20. Dove gli spagnoli inventariano le loro galere, a Napoli e a Genova si bandiscono appalti e si ammassano rifornimenti, un ambasciatore impazzisce per lo stress, si recluta la fanteria che combatterà a Lepanto, e il granduca di Toscana manifesta strani timori

Ben prima che fosse firmato il trattato della Lega, il Re Cattolico e il papa avevano cominciato a organizzare la flotta che avrebbe dovuto unirsi ai veneziani per strappare al nemico il dominio del mare, ma le difficoltà erano enormi. Quando il cardinale di Granvelle annunciò al tavolo delle trattative che per quell’anno il re non avrebbe potuto mettere in mare più di 70 galere, i negoziatori veneziani reagirono con costernazione: eppure quella cifra rappresentava un notevole incremento rispetto alle 49 che il Doria aveva comandato l’anno precedente, e per tener fede alla promessa i regni di Filippo II dovettero farsi carico, nell’estate 1571, di uno sforzo senza precedenti.

L’intenzione del re era anzitutto di accrescere le squadre di Napoli e di Sicilia, che disponevano degli arsenali più vicini al legname delle foreste calabresi. Un programma di costruzioni per le due squadre era in corso da anni e già a gennaio gli ambasciatori alleati a Madrid vennero informati che il numero delle galere disponibili nei porti dell’Italia meridionale sarebbe certamente aumentato. All’inizio si puntò soprattutto a rafforzare la squadra di Sicilia, anche perché un rapporto desolante spedito dal viceré riferiva che su 12 scafi esistenti a Messina uno era inservibile e gli altri buoni soltanto «per far numero in caso di bisogno». Perciò venne accelerata la costruzione di 6 nuove galere; ma quasi subito si capì che l’arsenale messinese non sarebbe mai riuscito a completare il programma in tempo. Già a marzo le aspettative erano ridotte a una sola galera nuova, e in realtà neppure quella riuscì a partecipare alla battaglia di Lepanto. Un successo fu invece la consegna delle nuove galere per la squadra di Napoli, costruite per la maggior parte nell’arsenale partenopeo, ma anche a Genova e a Barcellona. Come osservò Gian Andrea Doria, rispetto al viceré di Sicilia quello di Napoli «ha sempre maggior commodità di ogni cosa per questo effetto d’armare galere»: ben 10 vennero varate in tempo per unirsi alla squadra del marchese di Santa Cruz nell’estate 1571. Fra tutt’e due, i regni italiani di Filippo II avrebbero fornito 40 galere alla flotta della Lega1.

Genova ne fornì in tutto 27, le stesse dell’anno precedente. Tre erano della Repubblica e l’ambasciatore spagnolo le ottenne con qualche difficoltà, perché i genovesi avrebbero preferito che restassero a guardia della Riviera e della Corsica; ma si consolarono pensando che al ritorno dalla campagna estiva avrebbero potuto caricare, come tutti gli anni, la seta di Messina. Altre undici appartenevano a Gian Andrea Doria, che però era deciso a venderle, convinto che i guadagni ottenuti appaltandole al re non valessero il capitale immobilizzato. Come scrisse il nunzio a Madrid, il Doria chiedeva «che il re compri le sue galere o vero glie le lassi vendere ad altri, perché ha molto debito, il cui interesse lo rovina, et per questa via ne vorrebbe uscire».

Per tutto l’inverno nelle capitali cristiane si cercò di prevedere come sarebbe andato a finire questo negoziato, ma solo a maggio il rey prudente sciolse la riserva e dichiarò che avrebbe acquistato le galere, purché Gian Andrea rimanesse al suo servizio. La fedeltà con cui il Doria lo aveva servito l’anno prima, mettendo a repentaglio la propria reputazione pur di eseguire i suoi ordini segreti, aveva convinto il re che quello era un uomo troppo prezioso per perderlo. Nominandolo capitano generale d’una squadra di 20 galere, gli diede la precedenza sui comandanti delle squadre di Spagna, Napoli e Sicilia, «con parole di molta laude et di molto honor suo, chiamandolo ‘illustre’», e toccando così una corda decisiva nell’animo di Gian Andrea, che la sua autobiografia rivela sensibile alle questioni d’onore e di etichetta in misura esagerata perfino per quell’epoca2.

