e mandò altri, fra cui il Requesens e il Doria, a ispezionare le rimanenti. Il caso, o la malizia, volle che al genovese toccasse di visitare la Capitana del Venier e altre galere veneziane. Ma l’antica ostilità tra le due città marinare era ancora così viva che nessuno dei sopracomiti veneziani accettò di far salire Gian Andrea sulla propria galera, meno che mai il suo collega, il generale da mar. Nel suo rapporto al doge, il Venier rievoca l’episodio con l’abituale sarcasmo: il 2 ottobre – scrive – «fu un altro poco di trattenimento. Venne Andrea Doria a vedere come era in ordine la mia galea, et anco le altre. Mi riscaldai alquanto, che uno Andrea Doria volesse venire a vedere come era ad ordine la galea di un generale di Vostra Serenità», tanto più che in occasione dell’ispezione precedente l’aveva veduta don Juan, e l’aveva elogiata. Il Venier sostiene che alla fine permise al Doria di salire sulla Capitana; secondo il Sereno, invece, per calmare gli animi l’ispezione fu affidata al Comendador mayor, che i veneziani lasciarono salire senza obiezioni8.

Ma mentre i soldati prendevano posizione sulle balestriere, le strette piattaforme collocate fra i banchi, su ognuna delle quali dovevano trovar posto e dormire due o tre uomini con i loro fagotti e le loro armi, nacque un litigio fra il sopracomito d’una galera di Candia e il capitano Muzio Alticozzi da Cortona, che comandava una compagnia italiana al soldo del re di Spagna. Il Venier, informato di quel che accadeva, mandò un ufficiale per ordinare al capitano di trasferirsi in un’altra galera, ma costui rispose che non era lì per prendere ordini dai veneziani; dopodiché si passò alle bastonate, e finalmente a un combattimento in piena regola con spade e archibugi. Il resoconto che il generale veneziano fece dell’incidente qualche tempo dopo è così grafico che vale la pena di riportarlo direttamente:

Quel giorno verso le xxii hore venne differenza tra Andrea Calergi sopracomito et il capitano Mutio per l’accommodar delli soldati sopra le balestriere. Mandai il mio comito con uno compagno di stendardo per veder di accommodarli. Questo bravo con alcuni suoi, dette parole vergognose et villanie al mio comito, messe mano alle armi, et buttato il compagno di stendardo in balanza li diedero delle bastonate. Mandai il mio armiraglio9 con tre compagni a chiamare il capitano chel venisse a parlarmi; esso et alcuni suoi messero mano alle arme et schioppi, et diedero con un quadretto [dardo di balestra] nella spalla all’armiraglio, et li abrugiorono la vesta. A tutti li tre compagni diedero delle ferite; a Giacomo Furlan passorono il corpo per un fianco, et di là a pochi dì morite.

In una lettera scritta a caldo il Venier precisa anche quali furono le villanie pronunciate dall’Alticozzi: «sbiri venetiani becchi fotuti [...]. Non son obligato obedir venetiani bechi fotuti». Il generale mandò un’altra galera in soccorso, ma il capitano rifiutò di arrendersi, e il Venier dovette intervenire personalmente, e far prendere d’assalto il vascello.

Non volsero mai rendersi fino che ’l capitano fu quasi morto, et li altri feriti. Presi che furono, et formato il processo, vedendo che ogni giorno venivano fatte diverse insolentie, et amazzati delli miei huomini in galea, che fu morto da un soldato spagnuolo un huomo della Sebenzana, et da un altro un altro galeotto, et quel giorno furono tirate due archibusate nella mia galea [...] pensando che se andassi così dietro, mi haveriano anco potuto tuor le galee, mi parse farli appiccare.

