11. Dove Pio V si spazientisce, Filippo II ordina finalmente alle sue galere di far vela verso Levante, il papa scopre com’è difficile armare una flotta, e Uluç Alì strapazza i cavalieri di Malta
Mentre la flotta dello Zane sostava a Corfù, nel mondo politico occidentale veniva a galla l’imbroglio degli ordini dati dal Re Cattolico al Doria e fraintesi dalla diplomazia pontificia. Come sappiamo, il 24 aprile don Luis de Torres aveva comunicato che l’ammiraglio aveva ordine di far vela verso la Sicilia per unirsi alla flotta veneziana, obbedendo «in tutto e per tutto» alla volontà del papa. L’ambasciatore veneziano a Madrid, Cavalli, s’era bensì stupito in cuor suo vedendo che «il reverendo Torres» aveva menzionato nel suo dispaccio quest’ultima clausola, di cui lui, Cavalli, non aveva udito far parola dal re e dai suoi segretari; ma temette di sbagliarsi, e non si confidò con nessuno. A Roma e a Venezia tutti quanti dettero per scontato che la squadra del Doria, non appena il papa l’avesse ordinato, si sarebbe spinta fino a Corfù per congiungersi con la flotta dello Zane e passare decisamente all’offensiva. In realtà aveva ragione Cavalli, e Filippo aveva ordinato al Doria soltanto di andare in Sicilia, dove l’ammiraglio aveva già intenzione di andare comunque per difendere Malta e La Goletta; il re non aveva affatto accennato alla congiunzione con la flotta veneziana, né tanto meno aveva comandato a Gian Andrea di mettersi agli ordini del papa1.
In effetti il Doria, dopo aver trasportato dalla Spezia a Napoli verso i primi di maggio i 3000 fanti tedeschi reclutati per la difesa di quel regno, era subito ripartito per la Sicilia, senza bisogno di attendere gli ordini di Filippo. Incontrando in mare la squadra del marchese di Santa Cruz, che andava a Napoli a provvedersi di galeotti e munizioni, gli aveva ordinato di compiere al più presto la sua missione e tornare in Sicilia a raggiungerlo. La corrispondenza di Gian Andrea dimostra che questa concentrazione nei porti siciliani era già prevista dai piani di campagna navale concordati in precedenza col re. I nuovi ordini del 23 aprile, spediti dopo il colloquio di Filippo con monsignor Torres e che raggiunsero l’ammiraglio a Palermo, non contenevano niente di nuovo se non che doveva restar lì, imbarcare un adeguato complemento di fanteria e attendere nuove disposizioni. «Ho finito hoggi di unire insieme tutte le galee che Sua Maestà tiene in Italia, che sono in numero de cinquantuna», scrisse il Doria da Palermo il 17 giugno, giorno in cui il Santa Cruz lo raggiunse con le 20 galere napoletane; la fanteria mancava ancora, ma aveva chiesto al viceré di Napoli di reclutarne, e nell’attesa avrebbe pattugliato i mari del Mezzogiorno «per assicurargli il più che si potrà dalle rubberie de corsari»2.
Avendo soddisfatto, almeno in apparenza, la preghiera del papa, il rey prudente per diversi mesi non ritenne opportuno mandare nuove disposizioni al suo ammiraglio. Si limitò a scrivergli il 16 maggio per avvertirlo che aveva accettato di negoziare una Lega con i veneziani sotto l’egida del papa, incaricando l’ambasciatore a Roma, don Juan de Zúñiga, e i cardinali Pacheco e Granvelle di negoziare a suo nome; e che aveva dato ordine ai viceré di Napoli e di Sicilia di provvedere tutto il necessario per la flotta. Se il Doria conosceva il suo padrone, capì che finché la trattativa non fosse stata ben avviata non era il caso di concedere niente alla controparte, meno che mai di mettere gratuitamente a disposizione le galere del re. Ma se dalla Spagna non arrivavano lettere, da Roma ne arrivavano anche troppe. Fin dal 23 maggio, appena ricevuto il dispaccio del Torres, il papa aveva scritto al Doria invitandolo a partire subito per raggiungere la flotta veneziana. Pieno di entusiasmo, gli aveva poi scritto di nuovo pregandolo di tenerlo informato sui suoi movimenti e su quelli della flotta turca, così da poter impartire al momento opportuno l’ordine di attaccare il nemico, «perché gli risultava che sarebbero superiori e sperava che Dio dovesse darci una grandissima vittoria». Ma Gian Andrea era afflitto da un fastidioso catarro, «generato dalla mala vita di galera», e non si curò neppure di rispondere alle sollecitazioni che gli giungevano da Roma3.
Il prolungato silenzio dell’ammiraglio finì per mettere in imbarazzo gli ambasciatori spagnoli presso la Santa Sede. Lo Zúñiga si sentì chiedere da qualcuno «che ordini erano stati dati a Gian Andrea per soccorrere i veneziani e congiungersi con la loro flotta»; don Juan sospettava che l’indiscreto fosse stato mandato dall’ambasciatore veneziano, e si tenne sulle generali: «io gli ho detto che Vostra Maestà gli avrà mandato a scrivere quel che si deve fare, che a me non mi ha informato se non che gli era stato dato ordine di trovarsi con tutte le galere in Sicilia, per intervenire di lì dove ve ne fosse bisogno in base al percorso della flotta turca». L’ignoranza in cui si trovavano circa l’effettiva volontà del re cominciava a introdurre una nota falsa nei rapporti dei negoziatori spagnoli col papa. Sua Santità – scrissero a Filippo il 9 giugno – è informata che il Doria ha ordine di portarsi in Sicilia con le sue galere, «ma in nessun modo intendiamo l’ordine che Vostra Maestà può aver dato al detto Gian Andrea di quello che deve fare». Lo stesso giorno il papa prese da parte lo Zúñiga e gli chiese, preoccupato, se per caso il re, ora che si apriva il negoziato ufficiale per la stipulazione della Lega, aveva cambiato idea quanto alla necessità di soccorrere immediatamente i veneziani. «Io dissi che non mi risultava che si fosse revocato finora nessun ordine di quelli che Vostra Maestà aveva fatto dare ai suoi ministri con l’ultimo corriere», rispose diplomaticamente lo Zúñiga. Il papa decise che la risposta gli bastava, e spedì l’ennesima lettera al Doria, sollecitandolo a congiungersi con la flotta veneziana4.
In realtà, gli ambasciatori italiani in Spagna avevano avuto quasi subito la sensazione che il Torres avesse interpretato con un po’ troppa larghezza le assicurazioni del re. Il 16 maggio il nunzio Castagna comunicò al cardinale Alessandrino di aver ricordato a Filippo che il papa teneva moltissimo alla congiunzione delle galere, e di non essere affatto contento dell’esito del colloquio: il re aveva confermato in termini molto generici le sue buone intenzioni, «et perché reinterpose qualche paroletta di difficoltà, dubbito che Vostra Magnificenza non potrà dare questa commissione così prontamente come il tempo forsi ricerca». Negli stessi giorni anche gli ambasciatori veneziani avvertirono il loro governo che in realtà il re non aveva ancora ordinato al Doria «che vadi a unirsi con la nostra armata», e che «questa materia della unione haverà del difficile», anche perché qualcuno a Madrid trovava inaccettabile che il generale veneziano comandasse anche alle galere del re5.