Filippo II sarebbe stato molto contento se avesse potuto calcolare nella sua quota anche le quattro galere dell’Ordine di Malta, tre delle quali erano state regalate da lui ai cavalieri, per rimpiazzare quelle catturate da Uluç Alì al largo della Sicilia l’anno precedente. Ma il papa si dimostrò irremovibile: poiché si trattava di un ordine religioso, le galere di Malta dovevano unirsi alla sua squadra e non a quella del re, e i cavalieri, che temevano la sua ira, erano decisi ad accontentarlo. Lo Zúñiga, che parlò di questa faccenda con Pio V subito dopo la firma della Lega, e dunque in un momento in cui il papa avrebbe dovuto essere particolarmente ben disposto, lo trovò al contrario irremovibile: su quel punto non ragionava, e bastava accennargliene per metterlo in collera. Se i cavalieri gli disobbedivano, proseguì Zúñiga, c’era addirittura il rischio che il papa decidesse di abolire il loro ordine; perciò il re, che li amava tanto, non poteva fare altro che rassegnarsi. Alla fine i cavalieri di Malta offrirono al papa «di seguitare l’armata come venturieri e senza stipendio a divozione sua», sacrificando il profitto alla politica3.

Raschiando il fondo del barile, il re pensò di procurarsi il servizio delle galere del duca di Savoia. Padrone dei porti di Nizza e Villafranca, Emanuele Filiberto teneva a far sventolare la sua bandiera sul mare, e negli anni aveva fabbricato o comperato parecchie galere, anche se di rado riusciva a tenerne in navigazione più di tre. Allo scoppio della guerra di Cipro aveva in servizio una Capitana nuova fiammante, da venticinque banchi, fabbricata a Villafranca, e due galere ormai vecchie, la Piemontesa e la Margarita, tutte prese in gestione con un contratto di asiento dal capitano generale Andrea Provana di Leynì. I marinai erano reclutati sulla costa ligure; i rematori erano quasi tutti schiavi turchi sulla Capitana, in maggioranza forzati sulle altre due. Emanuele Filiberto faceva di tutto per procurarsi nuovi forzati, comprandoli se necessario all’estero, e commutando alla galera le pene di tutti i condannati che risultavano abili al remo («di quei due sodomitti», scrisse una volta al Provana, «se valessero puoco o niente per servire nelle gallere, li puotrete far brugiare come ci scrivete; ma se si trovassero assai buoni, visto il gran bisogno che habbiamo di forzati, si puotranno ritenere con fargli tagliar naso et orecchie»).

Nei periodi di inattività il duca non disdegnava di usare le sue galere come pegno per ottenere prestiti dai banchieri genovesi, che per uno di quei vascelli armato di tutto punto erano disposti a tirar fuori anche 9000 scudi; ma ogni volta che la flotta spagnola era stata impegnata in operazioni importanti contro i turchi o i barbareschi Filippo II le aveva prese al suo soldo, sicché non mancavano di esperienza. Anzi, l’ambasciatore veneziano Morosini le giudicava «tra le migliori di ponente»: le aveva viste navigare insieme a quelle di Gian Andrea Doria e staccarle in velocità. Il segreto era l’eccezionale densità di rematori, che erano quattro per banco sulle due galere più vecchie e addirittura cinque sulla Capitana, e l’ottimo nutrimento che ricevevano: infatti il duca, avendo così poche galere, poteva permettersi di dar da mangiare ai suoi galeotti meglio degli altri principi. Scoppiata la guerra di Cipro, il governo veneziano si offrì di prenderle in affitto, e l’affare era quasi concluso quando l’ambasciatore spagnolo a Torino ebbe ordine di rilanciare. Il Provana, entusiasta «di dover andare a una così gran guerra», partì senza che fosse ben chiaro se le sue tre galere dovevano essere contate in forza alla squadra veneziana o a quella spagnola; alla fine, Emanuele Filiberto restò sulle spese, ma il vantaggio politico d’aver partecipato alla grande impresa lo ricompensò del sacrificio4.

Così si arrivava a gran fatica alle 70 galere promesse dal Granvelle; ma siccome il re aveva imposto che il comando della flotta cristiana spettasse al suo giovanissimo fratellastro don Juan de Austria era ovvio che stavolta, diversamente dall’anno precedente, anche alcune galere della guardia di Spagna avrebbero partecipato all’impresa. La rivolta dei moriscos in Andalusia era stata finalmente sedata, grazie agli spietati rastrellamenti e alla deportazione in massa delle popolazioni, e non c’era più bisogno che le circa 25 galere disponibili restassero tutte a pattugliare le coste iberiche. Qualcuna, però, doveva rimanere, e per molti mesi gli ambasciatori italiani cercarono di capire quante sarebbero partite: a gennaio il Donà si rallegrò sentendo dire a Gian Andrea Doria che se ne potevano mandare in Levante almeno la metà, «ritenendone solamente dieci o dodeci per questa custodia»; a marzo il nunzio Castagna scrisse a Roma che gli spagnoli volevano «lassarne circa dieci in questi mari di Spagna»; a giugno il Donà si disperò apprendendo che se ne volevano lasciare indietro addirittura diciotto.

