9. Dove il ritorno di Kubad distrugge le speranze del Barbaro, i mercanti veneziani ottengono la protezione del sultano, Pialì attacca Tinos e viene maltrattato, poi si prepara allo sbarco

Dopo la partenza di Pialì, a Costantinopoli fervevano i preparativi per l’uscita della seconda squadra, con cui dovevano salpare i trasporti diretti a Cipro. Come previsto, Mustafà pascià era stato nominato serdar, comandante in capo dell’esercito d’invasione, e ora sollecitava in tutti i modi la partenza, mentre cercava di decidere su quale galera imbarcarsi. Dapprima scelse quella su cui era salpato cinque anni prima il comandante della fallita impresa di Malta; poi, «esendo stato avertito che quella era galea disgratiata», la cambiò. Quella galera venne poi presa dal chiecaia, l’amministratore di Mustafà, e mentre passava per il canale di Pera perse l’albero maestro, che si spezzò all’improvviso provocando gravi danni; i marinai, inevitabilmente, lo interpretarono come un malaugurio. Alla fine il sultano, che dopo molte esitazioni aveva deciso di non partecipare di persona all’impresa, concesse a Mustafà, in segno di straordinario favore, d’imbarcarsi sulla galera imperiale, da poco finita di allestire e dorare all’attracco del palazzo di Topkapi. Alì kapudan pascià era molto amareggiato, e non lo nascondeva: non soltanto il grosso delle galere era stato affidato a Pialì anziché a lui, ma la presenza di Mustafà, che in quanto visir e membro del governo gli era superiore come grado, voleva dire che la sua autorità sulla squadra sarebbe stata puramente nominale1.

Le preoccupazioni maggiori in vista della partenza riguardavano i trasporti, il cui allestimento tardava. Marcantonio Barbaro, ancora perfettamente libero di muoversi in città e d’incontrare chi voleva, prese nota con cura di tutte le notizie che gli giungevano al riguardo. Fra le maone costruite a Nicomedia e quelle già esistenti nell’Arsenale si arrivava a «non più di 8 o 9 che siano buone per servirsene». Di navi, termine non generico ma specifico con cui s’indicava un particolare e capiente vascello da trasporto, ce n’erano 3 in tutto, comprese le due veneziane sequestrate, e su di esse si caricavano munizioni. Ma il punto più dolente erano le palandarie destinate a traghettare i cavalli, indispensabili a un esercito come quello turco composto soprattutto di cavalleria. Mezza dozzina di palandarie in servizio a Costantinopoli erano state rimesse all’ordine in Arsenale, ma poi erano tornate al loro lavoro quotidiano. Nel Mar Nero se ne fabbricavano 12 a poca distanza dalla capitale, e 15 in un altro cantiere assai più distante; in Caramania, di fronte a Cipro, era stato dapprima ordinato di fabbricarne 30, poi si era ribassata la cifra a 12, ma il console veneziano in Siria comunicava che per ora ce n’erano in cantiere soltanto 6. Il 1° maggio il Barbaro andò a vedere due palandarie che si diceva fossero arrivate dal Mar Nero, e scoprì con soddisfazione che erano soltanto due piccoli brigantini, «che in modo alcuno non possono portar cavalli». Finalmente, il 3 maggio comparvero 6 palandarie, così piccole da poter portare al massimo venti cavalli ciascuna; altre 14 erano in arrivo, e con 5 o 6 di quelle vecchie i turchi contavano di averne 25. In aggiunta, «per far numero di vasselli, vanno ponendo all’ordine da 20 a 25 caramussali», legni da trasporto di piccolo tonnellaggio.

Il sultano sollecitava con impazienza la partenza della flotta d’invasione, ed era chiaro a tutti che l’uscita non poteva più tardare molto, anche se i problemi erano innumerevoli. Tanto per fare un esempio, sarebbe stato necessario rimorchiare le maone, «non vi essendo se non in una i remi da poter vogare»; i remi, infatti, per mancanza di legname erano stati ordinati a Nicomedia, e non erano ancora arrivati. Mancavano anche i rematori, e si cercava di rimediare offrendo premi d’ingaggio anche di 5 o 6 ducati ai volontari di Costantinopoli, oltre a coscrivere per forza i barcaioli che facevano servizio di traghetto attraverso il canale di Pera. Quanto alla scorta di galere, sarebbe stata necessariamente molto ridotta: dopo la partenza della squadra di Pialì ne erano rimaste nell’Arsenale una quarantina, ma di queste almeno 10 erano «del tutto abbandonate», e altre 5 erano piuttosto fuste, legni da guerra a un solo albero e di stazza inferiore alle galere2.