È probabile che il vecchio generale fosse davvero esasperato dall’insolenza delle truppe regie imbarcate sulle sue galere, e dai continui incidenti che provocavano, al punto di temere seriamente che gli spagnoli volessero impadronirsi dei suoi vascelli con la forza. È anche possibile che l’Alticozzi, una volta sguainate le armi, fosse troppo spaventato per arrendersi, perché il Venier era temutissimo per la sua severità, e da poco aveva fatto impiccare un soldato per una parola irrispettosa. Fatto sta che la decisione, presa così a freddo, di impiccare gli ammutinati e soprattutto il capitano, già «mezzo morto» per le ferite, senza informare don Juan e senza considerare che si trattava di gente al servizio del re di Spagna rischiò di provocare una catastrofe. Prima della partenza da Messina, infatti, il principe aveva chiarito che la giurisdizione sui fanti del re imbarcati sulle galere veneziane restava a lui, e il Venier lo sapeva benissimo, tant’è che se n’era lamentato col suo governo, per cui il suo comportamento ebbe tutto il sapore d’una provocazione.

Informato dell’ammutinamento, don Juan mandò subito un giudice ad aprire un’inchiesta; ma quando costui arrivò, vide penzolare dall’antenna della Capitana veneziana i corpi del capitano Alticozzi, di un caporale e di due soldati. Usurpando la giurisdizione di don Juan, il Venier lo aveva insultato mortalmente: furibondo, il principe chiamò a consulto sulla Real tutti i suoi consiglieri spagnoli e Marcantonio Colonna. Su undici presenti, otto, come lo stesso don Juan raccontò in seguito, consigliarono di mandare una ventina di galere ad accerchiare la Capitana del Venier, «per prenderlo et impiccarlo immediatamente ad una antenna». Il principe non sarebbe forse arrivato a tanto, ma fece sapere che sulla flotta della Lega lui era l’autorità suprema, e aveva «autorità in castigar anco li generali, et che voleva castigarli». Esterrefatto a sentir parlare di castigo, il Venier si preparò al peggio: i veneziani armarono gli equipaggi e caricarono i cannoni delle galere, attendendo da un momento all’altro l’attacco.

Toccò ancora una volta al Colonna, con la sua consumata abilità diplomatica, mediare fra le parti. Convocato da don Juan non come capitano generale del papa, ma come vassallo del re Filippo, prese la parola per ultimo, e disse che non avrebbe espresso il suo parere se prima non parlava col provveditore Barbarigo, il secondo in comando della flotta veneziana. Marcantonio lasciò la Real che era già buio, «et così come io cercava il Barbarigo, esso cercava me, inteso il caso, ed insieme ce ne andammo nella mia galera». Lì, lontano da orecchie indiscrete, il Colonna si tolse qualche sassolino dalla scarpa. Il Venier aveva fatto per tutta la vita l’avvocato; da quando era stato nominato generale, questa era la prima occasione in cui la sua sapienza di giurista avrebbe potuto tornargli utile: possibile che non se ne fosse servito, «in un fatto tanto importante d’usurpar l’altrui giurisditione»? Ora, però, non si trattava di recriminare ma di ricucire la situazione. Il Barbarigo riconobbe che il Venier aveva sbagliato, e che per il momento non si poteva pensare di farlo incontrare con don Juan: perciò i due decisero che alle riunioni del consiglio, in rappresentanza della flotta veneziana, sarebbe andato il solo Barbarigo.

Il fatto che il generale in capo della Serenissima fosse escluso dalle deliberazioni rappresentava un’umiliazione così cocente che Marcantonio, tornato alla Real, riuscì a convincere il giovane principe a considerarsi soddisfatto. Don Juan fece certamente uno sforzo enorme: in seguito ebbe a dire che vincere se stesso, in quell’occasione, era stato altrettanto faticoso che vincere i turchi. L’incidente provocò tale costernazione a bordo della flotta che il Caetani, nel riferirlo il giorno dopo a suo zio il cardinale di Sermoneta, lo descrisse usando un cifrario segreto. L’intera spedizione aveva rischiato di andare a monte, e il Colonna e il Barbarigo passarono tutta la notte in bianco nel tentativo di mediare; per fortuna, don Juan teneva troppo all’impresa, e la lucidità prevalse sul punto d’onore. La faccenda, però, non rimase senza strascichi: don Juan dichiarò che il Venier non doveva mai più comparirgli davanti, e scrisse a Venezia pregando la Signoria di castigarlo; il Colonna si persuase definitivamente che il Venier era «un uomo stravagantissimo», e si augurò di non dover mai più dividere il comando con lui. Da parte sua, il Venier preferì minimizzare: «parmi che non potendo far altro habbia detto non voler più parlarmi [...]. Credo che gli passarà questa fantasia»10.