Il governo spagnolo, diviso fra queste esigenze contrastanti, pensò di armare qualche nuova galera, e ordinò di mettere in mare sette o otto degli scafi conservati in secca nell’Arsenale di Barcellona, ma le difficoltà si rivelarono insormontabili. Il denaro era il problema minore: in Catalogna non ce n’era, ma il viceré ebbe ordine di utilizzare 50 o 60.000 ducati di valori di contrabbando che si trovavano sotto sequestro nella dogana. Più grave era il problema degli equipaggiamenti, gli “armeggi”, come si diceva nel gergo marinaro: non c’erano remi, né alberi, né antenne, non solo per armare nuove galere, ma neppure per tenere in mare quelle già esistenti. «Di tutte queste galee di Spagna si dice che non ci sono qui remi se non per dodeci», riferiva costernato il Donà. Quel che è peggio, la desertificazione della Spagna e la distruzione delle sue foreste erano arrivate a tal punto che non era possibile fabbricare sul posto nessuno di quegli equipaggiamenti: tutto doveva essere comperato in Provenza o fatto arrivare da Napoli. Alla fine solo l’arrivo, atteso con ansia, di una nave napoletana con un carico di remi consentì alle galere di don Juan di affrontare la traversata fino a Messina.

Ma la difficoltà decisiva che impedì l’ampliamento della squadra spagnola fu ancora una volta la mancanza di rematori. Eppure all’inizio c’era ottimismo: le prigioni erano piene di forzati a cui si potevano aggiungere, per completare le ciurme, i moriscos catturati in Andalusia. Ma nelle galere che avevano fatto la spola tutto l’inverno per trasferire i deportati scoppiò l’epidemia, e i galeotti cominciarono a morire. Alla fine di marzo il Donà riferì che la mortalità era quasi cessata, ma era stata sufficiente per sconvolgere tutti i piani. Per un po’ si accarezzò l’idea di mettere al remo i moriscos “di pace”, cioè appunto quelli che avevano accettato la resa ed erano stati deportati, ma alla fine Filippo II diede retta alla sua coscienza e stabilì di non violare i patti. Gli ammiragli si rassegnarono facilmente, perché avevano già constatato che i moriscos catturati in guerra e incatenati sulle galere «fanno una malissima prova [...] et vogliono piuttosto morir di battiture che patir la fatiga del remo». Il risultato, però, fu che alla fine soltanto 14 galere di Spagna si unirono alla flotta alleata5.

Come si vede, Filippo II si sarebbe trovato in grave imbarazzo se avesse dovuto mettere in mare le 100 galere previste dal trattato. Ma dopo che fu riuscito a imporre una riduzione diventò ottimista, e addirittura disposto a largheggiare. Il 12 aprile scriveva ai commissari a Roma: «Le settanta o ottanta galere che si dice che devo armare si metteranno in ordine e si armeranno, e si farà tutto lo sforzo possibile perché siano pronte al tempo che si dice o poco dopo». Il re voleva che ogni vascello avesse 164 rematori, 50 marinai e 150 soldati, e molti di più sulle galere di fanale, dov’erano imbarcati i comandanti di squadra: certamente i veneziani avrebbero fatto lo stesso, aggiunse perfidamente. Il 20 giugno, inviando istruzioni a don Juan che si trovava allora a Barcellona, affermò senz’altro di essersi impegnato per 80 galere, e tornò a ordinare che si armassero due o tre degli scafi che c’erano lì: anche se si era fatto il conto di tutte le galere già in mare e pareva proprio che si arrivasse a ottanta, «è bene che si sappia che da parte mia non ho armato soltanto il numero di galere a cui sono obbligato, ma ancora di più». Di suo pugno Filippo aggiunse che comunque il fratello non doveva dilazionare la partenza per questo: «perché importava di più la rapidità che non la mancanza di due o tre galere»6.

A Napoli i preparativi per la grande spedizione erano in corso da mesi. Già sotto Natale Alvise Buonrizzo, che dopo il suo ritorno da Costantinopoli era stato nominato incaricato d’affari presso il viceré, scriveva che il marchese di Santa Cruz era impegnato «a vuotar d’huomini tutte queste pregioni», per fornire rematori alle galere in costruzione. Ai primi di marzo, quando si seppe che don Juan sarebbe venuto a prendere il comando della flotta, il duca d’Alcalá pubblicò un bando per la fornitura di 22.000 quintali di biscotto e 2000 botti di vino, oltre a riso e legumi. Gran parte del biscotto doveva essere fabbricato in Puglia, granaio del regno, e il viceré noleggiò due navi per trasportarlo a Napoli dai porti di Brindisi e Taranto; per fortuna il raccolto del 1571 si preannunciava abbondante. Sicuro di fare bella figura, il duca d’Alcalá ordinò l’acquisto di una partita di seta per rivestire a nuovo i rematori della galera di don Juan, ma all’inizio di aprile morì improvvisamente, e già il 22 di quel mese giunse a Napoli il cardinale di Granvelle, che in caso di necessità aveva ordine di subentrare al governo del regno senza attendere istruzioni dalla Spagna.

