29. Dove sulle due flotte s’innalzano gli stendardi, si prega, si suona e si balla; i cristiani sferrano i galeotti, e chi può cerca di manovrare per portarsi in posizione favorevole. Poi l’artiglieria apre il fuoco, e si vede subito che i cristiani ne hanno molta di più
Mentre il sole sorgeva dietro le montagne dell’Etolia, le due flotte si avvicinavano l’una all’altra, ormai in piena vista. I cristiani avanzavano a remi, alla velocità di tre o quattro nodi: l’unica che potevano raggiungere senza mettere sotto sforzo le ciurme, simile a quella di un uomo che cammina di buon passo. I turchi, con un po’ di vento a favore, avevano alzato le vele di trinchetto, le più rapide da ammainare al momento dello scontro, e quindi si avvicinavano più in fretta1.
Fra i comandanti cristiani la scoperta che il nemico era uscito in mare, e che era così numeroso, provocò un istante di sconcerto. Alla fin fine – constatò il Provana – s’era visto che «non bisognavano molte cerimonie per tirar li Turchi alla battaglia», e quanto alla notizia che Uluç Alì se n’era andato con un gran numero di galere, la quantità di vele che riempiva l’imboccatura del golfo di Patrasso era più che sufficiente per smentirla. Insomma, le cose erano «molto diverse da quello che si era presuposto». Quel che è peggio, attraversando l’arcipelago delle Curzolari la flotta cristiana si era disordinata e divisa, e aveva bisogno di tempo per uscire in mare aperto e schierarsi in ordine di battaglia. Gian Andrea Doria con le galere del corno destro uscì per primo dal varco fra le Curzolari e la terraferma e si allargò verso il mare aperto, lasciando appena spazio sufficiente fra due galere «sicché i remi dell’una potessero batter nell’acqua senza toccar quelli dell’altra»; i vascelli del centro si allargarono allo stesso modo verso destra, mentre quelli del corno sinistro al comando del Barbarigo sfilavano più disordinatamente lungo la costa, in attesa di avere anch’essi spazio per allargarsi. Le galeazze vennero faticosamente rimorchiate in prima linea, secondo il piano prestabilito da tempo, e si mandarono fregate al marchese di Santa Cruz e al Cardona perché si affrettassero a raggiungere il grosso della flotta2.
La velocità con cui i turchi si avvicinavano fece temere che potessero arrivare a tiro prima che la formazione della flotta cristiana fosse completata. Per fortuna, osserva il Provana, «l’armata nimica era tanto lontana ancora et intenta parimente a mettersi in battaglia, che ne diede tempo di poterlo fare». Ma la maggior parte dei testimoni dà molta più importanza al fatto che all’improvviso il vento cadde, e sul mare regnò una bonaccia del tutto insolita in una stagione così avanzata. I turchi furono costretti ad ammainare e procedere anch’essi a remi, lasciando il tempo alla flotta di don Juan per completare, bene o male, la sua formazione. I piloti affermarono che era un miracolo, perché in quella zona di solito al mattino il vento, anziché calare, si rafforzava, e i cristiani ricordarono quell’improvvisa bonaccia come il primo segno sicuro che Dio stava dalla loro parte3.
Che cosa pensassero i comandanti ottomani, e quali ordini trasmettessero alle loro galere, non è facile saperlo con certezza, ma Lala Mehmet, a cui gli spagnoli dopo la cattura chiesero «se avevano mostrato allegria o scontento quando scoprirono la flotta», assicurò che tutti si rallegrarono, perché erano sicuri della vittoria: quella flotta, disse, pensavano di averla già catturata. Secondo gli autori cristiani l’ultima ricognizione di Kara Hogia, compiuta quella notte stessa in mezzo all’arcipelago delle Curzolari, aveva di nuovo persuaso i pascià che dopo tutto la flotta nemica era inferiore alla loro, giacché il corsaro non aveva potuto vedere né le galere del Santa Cruz rimaste in retroguardia, né quelle del Cardona che s’erano fermate nel porto di Petalà. Anche il modo in cui la flotta cristiana si presentava, uscendo poco per volta dal varco e con le galere del Barbarigo in gran parte coperte dall’ultima delle Curzolari, chiamata lo scoglio di Villamarino, può aver incoraggiato questa impressione4.
In realtà, la flotta turca era più numerosa per la quantità delle vele, ma non per le galere, che erano di gran lunga i vascelli più importanti in combattimento (e su quest’ultimo punto possiamo fidarci di Gian Andrea Doria: secondo lui è «grandissimo l’avantaggio che fa una galera ad una galeotta per grande che sia, non solo per l’imperiosità del vassello, ma per l’artigliaria molta che porta l’una, pochissima l’altra»)5. La flotta di don Juan era salpata con 208 galere, ma fra la sosta a Corfù e quella a Igumenitza 4 erano state lasciate indietro perché facevano acqua o rimandate in Puglia con diverse missioni, trasferendo a bordo degli altri vascelli i soldati e la maggior parte delle ciurme. Ne rimanevano dunque 2046; più le 6 galeazze, che quanto a “imperiosità” e artiglieria valevano ciascuna ben più d’una galera sottile. Monsignor Odescalchi, che giunse a Napoli il 24 settembre dopo aver assistito alla partenza della flotta da Messina, riferì all’ambasciatore veneziano Buonrizzo che le galeazze destavano l’ammirazione generale: don Juan aveva detto che con altre sei così si sarebbe battuto contro tutta la flotta nemica, e voleva suggerire al re di costruirne dieci per la sua flotta; dello stesso parere era il famoso corsaro, il cavaliere di Malta Romegas7.