In questa occasione si manifestò la lungimiranza con cui la Signoria, dopo aver affidato il generalato all’irascibile Venier, gli aveva messo al fianco il Barbarigo. Gli altri comandanti della flotta cristiana si erano subito resi conto dei motivi di quell’affiancamento, e avevano apprezzato il nuovo venuto: «in vero mi pare una persona molto intelligente et capace, et senza il quale il generale non fa né credo possi fare cosa alcuna», commentava il Provana. I motivi li aveva capiti anche il Venier, e non ne era affatto contento, come traspare chiaramente dall’ironia di tutti i suoi riferimenti al «clarissimo Barbarigo». I rapporti fra i due erano così cattivi che fin dall’estate si scriveva apertamente del loro «odio e disparere». Stavolta, però, fu la presenza del provveditore che permise di raddrizzare la situazione ed evitare la catastrofe11.

L’indomani, 3 ottobre, il tempo consentì di ripartire. Per attraversare il braccio di mare da Igumenitza a Cefalonia il principe volle assumere la formazione di battaglia. Le galere dovevano procedere affiancate in un’unica linea, «recta et non curvata», suddivise in tre squadre, formate mescolando le galere veneziane e quelle del re (evidentemente, don Juan aveva poi deciso di non seguire i consigli di don Garcia a proposito dell’avanguardia). Quelle della squadra centrale, o “battaglia reale”, dove si trovavano la Real, le due Capitane del Venier e del Colonna e le Capitane di Savoia e di Malta, portavano come insegna una bandiera azzurra; quelle del “corno destro”, al comando di Gian Andrea Doria, una bandiera verde; quelle del “corno sinistro”, al comando del Barbarigo, una bandiera gialla. Il numero di galere assegnate a ciascuna squadra varia a seconda delle fonti, ma dovevano essere poco più di sessanta per il centro, e poco più di cinquanta per ciascuno dei due “corni”. Le galere rimanenti erano contrassegnate da una bandiera bianca; 30 costituivano la riserva o “soccorso”, al comando del marchese di Santa Cruz, e 8 erano distaccate in avanguardia al comando di Juan de Cardona: dovevano precedere l’armata di 20 o 25 miglia, portando con sé «due veloci fregatine», per comunicare al più presto qualunque novità. Quanto alle galeazze, al momento della battaglia dovevano essere rimorchiate davanti allo schieramento, a un miglio l’una dall’altra, così da coprire l’intero, vastissimo fronte12.

Ora che ci si trovava in acque nemiche don Juan, messo in allarme dall’incidente dell’Alticozzi, cominciò a preoccuparsi seriamente della disciplina a bordo. Fin dalla partenza da Messina, gli archibugieri non avevano fatto altro che sparare in aria per festeggiare ogni ingresso in porto e ogni incontro con galere amiche; i ripetuti divieti erano rimasti inascoltati, e più di una volta c’era scappato il morto. Alla partenza da Igumenitza il principe, irritato anche per l’assurdo spreco di polvere da sparo, decise di punire con la pena capitale non soltanto quei soldati che fossero stati sorpresi a sparare in aria, ma anche il comandante della galera su cui erano imbarcati, e questa drastica disposizione mise fine al problema13.

Il viaggio verso Cefalonia fu tutt’altro che tranquillo, benché il mare fosse in bonaccia. Don Juan teneva enormemente al fatto che la flotta mantenesse l’ordine di battaglia, nel timore d’un incontro improvviso col nemico; tanto che ogni venti galere aveva nominato un capitano coll’incarico di sorvegliare lo schieramento e costringere tutti i vascelli a rispettare l’ordine stabilito. All’inizio di un combattimento era abitudine ammainare le vele e procedere soltanto a remi, perché così le galere risultavano molto più manovrabili: don Juan proibì di far vela fin dalla partenza, e così le galere fecero tutto il viaggio a remi, benché quel giorno ci fosse il vento in poppa. Quanto a lui, s’imbarcò su una fregata, passando in rassegna lo schieramento e correggendo gli errori; e tuttavia si accorse che parecchie galere disobbedivano lo stesso, non tenendo la posizione assegnata.