Fin dai primi giorni il nuovo viceré si sforzò di arruolare rematori per la flotta, e poiché non si presentava nessuno, pubblicò un bando che garantiva impunità per i banditi e immunità per gli incensurati che avessero accettato di arruolarsi; ma l’orrore dei napoletani per il servizio in galera era tale che gli uffici di arruolamento restavano deserti. Il problema – osservava il Buonrizzo – era che la grazia per i banditi escludeva gli assassini di strada, e costoro in quel paese erano la maggioranza dei condannati; in generale, poi, la gente non si fidava dei bandi e temeva, una volta entrata in galera, di non uscirne più. Il Granvelle, perplesso, ordinò ai baroni e agli ufficiali regi di mandare a Napoli tutti i condannati a morte o alla prigione, e intanto s’impegnò in compiti meno irrealizzabili, ordinando altre forniture di biscotto, riso, fave, carni salate e tonno, nonché corsaletti, picche e archibugi per la fanteria.

Si calcolava che la flotta avrebbe avuto bisogno di 24 navi da trasporto, e i viceré di Napoli e di Sicilia ricevettero l’ordine di requisire tutte quelle su cui potevano mettere le mani. Granvelle cominciò sequestrando per il servizio del re alcune navi ragusee, e alla fine di maggio estese la misura a tutte le navi che si trovavano nel porto di Napoli, vietando ai capitani di partire e ordinando di versare come garanzia una cauzione, oppure, in alternativa, di consegnare le vele. Ma se la guerra era una rovina per i mercanti, produttori e appaltatori trionfavano: ogni giorno il viceré bandiva gare d’appalto per derrate di tutti i generi, dal vino ai salumi, dal piombo ai cordami, e pareva che non ce ne fosse mai abbastanza7.

Per quanto indaffarata, Napoli non era comunque il centro più importante dei preparativi per la grande offensiva. Formalmente indipendente, Genova era il più grande porto e la più ricca piazza finanziaria dell’impero spagnolo, e lì venne concentrata la maggior parte dei preparativi. Oltre alle due galere che si fabbricavano nell’Arsenale per la sua squadra, il viceré di Napoli ordinò a Genova tele e cordami, e firmò contratti con i mastri fonditori genovesi ordinando artiglieria per le altre 8 galere nuove. Il governo di Madrid stabilì di fabbricare a Genova 1000 quintali di polvere da sparo, che le galere di don Juan avrebbero caricato al passaggio. Ma a Genova e alla Spezia doveva affluire anche la fanteria che si stava reclutando in Germania e in Italia per servire a bordo delle galere: 6000 fanti tedeschi e 2000 italiani, che all’arrivo dovevano trovare tre mesi di paga anticipata e vettovaglie per almeno due settimane. Anche le navi da trasporto dovevano essere reperite a Genova, se non fossero state sufficienti quelle sequestrate dai viceré nei porti del Mezzogiorno.

L’ambasciatore spagnolo, Mendoza, che aveva sostituito da poco il de Silva, si trovò talmente schiacciato da tutta questa responsabilità che ebbe un attacco di follia. Il 27 aprile il suo segretario Miguel de Oviedo scrisse preoccupato al re per avvertirlo che l’ambasciatore per la troppa fatica «da qualche giorno ha delle fantasie pericolose». Il 3 maggio informò che il Mendoza aveva perduto il senno, «e i medici dicono che non gli tornerà interamente per qualche giorno». In realtà non si riprese più: a giugno Gian Andrea Doria, appena arrivato a Genova dopo essere rimasto tutto l’inverno alla corte di Spagna, scrisse al re che il Mendoza dopo un breve miglioramento aveva avuto una ricaduta. Era la grande occasione di Oviedo, che venne incaricato di sostituire l’ambasciatore e si assunse bravamente l’enorme lavoro che aveva fatto impazzire il suo padrone. Scrisse al duca di Alburquerque, viceré di Milano, chiedendo il denaro per acquistare le vettovaglie e pagare le truppe, e resse il colpo quando il duca gli rispose seccamente che secondo gli accordi presi col Mendoza il denaro dovevano procurarselo loro a Genova; anzi, era meglio che trovassero anche il modo di pagare la polvere da sparo e gli archibugi commissionati agli armaioli milanesi, che essendo destinati alla flotta non potevano gravare sul bilancio di Milano.