Queste comunicazioni inquietanti impiegarono qualche settimana per arrivare in Italia, dove produssero un’immediata reazione. Il 10 giugno il Senato veneziano ordinò agli ambasciatori di fare di tutto per strappare quell’ordine al re, ricordandogli il danno e la vergogna che minacciavano la Cristianità se la flotta turca «andasse vagando liberamente per il mare [...] sopra la faccia di due armate christiane che per esser disunite non li potessero far ostaculo». Il 20 giugno lo Zúñiga, la cui posizione a Roma si faceva sempre più imbarazzante, scrisse a Filippo dicendogli francamente che era opportuno che le flotte si riunissero, e che era nell’interesse del re spedire quell’ordine al Doria. Finalmente, il 26 giugno il papa si decise a domandare senza mezzi termini agli ambasciatori «se Gian Andrea Doria andrebbe con le galere di Vostra Maestà a unirsi con i veneziani a Corfù», e solo allora l’equivoco venne svelato, suscitando non poco sconcerto in Vaticano6.
Toccò allo Zúñiga e al cardinale di Granvelle, che personalmente erano sempre stati favorevoli a soccorrere i veneziani, difendere il comportamento ambiguo del loro padrone. Essi riferirono al re che il papa li aveva messi alle strette, e allora gli avevano risposto che certamente Gian Andrea aveva avuto ordini dal re, ma che per quanto ne sapevano loro, l’ordine era soltanto di portarsi in Sicilia col maggior numero possibile di galere. Il papa, sorpreso, replicò di aver sentito dire che il Doria doveva congiungersi con i veneziani, «e a non farlo si perderebbe una grande occasione». Gli ambasciatori replicarono che non potevano farci nulla, perché «noi non avevamo commissione di ordinare niente a Gian Andrea»; gli avevano bensì consigliato di unirsi ai veneziani a Corfù, se poteva farlo senza violare gli ordini ricevuti, ma la lettera era appena partita, e comunque si trattava soltanto di un consiglio.
Due giorni dopo uno spazientito Pio V convocò gli ambasciatori spagnoli, e disse loro
che aveva voluto rileggere i dispacci mandati da don Luis de Torres e che lì si scriveva chiaramente che Sua Maestà gli aveva detto che non solo le galere dovevano riunirsi a Messina, ma che una volta lì avrebbero fatto tutto ciò che Sua Santità gli ordinasse.
Gli ambasciatori risposero che forse don Luis aveva sentito quelle chiacchiere da qualche ministro, ma il re non aveva mai ordinato una cosa del genere. Il papa, piccato, ribatté che don Luis aveva sentito quelle parole dalla bocca del re, e pretese che gli ambasciatori ordinassero al Doria di andare a Corfù. Essi ribadirono che non avevano nessun potere di dare degli ordini finché non fosse stata conclusa la Lega, e il papa, «imbarazzato e confuso», finì per ammettere che non c’era poi tanta fretta: nemmeno la flotta veneziana era ancora arrivata a Corfù, e avrebbe avuto bisogno ancora di venti giorni per essere pronta, «specialmente per mancanza di panatica»; la squadra che Marcantonio Colonna stava armando a spese del papa non era ancor pronta neppur essa, sicché c’era ancora il tempo di scrivere al re e chiarire la cosa7.
La sera stessa di quel 28 giugno Pio V indirizzò a Filippo un appello accorato, pregandolo, «appena riceverai questa nostra, di voler ordinare al diletto figlio il nobile Andrea Doria che senza alcuna obiezione, al più presto possibile, con la flotta che comanda a nome della Tua Maestà si unisca alla flotta dei veneziani». Il cardinale Alessandrino, scrivendo al nunzio Castagna, espresse con maggiore immediatezza lo stato d’animo del Vaticano: il papa aveva sperato che a quell’ora l’armata di Filippo si fosse congiunta con quella veneziana, e aveva già scritto più volte al Doria di salpare per il Levante, ma «fino a questo giorno non ci è risposta alcuna»; quel che è peggio, i ministri del Re Cattolico sostenevano di non aver mai sentito che Gian Andrea avesse ordine di obbedire al papa. In curia ci si chiedeva addirittura se gli ambasciatori non stessero volutamente travisando le istruzioni del re; tant’è che si raccomandò al Castagna di sollecitare da Filippo un ordine scritto per il Doria, nel caso «che fusse vero quel che si dubita dei ministri suoi»8.
Nel frattempo gli ambasciatori veneziani in Spagna non cessavano di chiedere udienza al re e ai grandi della corte, supplicando che si mandasse al Doria il famoso ordine. Il re – lamentavano Cavalli e Donà – li riceveva «benignamente, come suol fare sempre», e con molti cortesi giri di parole li lasciava senza risposta; la corte era continuamente in movimento, le persone con cui si voleva parlare erano spesso introvabili, e appena si veniva a sapere che il re s’era fermato, si sentiva già parlare della sua partenza. Tuttavia ai due era chiaro, e lo scrivevano in cifra per evitare che gli spagnoli lo leggessero, che il re non capiva l’urgenza del momento, «come quello a chi non scalda per ora così da vicino il fuoco della guerra turchesca». I grandi qualche volta erano anche più bruschi: il duca di Feria, pregato di riflettere che il tempo stava scadendo, rispose seccamente: «Questa è poi consideratione da soldati, et soldati siamo tutti così ben noi come li turchi». I due ambasciatori si convincevano sempre più che il Torres aveva tratto in inganno tutti quanti: non certo dolosamente, ci mancherebbe, «ma vogliamo credere che per il desiderio grande che lui dimostrava in tutto questo negotio habbi troppo largamente interprettato qualche parola cerimoniosa che li sia stata usata per officio et per buona creanza»9.
Ai primi di luglio, l’ottimismo che all’inizio aveva galvanizzato tutti si era trasformato in malumore e pessimismo. «Qui sento infinite querele del tardar che fa l’armata cattolica in andar a congiungersi con le galere di questi signori», comunicava da Venezia il Facchinetti. A Madrid, il Castagna si persuase che il rey prudente, ora che aveva accettato di trattare la Lega, voleva vedere come procedeva il negoziato prima di impegnarsi, per cui ben difficilmente avrebbe dato ordini precisi per la riunione delle flotte. Puntualmente, il 6 luglio il re fece sapere ai costernati ambasciatori veneziani «che in effetto non vede Sua Maestà ordine che per adesso possi fare unire le sue galere»; di conseguenza, concludeva mestamente il nunzio, «circa l’unione mi pare finita»10.