Furibondo, don Juan mandò gli aguzzini a bordo delle galere colpevoli, coll’ordine di dare dei tratti di corda, per punizione, ai comiti, cioè i secondi di bordo, responsabili della manovra. Mettere alla tortura per così poco i capitani, che erano dei gentiluomini, non era pensabile, ma i comiti erano soltanto dei marinai che avevano fatto carriera, e l’opinione comune li considerava «furfantissimi». Benché fra le galere colpevoli di indisciplina ce ne fossero anche di spagnole, gli aguzzini arrestarono e misero alla tortura soltanto i comiti di tre galere veneziane. Un imbarazzato Colonna, nel riferire l’accaduto al doge dopo Lepanto, assicurò che era stato un errore degli esecutori, dovuto a eccesso di zelo, «et come sa Vostra Serenità simil generatione doveva pensarsi di far cosa grata a Sua Altezza, alla quale dispiacque, et mi disse che non si faria più».

Quale che sia la verità, i veneziani, dopo l’incidente dell’Alticozzi, preferirono digerire questo insulto e starsene zitti. Il Venier, nel suo rapporto, si sfogherà protestando contro l’incompetenza di don Juan, che s’era fissato di voler procedere a remi, sicché «con vento prospero et piacevole, calassimo le vele, et a remi tutta la notte», arrivando a Cefalonia con le ciurme «ruinate». Il Venier aveva i suoi motivi per masticare amaro, ma va detto che anche il Caetani lascia trasparire un certo fastidio per questa ostinazione del comandante in capo, che si risolse in una gran perdita di tempo, «sebbene avevamo buonissimo tempo e vento in poppa, ed avriamo potuto fare gran cammino». La gente a bordo non si capacitava di quei ritardi, e arrivava addirittura a sospettare il comando di tradimento: «si mormorava di nuovo per l’armata, che ciò era per dar tempo a’ nimici, perché se n’andassero», e dato quel che sappiamo sull’intesa segreta fra i consiglieri di don Juan, è difficile dar torto ai mormoratori14.

La flotta entrò dunque in Porto Fiscardo a Cefalonia, quel 4 ottobre, piuttosto di cattivo umore, e non lo migliorò certo l’arrivo di una fregata da Zante, con lettere di Marino di Cavalli provveditore di Candia, che informavano della caduta di Famagosta. L’origine della notizia era ancora una volta la relazione spedita da Lala Mustafà ai pascià della flotta, caduta nelle mani dei veneziani dopo che l’equipaggio della fusta che la portava aveva deciso di disertare ed era arrivato a Creta. La notizia, disastrosa in sé, era resa più sinistra dal tradimento, confessato dallo stesso Mustafà: per cui i turchi, «invece di mantenere gli accordi presi con quelli di dentro, li avevano sgozzati tutti». Per i cristiani era il primo avviso del disastro, avvenuto ormai quasi due mesi prima, e il morale dei veneziani precipitò ancora più in basso: «oltra lo sdegno del perdere del tempo et del danno dei galeotti», come scrisse il Venier, avevano perduto la speranza di poter recuperare il regno di Cipro15.

Il vento sfavorevole impedì alla flotta di lasciare le acque di Cefalonia per altri tre giorni, dal 4 al 6 ottobre; e furono, tanto per cambiare, giorni di discussioni e di malumori. Il Venier, escluso per i suoi peccati dal consiglio di guerra, era costretto ad accontentarsi di quello che gli raccontava la sera il Barbarigo, e schiumava di rabbia. Nella prima riunione riemersero fra gli spagnoli i soliti dubbi: non era meglio andare ad attaccare una qualche base nemica, l’isola di Santa Maura o la baia di Navarino, anziché ostinarsi a cercare la battaglia con un avversario che forse non sarebbe mai uscito dalla sua ben protetta base di Lepanto? Barbarigo riuscì a ottenere che il 5 la flotta lasciasse Porto Fiscardo, che si trova sull’estremità settentrionale dell’isola, ma al Venier anche questa parve una burla: «per andare valorosamente et presto, andassimo in Val d’Alessandria, dodici miglia più avanti», e lì «per un poco di vento contrario» si gettò l’ancora; il vento, secondo lui, cadde subito, ma la flotta ripartì solo verso sera, fece cento metri e si fermò di nuovo per la notte. Come se non bastasse, il Barbarigo quella sera informò il Venier che gli altri si facevano beffe dei veneziani, e non credevano alla loro conclamata volontà di combattere: «mi riferì che dicevano, che noi non volevimo combattere, ma che fingevimo».