L’Oviedo si diede da fare e il 13 maggio poté scrivere al re che le vettovaglie erano già nei magazzini; aver provveduto con tanto anticipo gli aveva permesso di risparmiare quasi un terzo della spesa, «perché come hanno saputo che deve venire questa gente sono cresciuti i prezzi di tutte le cose in questa città e nella sua riviera». Intanto scriveva alla Repubblica di Lucca, preoccupata alla notizia che si reclutavano tanti tedeschi, garantendole che sarebbero stati impiegati sulla flotta della Lega e non per qualche conquista in Toscana; firmava un contratto con un “polvorista” per 50 quintali di polvere da archibugio; notava con soddisfazione che anche il console veneziano aveva cominciato ad acquistare munizioni e vettovaglie, pagandole molto più care di quanto non le avesse pagate lui; cercava di tener buoni i banchieri genovesi che gli avevano anticipato il denaro, assicurando loro che con le galere di don Juan sarebbero arrivati i contanti per saldare il debito.

Mentre l’alta pressione estiva prendeva lentamente possesso del Mediterraneo, il segretario Oviedo divenne il perno intorno a cui ruotavano tutti i preparativi per la colossale spedizione. Il Granvelle gli ordinò di fabbricare tutta la polvere possibile per le galere napoletane; Oviedo calcolava di averne 150 quintali entro la fine di giugno. Il re gli scrisse approvando tutto quello che aveva fatto e confermando che con le galere di don Juan sarebbe arrivato il denaro, ma bisognava cercare di non spenderlo subito, perché sarebbe tornato utile durante la campagna. Perciò l’Oviedo, appoggiandosi sull’autorità del viceré di Milano, doveva fare tutto il possibile per non pagare i debiti, e limitare i prelevamenti di contante. L’artiglieria fabbricata per le galere di Napoli si poteva pagare, ma solo dopo averla provata; il marchese di Santa Cruz stava venendo a Genova con le sue galere per caricarla, ma mancavano le palle di cannone e Oviedo doveva occuparsi anche di questo. Il 1° luglio il segretario scrisse al re di aver fatto provare i pezzi per le 8 galere: due sacri, pezzi di piccolo calibro, erano esplosi, e il fabbricante li avrebbe rifusi a sue spese. Il giorno dopo arrivò una richiesta urgente di don Juan, che a Barcellona aveva trovato meno biscotto di quello che gli serviva, per cui ordinava di fabbricarne a Genova 4000 quintali. Oviedo si rivolse alla ditta Lomellini, che s’impegnò a produrne 200 quintali al giorno: era poco, e Gian Andrea Doria dovette mettere in moto le sue conoscenze per trovare altro grano.

Appena affrontato un problema se ne presentava un altro, e c’è da stupirsi che in quei primi giorni di luglio, mentre si attendeva da un momento all’altro l’arrivo di don Juan, il segretario Oviedo non sia impazzito anche lui. Il duca di Alburquerque scrisse da Milano che i tedeschi in arrivo non erano più 6000, ma 7100 e che bisognava ammassare vettovaglie sufficienti per tutti. Il provveditore generale Francisco de Ibarra, spedito apposta da Milano coll’incarico di tenere la contabilità della spedizione, informò l’Oviedo che secondo i suoi calcoli solo 4000 di quei fanti avrebbero trovato posto nelle galere; per gli altri bisognava procurare delle navi da trasporto, e poiché alle navi per salpare occorrevano vettovaglie per 30 giorni, le scorte accumulate fino a quel momento con tanto sforzo erano del tutto insufficienti. Oviedo incontrò gli armatori e li convinse a mettere a disposizione 5 navi, benché al momento non avesse neanche un soldo per pagarle. Facendosi prestare il denaro riuscì ad anticipare alle ciurme mezza paga, e scrisse al re che era una gran fortuna che se ne fossero accontentate, «perché siccome questa è una città libera, non si può comandare come si fa in quelle di Vostra Maestà»8.

Il reclutamento e il trasporto della fanteria da imbarcare sulle galere rappresentarono uno sforzo amministrativo e umano colossale. Marcantonio Barbaro riteneva che la facilità di arruolare soldati fosse un grande vantaggio che i principi cristiani avevano sul sultano, il quale regnava su paesi poco popolosi e comunque abitati in gran parte da cristiani. Reclutando, per principio, soltanto musulmani, al Gran Signore capitava spesso di non riuscire a radunare in tempi brevi la gente che gli serviva; «cosa che a’ principi delle nostre parti non può succeder così facilmente, per la comodità che hanno di paesi popolatissimi, e di gente usata alle armi e bellicosa, e che, toccando il tamburo, corre da ogni parte alla guerra». Ma tutte le testimonianze indicano che nel 1571, dopo l’esperienza infelice dell’anno precedente, arruolare fanteria per le galere del re non era più così facile. «Da tutte le parti e in tutta Italia si fanno dei capitani», scriveva il Rambouillet, «ma temo che ne abbiano più che dei soldati, perché oltre che l’Italia ne è abbastanza mal provvista, quelli che sono entrati l’anno scorso al servizio di questa guerra sono stati così maltrattati che ne disgustano tutto il mondo». L’esperto Gabrio Serbelloni, comandante dell’artiglieria della Lega, si stupiva che si potesse ancora reclutare gente nella Penisola, giacché calcolava, esagerando, «che da tre anni in qua sono usciti d’Italia più di settecento mila fanti, ed il fiore, e poi morti quasi tutti»9.