Calcolare quante galere avevano i comandanti musulmani non è facile, ma sommando le varie squadre partite quella primavera da Costantinopoli, su cui abbiamo gli avvisi dettagliati dei diplomatici e delle spie cristiane, e le guardie rimaste fuori durante l’inverno, si arriva a un totale di circa 200 o 205 galere. Il Ragazzoni, che aveva trascorso parte dell’estate nella capitale ottomana raccogliendo tutte le notizie possibili, al suo ritorno riferì che la flotta del sultano poteva disporre in tutto di «duecentodue galere armate, computate fra esse quindici in venti galeotte. Oltre le quali vi è Occhialì corsaro con venti fra galere e galeotte, e molti altri corsari, de’ quali non si può ben sapere il particolare»8. La squadra algerina di Uluç Alì contava effettivamente 7 galere e 12 galeotte; i corsari del Levante, che facevano capo a Kara Hogia, possono aver avuto qualche decina di galeotte e fuste, senza contare i legni più piccoli, ma erano stati in gran parte congedati dopo l’arrivo della flotta a Lepanto9.
Ma come si ricorderà, circa 20 galere vennero lasciate dal kapudan pascià a Cipro, agli ordini di Arap Ahmet, per le necessità dell’esercito di Mustafà, e almeno 20 andarono perdute per vari incidenti durante la campagna. Bisogna poi decidere, e non è facile, che conto fare della notizia che il Barbaro raccolse a Costantinopoli alla fine di ottobre, portata dai superstiti della battaglia, per cui ben 12 delle famose galere che erano state spedite a Modone e altre 15 che erano rimaste in porto a Lepanto a caricare uomini e biscotto non erano riuscite a raggiungere in tempo la flotta. Anche se scegliamo di ignorarla, come fanno tutti gli storici, è comunque escluso che i pascià potessero schierare più di 170 o 180 galere e 20 o 30 galeotte: molte meno, cioè, di quel che si afferma di solito, sulla scorta di cifre circolate dopo la battaglia ed evidentemente gonfiate10.
La cifra corrisponde, invece, abbastanza esattamente alle informazioni che i comandanti cristiani avevano ricevuto da ogni parte negli ultimi mesi. Alla fine di giugno si era saputo che «centosettanta galere del Turco» sbarcavano gente nella baia di Suda; il totale era di 250 vele, ma oltre alle galere comprendeva galeotte, fuste e brigantini, e in genere «molti legni piccioli». All’inizio di agosto uno schiavo fuggiasco riferì che la flotta contava «centottanta galere e cento altre vele, tra galeotte, bergantini, fuste, caramusali». Nel primo consiglio di guerra a Messina, Marcantonio Colonna osservò che il nemico aveva sì 250 vele, ma erano «in gran parte fuste e vascelli piccoli». Ai primi di settembre il provveditore da Canal affermò che quando il nemico aveva attaccato Candia le galere e le galeotte in grado di combattere erano in tutto 168, mentre il rinnegato giunto a Lecce riferì che il nemico aveva soltanto «centocinquanta galere ben armate e adatte a combattere. Il resto fino a 300 vele non sono molto ben armate; e fra quelle gran parte sono di corsari, piccole». Schiavi fuggiti a Lesina dopo l’incursione dei corsari riferirono che su circa 310 vele il pascià aveva «da 70 fanò benissimo in ordine, il restante di poca stima». Al momento dell’incursione a Corfù, gli isolani affermarono che i turchi avevano quasi trecento vele, di cui 190 galere, ma l’interrogatorio del rinnegato Baffo corresse al ribasso: c’erano sì quasi 300 vele, ma solo 160 erano galere, il resto galeotte, fuste e brigantini corsari. Alla fine di settembre Giambattista Contarini, a Zante, seppe che la flotta nemica era a Lepanto «al numero di 150 galee», mentre da 60 a 70 fra galere e galeotte erano andate a Modone11.