Per la partenza della flotta bisognava però aspettare il ritorno di Kubad, giacché l’esito della sua missione era ancora ignoto. Le notizie del riarmo veneziano non permettevano di farsi troppe illusioni: mentre alla sua partenza a febbraio era diffusa la fiducia che Kubad avrebbe ottenuto la cessione di Cipro, ora l’opinione pubblica era persuasa che si sarebbe dovuto combattere, e che la conquista dell’isola si prospettava difficile e sanguinosa. La Porta preferiva comunque attendere il ritorno dell’inviato da Venezia prima di dare il via all’invasione; ma il ciaus tardava ad arrivare. Il 27 aprile il figlio di Kubad, angustiato da quel ritardo, andò dal Barbaro a chiedere notizie di suo padre, che il bailo non seppe dargli; fra il popolo, che non riceveva nessun tipo di informazione ufficiale, e tuttavia seguiva con estrema attenzione ogni sviluppo, correva voce che i veneziani l’avessero arrestato3.

Nell’attesa, a Costantinopoli si viveva in una strana sospensione, preparando febbrilmente una guerra che tutti in fondo speravano di evitare. Ai primi di febbraio il doge aveva scritto al Barbaro informandolo della decisione di armare la flotta e affidarne il comando allo Zane; ma aveva anche ribadito l’intenzione «di conservare la buona et sincera amicitia nostra con quella Maestà», per cui il generale da mar aveva l’ordine rigoroso di evitare qualsiasi provocazione nei confronti dei turchi. Benché non avesse mai ricevuto questa missiva, il bailo era ben consapevole che il vero interesse di Venezia era di scongiurare la guerra, e fino all’arrivo di Kubad continuò a sperare che fosse possibile farcela: tanto che in una delle molte lettere inviate al suo governo s’informò addirittura se alla fine di aprile, quando fosse scaduto il termine, avrebbe dovuto pagare come ogni anno il tributo che la Repubblica versava al sultano per Cipro4.

Anche i ministri ottomani continuavano a sperare nel successo della missione di Kubad. Durante le feste per la fine del Ramadan i pascià tenevano casa aperta, offrendo da mangiare al pubblico, e il bailo mandò suo figlio Francesco, in incognito, a casa di Lala Mustafà, per vedere che aria tirava. Il giovane venne riconosciuto dal chiecaia del padrone di casa, che lo rimproverò cortesemente per non essersi fatto conoscere, dicendogli che il pascià avrebbe avuto molto piacere di vederlo. Allora il Barbaro mandò il figlio a riverire Mustafà, il quale lo ricevette con estrema cortesia, e fra l’altro gli disse che Venezia «per un sasso (come dice esso Bassà, intendendo l’isola di Cipro) non dovea perder l’amicitia di Sua Maestà».

È difficile credere, leggendo questo rapporto, che l’uomo di cui si parla sia lo stesso che l’anno seguente, in uno scatto d’ira funesta, farà scorticare vivo Marcantonio Bragadin; al figlio del bailo il pascià, «che ragionava con molta dolcezza», disse che suo padre doveva consigliare al doge di cedere, e aggiunse «che il Serenissimo Signor lascia goder delle cose sue i christiani, dicendo: Pera non è ella del Signor? Con tutto questo però voi christiani la godete, et è come vostra». Se Venezia avesse accettato di cedere Cipro, suggeriva in sostanza Mustafà, i suoi mercanti avrebbero continuato ad essere a casa propria laggiù, com’erano in casa propria nel loro quartiere di Pera, in faccia a Costantinopoli. Francesco Barbaro, che non per nulla era figlio d’un diplomatico, se la cavò rispondendo che anche a Cipro e nei domini veneziani «li mussulmani erano ben veduti, et accarezzati», sicché non c’era motivo perché il sultano volesse impadronirsene5.

Una delle speranze cui si aggrappava il Barbaro era che all’ultimo momento Selim si lasciasse convincere a mandare la flotta in aiuto dei moriscos di Granada. Un loro inviato si trovava a Costantinopoli, impegnato a fare pressioni sui ministri della Porta, e il bailo non si fece scrupolo di cooperare con lui per far sì che la bufera andasse a scaricarsi addosso al Re Cattolico. Insieme fecero pressione sul vecchio mufti Ebussuud perché emanasse una nuova fatva, imponendo al sultano di muovere contro un nemico acerrimo come il re di Spagna anziché contro i veneziani che erano suoi amici. Per mezzo di persone di fiducia, fra cui il medico rabbi Abram Abensantio, il bailo trasmise al mufti materiali che dimostravano la vanità dei pretesti addotti dal governo ottomano per rivendicare Cipro. L’autorità morale dell’ottantenne Ebussuud era tale che il Barbaro sperò seriamente, per suo mezzo, di convincere il sultano a cambiare idea, e rimase poi sempre convinto d’esserci quasi riuscito: perché il vecchio giurista, dopo aver ascoltato con attenzione gli intermediari, aveva fatto sapere al bailo di aver parlato energicamente al sultano, e s’era spinto fino a promettergli «che al ritorno di Cubat s’accomoderebbero le cose»6.