A Napoli il viceré conferì al colonnello Tiberio Brancaccio una condotta per 800 fanti da imbarcare sulle galere di don Juan; peccato che l’anno prima il Brancaccio avesse arruolato 1000 soldati i quali, contrariamente alle promesse, erano stati mandati alla Goletta, da dove ne erano tornati pochissimi, sicché stavolta nessuno voleva più servire sotto di lui. Il duca d’Alcalá pubblicò un bando che proibiva ai regnicoli di arruolarsi all’estero, temendo che i reclutatori dei veneziani o del papa offrissero condizioni più allettanti: il figlio del duca d’Atri aveva accettato una condotta da Venezia e aveva fatto uscire dal regno in segreto molti uomini, e il viceré non intendeva permettere che fatti simili si ripetessero. Bene o male il Brancaccio riuscì a reclutare le sue quattro compagnie e a imbarcarle sui trasporti alla fonda nel porto di Napoli, ma all’improvviso si sparse la voce che li avrebbero portati alla Goletta e la maggior parte dei soldati disertò.

A maggio arrivò da Madrid la commissione per altri tre militari, il conte di Sarno, Paolo Sforza e Sigismondo Gonzaga, incaricati di reclutare 2000 fanti ciascuno, ma il Granvelle non aveva denaro e senza il consueto anticipo i colonnelli non volevano cominciare a far battere il tamburo, perché avrebbero dovuto sborsare le paghe di tasca propria. La fame di uomini metteva in concorrenza fra loro le potenze alleate: il papa chiese al fratello del conte di Sarno di reclutare fanti per le sue galere, ma il Granvelle lo proibì, ricordando l’editto del suo predecessore. Per fortuna il duca di Urbino, padrone d’un paese montagnoso che da sempre forniva buoni soldati, permise di reclutare nel suo territorio, e un po’ per volta i tre comandanti cominciarono a mettere insieme i loro reggimenti: il Gonzaga in Lombardia, lo Sforza nel ducato d’Urbino e il conte di Sarno nel Regno. Ai primi di luglio quest’ultimo reggimento era pronto, e quello dello Sforza era in viaggio per Napoli, anche se il Buonrizzo quando vide la truppa informò il suo governo che entrambi erano di qualità appena tollerabile10.

Il reclutamento della fanteria spagnola, considerata superiore a quella italiana, si rivelò altrettanto problematico. Le truppe stanziate in Italia e imbarcate l’anno prima sulle galere del Doria si erano logorate durante l’inutile spedizione in Levante; un rapporto dalla Sicilia riferiva: «non può stare questo regno con un tercio così disfatto per i disaggi patiti in mare, ma molto più per la mortalità et infermità che han travagliato le compagnie». Nell’inverno erano stati arruolati in Spagna circa 4000 fanti, che il re contava di mandare in Italia «per impire li terzi di Napoli, Sicilia et Milano», e a marzo le compagnie s’imbarcarono per Napoli; in gran parte erano soldati vecchi riassunti dopo il licenziamento delle truppe che avevano stroncato la rivolta dei moriscos, e la loro qualità lasciava ben sperare il Donà: «gli spagnoli sono reputati qui assai buona gente et non del tutto nova». Ma questa fanteria veterana andò in parte perduta per gli strapazzi del viaggio, in un Mediterraneo dove il clima era ancora rigidamente invernale: due delle prime quattro navi partite con gli spagnoli per l’Italia vennero spinte dalla burrasca a Ibiza «con morte di molti di essi». Gli ultimi trasporti arrivarono a Napoli soltanto alla metà di maggio, dopo aver vagato per mesi; su 4000 imbarcati («se però furono tanti», osserva sospettoso il Donà) non ne arrivarono a Napoli neppure 3000, e fra loro serpeggiava l’epidemia, tanto che ancora mesi dopo si parlava di lasciarli a terra per non infettare il resto della flotta11.