Il fatto che le speranze di una rapida congiunzione delle due flotte abbiano toccato il punto più basso nello stesso momento in cui a Roma si aprivano i negoziati per la Lega potrebbe sembrare un paradosso, se non fosse evidente che la prudenza del re istituiva tra i due fatti un preciso rapporto. Filippo aveva «assai poca amorevolezza verso li Signori Venetiani, per non haversi voluto mai movere in aiuto d’altri», ed era sicuro che alla prima occasione essi avrebbero fatto la pace col Turco, lasciandolo nei guai. Nelle istruzioni segrete per Granvelle, Pacheco e Zúñiga, incaricati il 16 maggio di negoziare la Lega, il re specificò che il comando unificato delle flotte doveva assolutamente spettare al comandante della flotta spagnola, «il signor don Juan suo fratello». Era chiaro a chiunque leggesse quelle istruzioni che finché su quel punto non fosse stato raggiunto un accordo, Filippo non avrebbe ordinato al Doria di muoversi dalla Sicilia11.
I tre plenipotenziari ricevettero le istruzioni segrete del re il 9 giugno. Il papa ne conobbe il contenuto più o meno nello stesso momento, perché appena Filippo le ebbe spedite don Luis de Torres scrisse a Roma, in cifra, di essere riuscito a vederle («e mi è costato non pochi passi e industria»). I pieni poteri per i negoziatori veneziani giunsero soltanto il 20 giugno, e lo Zúñiga, il cui ottimismo era andato via via evaporando, trasse da quel ritardo un cattivo auspicio: «capisco che i veneziani non hanno nessuna voglia che questa Lega venga in effetto, e credo che si siano pentiti di averla proposta, perché si tengono quasi sicuri dal danno che pensavano di poter subire dal Turco quest’estate». Lo stesso giorno il cardinale di Rambouillet assicurò il re di Francia, alleato del sultano e nemico mortale di Filippo II, che per quanto riguardava la Lega «si è fatto gran chiasso per poca cosa, e non vedo che vada avanti: almeno per tutto quest’anno se ne andrà in fumo, e Dio sa che ne sarà del prossimo». È vero che il Rambouillet era di malumore perché il papa se l’era presa con lui, per una questione di etichetta diplomatica, dietro la quale si celava parecchia sostanza: Pio V aveva visto dei dispacci del re di Francia, e gli rimproverava «il titolo che Sua Maestà dà al Turco, di imperatore dei Turchi, come cosa che gli sembra non spettare a un tiranno»12.
Il 1° luglio Pio V aprì le trattative, illustrando agli inviati del Re Cattolico e di Venezia la necessità che i cristiani unissero le loro forze contro la minaccia ottomana, e il giorno seguente presentò l’abbozzo del trattato di alleanza. Il negoziato, la cui storia è stata fatta troppe volte perché sia necessario riprenderla qui, durò tutto il mese e nonostante l’evidente diffidenza reciproca arrivò abbastanza in fretta alla definizione d’un testo concordato, tanto che già il 4 agosto i negoziatori decisero di sospendere le sedute per sottoporre il capitolato all’approvazione dei rispettivi governi. La proposta era di mettere in mare 200 galere, metà del re e metà di Venezia, provvederle di soldati e vettovaglie sufficienti per una lunga campagna navale e terrestre, e dividere le spese in modo che la Spagna ne sopportasse la metà, Venezia un terzo, e il papa un sesto. Lo scoglio più difficile era la definizione del comando unificato, e su questo scoglio il malevolo Rambouillet aveva previsto che la trattativa sarebbe naufragata: «ora corre voce che ciascuno nominerà un generale, e istituiranno un consiglio, dove tutto sarà deciso ai voti, ma tutto questo mi sembra più un discorso o chimera che una cosa fattibile» – scriveva il 17 luglio13. Il cardinale non poteva sapere che in quegli stessi giorni Filippo II, nella solitudine del suo studio, aveva deciso di abbandonare le sue preclusioni e di accettare su questo punto una soluzione di compromesso, rimettendo finalmente in moto il meccanismo inceppato della campagna navale.
Ancora il 6 luglio il cardinale Espinosa, ministro del re, aveva fatto sapere a Cavalli e a Donà che solo la conclusione della Lega a Roma poteva far sì che il Doria salpasse da Messina per congiungersi con la flotta veneziana. Quando i due ambasciatori avevano osato accennare che così si rischiava di perdere troppo tempo, perché forse anche a trattativa conclusa Gian Andrea non si sarebbe mosso prima di ricevere nuovi ordini, lo spagnolo li aveva raggelati: «Questo per vero è certo – rispose il cardinale – che senz’haver altro ordine di qua Gioan Andrea non si moverà». Eppure solo pochi giorni dopo il re, di solito così riflessivo, aveva cambiato idea, e il 13 luglio, benché a Roma i negoziati fossero appena cominciati, decideva di spedire all’ammiraglio l’ordine di muoversi. Il segretario Pérez, comunicarono esultanti Cavalli e Donà al doge in una lettera che cominciava «Laudato sia nostro signor Dio», stava scrivendo i dispacci, e il re li avrebbe firmati quella notte stessa all’Escorial14.
L’ordine per il Doria, che partì poi con la data del 15 «per la molta scrittura che ha bisognato fare», è in realtà una lettera lunghissima, la prima da due mesi, in cui Filippo descrive con un’insolita ricchezza di dettagli le circostanze che lo hanno indotto a mutare opinione15. È come se il rey prudente, nel momento di affidare al suo ammiraglio un mandato così grave come quello di salpare verso Levante e mettersi agli ordini d’altri, volesse essere ben sicuro che il Doria aveva penetrato la sua mente e che avrebbe operato in conformità ai suoi desideri. Dopo aver rievocato le sue precedenti lettere del 23 aprile e del 16 maggio, Filippo scrisse che dopo di allora gli ambasciatori veneziani avevano fatto ripetute pressioni perché ordinasse alle sue galere di unirsi con quelle della Repubblica, «ma non era parso che fosse bene farlo, affinché la necessità presente mettesse fretta ai veneziani per il negoziato della Lega e la sua conclusione». Quando anche il papa si era unito alle loro insistenze e anzi, credendo che il Doria avesse ordine di obbedirgli, si era permesso di comandare all’ammiraglio «di accorrere con tutte le nostre galere al Golfo di Corfù», il re gli aveva fatto sapere che la squadra non poteva ancora lasciare la Sicilia, perché le galere erano disarmate, «essendo stata messa alla Goletta tutta la buona fanteria che restava a Napoli e in Sicilia».