Ma il 5 maggio, nel pomeriggio, Kubad e il dragomanno Mateca Salvago sbarcarono a Costantinopoli, portando la notizia della gelida accoglienza ricevuta più d’un mese prima a Venezia, e la risposta ancor più insultante del doge, che volutamente trascurava di attribuire al sultano i titoli onorifici consueti. In quell’istante andò in fumo la speranza di conservare la pace, con grande costernazione del Barbaro, che in epoche diverse si espresse in termini contraddittori a proposito di questa risposta. A caldo, quando la guerra era ormai sicura e il suo esito incerto, si disse orgoglioso che l’ingiuriosa richiesta del sultano fosse stata accolta come meritava, e si spinse fino a ringraziare Dio che «mi ha concesso un giorno così felice sopra tutti gli altri». Ma al suo ritorno a Venezia, tre anni dopo, quando la guerra, nonostante Lepanto, si era ormai conclusa molto male, il Barbaro disse al doge di non aver capito «per qual causa, senza alcun frutto, abbia voluto la Serenità Vostra così incitare i Turchi», e aggiunse che se oltre a scrivere così belle parole gli avesse ordinato in segreto di continuare a negoziare, si sarebbe potuto salvare la pace:

Duolmi in estremo d’averlo a dire, poiché de praeteritis non est consilium, che se allora, con quella prontezza di gagliarde provvisioni con le quali la Serenità Vostra si dimostrò così disposta alla guerra, mi avesse insieme dato commissione di trattenermi in negozio [...] sia sicurissima che le cose, con somma riputazione, anco con l’armi in mano, degnamente si accomodavano, conoscendosi allora, così fra i grandi come fra i piccoli non solamente dispiacere, ma timore di quella guerra7.

Anche Mehmet pascià trovò che i veneziani erano stati molto stupidi a mandare una risposta così oltraggiosa, e non si fece scrupolo di dirlo all’inviato Ragazzoni, venuto un anno dopo a negoziare una possibile pace. Se i Signori si fossero degnati di dar retta ai consigli che lui, Mehmet, aveva mandato loro tramite Kubad, le cose non sarebbero andate a quel modo, disse; e più di tutto «biasimava la risoluzione, che fece Vostra Serenità in scriver una così superba lettera al Gran Signore, con diminuzione delli suoi titoli; che sopra ogn’altra cosa aveva alterato, e incrudelito l’animo di lui contro questa repubblica». Il dragomanno Mateca, che dopo l’arrivo assisté al colloquio tra Mehmet e Kubad, riferì che quest’ultimo, cercando di rendersi utile ai suoi amici veneziani, aveva descritto i grandi preparativi militari in corso a Venezia «cargando la mano gagliardissimamente», tanto da raccontare che si armavano 200 galere. Kubad aveva addirittura negato che laggiù ci fosse la carestia, portando come prova un pane di quello che si vendeva in piazza e comunicando il suo prezzo: «et io assicuro Vostra Serenità che qui el si mangia a pretio più caro», riferiva compiaciuto il Barbaro. Ma il sultano, appresa l’accoglienza insultante riservata a Kubad, rimase così sdegnato che volle ascoltare personalmente il ciaus, infrangendo il protocollo abituale per cui ogni comunicazione lo raggiungeva attraverso il gran visir; e da quel colloquio emerse la decisione definitiva di fare la guerra a oltranza contro gli assurdi e screanzati infedeli8.

Il 13 maggio all’alba Alì e Mustafà dopo aver baciato la mano al sultano salparono alla volta di Rodi, con 35 galere, 5 fuste, 20 palandarie, 8 maone, 5 navi e parecchi caramussali; e il 16, dopo la consueta sosta di preghiera a Bes¸iktas¸, ripartirono verso gli Stretti. Il Barbaro aveva osservato attentamente ogni cosa, e notò che

alle maone vi mancano i remi, et sopra vi hanno caricata gran quantità di artigliarie, et per quanto intendo li manca la polvere, et sopra vi sono da 500 gianizzeri. Le palandarie sono piccole et disarmate, et hanno solamente 30 homini per una per vogarle, et porteranno al più 20 cavalli;

non avevano artiglieria, se non una piccola petriera, che sparava palle di pietra da 10 libbre. Le due navi veneziane sequestrate avevano ancora a bordo i loro equipaggi; soltanto gli ufficiali e gli scrivani erano sbarcati, benché il Barbaro avesse consigliato anche a loro di restare. Tutti i legni, per non perdere tempo durante il viaggio, avevano già provveduto alla spalmatura delle chiglie col sego, operazione che di solito era rimandata a qualche tappa successiva. Con la partenza del serdar divenne evidente a tutti che il sultano non avrebbe partecipato all’impresa: una dimostrazione di poltroneria che suscitò emozione e malcontento fra i giannizzeri, tanto che molti dei loro ufficiali dovettero essere destituiti per non aver saputo soffocare le proteste9.