All’indomani della battaglia, le informazioni ottenute dai prigionieri e dagli schiavi liberati confermarono questa stima: il provveditore da Canal scrisse l’8 ottobre che la flotta nemica era composta «di galere ducento, et ottanta tra fregate et fuste», dove la cifra di 200 galere comprende evidentemente anche le galeotte. Ser Onfré Giustinian, che il Venier scelse per portare a Venezia l’annuncio della vittoria, fors’anche perché la sua galera si chiamava l’Arcangelo Gabriele, confermò che alla battaglia s’erano trovate «200 galere turchesche». Ma allora, come mai oggi tutti accreditano alla flotta del kapudan pascià una forza nettamente superiore? Il fatto è che nei giorni seguenti cominciarono a circolare cifre gonfiate, e si può capire che chi era a bordo della flotta vittoriosa ci abbia creduto volentieri, prendendoci anzi sempre più gusto col passare del tempo. Nella relazione inviata al re, don Juan dichiarò che la flotta turca contava 225 galere e 60 galeotte, ma in una lettera scritta un mese dopo la cifra era già salita a 248 galere e 48 galeotte!12
Contribuisce alla confusione anche la difformità della terminologia impiegata per indicare i vascelli nemici, in netto contrasto con quella usata per indicare i legni cristiani, dove si parla sempre e soltanto di galere, distinguendole molto nettamente da ogni altro tipo di imbarcazione. Non è chiaro se questo indichi che le galere ottomane erano più eterogenee per modello e misura, o non tradisca semplicemente una tendenza inconscia a computare nel totale della flotta nemica anche i vascelli minori, per enfatizzare ancor più la vittoria. Secondo il Provana, i marinai di vedetta contarono un totale di «dugento trenta vascelli grossi, cioè, duecento e tre galere, et vintisette galeotte grosse, senza una mobba di trenta a quaranta di questi zachali et vascelli minori». Il Foglietta riferisce di aver sentito da don Luis de Requesens, il quale lo aveva saputo direttamente «dal Cancellier del Granturco» catturato nella battaglia, che i «vasselli lunghi» erano 270, di cui 230 «galee di giusta grandezza». Secondo Sereno il pilota Cecco Pisano, mandato avanti da don Juan, tornò avendo contato 270 «vascelli grossi da combattere», ma non riferì la verità al principe per non demoralizzarlo, e la confidò solo al Colonna (una storia, a dire il vero, poco credibile). In confronto appare prudente la valutazione del Contarini, che ebbe l’onestà di abbandonare definizioni ambigue come «vascelli grossi» o «vasselli lunghi» e tornare a distinguere fra galere e galeotte: per lui, la flotta contava 200 galere, 50 galeotte e 20 fuste. Ma anche così è difficile capire da dove avrebbero potuto venir fuori tante galere, ed è più probabile che avesse invece ragione il cronista turco Selaniki, secondo cui la flotta sconfitta a Lepanto ne contava 18413.
Mentre le due flotte si avvicinavano, vennero innalzati gli stendardi di battaglia. Sulla galera di Alì issarono lo stendardo di cotone bianco proveniente dalla Mecca, che spettava al sultano in quanto erede dei califfi e Principe dei Credenti, e su cui era ricamato 28.900 volte a lettere dorate il nome di Dio. Uno spagnolo che lo vide dopo la battaglia osservò che «rispetto alla misura dei nostri non era molto grande», e che le lettere erano così piccole da leggersi a fatica. Accanto ad esso sventolava lo stendardo che il kapudan pascià inalberava uscendo da Costantinopoli e che veniva calato soltanto al suo rientro, di stoffa d’oro anch’essa ricoperta di iscrizioni religiose, sormontato da una mano d’argento dorato che simboleggiava l’autorità conferitagli dal sultano. Sulla Real innalzarono lo stendardo di damasco celeste della Lega, con il Cristo crocifisso e gli stemmi del re di Spagna, del papa e di Venezia; il Venier issò il gonfalone scarlatto e dorato col leone di San Marco, e il Colonna lo stendardo di generale del pontefice, di damasco rosso, col Crocifisso fra gli apostoli Pietro e Paolo, e il motto In hoc signo vinces. Ma oltre agli stendardi che simboleggiavano il comando e attiravano sui generali la protezione di Dio e dei santi, tutte le galere vennero pavesate a festa: su quelle cristiane fu «spiegata ogni altra sorte di bandiere, gagliardini, fiamole e insegne [...] per ornamento, giubilo, et a maggior animo d’ognuno», e i turchi risposero «spiegando anche essi gli superbi stendardi suoi, e sparse su per le loro galee infinita quantità di bandiere, come è loro costume»14.
L’innalzamento delle bandiere avveniva a suon di musica, «dato il segno di trombe, piffari, chiarelli, tamburi, et ogn’altra sorte di strumenti», soprattutto sulle galere capitane che portavano sempre «concerto di trombetti». Ma dopo che l’ultimo gagliardetto fu issato la musica non si spense: i tamburi e gli altri strumenti continuavano a dare il ritmo della voga, e accompagnavano le preghiere che da tutte le galere, musulmane e cristiane, si levavano a Dio per impetrare la vittoria. Sulle galere della Lega i cappellani imbarcati per volontà espressa del papa, cappuccini e gesuiti, percorrevano la corsia con i crocifissi in mano, benedicendo ed esortando, e molti patroni, gli ufficiali responsabili della ciurma, facevano lo stesso, mostrando il crocifisso ai loro uomini e persuadendoli che sotto la sua protezione sarebbero stati al sicuro. Don Juan, tornato a bordo della Real, esortò gli uomini a battersi bene e poi s’inginocchiò a pregare, e così fecero tutti, mentre i sacerdoti confessavano e assolvevano la folla in ginocchio. Ma l’eccitazione provocata dalla musica marziale era tale che il giovane principe non riuscì a star fermo a lungo. Come riferisce un testimone, «faccendo suonar le trombe a battaglia, era in sì ardente desiderio d’attaccar presto la zuffa, che tratto da giovanil ferocità fece suonar i pifferi, e sopra la rombata con due cavalieri ballò la gagliarda», a dimostrazione della propria vigoria fisica e in segno di suprema sprezzatura in faccia al nemico. Al suono delle trombe e dei tamburi, soldati e marinai cominciarono a gridare «vittoria e viva Jesu Cristo!». Sulle galere turche, nel frattempo, suonavano nacchere, pifferi e tamburi, e secondo i testimoni cristiani anche là la gente ballava; ma va da sé che lo facevano «come matti»15.