La mancanza di soldati a bordo delle galere era davvero un problema, e il re assicurò l’ammiraglio di aver riflettuto a lungo su come risolverlo. Aveva cercato di affrettare la repressione dell’insurrezione di Granada, «affinché il tercio di Napoli e tutta l’altra fanteria che si potesse tirar fuori venisse in Italia» a imbarcarsi sulle galere. In attesa del loro arrivo, il re aveva deciso di mettere a disposizione del Doria i 1500 fanti italiani che si trovavano in Sardegna agli ordini di Sigismondo Gonzaga, e perciò ora dava ordine a Gian Andrea di partire per l’isola e andare a caricarli. Infine, i viceré di Napoli e di Sicilia erano stati incaricati di reclutare sul posto altra fanteria, finché la flotta non fosse provveduta a sufficienza; il Doria doveva farsi dare da loro tutto ciò che gli poteva servire, e verificare se il viceré di Milano «potrà darvi un po’ di fanteria spagnola».
Restava, naturalmente, il problema del comando unificato; ma proprio a questo riguardo il re scrisse che la situazione si era sbloccata. Anche il papa, infatti, avrebbe avuto una sua squadra, sicché il comandante supremo andava scelto non fra due, ma fra tre generali. E siccome Pio V aveva avuto la delicatezza di nominare generale delle sue galere Marcantonio Colonna, che non era soltanto un principe romano, ma possedeva vasti feudi nel regno di Napoli, ed era dunque suddito e vassallo di Filippo, il re per dare soddisfazione al papa e mostrare buona volontà ai veneziani accettava che fosse lui ad assumere il comando supremo. Perciò il Doria, terminato l’imbarco delle truppe, doveva partire con tutte le galere per riunirsi alle flotte alleate, obbedendo al Colonna come generale di Sua Santità e della Lega. Questa decisione – sostenne poi il re – era già presa quando era arrivata sul suo tavolo la famosa lettera del papa del 28 giugno. Siamo liberi di crederci o no; il nunzio Castagna era convinto del contrario, e riferì a Roma la sequenza degli eventi in tutt’altro modo: prima era arrivata la lettera, e subito dopo il cardinale Espinosa aveva avvertito il nunzio che il re si era finalmente persuaso. Monsignor Castagna sapeva che il tempo era prezioso, e ottenne dall’Espinosa la garanzia che «il dispaccio al Sig. Andrea Doria» sarebbe stato mandato in duplice copia, «et per terra et per mare»16.
Con l’ordine del 15 luglio, subito comunicato anche ai plenipotenziari spagnoli a Roma, al papa e a Marcantonio Colonna17, Filippo II rimetteva in movimento l’intera macchina della campagna navale. Anche lui sembrava aver capito che non c’era più tempo da perdere, e ordinò al viceré di Sardegna e a Sigismondo Gonzaga «che tengano pronta la gente, perché si imbarchi in fretta». Almeno in apparenza, le istruzioni per il Doria stavolta erano chiarissime: doveva muoversi con la maggior rapidità possibile e raggiungere a Corfù la flotta dello Zane, mettendosi agli ordini dell’ammiraglio pontificio. Ma il re voleva essere ben sicuro che Gian Andrea avesse capito fino in fondo il suo pensiero: perciò, in un paragrafo che non venne divulgato, gli spiegò che doveva bensì obbedire al Colonna, ma anche consigliarlo, giacché aveva tanta più esperienza di lui: «e voglio che facciate particolarissimo conto di dove metterete le nostre galere, per il gran danno che verrebbe a tutta la Cristianità da qualunque disgrazia che dovesse succedere». Di suo pugno, il re aggiunse: «mentre vi provvedete di gente, badate allo stato e all’ordine in cui si trovano le galere di Sua Santità e dei veneziani, e secondo quel che sarà vedrete quel che converrà fare, perché capite quanto è importante la condizione delle loro galere». Con istruzioni di questo tenore, non c’è da stupirsi che la successiva condotta del Doria abbia sollevato universali lamentele, e accuse di codardia o peggio da parte degli alleati.
Prima che la squadra del Doria potesse salpare verso Levante, bisognava completare le operazioni d’imbarco della fanteria, ma l’ammiraglio non aveva aspettato gli ordini del re per affrontare il problema. Gian Andrea era abituato a operare con larga autonomia, trattando da pari a pari con i viceré; le sue galere avevano bisogno di soldati indipendentemente dalla spedizione in Levante, per proteggere le coste del Mezzogiorno e garantire la sicurezza di Malta e La Goletta, e non era saggio attendere che le ruminazioni di Filippo producessero un risultato.
Fin dai primi di maggio, quando era arrivato a Napoli, il Doria aveva chiesto a quel viceré di trovargli delle truppe. Al duca d’Alcalá era sembrato che la soluzione fosse ovvia, poiché le galere genovesi avevano appena sbarcato al Maschio Angioino il magnifico reggimento tedesco reclutato dal conte Giovan Battista d’Arco: 3027 soldati in dieci compagnie, di cui 1800 corsaletti, cioè picchieri muniti di armatura, e mille archibugieri: «è la gente meglio armata e più scelta che sia uscita d’Alemagna e sono la maggior parte del Tirolo e nessun eretico». Il viceré offrì dunque al Doria di tenersene una parte, ma l’ammiraglio rifiutò e spiegò il motivo al re: «il viceré mi offrì tedeschi i quali sono di così poco profitto in galera come Vostra Maestà sa, e perciò non li accettai». Che la fanteria tedesca, universalmente considerata eccellente, non fosse adatta a combattere in mare era una profonda certezza del Doria: giovanissimo, aveva sentito suo suocero sconsigliare di attaccar battaglia coi turchi se le galere avevano a bordo truppe tedesche, «poiché erano tutti li Todeschi così poco atti a combattere in galere, et esser fra essi così poca et trista archibugeria, che è quella che suole servire». Utilissimi a terra, contro la cavalleria, i picchieri alemanni insomma erano inutili in mare, dove contavano soprattutto gli archibugi18.
Nella sua precedente lettera del 16 maggio Filippo II aveva confermato al Doria che i viceré di Napoli e di Sicilia dovevano provvedere ai suoi bisogni, «facendo reclutare a questo scopo il numero di italiani che sarà necessario, perché al presente non si potrà risolvere la cosa con spagnoli, dei quali laggiù c’è mancanza». Ma era ovvio che ci sarebbe voluto parecchio tempo perché la fanteria fosse effettivamente reclutata e messa a disposizione dell’ammiraglio. I viceré dovevano nominare i capitani, tra la folla di postulanti e raccomandati che si sarebbero offerti per l’incarico, e assegnare a ciascuno un distretto di reclutamento; poi ogni capitano doveva recarsi sul posto, aprire un ufficio, alzare la bandiera e far battere il tamburo per annunciare la notizia. I volontari che si presentavano dovevano ricevere archibugio e morione e un anticipo sulla paga, ed essere alloggiati e nutriti a spese del comune fino a quando la compagnia, al completo dei suoi 250 uomini, non fosse stata pronta a mettersi in marcia. Molto denaro, pubblico e privato, passava di mano, e molti abusi erano commessi prima di quel momento, ed era una fortuna quando i capitani erano gentiluomini desiderosi di guadagnare onore anche a costo di rimetterci e non semplicemente imprenditori a cui interessava soltanto il profitto19.