Fino a quel momento nessuno a Costantinopoli si era preoccupato di considerare il Barbaro come il rappresentante d’un paese nemico, e di limitare la sua libertà di movimento. Ma fra le molte cose sgradevoli che Kubad raccontò al suo ritorno c’era anche il trattamento poco riguardoso che i veneziani stavano riservando a un altro ambasciatore turco di passaggio, cosa che irritò non poco il sultano e il divan. Mahmud bey era un nobile bavarese catturato quarantaquattro anni prima alla battaglia di Mohács, fattosi turco in schiavitù e pervenuto poi ai vertici della diplomazia ottomana; il bailo lo menziona spesso nei suoi rapporti, lodandolo come «homo assai intelligente delle cose del mondo», e stimato da tutti per le sue qualità. In viaggio per la Francia, a gennaio Mahmud bey era arrivato a Venezia, dove contava di fermarsi solo pochi giorni; l’inviato francese Du Bourg,che lo accompagnava, scrisse «che in tutto questo viaggio si è sempre portato da vispo e gagliardo sessantenne». Ufficialmente l’ambasciatore andava a Parigi per districare il complicato caso dei crediti di don Josef Nasi, ma l’ambasciatore francese presso la Porta informò il suo re che in realtà «ha l’incarico di chiedervi l’uso del porto di Tolone per farci svernare la loro flotta, se per caso fossero costretti a dare soccorso ai Mori di Granada».

Sia come sia, Mahmud bey aveva con sé una lettera del Barbaro, che lo raccomandava al doge come «mio confidentissimo amico», e pregava che fosse trattato bene durante la sua sosta a Venezia, giacché «havendo io acquistato per buono, et sincero amico detto Mamut bei, giudico che metta conto al publico il conservarselo» (ma forse anche perché subodorava che sul trattamento ricevuto da Mahmud a Venezia i turchi presto o tardi avrebbero potuto modellare il suo). Nonostante tutte queste belle parole, la Signoria trattenne Mahmud bey, impedendogli di continuare il suo viaggio; all’inizio rimase a piede libero, ma quando la guerra apparve inevitabile divenne a tutti gli effetti un prigioniero. I turchi del suo seguito vennero gettati in carcere, e lui fu confinato in casa con le guardie alla porta, in attesa d’essere trasferito nel castello di Verona, dove sarebbe rimasto per tre anni, fino alla conclusione della pace. I francesi protestarono con estrema durezza contro l’arresto di un ambasciatore diretto al Re Cristianissimo, denunciandolo come una patente violazione dello ius gentium10.

Informati di tutto questo, il sultano e i suoi ministri si accorsero all’improvviso di quanto benevolo fosse stato fino allora il trattamento riservato al Barbaro. Subito dopo l’arrivo di Kubad, il bailo annotava non senza apprensione:

Io ho speranza che non mi saranno qui fatte troppe straniezze, procedendo veramente il Magnifico Bassà meco con molta destrezza; et per quanto intendo Sua magnificenza mi lascierà in casa mia, et manderà alla guardia di essa un chiaus [...] pur non mi posso per ancora assicurar di cosa alcuna, essendo già molto alterati per la risposta così rissoluta della Serenità Vostra, et anco per la ritenzione di Mamut bei, et de i sudditi di questo Signor.

Ma mentre scriveva queste parole s’interruppe, perché «mi è sopragionta alla casa gran moltitudine di gente con diversi chiaussi, et col chiaus bassì capo loro». Che il capo dei ciaus si fosse disturbato personalmente non prometteva niente di buono, perché «in ogni loco dove egli va per qualche deliberatione, porta seco molto spavento». In questo caso, però, il dignitario turco fu cortesissimo: informò il bailo che il sultano proibiva a tutti i suoi di lasciare la casa, con l’eccezione d’un servitore incaricato di fare la spesa, e mise di guardia un ciaus con 6 giannizzeri, ma spiegò al bailo che non doveva prendersela, perché tutto sarebbe finito bene. Il turco non mancò di sottolineare «che al tempo dell’altra guerra il Bailo che si attrovava qua fu posto in torre», e di accennare all’inciviltà che i veneziani avevano dimostrato nei confronti di Kubad; ma aggiunse amichevolmente che con lui il sultano aveva ordinato di procedere in modo più umano.

In effetti il Barbaro apprese pochi giorni dopo che il divan, dopo aver ascoltato il rapporto di Kubad, aveva fatto cercare nelle vecchie scritture il trattamento che era stato riservato al bailo veneziano al tempo dell’altra guerra, trent’anni prima. Appurato che il disgraziato era stato imprigionato in una torre, qualcuno aveva proposto di applicare lo stesso trattamento anche a lui; ma la maggioranza, col gran visir, si era espressa per una linea più morbida. Cominciava così per il Barbaro e per i suoi familiari e servitori un periodo di arresti domiciliari che sarebbe durato tre anni; tanto più pesante in quanto il pover’uomo, che vedeva avvicinarsi la scadenza del suo mandato, già parecchi mesi prima aveva pregato la Signoria di affrettarsi a nominare il suo successore, perché lui stava poco bene e teneva famiglia, sicché non vedeva l’ora di tornare a casa. Un agente del viceré di Napoli, che lo vide alla finestra circa un anno dopo l’inizio della prigionia, riferì che gli erano venuti tutti i capelli bianchi.