Accanto ai preparativi spirituali e psicologici si provvedeva a quelli materiali. Sulle galere della Lega si distribuì ai rematori un rancio sostanzioso e una gamella di vino, e vennero messi a disposizione in corsia pane, vino e formaggio, perché tutti potessero rifocillarsi nelle pause del combattimento; poi si provvide a chiudere a chiave le porte di tutti i locali sotto coperta, tranne la camera del comandante a poppa, tenuta sgombra per ricoverare i feriti, e quella del vano dove gli scrivani conservavano armi e munizioni. Tutto lo spazio possibile in coperta venne liberato per i soldati; «i nostri Christiani allegri cominciarono a nettar le coverte, levar le sbarre, spazzar le puppe» e schierare la fanteria armata di «archibugi, alabarde, mazze ferrate, picche, spade e spadoni», i bombardieri caricarono i pezzi con le palle di ferro o di pietra, ma anche con catene, rottami e pallini di piombo per le scariche a mitraglia, gli archibugi da posta vennero montati sui loro supporti. Almeno qualcuna delle galere cristiane alzò le vele di trinchetto, nonostante l’assenza di vento, per riparare gli uomini dalla pioggia di frecce che ci si aspettava16.
Avvicinandosi il momento dell’impatto, si provvide anche a liberare dai ferri tutti quei galeotti di cui ci si poteva fidare, perché partecipassero al combattimento. Sulle galere ponentine questo significava sferrare i buonavoglia, che di solito erano anch’essi in catene, e i forzati cristiani, lasciando ai ferri soltanto gli schiavi; sulle veneziane, dove i buonavoglia erano liberi e non c’erano schiavi se non quelli catturati nel corso della campagna, si trattò di liberare gli equipaggi delle poche galere sforzate. A quanto pare, a tutti venne promessa la libertà, e infatti il Venier dopo la battaglia cancellò ufficialmente le condanne e i debiti di tutti i forzati sulle galere della Repubblica. Via via che gli uomini ai banchi erano sferrati e provvisti di armi il ritmo della voga rallentava, ma non era un problema, perché i turchi si avvicinavano fin troppo velocemente, e a don Juan importava semmai ritardare il momento dello scontro, per permettere alle galere del “soccorso” e alle ultime galeazze di arrivare in posizione: poi, una volta impegnato il corpo a corpo, molte galere non si sarebbero più mosse fino alla fine dello scontro – quando i vincitori scoprirono di non poter inseguire i nemici superstiti, «per la molta gente da remo che si era tolta dalle catene per combattere»17.
Contrariamente a un immaginario diffuso, anche i turchi potevano armare la forsa, com’era chiamata la ciurma nella lingua franca in uso a bordo dei vascelli ottomani: giacché i rematori erano in gran parte coscritti, e solo qualche decina di galere – di solito, però, le migliori – e le galeotte e fuste dei corsari erano armate con schiavi. Qualche fonte conferma che i rais distribuirono armi ai rematori di leva: lo Scetti, forzato su una delle galere toscane – ma un forzato privilegiato che serviva da aiuto dello scrivano, e non era incatenato al remo – sentì dire che alcune delle galere nemiche «erano armate solo di omini di remo i quali doveano anco combattere», e perciò erano state messe in retroguardia. A Lepanto, però, dopo tutte le perdite che gli strapazzi della campagna e l’epidemia serpeggiante a bordo avevano provocato fra i galeotti, una percentuale molto più ampia del solito era composta dalle migliaia di schiavi presi nel corso dell’estate. Su tre galere catturate a Lepanto dalla galera spagnola Granada vennero liberati ben «duecentoventisette cristiani, e fra loro dieci sacerdoti, frati e chierici che erano prigionieri dei turchi e vogavano al remo», il che equivale a una metà della ciurma18.
Dall’una come dall’altra parte, gli schiavi dovevano rimanere incatenati ai banchi, e anzi accucciati sotto di essi non appena avessero smesso di vogare, per non intralciare il combattimento. Secondo una notizia ripresa da diversi autori cristiani, il kapudan pascià si rivolse in spagnolo agli schiavi della sua galera, ricordando che li aveva sempre trattati bene, ed esortandoli a fare il loro dovere: se avesse vinto, prometteva la libertà a tutti; se le cose fossero andate in un altro modo, sarebbe stato Dio a liberarli. Probabilmente è una storia apocrifa, ma ebbe successo: Alì era un nemico onorato, e don Juan, dopo la battaglia, si rattristò della sua morte, «intendendo da tutti i Christiani liberati dalla catena la bontà, et humanità di tal huomo, e principalmente verso Christiani; per la qual cagione egli era da gli schiavi più tosto amato, che temuto»19.
Complessivamente le due flotte ebbero a disposizione circa cinque ore per completare i preparativi, prima di arrivare a tiro di cannone: l’avvistamento era avvenuto allo spuntar del sole, intorno alle sette del mattino, ma la battaglia non cominciò se non verso mezzogiorno20. Ai cristiani il tempo bastò appena: soprattutto i testimoni veneziani affermano che al momento dell’impatto le galere non erano proprio nell’ordine previsto, e lo stesso Venier rimarca che quelle dello squadrone centrale non erano «ben in fila». Il rimorchio delle galeazze in prima linea, a un tiro di cannone dal grosso, riuscì appena in tempo, e anzi diverse testimonianze sostengono che le due galeazze assegnate all’ala destra non erano ancora in posizione al momento giusto, e almeno una delle due non ebbe alcun ruolo nel combattimento21. Non è nemmeno chiaro se tutte le galere riuscirono a prendere posto nello squadrone cui erano state destinate; le fonti, come al solito, danno cifre contraddittorie, ma alla fine, come previsto, la “battaglia” centrale capeggiata dalla Real risultò più numerosa, con oltre 60 galere, e le due ali più deboli, con poco più di 50 galere ciascuna. La riserva al comando del marchese di Santa Cruz, attesa da don Juan con crescente preoccupazione, apparve finalmente fra le Curzolari e cominciò a spiegarsi dietro il centro, e anche le galere del Cardona, uscite da porto Petalà, si affrettarono nella stessa direzione22.