Era il 24 giugno quando il Doria, degnandosi per la prima volta di rispondere alle sollecitazioni del papa, gli scrisse da Palermo per spiegare le difficoltà in cui s’era trovato: aveva chiesto gente per le sue galere al viceré di Sicilia, il quale non ne aveva, e poi al viceré di Napoli, che s’era impegnato a reclutarne; ora, finalmente, «era avvertito che la gente era fatta, e stava per andare a prenderla». In realtà, soltanto ai primi di agosto il marchese di Santa Cruz poté andare a Napoli con le galere della sua squadra per imbarcare la fanteria reclutata dal vicerè: ne rimase, però, abbastanza soddisfatto, perché il viceré aveva nominato colonnello di 2000 uomini il marchese di Torremaggiore e questi non aveva badato a spese per reclutarli. I capitani erano tutti gentiluomini, ogni recluta aveva ricevuto quindici o venti scudi di anticipo, e insomma «come soldati vanno bene per non essere spagnoli»20.
Nell’attesa, Gian Andrea si era rivolto anche ai plenipotenziari del re a Roma, con cui le comunicazioni erano molto più rapide di quanto non fossero con la Spagna, e aveva chiesto loro di procurargli altri soldati. Lo Zúñiga e gli altri ebbero per primi l’idea «di servirsi di quelli che stanno in Sardegna, perché questi sarebbero migliori e già fatti e sono sotto le bandiere già da tempo»; perciò si decise che le galere sarebbero andate a prenderli. Nell’ultima decade di giugno il Doria uscì in mare, sostò in agguato presso Biserta sperando di sorprendere le galeotte di Uluç Alì di cui era stata segnalata la presenza in quel porto, poi, siccome la preda non si faceva vedere, fece vela verso la Sardegna. Ai primi di luglio, mentre Filippo II stava arrivando per proprio conto alla stessa idea, gran parte della flotta, col Doria, il Santa Cruz e il Cardona, era nell’isola per imbarcare la fanteria italiana del Gonzaga; solo il 17 luglio, ritornato a Palermo, Gian Andrea si ricordò di scrivere al suo padrone per informarlo di quello che aveva fatto. Con i 1500 fanti del Gonzaga, i 2000 reclutati dal marchese di Torremaggiore, e altri 800 che servivano sulla squadra di Sicilia, il Doria disponeva di circa 85 soldati per ognuna delle sue 51 galere. Non erano i cento che si aspettavano i veneziani, ma erano comunque sufficienti per affrontare una battaglia, ammesso che ci fosse ancora il tempo di cercarla: perché quando tutte le operazioni di reclutamento e d’imbarco furono concluse si era già a inizio agosto21.
A quella data, anche la squadra che il papa aveva affidato a Marcantonio Colonna era finalmente uscita in mare. L’idea che la Chiesa contribuisse all’allestimento della flotta cristiana era stata dei veneziani, che dopo aver scoperto di non avere abbastanza rematori per tutte le galere conservate nell’Arsenale proposero al papa di provvedere lui ad armarne qualcuna, assicurandogli che avrebbe potuto farlo con poca spesa. I cardinali all’inizio avevano accolto l’idea con freddezza, preferendo contribuire alla causa con denaro e soldati, ma i veneziani non avevano smesso di insistere. A tutti i diplomatici, abituati a penetrare le motivazioni nascoste delle cose, fu presto chiaro che se ci tenevano tanto è perché la presenza di un cardinale legato o di un generale del papa nella flotta della Lega li avrebbe dispensati dall’obbedire a don Juan.
La trovata suscitò reazioni contrastanti: il Facchinetti, a Venezia, la giudicò un’ottima idea, perché in ogni caso nessuno avrebbe mai accettato di obbedire a un generale straniero, e così «tutti si dovranno contentare d’andare a consultare sulla capitana del legato et esseguire quanto vi sarà risoluto dalla maggior parte del consiglio». Lo Zúñiga, invece, ne fu infastidito e parlò al papa per metterlo in guardia dai rischi di questi puntigli, avvertendolo che poiché il re «aveva nominato suo generale del mare il signor Don Juan, non avrebbe lasciato che gli fosse tolto il comando di questa impresa»22.
Pio V era in uno stato d’animo abbastanza bellicoso da apprezzare la proposta veneziana, e a fine aprile fu deciso che avrebbe armato ben 24 galere. «Loro danno gli scafi, sartiame e artiglieria e trenta uomini pratici per ogni galera, e gli altri», cioè le ciurme dei vogatori, «li deve mettere Sua Santità. Io dubito molto che si finisca di armare queste galere in tutto l’anno corrente», riferiva lo Zúñiga, di pessimo umore. In effetti, lo sforzo era grosso per le finanze poco floride della Chiesa e per l’esigua popolazione degli Stati pontifici, e il cardinal Bonelli congregò nel suo palazzo i baroni di Roma per informarli che il pontefice si aspettava il loro aiuto: dovevano imporre la coscrizione nei loro feudi, reclutando un uomo ogni venticinque famiglie, e riscuotere un’imposta straordinaria per contribuire al pagamento dei salari. Il papa, nel suo entusiasmo, imponeva ai sudditi un obbligo che non aveva precedenti e di cui poi si sentì rimordere la coscienza23.
Anche la spesa prometteva d’essere ingente, soprattutto considerando quella che il Facchinetti chiamava la «povertà della Sede Apostolica». Abituati come siamo allo sfarzo del Rinascimento romano e agli investimenti architettonici del papa e dei cardinali, è facile dimenticare che lo Stato pontificio non doveva sobbarcarsi le rovinose spese militari che azzoppavano i bilanci degli altri Stati, e che se avesse dovuto farvi fronte avrebbe esaurito molto in fretta le sue risorse. Appena si seppe che il papa armava galere, corse voce che intendeva nominare dei nuovi cardinali, fors’anche dieci o dodici, chiedendo loro di contribuire alle spese; il 17 maggio Pio V ne creò ben sedici, e tutti pagarono, anche se forse non la pazzesca somma di 30.000 ducati a testa di cui si favoleggiò. Pochi giorni prima il papa aveva levato l’ufficio di camerlengo a suo nipote il cardinale Alessandrino, dichiarando che la sua famiglia doveva essere la prima a fare dei sacrifici, e l’aveva venduto al veneziano cardinale Corner per 68.000 scudi. Nei domini pontifici – comunicava il Rambouillet – si reclutavano soldati, incamminandoli verso Ancona; gli scafi delle 24 galere dovevano arrivare in quel porto entro l’inizio di giugno, e il papa era deciso ad armarli tutti, «cosa che non so come gli riuscirà, non per la spesa, ma per la poca gente di mare che può reclutare in questo stato»24.