In realtà il regime imposto ai prigionieri non fu troppo duro. Il bailo continuò a tenersi informato sugli avvenimenti, a ricevere missive da Venezia, che teneva sepolte in un luogo segreto insieme al cifrario, e a trovare il modo di spedire le sue lettere. Il dottor Salomone Askenazi, ebreo tedesco nato a Udine e laureato in medicina a Padova, emigrato da anni a Costantinopoli, medico personale sia del Barbaro sia del gran visir, e attivissimo faccendiere, s’incaricava di portarle fuori di casa, nascondendole nelle scarpe. Poi, pagando bene, trovava il modo di farle proseguire fino a Candia, anche se qualche volta quelli che le portavano, presi sul fatto, vennero «fatti morire per metter spavento agli altri», e il bailo si accorse che trovare un «portalettere» disposto a rischiare il palo diventava sempre più difficile. All’inizio Mehmet pascià, seccato di tutta quell’attività, ordinò di sbarrargli le finestre di casa con assi di legno, e più tardi, avendo scoperto che nonostante tutto il bailo continuava a comunicare coll’esterno, gli fece addirittura murare i balconi; il Barbaro protestò, e ottenne che per avere un po’ di luce, «alcuni balconi ma pochi» fossero chiusi solo con reti di ferro. Ad ogni modo, «in parte della casa bisognava star con candele il dì et la notte».

Gli arresti domiciliari non erano rigorosi. Il Barbaro, che soffriva di dolori, ottenne di poter uscire due volte alla settimana per andarsi a curare ai bagni, e ne approfittò per incontrare i suoi contatti; altre volte gli fu concesso di andare a passeggio nei giardini pubblici. Suo figlio, che era «di complessione malinconica», aveva il permesso di andare a passeggio per due ore ogni tre giorni; ma i giannizzeri di scorta fecero passare un brutto quarto d’ora a un greco che si era permesso di togliersi il berretto al suo passaggio. Anche la richiesta di far venire un prete in casa per dire messa fu accolta all’inizio senza obiezioni; paradossalmente, è a Venezia che la cosa, risaputa, rischiò di suscitare uno scandalo, perché le nuove regole della Controriforma proibivano severamente di celebrare la messa nelle abitazioni private11.

Ancora più corretto fu il trattamento dei mercanti veneziani che si trovavano a Costantinopoli. Dopo il sequestro delle due navi e delle loro mercanzie, il gran visir aveva garantito al bailo che non avrebbe più adottato nessuna misura fino al ritorno di Kubad; però i mercanti non potevano andarsene, fino a quando non si fosse appurato il trattamento riservato dalle autorità veneziane ai sudditi del sultano. I mercanti presentarono una supplica per ottenere il dissequestro della loro roba, prudentemente accompagnata da un regalo di 4000 zecchini per il gran visir e di 500 per il dragomanno Ibrahim bey. La misura venne decisa in una riunione ufficiale del Consiglio dei Dodici, che costituiva l’organo di governo della comunità veneziana a Pera, e la somma fu messa insieme tassando tutti i mercanti in proporzione al capitale che ciascuno sperava di recuperare. Mehmet accolse con favore la richiesta e gli zecchini, e consigliò i mercanti di preparare una supplica ufficiale da consegnare personalmente al sultano. Bisognò attendere l’occasione favorevole, ma finalmente i mercanti riuscirono a incontrare Selim che se ne andava a spasso in caicco nel Corno d’oro e gli rimisero il foglio, che fu «cortesemente pigliato da Sua Maestà, et fatto legger».

Due giorni dopo, il 4 aprile, il sultano trasmise la supplica al divan, accompagnata dal suo parere favorevole, «essendo la mente, et intentione di questa Maestà, che niuno mercante patisca»; perciò venne deciso di restituire ai veneziani tutte le merci sequestrate. L’obbligo di non lasciare Costantinopoli non fu però revocato; in attesa di sapere com’erano trattati i mercanti levantini a Venezia, il governo stabilì che per recuperare le loro merci i veneziani dovevano depositare una garanzia. I mercanti ebbero la faccia tosta di non accontentarsi, e cominciarono a insistere perché le mercanzie fossero restituite senza bisogno di versare un pegno; ma invece di irritarsi il sultano fece procedere speditamente il dissequestro, ed entro pochi giorni tutte le derrate che si trovavano sulle due navi vennero scaricate e restituite ai proprietari.