Lo specchio di mare in cui stava per svolgersi la battaglia era molto diverso da come si presenta attualmente. I sedimenti accumulati nella foce del fiume Acheloo hanno fatto sì che alcune delle Curzolari siano oggi incorporate nella terraferma; solo nel 1971 una missione idrogeografica finanziata in occasione dell’anniversario della battaglia ha permesso di ricostruire la linea costiera così come si presentava all’epoca, assai più arretrata rispetto a quella attuale. La flotta cristiana che arrivava da Cefalonia, passando fra l’arcipelago e la costa là dove oggi c’è la terraferma, e quella musulmana che usciva dal golfo di Lepanto, costeggiando la riva settentrionale del Peloponneso, si affrontarono in uno spazio in gran parte chiuso: a occidente dalle isole di Cefalonia e Itaca, a nord e a est dall’isola di Santa Maura e dalla terraferma greca, a sud dalla costa peloponnesiaca e dall’isola di Zante. Al gusto già barocco del Sereno parve che quello spazio avesse la forma d’un teatro predisposto per lo scontro delle due flotte, «a guisa d’un’artificiosa Naumachia»23.
Questa conformazione determinò quel poco di manovra che le flotte riuscirono a compiere, anche se la maggioranza delle galere non poteva fare nient’altro che avanzare dritta contro il nemico. Dal lato di terra, tanto il comandante dell’ala sinistra cristiana, Agostino Barbarigo, quanto il bey di Alessandria, Shuluq Mehmet, che comandava l’ala destra ottomana, sapevano della presenza di pericolose secche, proprio in corrispondenza della foce dell’Acheloo, là dove i sedimenti depositati dal fiume stavano facendo salire il livello del fondale. Il Barbarigo decise di accostare a terra il più possibile per mettersi dietro le secche, che gli avrebbero fatto da scudo, costringendo le galere nemiche ad aggirarle per affrontarlo. Ma non aveva nessun pilota che conoscesse la profondità dell’acqua, e temendo di finire lui ad arenarsi non osò accostare a sufficienza. Alla fine fu un drappello di galere guidato da Shuluq Mehmet, i cui piloti conoscevano bene quelle acque, a incunearsi nelle secche e avvicinarsi di più alla terraferma; anche se non è detto che fosse un vantaggio, perché in quel modo era forte la tentazione per i suoi equipaggi di arenare le galere e salvarsi a terra, se le cose si fossero messe male. Il cronista turco Peçevi afferma che Uluç Alì chiese inutilmente al kapudan pascià di richiamare l’ala destra più al largo, e si strappò la barba, gridando che la flotta era comandata da incompetenti, e che gli uomini di mare che avevano imparato il mestiere da Barbarossa e Dragut non osavano alzare la voce24.
Gian Andrea Doria, alla guida del corno destro, era l’unico fra i comandanti cristiani ad avere la possibilità di manovrare, e decise di approfittarne fino in fondo. Si era già allargato tanto che le sue galere potevano schierarsi in un’unica fila, lasciando spazio a sufficienza per lo spiegamento della flotta, ma volle spingersi ancora più al largo, allontanandosi dallo squadrone centrale, e portando con sé una delle galeazze assegnate alla sua ala. Solo quando fu arrivato all’estremità dello schieramento nemico, che era più esteso di quello cristiano dato il gran numero di legni minori, il Doria interruppe il movimento e fece volgere le prue verso il nemico. Come mostrano i suoi movimenti successivi, l’ammiraglio genovese voleva innanzitutto impedire ai turchi di aggirarlo sospingendolo verso la terraferma, per mantenere la libertà d’azione garantita dal mare aperto, e se possibile aggirare lui stesso l’estremità della linea avversaria; questa manovra, tuttavia, era destinata a produrre conseguenze impreviste, perché al comando dell’ala sinistra turca schierata di fronte a Gian Andrea c’era un uomo di mare che ne sapeva anche più di lui, il vecchio calabrese Uluç Alì25.
Al centro dei due schieramenti, i generali non avevano spazio per manovrare; potevano solo tirare diritto. Da una parte e dall’altra il centro di gravità della linea era costituito dalla galera bastarda del comandante supremo, attorno a cui si affollavano quelle degli altri capi, tutte più grosse, meglio armate e con molta più gente a bordo rispetto alle galere ordinarie. Ben prima che le due flotte fossero a distanza utile per l’artiglieria, il kapudan pascià fece sparare un colpo a salve dal cannone di corsia della sua galera. Nonostante il frastuono delle trombe, dei tamburi e delle orazioni, il colpo venne sentito a bordo della Real, e tutti capirono – come infatti venne poi confermato dai prigionieri – che Alì segnalava la sua posizione a don Juan e lo sfidava a rispondergli. Il principe fece immediatamente sparare a palla il cannone di corsia della sua galera; il proiettile fu veduto inabissarsi in mare sollevando uno spruzzo, ma il nemico non se ne accorse, perché sparò un altro colpo a salve, cui don Juan rispose con un altro colpo a palla. A questo punto Alì deve aver individuato la Real, perché si vide la sua galera sopravanzare le altre e dirigersi verso di lei. Vogava a tale velocità che a bordo delle galere cristiane qualche gentiluomo imbevuto di romanzi cavallereschi pensò che stesse venendo a sfidare don Juan a singolar tenzone, e si dispiacque che la sfida non fosse accettata26.