In realtà, il progetto era troppo ambizioso e non era stato abbastanza studiato nei dettagli, per cui bisognò ridimensionarlo. Per il momento, i veneziani erano in grado di mandare ad Ancona soltanto 4 fusti di galera, che in origine intendevano armare a Corfù, e altri 4 che avevano pronti in Arsenale; in tutto speravano di poterne dare quindici, che poi alla fine si ridussero a dodici. I primi quattro scafi partirono soltanto alla fine di maggio, e quando giunsero ad Ancona fecero una pessima impressione. «Temo che il numero delle galere di Sua Santità non possa essere così grande come si sperava», esultava il Rambouillet: «non arma altre galere che quelle che gli forniscono i Veneziani, delle quali non ne sono ancora comparse che quattro ad Ancona, tutte nude, molto cattive e sguarnite d’ogni cosa». Il papa, che già aveva una scarsa opinione dei veneziani, fu piuttosto infastidito apprendendo che gli scafi erano in così cattivo stato: come riferì l’Alessandrino, «Nostro Signore n’ha preso un poco d’alteratione, considerando massimamente le promesse loro et la fretta che facevano perché s’armassero presto»25.
L’irritazione del papa era tanto maggiore in quanto, con uno sforzo considerevole, i rematori erano già stati reclutati. «Sua Santità», scriveva lo Zúñiga il 5 giugno, «ha fatto fare tanta fretta nel radunare i rematori, che mi dicono che ha già ad Ancona tutti quelli che gli occorrono. Ha aiutato molto a trovarli la carestia in corso, ma penso comunque che serviranno a poco perché è tutta gente nuova». Il grosso della gente era stato fornito dalle comunità delle Marche e di Romagna, che avevano arruolato volontari a loro spese, trovandoli facilmente data l’annata di fame. Arrivati ad Ancona, però, i rematori trovarono sul posto solo i quattro scafi sprovvisti di tutto, su cui era impossibile imbarcarsi. A Roma cominciarono ad arrivare lagnanze per la «confusione che faceva nella città d’Ancona [...] quella ciurma senza capo, la quale, alla fine, per minor male, si è rimandata alle case loro», in attesa di chiarire la faccenda con le autorità veneziane26.
In effetti il Vaticano, poco competente in materia navale, aveva sottovalutato la complessità della questione, trascurando di chiarire fino in fondo le condizioni della fornitura, e i veneziani ne avevano approfittato spudoratamente. In un primo momento essi avevano suggerito che al comando delle galere fossero nominati dei «gentilhuomini venetiani qualificati», ma il papa dichiarò che giacché pagava le galere, intendeva nominare i sopracomiti a suo gusto. Ma quali altri obblighi spettassero, esattamente, a ciascuno dei due contraenti non era mai stato messo per iscritto; soltanto il 9 giugno, dopo la delusione per il cattivo stato degli scafi arrivati ad Ancona, il papa obbligò l’ambasciatore veneziano a firmare un regolare capitolato per la fornitura di 12 galere, in cui finalmente i rispettivi obblighi vennero messi nero su bianco27.
Ma la stipula del contratto non mise fine alle incomprensioni, perché ciascuna delle due parti aveva l’impressione di essere sfavorita. Tecnicamente, annotava il Facchinetti, «le galere si danno in presto a Nostro Signore nell’istessa forma che Sua Serenità le dà ai suoi sopracomiti, di modo che tutta la spesa che ci va poi appartiene a loro, ché così s’osserva nelle galere di questi signori». Ma in realtà, aggiungeva il nunzio, le galere che la Repubblica consegnava ai suoi sopracomiti erano molto più fornite di quelle che vennero consegnate al papa, prive non soltanto di marinai, ma «di tende, bandiere, botti, barili et de simili instromenti»: appellandosi a un precedente del 1537, i veneziani si aspettavano che fosse il pontefice a provvedere tutto.
Il Facchinetti ebbe, a questo proposito, uno sgradevole dialogo col doge e il Collegio. Sua Santità – li informò – si aspettava che le galere arrivassero con tutti gli ufficiali e i marinai necessari, pagati dalla Serenissima; «mi risposero che vedriano di provedere di questi marinari necessarii et pagati, ma che la gravezza del pagargli non doveva esser loro, perché questi tali sogliono esser pagati dai sopracomiti». Nell’impossibilità di mettersi d’accordo, decisero di aspettare il Colonna, che era atteso a Venezia alla fine di giugno, per risolvere una volta per tutte la faccenda28.
La decisione di affidare la squadra pontificia a Marcantonio Colonna non aveva, inizialmente, rallegrato i veneziani, per lo stesso motivo per cui invece aveva soddisfatto il re. Il papa, tuttavia, quando ebbe deciso di non mandare con la flotta un cardinale legato ma un capitano generale con esperienza bellica, procedette senza perdere tempo: domenica 11 giugno il Colonna ricevette dalle mani di Pio V nella Cappella Sistina lo stendardo di damasco rosso col motto In hoc signo vinces. Quel giorno stesso Marcantonio firmò le patenti con cui nominava capitani delle galere dodici gentiluomini romani, fra cui due Colonna, un Orsini, un Massimo e un Frangipani, dando loro l’autorità di reclutare nelle Marche i marinai e la compagnia di fanteria da imbarcare su ogni galera; quindi partì per Ancona. «Mi diceva che pensava di poter salpare di lì con le dodici galere il 5 luglio», scrisse lo Zúñiga, «anche se doveva prima andare a Venezia; e credo che dovrà contentarsi di partire con molte meno, perché anche se dicono che ci sono molti rematori, hanno gran mancanza di marinai». Erano stati i veneziani a invitare il Colonna, per discutere con lui il piano della campagna; nel frattempo lo avvertirono che altre 6 galere erano pronte a partire per Ancona, e il Facchinetti informò che avevano «messo in acqua una galera per lui non meno honorevole et grande di quelle ch’hanno date al loro generale». Marcantonio li pregò a questo punto di trattenere a Venezia tutte le galere restanti; le avrebbe armate lì, ufficialmente per la speranza di farlo con più facilità che ad Ancona, ma forse in realtà perché in quel modo i veneziani non avrebbero potuto esimersi dal fornirle di tutto il necessario29.
Il viaggio del Colonna a Venezia fu un successo, anche perché Marcantonio accettò di transigere dal punto di vista economico, accollando al papa tutte le spese che i veneziani rifiutavano di addossarsi. Occorse invece più tempo del previsto per radunare le ciurme, che in parte erano ad Ancona e in parte erano tornate alle loro case; gli uomini del papa, inesperti di queste faccende, scoprivano continuamente difficoltà inaspettate, come la necessità di pagare ai rematori parecchi mesi di paga anticipata, «non si potendo havere queste brigate altrimenti». Ma il Colonna aveva fondi e pagò, salvo persuadere i rematori ad accettare soltanto tre mesi di anticipo, «che la Signoria, per ordinario, ne dà quattro [...] ma s’è dato una paga di manco perché s’arma più tardo». Per allestire le ultime quattro galere occorse molto più tempo di quello che il Colonna aveva immaginato: era già il 22 luglio quando il nunzio poté avvisare che finalmente l’ammiraglio era al Lido, pronto a salpare per Ancona, dove avrebbe recuperato gli altri vascelli e fatto vela finalmente verso il Levante30.