Quando Kubad arrivò a Costantinopoli, si seppe che a Venezia i mercanti levantini ed ebrei non soltanto si erano visti confiscare le merci, ma erano stati tutti quanti imprigionati. Com’è ovvio, la notizia fece una pessima impressione, ma Selim non volle prendere provvedimenti punitivi, e i mercanti veneziani restarono a piede libero. All’inizio si fece capir loro, discretamente, di non farsi vedere troppo in giro, perché la gente poteva non essere così ben disposta nei loro confronti com’erano il sultano e il governo. Ben presto, però, ebbero il permesso di negoziare la vendita delle merci dissequestrate; la cosa, risaputa in Cristianità, fece subito nascere il sospetto che turchi e veneziani avrebbero finito per mettersi d’accordo e fare la pace, lasciando nei guai il Re Cattolico. È vero che l’indulgenza della Porta nei confronti dei mercanti veneziani era fuor del comune: alcuni di loro, che l’inverno passato avevano acquistato una nave e l’avevano caricata di grano, ottennero il permesso di farla partire, dietro promessa che non sarebbe andata a Venezia. Ovviamente, come riferisce il Barbaro al doge, «pur partendo di qui sotto pretesto di andar altrove, la se ne viene in quella inclita città»; e il bailo continua, sornione: «credo che con questa occasione li nostri mercanti che si trovano qui, et che sono in libertà, haveranno havuta commodità di far qualche contrabando delle robbe loro»12.

Inoltratosi nel Mar di Marmara il 17 aprile, Pialì il 25 era ancora a Gallipoli, dove si stavano armando 8 galere; il bailo, che ne fu informato quattro giorni dopo, finì per pensare che anche a Pialì fosse stato ordinato di non uscire in mare aperto prima del ritorno di Kubad. A Costantinopoli si dava per certo che l’ammiraglio si sarebbe spinto almeno fino a Modone, nella Morea, per imbarcare altre truppe da aggiungere ai suoi 2000 giannizzeri; ma sulla destinazione ulteriore correvano le voci più disparate. Forse si sarebbe limitato a tener d’occhio le flotte cristiane, per evitare che attaccassero per prime, incrociando appunto all’altezza di Modone; ma forse, una volta appurato che i veneziani non erano ancora usciti dai porti, avrebbe potuto rischiare di spingersi nell’Adriatico per attaccare Cattaro, che era un vecchio progetto di Pialì, ed era anche possibile che avesse ordine di attaccare i possedimenti veneziani nell’Arcipelago13.

A Venezia si smise presto di temere che Pialì potesse entrare nell’Adriatico. Ancora dopo la metà di giugno nessuna delle basi avanzate veneziane aveva comunicato di aver avvistato la flotta: non c’erano notizie da Cerigo né da Zante, e neppure da Creta, dove le ultime lettere datavano dal 19 maggio, il che permetteva di escludere anche l’altra alternativa, che cioè l’armata si fosse diretta senz’altro a Cipro. I veneziani, sempre più inclini all’ottimismo, erano sicuri che non fosse uscita dagli Stretti. In effetti Pialì si era spinto fino a Negroponte, l’attuale Eubea, dove si fermò a spalmare, approfittando della sosta per imbarcare truppe nei porti vicini, fra cui il Pireo. Un capitano greco salpato da Negroponte il 6 maggio e approdato in Sicilia quasi un mese dopo si affrettò ad avvertire il viceré e Gian Andrea Doria di quello che aveva visto: c’erano laggiù – scrisse con evidente esagerazione – «centocinquanta galere della flotta del Turco, di cui 100 erano ben armate di ciurma veterana, esercitata e pratica, e le altre 50 armate di gente nuova». Sulle galere si stavano imbarcando i sangiacchi delle province circostanti con i loro sipahi, «i quali non si erano portati i cavalli, perché dicevano che dovevano servire in mare, e non in terra»14.

Il greco s’era informato anche sulla destinazione di tutta quell’armata, e aveva appreso che doveva salpare il 15 maggio per Anamur, piazza costiera di fronte a Cipro, che i turchi avevano fortificato negli ultimi anni, e dove il giorno di san Giovanni si diceva che doveva trovarsi il sultano con tutto il suo esercito. Ad Anamur – concludeva il rapporto – erano state preparate 80 palandarie per il trasporto dei cavalli, che sarebbero state rimorchiate dalle galere; e anche queste ultime dovevano portare quattro cavalli ciascuna. Poiché non possediamo gli ordini consegnati a Pialì alla sua partenza, non sappiamo se questo appuntamento fosse stato concordato fin dall’inizio; o se invece un nuovo ordine del sultano non l’abbia raggiunto a Negroponte, revocando la ricognizione in forze verso la Morea e le isole dello Ionio, in seguito alle informazioni portate da Kubad sull’armamento della flotta veneziana e sul possibile intervento di quella spagnola. In tutto il Levante regnava in quei giorni una spasmodica incertezza sui prossimi movimenti delle flotte, e non era affatto chiaro se sarebbero stati i turchi oppure i cristiani a colpire per primi. Un avviso spedito da Venezia il 19 giugno riferisce che fra le popolazioni musulmane delle coste si stava spargendo il panico, tanto che fuggivano nei boschi, e anche gli ebrei stavano evacuando le località costiere, sapendo fin troppo bene che cosa sarebbe stato di loro in caso di uno sbarco veneziano15.