Mentre i trasporti diretti a Napoli affrontavano le burrasche del Mediterraneo col loro carico di moribondi, il re aveva ordinato di fare altri 3000 fanti in Andalusia e in Aragona, cercando di arruolare gli ultimi reduci ancora disoccupati della guerra contro i moriscos. La truppa doveva essere imbarcata a Cartagena, su 4 navi da trasporto e sulla dozzina di galere di Spagna destinate a salpare con don Juan. Ad aprile i vascelli erano in porto e attendevano i soldati, ma il reclutamento stentava e in tutto il paese imperava la carestia, tanto che una volta reclutate le compagnie si temeva di non essere in grado di nutrirle: perciò le galere ebbero ordine di lasciare Cartagena e andare ad attendere a Maiorca, affinché «non consumino quel poco vivere che è in quel porto ma lo lascino alla gente che si va pur mettendo insieme nel detto loco per imbarcarsi». In realtà accadde proprio quello che si era temuto: la carestia era tale che i soldati giunti ai porti non trovarono nulla da mangiare e disertarono in massa per ritornare alle proprie case. Don Álvaro de Bazán, giunto anch’egli a Cartagena con le galere di Napoli per caricare le truppe, non trovò nessuno e dopo un’inutile attesa fu dirottato a Malaga e Almeria, dove con gran fatica altri capitani di fresca nomina stavano rimettendo insieme un po’ di gente. Don Luis de Requesens, più noto come il Comendador mayor per il suo altissimo rango nell’ordine di Santiago, nominato dal re luogotenente di don Juan de Austria, scriveva a suo fratello don Juan de Zúñiga: «quel che più mi dispiace è che portiamo da qui pochissima fanteria, e molto cattiva; non potreste credere con che difficoltà si fa uscire oggi gente dalla Spagna»12.

Più spedito procedette il reclutamento della fanteria tedesca, in paesi di montagna dove i volontari non mancavano mai. A marzo il viceré di Milano ebbe ordine di accelerare il reclutamento di «tre collonelli di thedeschi»; uno dei tre comandanti, il conte Vinciguerra d’Arco, si preparava a partire da Madrid «per andare a far il suo nel contado di Tirol con ogni prestezza». A maggio venne deciso di ridurre i reggimenti a due, sotto il conte d’Arco e il conte di Lodrone, portandoli però da 3 a 4000 uomini ciascuno, e si ordinò che affluissero alla Spezia, dove dovevano imbarcarsi per la Sicilia. La truppa venne reclutata e arrivò in buon ordine ai porti liguri, ma poi, come sempre accadeva quando i montanari dovevano affrontare il mare, gli strapazzi e le malattie la logorarono velocemente. Al momento di imbarcarsi all’inizio d’agosto, i due reggimenti contavano rispettivamente 3431 e 3700 uomini; ma un mese dopo, quando la flotta di don Juan salpò verso il Levante, portò con sé in tutto 5000 tedeschi, e ne lasciò un migliaio negli ospedali di Messina13.

Anche la squadra del papa si preparava ad unirsi alla grande spedizione. Nelle trattative per la Lega, Pio V si era impegnato ad armare anche questa volta 12 galere, «il che anco sarà soverchio rispetto alla miseria in che si truova», osservava scontento il cardinal Rusticucci. L’accordo stipulato l’anno prima con i veneziani si era rivelato molto deludente, e per di più le galere erano risultate troppo care. Già nel corso del 1570 a Roma si valutavano le alternative, ad esempio quella di prenderle in affitto già armate dalla Repubblica di Genova, ma il re, che intendeva riservarsi i servizi di tutti i legni genovesi, non nascose la sua contrarietà, e la trattativa naufragò. Allora Pio V si rivolse a Cosimo de’ Medici, che aveva appena insignito del titolo di granduca di Toscana, e che manteneva appunto una squadra d’una dozzina di galere. Filippo II, offeso con Cosimo, che in passato aveva messo al suo servizio le proprie galere e che ora aveva assunto il titolo granducale senza consultarlo, si oppose anche a questo accordo e intimò allo Zúñiga di farlo fallire a tutti i costi. Anche i veneziani avrebbero voluto affittare le galere del granduca, e chiesero a Marcantonio Colonna di fare da intermediario, perché i rapporti tra Venezia e Firenze non erano dei migliori. Ma il principe romano non voleva compromettersi e rifiutò di cavarli d’impaccio: «io li ho risposto che le devono domandar loro: al che si stringono nelle spalle». Alla fine fu il papa a spuntarla, e a gennaio del 1571 il contratto venne firmato14.