La verità è che il vento, come riferiscono concordemente tutte le fonti, era davvero contrario, e che alla battaglia, ormai, non credeva più nessuno. Il Diedo, che interrogò molti veneziani presenti sulla flotta, confessa che «di combattere e di vincere l’armata nimica [...] non vi era per avventura niuno che lo credesse», e anzi pochi speravano anche solo di riuscire ad avvistarla di lontano, perché erano tutti sicuri che non sarebbe uscita dal porto16. Gli incessanti avvisi che ribadivano la debolezza dei turchi sembravano confermare che ben difficilmente i pascià avrebbero accettato la battaglia. Il provveditore di Zante si era dato da fare per raccogliere informazioni, aveva mandato una pattuglia sulla terraferma e catturato un prigioniero, che spedì al Venier con la stessa fregata che portava le lettere da Candia. Dall’uomo, un albanese cristiano, si apprese che la flotta nemica stava a Lepanto in cattive condizioni, che Uluç Alì era partito per l’Algeria con due navi e circa 50 vele fra galere e fuste, che sulla flotta l’epidemia continuava a fare strage, e che il nemico non sapeva nemmeno che la flotta cristiana stava venendo a offrire la battaglia: «della nostra armata non sapevano nissuna nuova e credevano fosse ita in Barberia»17.

Questi stessi avvisi, però, rendevano imbarazzante rinunciare all’offensiva. Il Venier schiumava: «la Christianità perderà la più bella occasione del mondo». A malincuore, gli altri generali ammisero che in quelle condizioni non si poteva decorosamente tornare indietro; non subito, almeno. Il Barbarigo implorò di spingersi fino al golfo di Lepanto, e garantì che se il nemico non veniva fuori, anche i veneziani avrebbero accettato di lasciar perdere. Il Colonna concordò che per salvare la faccia bisognava almeno andare «a presentar la battaglia» davanti al nemico; sarebbero stati i turchi a disonorarsi, se non fossero usciti, «e pur potremo dir d’aver vinto». Don Juan, che non aveva perso la speranza di coprirsi di gloria, accettò questo compromesso.

All’imbocco del golfo di Lepanto c’era un denso arcipelago di isolette rocciose, le Echinadi, che i veneziani chiamavano le Curzolari, e in faccia ad esse, sulla costa dell’Acarnania, un porto naturale, Petalà: il consiglio decise che la flotta avrebbe dato alla fonda in quel porto, mandando una ricognizione fino ai castelli che chiudevano l’ingresso del golfo, per vedere se la flotta nemica era davvero ancora lì, e se si riusciva ad attirarla fuori. Qualcuno suggerì che si sarebbe potuto mettere a terra l’«artiglieria grossa» presa a Corfù, e assediare i castelli, così che i nemici «fossero sforzati a salir fuori». In pochi ci credevano, ma come osserva ancora il Diedo, bisognava pure «mostrar di far qualche cosa», per non essere poi troppo criticati al ritorno in patria. La sera di sabato 6 ottobre il vento cadde, e i piloti giudicarono possibile uscire in mare, per cui al calar della notte la flotta salpò in formazione di battaglia e mise la barra a Levante, verso Lepanto18.