A colpire per primo, in realtà, fu Pialì. Tanto il Barbaro, a Costantinopoli, quanto il governo veneziano si aspettavano un attacco contro i loro avamposti più estremi, Tinos nelle Cicladi oppure Cerigo, l’antica Citera. Osservatorio prezioso al largo del Peloponneso, quest’ultima era un elemento importante del sistema imperiale veneziano, trovandosi «in bellissimo sito, che scopre tutti li mari [...] onde si può dir che sii una lanterna dell’Arcipelago», e in particolare era considerata cruciale per la difesa di Creta, tanto da essere definita «un occhio dell’isola di Candia». A Venezia ci si aspettava che Cerigo fosse attaccata, ma si pensava anche che se si fosse spinto fin lì Pialì sarebbe caduto in trappola: tentando di spiegare a Roma la situazione strategica, il Facchinetti definì Cerigo «isola di questi signori della quale qui non si teme, sendo l’armata loro in termine da poterla soccorrere et diffendere»16.

Ma ad essere attaccata, nella seconda metà di maggio, fu Tinos, l’unica isola ancora in mano ai colonizzatori italiani nel cuore dell’Arcipelago, dopo che il sultano aveva preso Chio ai genovesi, appena pochi anni prima. Francesco Coronello, che governava la vicina isola di Andros per conto di Josef Nasi duca di Nasso, «sentito come Piali bassa era in Athenes», gli mandò una fregata per avvisarlo di venire a conquistare Tinos che era senza difesa né vettovaglie; il pascià gli rispose «che per hora non podea andar, perché volea andare a Cipro», ma l’altro lo esortò a trovare comunque il tempo per conquistare Tinos, che in virtù della sua posizione era diventata «rifugio di tutti li schiavi et receto de tutti li vasselli cristiani». Questo, almeno, è ciò che raccontò la comunità di Tinos nella supplica che rivolse al governo veneziano dopo l’attacco, per chiedere l’indennizzo dei danni subiti. Nel racconto si coglie l’eco dell’odio con cui i veneziani guardavano al Nasi, e non è detto che si debba prestargli fede: più tardi nacque addirittura la voce che «Joseffo di Nasi Ebreo» avesse corrotto Pialì per indurlo ad attaccare Tinos, nella speranza di farsela regalare dal sultano. In ogni caso, la supplica concludeva che «sentendo queste parole, Piali è venuto a Tine, et fatto grandissimo danno»17.

Anche senza le suggestioni dell’infido Coronello non c’era niente di sbagliato, dal punto di vista di Pialì pascià, nel tentare di impadronirsi di Tinos. Dopo Chio, l’isola era la più importante dell’Arcipelago, con la sua popolazione di circa diecimila persone, «buona parte delle quali usa la lingua italiana, e vive nel rito latino, cosa reputata degna di maraviglia di un popolo che habita nel mezo dell’istessa Grecia». Le relazioni dei rettori veneziani sottolineavano che la popolazione era bellicosa, fedelissima a San Marco e capace di difendersi dalle fuste dei pirati, sicché l’isola era da tempo il solo rifugio nell’Arcipelago per gli schiavi cristiani che fuggivano da Costantinopoli o evadevano dai legni turchi. Il Paruta, esagerando forse un po’, con una di quelle immagini ad effetto che i veneziani impiegavano volentieri per le isole del loro dominio aggiunse che Tinos era «quasi chiave dell’Arcipelago»18.

Contro Tinos Pialì tentò un attacco di sorpresa, salpando dopo il tramonto da Castel Rosso, sull’estremità dell’Eubea, e presentandosi all’alba davanti all’isola, dove mise a terra qualche migliaio di fanti. L’idea era di prendere d’assalto la città, che si trovava a cinque miglia nell’interno, prima che fosse messa in stato di difesa. Ma il governatore, che già da tempo aveva fatto rafforzare le fortificazioni, spianato le case all’esterno per aprire un campo di tiro all’artiglieria, e registrare gli abitanti in un servizio di guardia, fin dal primo avvistamento delle vele nemiche fece sparare il cannone, e l’intera popolazione dell’isola venne a rifugiarsi entro le mura, per cui i difensori erano pronti e il primo assalto fu respinto.

I turchi passarono la notte sulla spiaggia, fuori dalla gittata dell’artiglieria, poi sbarcarono alcuni pezzi e provarono a battere i bastioni senza successo; infine iniziarono un assedio in piena regola, intimando al rettore e agli abitanti di arrendersi, con minaccia di atroci castighi. Dopo dieci giorni, però, la città resisteva ancora, e Pialì si decise a reimbarcare la sua gente, «avendo prima con grandissima rabbia dato il guasto a tutta l’Isola, posto il fuoco ne’ Casali, distrutte le Chiese, e ammazzati gli animali»; i veneziani, per ritorsione, impiccarono fuori delle mura alcuni giannizzeri catturati. Di lì a pochi giorni, e ben prima che arrivasse alla Porta un rapporto ufficiale su quella disgraziata faccenda, in modo misterioso fra la popolazione di Costantinopoli correva già voce «che ’l magnifico Pialì sia andato a tentar Tine, dove sarebbe stato maltrattato»19.