Inaugurata dal colpo a salve di Alì e dalla risposta di don Juan, la battaglia si aprì con il fuoco massiccio e irregolare dell’artiglieria imbarcata, che riempì l’aria di rimbombo e la superficie del mare di spesso fumo nero. Superiore, ma non di molto, per il numero delle galere, la flotta cristiana era enormemente più forte quanto a potenza di fuoco: il Paruta elenca fra le cause della vittoria «la copia delle artiglierie, delle quali era meglio la nostra armata fornita che la nemica, e l’uso di esse migliore»27. In effetti gli inventari delle galere cristiane ci mettono sotto gli occhi un armamento che negli anni prima di Lepanto era divenuto sempre più poderoso, anche se variava moltissimo da una galera all’altra per il numero e il calibro dei pezzi28. Il pezzo principale su ogni galera era il cannone di corsia, posizionato al centro della prua: un mostro lungo oltre tre metri, pesante anche una trentina di quintali, che tirava palle di ferro da 20 fino a 50 libbre. Ai suoi lati, sulle galere ponentine c’erano due o tre coppie di pezzi di medio calibro: sacri o moiane, con palla di ferro da 8 o 12 libbre, e petriere, corte e dalla bocca larga, che sparavano palle di pietra o cartocci di mitraglia. Ad essi si aggiungevano 4, 8 o anche 12 smerigli e masculos da una libbra, montati su cavalletti girevoli, collocati soprattutto a poppa e nei due spazi liberi delle fiancate, dove si trovavano la cucina e la scialuppa. Le galere veneziane, che usavano una terminologia diversa, accanto al cannone di corsia portavano a volte due cannoni da 16, a volte due aspidi da 12 libbre, ma non era raro che facessero del tutto a meno di questi pezzi di calibro medio. In compenso portavano fino a 20 o 30 tra falconi, falconetti e petriere da 6 o 3 libbre, ed erano letteralmente irte di “moschetti da braga” e altri pezzetti girevoli: il Caetani notò che i vascelli veneziani erano eccezionali per «la quantità degli archibugi da posta che portano»29.
Le galere turche non avevano tenuto il passo con la crescita degli armamenti avvenuta negli ultimi decenni sulle galere cristiane, e portavano molti meno pezzi. «Hanno a prova un pezzo grosso d’artigliaria da 60, et doi altri minori alla banda; a puppa non tengono artigliaria d’alcuna sorte», scriveva nel 1558 il Michiel, e commentava sarcastico: «In questo modo sono armate le galere turchesche, le quali sono così temute da tutto il mondo». Nel 1560 Marino di Cavalli confermava: «Portano tre soli pezzi d’artiglieria; uno in corsia di venticinque a trenta di palla, gli altri due uno per banda posti a prua, da dieci ovvero da quindici». Potremmo pensare che nei dieci anni successivi le cose fossero cambiate, ma non pare che sia così. Nel 1570 il Barbaro avvertì che le galere sul punto di salpare per Cipro erano tutte «mal fornite d’artigliaria», e portavano soltanto due piccoli pezzi. Il marangone della Bonalda riferì che ogni galera aveva un pezzo da 30 e due da 6, «le fuste in corsia qualche pezzo da sei». Nella primavera del 1571 il Ragazzoni, che aveva veduto la flotta di Perteu all’ancora nel Corno d’oro, insisteva: «Non usano portare più di tre pezzi d’artiglieria per galera, e molte anche ne sono, che ne hanno un pezzo solo». Una spia del viceré di Napoli confermò che le galere salpate con il kapudan pascià «erano molto ben armatte» – il che nell’italiano del tempo significa che erano a pieno organico di rematori e soldati – «ma che de arteglieria non han più che 3 pezzi per una». Un viaggiatore francese che nel 1573, dopo la conclusione della pace, ebbe modo di vedere galere turche e veneziane le une accanto alle altre nella rada di Corfù osservò che le turche erano più imponenti, «meglio dipinte et indorate. Le venitiane però sono meglio armate et portano più artilaria»30.
Quando capita l’occasione di verificare l’armamento di uno specifico vascello ottomano, si scopre qualche pezzetto in più accanto ai tre principali, ma si tratta sempre di poca cosa. Le tre galere catturate a Lepanto dalla Granada avevano fra tutte 3 cannoni di corsia, 9 sacri, e 11 pezzi piccoli fra mezzi sacri e falconetti. Anche l’inventario complessivo del bottino redatto dopo Lepanto conferma che la dotazione di artiglieria era piuttosto scarsa. A bordo di 117 galere e 13 galeotte catturate c’erano 117 cannoni, a riprova che solo le galere portavano il pezzo pesante, e 273 altre bocche da fuoco: è evidente che i vascelli cristiani avevano a bordo un numero di pezzi enormemente maggiore, soprattutto di piccolo calibro31.