Se la notizia della partenza di Uluç Alì con un gran numero di galere era fuorviante, l’idea che i turchi fossero ignari del pericolo che correvano era del tutto infondata. Giorno dopo giorno, i pascià erano tenuti al corrente dei movimenti della flotta cristiana dal corsaro Kara Hogia, che con la sua galeotta continuava ad aggirarsi non visto nei pressi del nemico. Quello che più di tutto gli premeva era di contare le galere cristiane; ma non era così facile, dato l’immenso affollamento del mare, e la necessità di non farsi scoprire. Il 30 settembre, mentre la flotta attraversava lo stretto braccio di mare fra Corfù e Igumenitza, Kara Hogia riuscì a contare 150 o 160 galere, e trasmise questa stima difettosa. Quando i difensori albanesi di Igumenitza catturarono dei soldati spagnoli, il corsaro li prese in consegna e li spedì a Lepanto perché fossero interrogati. Il caso volle che i disgraziati sapessero delle 40 galere mandate in Puglia a caricare fanteria, ma non le avevano vedute tornare. Sapevano anche che le galeazze e le navi da trasporto non erano ancora arrivate, perciò riferirono concordemente che la flotta cristiana, in quel momento, aveva proprio la forza calcolata da Kara Hogia19.

Ma la notte fra il 5 e il 6, dopo che la flotta si fu trasferita dal Porto Fiscardo a quello di Val d’Alessandria, Kara Hogia entrò un’altra volta in rada senza che nessuno lo scoprisse (a quanto pare, i corsari musulmani erano in grado di compiere imprese spericolate che dall’altra parte non risulta siano mai state emulate). Contando i vascelli all’ancora, si accorse che erano molti di più di quel che aveva creduto, e tornò in gran fretta a Lepanto a riferire che il nemico aveva duecento galere20. I pascià riunirono i sangiacchi e i corsari più famosi, e tennero consiglio per decidere il da farsi. Questo consiglio fatale venne ricostruito nei mesi seguenti dagli storici italiani, che interrogarono i superstiti della flotta sconfitta: il Contarini prese informazioni «da alcuni Christiani ch’erano schiavi in catena nelle galee nimiche liberati nella vittoria», e «da dui secretari turchi fatti prigioni», che avevano partecipato al consiglio in cui i due pascià, «in essecutione della volontà del loro Gran Signore, deliberorno di uscir a combattere»; il Diedo si basò sull’interrogatorio dei «principali turchi fatti schiavi» alla battaglia, in particolare Mehmet bey, sangiacco di Negroponte, e il corsaro Giaur Alì. Il consiglio venne anche rievocato dai cronisti turchi del secolo successivo, ed è notevole che i loro resoconti e quelli degli italiani siano sostanzialmente simili.

Tutti concordano che il serdar, Perteu pascià, comandante delle truppe imbarcate e massima autorità presente in quanto membro del divan, era contrario alla battaglia, perché la flotta era troppo debole. Alì kapudan pascià, invece, voleva combattere e ricordò gli ordini del sultano in termini perentori: «Non c’è prima di tutto lo zelo per la religione e l’onore del Padiscià? Che importa se mancano cinque o dieci uomini per galera?». Inevitabilmente, il consiglio di guerra si divise. Secondo i cronisti italiani, Hasan Barbarossa, figlio del famoso Hayreddin, sostenne che avevano abbastanza forze per combattere; furono d’accordo con lui Uluç Alì e Kaya Beg, sangiacco di Smirne. Consigliarono la prudenza Shuluq Mehmet, sangiacco di Alessandria, e Mehmet bey, sangiacco di Negroponte – anche se bisogna ricordare che la ricostruzione si basa soprattutto sulla testimonianza di quest’ultimo, resa quando la faccenda era già finita molto male e la maggior parte degli altri intervenuti al consiglio di guerra erano morti. Secondo i cronisti turchi, invece, fu Uluç Alì ad opporsi alla battaglia, argomentando anche lui che dopo sei mesi di operazioni i vascelli erano in condizioni troppo cattive per combattere; ma in questo caso va ricordato che quando quei cronisti scrivevano, il vecchio rinnegato calabrese era ormai un personaggio leggendario, e di gran lunga il più ammirato fra tutti i protagonisti della vicenda, per cui appare logico che col senno di poi gli sia stata attribuita l’opinione più ragionevole.