Al malumore dell’opinione pubblica contribuirono le cattive notizie che arrivavano da Rodi, dove l’avanguardia di galere al comando di Murat rais non aveva dato buona prova di sé. Arrivata all’isola, dove intanto il sangiacco locale aveva provveduto a sequestrare i mercanti veneziani e le loro robe, la squadra era uscita in mare per intercettare eventuali movimenti del nemico, e s’era imbattuta nei trasporti che conducevano a Cipro i 2000 fanti del Martinengo. Ma le navi, ben munite di artiglieria e cariche di soldati, si erano rivelate un osso troppo duro e avevano respinto con gravi danni le galere di Murat rais. La notizia correva su tutte le bocche a Costantinopoli, insieme con quella dello scacco di Pialì a Tinos, e il Barbaro la raccolse con soddisfazione: la guerra sul mare era cominciata bene20.

A Rodi, il 5 giugno, la squadra di Pialì reduce dall’attacco a Tinos si congiunse con quella del kapudan pascià, arrivata il giorno prima: i pezzi per l’invasione di Cipro cominciavano ad andare a posto sulla scacchiera21. Secondo le informazioni che giungevano al governo veneziano, sulle galere turche c’era la peste, ma non è detto che si debba prestar fede a queste voci, che a volte erano del tutto ingannevoli: a Venezia, per esempio, si continuò a credere fino a luglio che solo una parte delle galere si fosse diretta verso Levante, e che la maggior parte, almeno un centinaio, si trattenesse all’altezza di Creta, «per impedir, come si crede, il soccorso che si volesse mandare in Cipro»22. In realtà a Rodi erano ormai riunite tutte le squadre ottomane, per un totale di circa 200 vascelli da guerra, oltre ai trasporti. Il conto è presto fatto: sei o sette galere erano uscite all’inizio di febbraio,25 a marzo con Murat rais, 75 ad aprile con Pialì, altre 35 a maggio con Alì e Mustafà, e 8 erano state armate a Gallipoli, il che ci porta già a quasi 150. Ad esse bisogna aggiungere quelle delle guardie di Rodi, Chio, Negroponte e Alessandria, circa una trentina; inoltre il sultano aveva ordinato ai leventi, i corsari musulmani che si annidavano nei porti dell’Adriatico e dell’Egeo, di riunirsi alle sue bandiere, anche se i legni di quei corsari erano soprattutto galeotte e fuste.

A Venezia si concluse che una volta riunita, «tutta l’armata non poteva giungere a 200 galere, se ben con fuste et altri vascelli passarebbe questo numero di legni». Un rapporto giunto da Rodi per la via di Candia era più preciso: 155 galere, comprese quelle uscite con Murat rais e quelle delle guardie, 70 tra fuste, fregate e fregatine, «tutte mal ad ordine». Un veneziano fuggito dalla nave Bonalda dopo lo sbarco a Cipro riferì che a Finike erano state contate 160 galere da 23 banchi e 60 fuste. Nelle testimonianze stampate in seguito si ritrovano cifre analoghe: anche per il cipriota Sozomeno le galere erano 160, di cui metà «benissimo all’ordine, con cent’huomini da combatter per ciascuna», l’altra metà a corto di uomini e con galere vecchie, più 60 fra galeotte, fuste e brigantini corsari; per l’altro cipriota Calepio c’erano 160 galere e galeotte, 60 fuste e 40 fregate. Le cifre discordano di poco, e se ammettiamo che alcune delle galere contate dal Barbaro fossero in realtà galeotte o fuste la discordanza diventa irrilevante23.

Era una forza considerevole, ma non tale che gli ammiragli cristiani, una volta congiunte le loro flotte, non potessero sperare di batterla, soprattutto se l’avessero sorpresa durante il viaggio verso Cipro, con la maggior parte delle galere impegnate a rimorchiare i vascelli da trasporto. Ma i loro preparativi erano stati troppo lenti e l’occasione andò sprecata. Il 24 giugno, giorno in cui gli ammiragli del sultano dovevano cominciare a imbarcare l’esercito sulla costa della Caramania, lo Zane era ancora in viaggio da Zara a Corfù, con la sua flotta ridotta dall’epidemia ad appena 70 galere; il Quirini, a Candia, non era ancora partito per raggiungerlo con le sue 22; le 30 delle guardie invernali erano sparse in tutto il Dominio da Mar, tanto che il nuovo provveditore di Corfù, Sebastiano Venier, era riuscito a metterne insieme appena 10 per un’azione contro il forte turco di Sopotò. Il Doria era diretto in Sardegna con le galere del re, per imbarcare la fanteria di cui era sprovvisto; e Marcantonio Colonna, che allestiva 12 galere per conto del papa, non aveva ancora finito di armarle fra Ancona e Venezia. Per quanto affrettata e approssimativa fosse stata la pianificazione dell’impresa, il tempo e la geografia davano ragione ai turchi: Cipro era davvero troppo lontana per essere difesa.