La flotta turca, insomma, si sarebbe trovata molto inferiore a quella cristiana, anche se a sparare fossero state soltanto le artiglierie imbarcate sulle galere sottili; ma a questo totale bisognava aggiungere l’artiglieria delle galeazze. La flotta di don Juan comprendeva solo 6 delle 11 galere da mercato che negli anni precedenti erano state trasformate all’Arsenale. Francesco Duodo, incaricato «di farle accomodar da guerra», aveva fatto in modo che potessero portare una gran quantità di soldati, marinai, galeotti e un gran numero di bocche da fuoco; la prima cosa si rivelò inutile data la penuria di uomini, ma la seconda risultò utilissima. A Lepanto le sei galere grosse, ancor sempre al comando del Duodo, portavano in tutto 12 fra colubrine e cannoni da 50 o da 60 libbre, e ben 89 altri pezzi grossi, da 14 fino a 30 libbre, oltre a 58 pezzi minori32. Con quest’aggiunta, il divario della potenza di fuoco diviene addirittura schiacciante: la flotta cristiana schierava circa 350 cannoni e colubrine di grosso e medio calibro, mentre il nemico non ne aveva più di 180. I pezzi di calibro inferiore, dal sacro e dall’aspide fino al falconetto, sui vascelli di don Juan dovevano essere almeno 2700, mentre i pascià non potevano averne neppure la metà; quanto ai vari smerigli, moschetti e archibugioni, il loro numero era incalcolabile, mentre i turchi praticamente non ne avevano33.
Se fosse meglio aprire il fuoco da lontano, oppure attendere di arrivare più vicini ai nemici, a rischio che questi sparassero per primi, era oggetto di acceso dibattito fra gli uomini di mare. Prima di partire da Messina don Juan aveva scritto a don Garcia de Toledo chiedendogli d’avvisarlo con urgenza a questo proposito, «perché essendo questione così importante, vedo qui pareri e opinioni differenti». Alcuni sostenevano che sparare il cannone di corsia provocava un tale impatto sul fragile scafo della galera, che chi sparava per primo rischiava di mettersi in confusione e restare più esposto alla salva avversaria; secondo altri, chi tirava dopo era accecato dal fumo, e doveva mettere in conto lo spavento della gente presa di mira dalla bordata avversaria. Don Garcia rispose che siccome in pratica i cannoni tiravano una volta sola, a causa della difficoltà di rimetterli in posizione e caricarli di nuovo sotto il fuoco, era meglio seguire il consiglio dei soldati esperti, per cui bisogna sparare l’archibugio così vicino al nemico che il sangue ti schizzi addosso: allo stesso modo «ho sempre sentito dire a tutti i capitani che sanno quel che dicono, che il rumore degli speroni che si rompono e il tuono dell’artiglieria dev’essere tutt’uno».
È improbabile che la risposta di don Garcia sia arrivata in tempo a Messina, ma le sue conclusioni erano condivise dalla maggioranza: il più noto teorico della guerra di galere, Pantero Pantera, giudica inutile imbarcare pezzi a gittata troppo lunga, il cui fuoco è per forza impreciso («come dall’esperienza continuamente si vede, che di molti pezzi che si scaricano da lontano, uno a pena, e per sorte colpisce»). Il Pantera era d’accordo con don Garcia anche nel farsi beffe di quelli che pensavano che una flotta, mentre si avvicina al nemico, «possa scaricar l’artiglieria due volte», una a distanza e un’altra al momento dell’urto. Secondo lui era un’illusione, e faceva sì che si sprecasse da lontano il primo tiro, che è sempre il migliore, «per essere stati caricati i pezzi commodamente, et con tutte le regole et osservationi dell’arte», mentre la seconda salva, ammesso che si faccia davvero in tempo a ricaricare, non sarà mai altrettanto efficace, «per la gran fretta che si ha di caricare i pezzi, et perché le genti son piene di sospensione per l’imminente battaglia».
Anche i turchi, per quanto ne sappiamo, erano d’accordo con questo principio. Marino di Cavalli sostiene che erano maestri nella pratica dei cannoni navali: «non li sparano mai se non d’appresso e con certezza di far gran danno; il che è benissimo fatto, perché il tirar lontano, massime in mare, non fa mai colpo, e consuma la munizione, mentre d’appresso un tiro solo che faccia botta dà la vittoria ad una galera, e rovina un’altra». Don Juan e i suoi consiglieri arrivarono alle stesse conclusioni: i comandanti delle galere ebbero ordine «di fare sparare quando conoscessero di poter far maggior danno, avvertendo di serbare due tiri almeno, per quando avessero da investire il nemico»34.
Entrambe le flotte condividevano dunque la dottrina per cui era meglio aspettare a sparare, usando l’artiglieria all’ultimo momento per spazzare la coperta della galera nemica, fracassando l’opera morta, ammazzando la gente e aprendo la strada all’arrembaggio, anziché cercare di aprire falle nell’opera viva, o di abbattere gli alberi e spezzare i remi col tiro da lontano. Ma i turchi, quando erano ancora lontani dalla linea della flotta nemica, si trovarono all’improvviso sotto il fuoco delle galeazze. È verosimile che questi vascelli di nuovo genere abbiano lasciato perplessi i comandanti ottomani, quando videro che venivano rimorchiati in prima linea; forse li scambiarono per navi da carico, che all’epoca erano munite di artiglieria, e in combattimento potevano fare la loro parte. Tutte le testimonianze confermano che le galere turche non cercarono di abbordare le galeazze, che del resto apparivano alte come «castelli in mare, da non esser da umana forza vinti», ma di sorpassarle al più presto per arrivare all’urto col grosso35. Se si fosse trattato di normali trasporti, la loro artiglieria avrebbe provocato un danno limitato, ma le galeazze erano irte di cannoni e colubrine, e avendo di fronte un bersaglio così imponente, che sbarrava l’intero orizzonte, aprirono il fuoco alla gittata massima di quei pezzi pesanti, che arrivava a più di un chilometro36.