Ma il kapudan pascià insisté che bisognava approfittare dell’occasione per attaccare la flotta cristiana mentre non era ancora stata raggiunta dalle navi da trasporto cariche di soldati, a cui lo scirocco impediva di scendere verso sud. In ogni caso l’ultimo ordine ricevuto da Costantinopoli, quello datato 19 agosto, era esplicito: «se c’è qualche movimento da parte del nemico e se sopraggiunge la sua flotta», il sultano ordinava di far fronte ai cristiani e sconfiggerli. Tutti sapevano che quando quell’ordine era stato formulato la situazione era diversa, la stagione meno avanzata, la flotta in condizioni migliori; ma è molto difficile per dei militari decidere autonomamente di disobbedire agli ordini solo perché la situazione è cambiata. Alla fine Alì ottenne quello che voleva, e il consiglio decise che il giorno stesso la flotta sarebbe uscita dal golfo in ordine di battaglia, per andare incontro al nemico21.

A partire dalla sera del 6 la battaglia di Lepanto divenne inevitabile, anche se nessuno dei due avversari poteva ancora averne la certezza. I primi a capirlo furono i turchi, perché dopo il tramonto l’infaticabile Kara Hogia si spinse oltre le Curzolari: «e perché la notte era la luna chiarissima vidde l’armata». Tornato indietro, raggiunse le galere dei pascià e portò la notizia che il nemico era già vicino alle isole: non era ancora l’alba. L’avanguardia della flotta cristiana al comando di don Juan de Cardona si diresse verso la costa ed entrò nella baia di Petalà, dove si pensava che il grosso avrebbe fatto scalo; giunto lì, il Cardona mandò a dire che la via era libera, e spedì una delle sue galere in ricognizione oltre le Curzolari in direzione di Lepanto. La galera, navigando fra quella moltitudine di isolette disabitate che chiudevano l’orizzonte, non si accorse che poco più in là cominciavano ad apparire le vele dei turchi, e riferì che il mare era sgombro, per cui all’alba della domenica i comandanti cristiani erano ancora ignari della vicinanza del nemico.

La flotta aveva proceduto tutta la notte a remi, con il cielo sereno e il mare in bonaccia. Sulla Capitana di Savoia, poco dopo la partenza da Cefalonia, il pilota indicò al Provana l’isola che stavano costeggiando e gli spiegò che «anticamente si diceva Ythaca, patria del famoso Ulisse». Poi anche Itaca rimase indietro, e alla luce della luna si cominciarono a intravedere a prua gli scogli delle Curzolari. Come molti altri, il Provana era persuaso che si stava andando a fare semplicemente una “bravata”, e che ben difficilmente i turchi si sarebbero lasciati tirar fuori dal golfo. Ma il rischio d’imbattersi senza preavviso nel nemico era ben presente a don Juan: per non farsi scoprire, vietò di accendere il fuoco nelle cucine delle galere, e più tardi don Lope de Figueroa, comandante del tercio di Granada, gli ricordò il banchetto a base di biscotto che avevano fatto quella notte22.

Mentre la flotta si inoltrava nei canali fra le isole, mantenendo con gran fatica la divisione in squadre, l’orizzonte si schiarì e le vedette sulle coffe delle galere cominciarono a segnalare le prime vele. Erano così lontane che nessuno poteva essere sicuro del loro significato, ma gli avvistamenti si moltiplicavano, e fra le galere dei generali correvano le fregate per notificarli. Don Juan ordinò che i marinai più esperti salissero sull’albero, e finalmente non ci fu più dubbio: quella che riempiva lo stretto orizzonte tra la costa dell’Etolia e il Peloponneso era l’intera flotta nemica. Anziché gettare l’ancora nell’arcipelago, e attendere notizie da Juan de Cardona per poi mettere la barra verso Petalà, come aveva pensato di fare, don Juan fece sparare un colpo di cannone, e ordinò di issare verticalmente il più possibile l’antenna dell’albero maestro della Real, con un capo rivolto verso il cielo – manovra che i marinai veneziani chiamavano “far cicogna” – innalzando a quell’estremità una bandiera verde quadrata: era il segnale concordato perché la flotta si schierasse in ordine di battaglia. Il pilota più esperto della flotta, Cecco Pisano, s’imbarcò su una fregata e partì a gran velocità per andare a contare le galere nemiche; don Juan salì su un’altra fregata e passò da una galera all’altra, mettendo fretta ai capitani, esortando i soldati a battersi bene, e garantendo che la vittoria era sicura. Secondo il Venier, il principe si fermò anche alla poppa della sua galera, «et mi disse: che si combatta? Io: è necessità, et non si può far di manco»23.