Pio V, nel frattempo, non aveva smesso di darsi da fare per accelerare l’allestimento della squadra, sul piano morale come su quello materiale. Ad Ancona era stato inviato un gesuita, con l’esplicito incarico di offrire assistenza spirituale ai soldati della flotta e di distribuire loro il trattatello sul Soldato christiano del padre Possevino. Intanto, però, il papa scoprì che nel contratto con Venezia ci si era dimenticati di includere la fornitura di una nave da carico, indispensabile per trasportare le truppe. Il Colonna infatti aveva ordinato ai suoi capitani di reclutare duecento fanti ciascuno, ma su ogni galera c’era posto soltanto per cento; l’esperienza insegnava che le compagnie sarebbero state ben lontane dal raggiungere la forza prevista sulla carta, ma un’eccedenza era comunque da prevedere. Dunque ci voleva una nave da trasporto; ma dati i tempi, trovarne una era tutt’altro che facile. Alla fine il papa decise di mettere alla prova le reiterate dichiarazioni di fedeltà dei ragusei, e chiese all’ambasciatore Francesco Gondola che la sua Repubblica gliene affittasse una31.
Il dispaccio del Gondola provocò sgomento a Ragusa: i Signori gli risposero d’essere «rimasti di molto mala voglia, perché se non la diamo, veniamo a mostrarci troppo ingrati verso Sua Santità [...] et se la diamo, corriamo grandissimo pericolo che i Turchi ci movano molti garbugli». Pure non si poteva rifiutare, e i ragusei studiarono una soluzione che scongiurasse la vendetta del sultano: ad Ancona si trovava appunto una loro nave da carico, ed essi la offrirono al Colonna, a patto «che per forza la faccia scaricare et se ne serva et che mostri veramente di pigliarla per forza». Se poi per disgrazia la nave fosse già partita, essi ne avrebbero mandata apposta un’altra, che il generale doveva comunque confiscare con la forza; l’importante era che il papa tenesse la cosa segretissima, non rivelando a nessuno «che noi habbiamo consentito di darle questa nave». Pensando al pericolo che stavano correndo, i ragusei sentivano di meritare una ricompensa; e poiché a Roma erano in corso i negoziati per la Lega, chiesero che nel capitolato fosse inserita una clausola a loro favore. Essa doveva contenere la garanzia «che la città di Ragugia col suo dominio sia conservata illesa, né gli sia dato alcuna molestia; ma della sua difesa», aggiunsero, «non si dica nulla per convenienti rispetti». Anche se non si poteva dirlo, sarebbe stato un bel guaio se col pretesto del trattato a qualche generale cattolico fosse venuto in mente di voler introdurre una guarnigione in città.
C’era ancora una squadra, minuscola ma agguerrita, che secondo i piani doveva unirsi alla flotta cristiana, ed era quella dei cavalieri di Malta. Benché conducesse in modo del tutto autonomo la guerra da corsa contro i musulmani e gli ebrei, l’Ordine di San Giovanni dipendeva sul piano spirituale dal papa, e teneva l’isola per concessione di Filippo II, giacché Malta apparteneva al regno di Sicilia; perciò non c’era dubbio che le sue galere avrebbero partecipato all’impresa. Già a marzo Pio V aveva ordinato a tutti i cavalieri di rientrare a Malta e presentarsi al Gran Maestro, e più tardi il governo veneziano avvertì lo Zane che dall’isola sarebbero partite 4 galere per unirsi alla sua flotta. In realtà i cavalieri non avevano voglia di arrischiarsi in mare finché la squadra del Doria non fosse uscita da Messina; del resto, come si affrettò a rilevare lo Zúñiga, essi dovevano unirsi alle galere del re, non a quelle veneziane, «perché questo è il primo obbligo a cui è tenuto quell’ordine». Ancora il 9 luglio Pio V dovette scrivere al Gran Maestro Pietro del Monte assicurandogli che il Doria, nonostante il ritardo dovuto «ad alcuni impedimenti», sarebbe partito presto, e ordinandogli di mandare immediatamente le galere a Corfù, dove avrebbero incontrato la squadra del Colonna32.
Ma ancor prima di essere pronta, la squadra maltese fu colpita dalla catastrofe. Le 4 galere, al comando del cavaliere François de Saint-Clément, erano giunte a Palermo per unirsi col Doria, ma quest’ultimo non era ancora rientrato dalla Sardegna. Il comandante aveva ordine di restare lì ad aspettarlo, ma decise invece di approfittarne per portare a Malta dalla Sicilia un carico di vino e provviste, coll’idea che utilizzando le galere per il trasporto, anziché noleggiare navi da carico, avrebbe potuto «sparagnarsi molti scudi». Diversi informatori, fra cui un corsaro marsigliese noto come Gambadilegno, lo avvertirono che Uluç Alì si aggirava in quelle acque, ma il Saint-Clément non volle crederci. I capitani delle altre galere suggerirono di partire all’alba: la traversata fino a Malta si poteva fare nell’arco d’una giornata, e con la visibilità del bel tempo estivo, se qualche vela minacciosa fosse apparsa all’orizzonte avrebbero avuto tutto il tempo di tornare indietro. Ma il Saint-Clément aveva fretta e appena finito di caricare, la sera del 14 luglio, diede il segnale della partenza. La sua galera era stipata fino all’inverosimile di pesce salato, botti di vino, legname, e addirittura vacche e altro bestiame vivo.
All’alba del giorno seguente, quando pensavano di essere già in vista di Gozo, le galere scoprirono che il pilota imbarcato a Licata li aveva portati fuori strada, e che invece delle isole amiche stavano finendo in bocca a un’intera squadra corsara: Uluç Alì era in agguato con 19 galeotte. Secondo qualcuno, la sera prima aveva sentito sparare il cannone che annunciava la partenza e ne aveva tratto le sue conclusioni. Dopo un inseguimento durato quasi tutto il giorno tre galere vennero catturate, centinaia di schiavi musulmani liberati dal remo, e un’ottantina di cavalieri uccisi o incatenati al loro posto; soltanto una galera riuscì a salvarsi nel porto di Agrigento. La Capitana del Saint-Clément s’incagliò sulla spiaggia di Montechiaro, e venne rimessa in acqua e rimorchiata via dai turchi, dopo che lo scrivano della galera aveva portato in salvo lo stendardo, sfuggendo per un pelo agli schiavi che erano riusciti a sferrarsi e lo inseguivano armati di mannaie; il generale si preoccupò soltanto di salvare la cassa e l’argenteria.