Quasi tutte le testimonianze, italiane come spagnole, affermano che il danno provocato dall’artiglieria delle galeazze fu enorme, con diverse galere colate a picco, altre sconquassate, disalberate o immobilizzate; qualcuna prese fuoco e cominciò a bruciare, e l’intera flotta nemica, mentre vogava all’arrancata con «spaventosi gridi» per giungere a tiro, venne accecata dal fumo e gettata nella confusione37. I comandanti delle galere potevano essere incerti se avrebbero avuto il tempo di sparare più di una salva, ma quelli delle galeazze non avevano di questi dubbi. Più di tutti gli altri vascelli, le galeazze ebbero l’agio di ricaricare e sparare più e più volte i loro cannoni, che erano distribuiti a prua, a poppa e «a meza galia», per cui le galere turche continuarono a essere bersagliate, di fianco e poi anche alle spalle, fino al momento in cui giunsero a contatto con la linea nemica38.
Presi di mira a quel modo, i turchi, com’era inevitabile, risposero al fuoco, e spararono troppo presto. A bordo delle galere cristiane tutti notarono con entusiasmo che le palle si inabissavano in mare senza far danno, e gridarono al miracolo. Accadde così, ma a parti invertite, quel che aveva profetizzato Garcia de Toledo: «rispondendo a coloro che dicessero che sparare per primi causerà confusione ai nemici, dico che gli darà animo, se sparando noi per primi non si facesse effetto». Anche i rais si resero conto dell’inefficacia del loro fuoco, e ordinarono di tirare con maggior alzo, cosa che però era molto difficile da calcolare con precisione: quasi tutti esagerarono, e poiché nel frattempo anche i cristiani si stavano facendo sotto, le palle cominciarono a volare troppo alte. Gli autori veneziani, riflettendo su questa circostanza, giunsero alla conclusione che la colpa era della struttura delle galere turche, dalla prua sopraelevata, anche se è poco probabile che questa caratteristica fosse davvero un difetto, dato che era condivisa dalle galere ponentine. I cristiani, invece, scaricarono le loro artiglierie quando il nemico era ormai a pochi metri, e dunque ad alzo zero, investendo in pieno l’opera morta delle galere e spazzando i banchi e il ponte con la mitraglia, «e tutte le nostre botte fecero grandissimo danno».
Beninteso, questo quadro complessivo avrà avuto mille eccezioni. Una volta impegnato il combattimento, i generali non esercitavano più nessuna autorità al di là della loro galera e di quelle immediatamente vicine, e ogni capitano faceva da sé. I veneziani, da veri repubblicani poco abituati alla disciplina di chi serve un re, facevano così sempre: don Garcia de Toledo si meravigliava per «la confusione che c’è fra le galere dei veneziani nel navigare, e come ognuno di loro vuol essere in questo signore della sua galera». L’ordine di don Juan era di aspettare il più possibile prima di sparare, ma è probabile che sia stato rispettato con sempre minor zelo via via che ci si allontanava dal centro della linea. La relazione del segretario de Soto afferma che la Real e la galera del kapudan pascià spararono entrambe solo un istante prima di investirsi, e anche il Caetani sostiene che «i nostri cannoni non furono sparati se non dopo che fummo abbordati»; secondo i rapporti veneziani, invece, le artiglierie dei cristiani, prima «che le galee s’abbordassero insieme, furono scaricate due, tre, e chi cinque volte, e specialmente i canoni di corsia», e anche il genovese Foglietta afferma che mentre i turchi spararono una volta sola, e troppo alto, l’artiglieria cristiana sparò «cinque volte e più».
Il Foglietta aggiunge che se il fuoco dei cannoni cristiani fu così efficace, il merito era di Gian Andrea Doria, che prima della battaglia aveva consigliato di segare la punta rialzata dello sperone, per permettere di tirare più basso; un’affermazione che la storiografia ha volentieri frainteso, sostenendo, assurdamente, che dalle galere cristiane gli speroni fossero stati addirittura rimossi. Quanto ai turchi, secondo quasi tutti spararono troppo presto, ma qualcun altro afferma invece che attesero addirittura troppo, per la confusione e il panico in cui li aveva precipitati il fuoco delle galeazze, «in tanto che non potero dar fuogo a molti pezzi, che poi furono trovati essere ancora carichi». Quello che emerge con assoluta concordia da tutte le testimonianze è che l’artiglieria cristiana provocò gravi danni, e quella nemica no; come del resto potevamo attenderci, considerando l’enorme sproporzione nel numero dei pezzi, e il vantaggio insito nella collocazione avanzata delle galeazze. Al momento in cui le galere cominciarono a cozzare le une nelle altre, con gli speroni che si sfasciavano penetrando nelle fiancate, le speranze di vittoria per i turchi erano già compromesse39.