La squadra toscana, fortemente voluta da Cosimo, era basata nel nuovo arsenale di Pisa, ancora in via di costruzione, ma il personale specializzato era quasi tutto ligure: dalla Riviera genovese partirono quella primavera alla volta dei porti toscani 500 marinai. L’ordine militare di Santo Stefano, creato dal granduca dieci anni prima, e che aveva sede a Pisa nel Palazzo dei Cavalieri, dove oggi è la Scuola Normale, imbarcò sulle galere un centinaio di cavalieri, per metà nobili toscani di lignaggio più o meno antico. L’accordo stipulato con Pio V prevedeva che 6 delle galere fossero a carico del granduca e 6 a spese del papa, per il prezzo di 500 ducati al mese ciascuna, e 750 per la Capitana. Roma si impegnava a fornire tutti i forzati disponibili nello Stato pontificio, che in passato finivano, a pagamento, sulle galere di Gian Andrea Doria: perciò quest’ultimo fu il più scontento dell’accordo, perché «il papa, con il levarli li condennati che li soleva dare, dandoli a Fiorenza, viene ad haverli fatto non mediocre danno»15.

Alla fine di maggio le 12 galere erano armate e spalmate, e salparono per Civitavecchia, dove dovevano affluire otto compagnie di fanteria reclutate fra Roma, l’Umbria, le Marche e Bologna. Onorato Caetani, incaricato di comandarle, e il suo luogotenente Bartolomeo Sereno (che più tardi si fece monaco a Montecassino e scrisse un’ottima storia della guerra di Cipro) avevano fatto un buon lavoro, benché le difficoltà di reclutamento nello Stato pontificio fossero le stesse delle altre parti d’Italia: come riferisce il Sereno, pareva «impossibile di trovare in quei tempi soldati, per esser tutti sbigottiti dalla mortalità che l’anno addietro era stata nell’armata, e dall’eccessivo patimento del vivere, senza che pur una volta avessero veduto la faccia degl’inimici», ragion per cui i possibili candidati «sentendo nominar le galere impauriti fuggivano». In realtà, entro la metà di giugno «con maraviglia di ogni uomo» le compagnie erano a Corneto, l’odierna Tarquinia, dove vennero ispezionate e pagate, e da lì si misero in marcia per il porto di Civitavecchia.

I fanti erano in tutto 1400, ma i soldati che passarono la mostra e vennero effettivamente imbarcati furono solo 1171: Cosimo de’ Medici aveva mandato le galere «piene di marinari e di cavalieri ed altri nobili», per cui a bordo non c’era spazio per più d’un centinaio di soldati ciascuna, se si voleva evitare il rischio di epidemie. Un ordine formale del papa obbligò inoltre a lasciare a terra tutti i giovani che non avevano ancora la barba, per cui il Colonna e il Caetani, con grande fastidio, dovettero rinunciare ai loro paggi. Almeno uno dei capitani si disperò: nessuno lo aveva avvertito di questa novità e lui, per reclutare gente di buona condizione, aveva speso 1500 scudi del suo, dando a ciascuna recluta, se era un gentiluomo, anche 25 o 30 scudi di premio; ma alla rassegna si scoprì che molti erano troppo giovani, e vennero tutti licenziati. Anche così le galere erano piene di gente, con almeno 130 combattenti per ciascuna, oltre a 60 marinai, molti di più del minimo indispensabile. È vero che le galere toscane erano di grandi dimensioni, ancor più delle altre ponentine: la Capitana, su cui s’imbarcò il Colonna, aveva ben 269 rematori, e altre sette, fra cui la Grifona su cui erano imbarcati Caetani e Sereno, superavano i 200, contro lo standard di 164 sulle galere del re. La squadra, insomma, era formidabile, e tutti se ne accorsero. «Le galere di Sua Altezza ve ne sono due buonissime, e da tre altre assai buone», scriveva compiaciuto il Caetani; e anche le altre, benché armate con ciurme nuove, «assai buone e di gran lunga migliori dell’anno passato»16.

Il paradosso è che mentre le sue magnifiche galere si preparavano a unirsi alla flotta di don Juan, Cosimo de’ Medici muniva febbrilmente le fortezze del suo Stato per timore che la partenza della flotta contro i turchi fosse soltanto un inganno, e che in realtà Filippo II avesse mandato suo fratello in Italia per invadere la Toscana. A maggio la notizia che la Lega era conclusa parve rassicurare il granduca, ma ancora nei mesi seguenti i perplessi ambasciatori spagnoli in Italia dovettero informare il loro re che in tutte le città toscane si lavorava alle fortificazioni e si ammassavano vettovaglie, «e nel suo stato si dice pubblicamente che lo fa per paura che la venuta del signor don Juan sia al fine di prendergli Siena». Perfino gli ambasciatori veneziani a Roma condividevano quel timore e ne parlarono al papa, con grande irritazione dello Zúñiga, sempre più spazientito dal comportamento incomprensibile degli alleati italiani17.