Informato dell’accaduto, Filippo II ordinò che due galere fossero messe a punto nell’Arsenale di Messina e una in quello di Napoli, e consegnate ai cavalieri, insieme a un regalo di sessanta forzati; ma a Malta la notizia provocò l’apertura di un’inchiesta. Il pilota e il comito della Capitana, accusati d’aver sbagliato la rotta, vennero processati e impiccati. Saint-Clément, temendo per la sua testa, scrisse al Gran Maestro che intendeva farsi eremita e andò a Roma a implorare il perdono del papa, ma Pio V gli ordinò di ritornare a Malta e affrontare il processo. Al suo sbarco sull’isola il generale rischiò di essere linciato, dopodiché venne processato, condannato a morte, ridotto allo stato laicale e strangolato in prigione; il suo corpo fu cucito in un sacco e gettato in mare.
Uluç Alì, che gli italiani chiamavano Ucciallì o Occhiali e gli spagnoli Luchalì, fece appendere per i piedi alla Porta della Marina, ad Algeri, la statua di san Giovanni Battista catturata su una delle galere, e mandò al sultano le bandiere vermiglie con la croce bianca di Malta. Il Barbaro, a Costantinopoli, le vide arrivare il 23 agosto, e per un istante si spaventò, perché in città si era levata subito «come un vento nell’aere una voce populare della rotta dell’armata cristiana»; ma quando seppe che si erano perse solo tre galere maltesi, decise che non era poi una gran perdita e si tranquillizzò33.
La notizia che il corsaro era uscito in mare, e con effetti così terrificanti, paralizzò ulteriormente i movimenti delle squadre ponentine in quello scorcio di luglio. Da Roma si avvertì il Colonna che se non era ancora partito facesse attenzione nel viaggio verso Corfù, affinché non gli capitasse quello che era successo alle galere di Malta. Il viceré di Sicilia scrisse al re che il 19 luglio Uluç Alì era stato visto con 22 legni diretto a Porto Farina, e quindi si aggirava ancora in quei mari. Il comandante della Goletta, don Alonso Pimentel, riferì che quello stesso 19 aveva sentito una gran salva di artiglieria a Tunisi, «che dev’essere per il suo ritorno laggiù con il bottino delle galere di Malta». L’unica galera sfuggita al disastro, la Santa Maria della Vittoria, partì da Licata il 25 per ritornare a Malta, in compagnia di una galeotta e un brigantino; incontrati all’altezza di Capo Scalambri due brigantini barbareschi da dodici banchi, li inseguì costringendoli ad arenarsi, ma i prigionieri riferirono che a Capo Passero c’erano altri vascelli nemici, per cui la galera rinunciò a proseguire per Malta e ritornò indietro34.
C’era anche qualcuno che suggeriva di approfittare della situazione: a Genova, l’ambasciatore spagnolo de Silva scrisse al re che secondo un suo informatore in Algeri Uluç Alì «ha portato con sé tutti i Turchi efficienti che c’erano ad Algeri e che non restano se non Mori, gente a suo giudizio inutile»; in città c’era molta e buona artiglieria ma poche munizioni e più di 8000 schiavi cristiani «che vanno liberi per la città», sicché quella era forse l’occasione per tentare un colpo di mano. Ma nei porti cristiani lo stato d’animo prevalente era tutt’altro che incline all’intraprendenza, e soprattutto a Genova la certezza che ormai, con la stagione così avanzata, la flotta del sultano non sarebbe venuta in Occidente aveva raffreddato enormemente lo zelo bellico. Le 3 galere della Repubblica, che si trovavano col Doria in Sicilia, ricevettero dal loro governo l’ordine di caricare a Messina, come facevano ogni anno, la seta acquistata su quella piazza dai mercanti genovesi e ritornare a casa.
De Silva fece notare la sconvenienza di questo ritorno, «in un tempo in cui tutti gli altri principi della Cristianità si muovono per resistere al Turco». Gli fu risposto che Genova era tenuta a servire il re per la difesa dei suoi Stati, ma «vedendo che l’armata del Turco, è notorio, non verrà da questa parte, né a danno degli stati di Sua Maestà, e invece passa dalle parti dei veneziani», i genovesi intendevano pensare innanzitutto agli affari. Da Palermo il Doria, preoccupato, scrisse alla Signoria facendo notare che in quel modo si dava un dispiacere al re e la pregò di ripensarci; per tutta risposta Genova ordinò alle galere di imbarcare il prezioso carico e ripartire «il più presto che potranno». Gian Andrea, furibondo, rispose con una gelida lettera in cui ammetteva la «poca isperienza che tengo dei governi delle republiche» e sperava che laggiù sapessero quel che facevano: evidentemente, ironizzò, ne «hanno discorso assai più maturamente che non ho fatto io».
Ma c’era sempre l’incognita di Uluç Alì. Stefano de Mari, uno dei più grossi armatori genovesi con interessi nel regno di Napoli, scrisse al Doria per chiedergli se «il passaggio delle galee de la Signoria le par sicuro». Il Doria rispose in tono tutt’altro che incoraggiante:
Le dico che non vi è certezza né opinione che Luchiali sia andato in Levante et che, quando bene vi fosse andato, sapemo certo che si sono desunite da lui sei galeote [...]. Come la sa è gioco di fortuna, ma s’io havessi d’andar o che lo faria con fregate o per terra, per non mettermi in luogo che la fortuna di Lucchiali mi potesse battere.
Anche in Spagna i movimenti del corsaro erano seguiti con spasmodica attenzione: un avviso da Orano riferiva che «Occhialì doppo haver prese le galere di Malta attendeva a metter in ordine in Algieri et a spalmare molti vasselli», almeno venticinque o trenta, abbastanza per suscitare allarme e far raddoppiare la guardia lungo tutte le coste spagnole35.
Le galere della Repubblica, salpate da Messina l’11 agosto, arrivarono sane e salve a Genova il 28, «cariche di seta, e di paura di Luchali», ma alla loro partenza il Doria era ancora a Messina a spalmare, tutt’altro che entusiasta alla prospettiva di avventurarsi in Levante e lasciare le coste del Mezzogiorno in balia dei corsari. Già dopo il suo ritorno a Palermo, e prima di ricevere l’ordine regio del 15 luglio, Gian Andrea non nascondeva il suo scarso interesse per la prosecuzione della campagna: «io vado a Messina, di dove (per molto che il volgo parli) non so quel che sarà di me, perché non n’ho ordine et di Corte l’aspetto», scriveva il 23 luglio in una lettera privata. Dodici giorni dopo gli ordini erano arrivati, ed è evidente che l’ammiraglio non li aveva trovati di suo gusto, perché rivolgendosi al viceré di Sicilia non esitò a dichiarare: «tutto questo apparato che si prepara, a mio parere, sarà invano»36.