27. Dove don Juan impara a gestire un consiglio di guerra, la flotta cristiana salpa da Messina e raggiunge Corfù, il clero greco entra in agitazione, il corsaro Karagia Alì compie una ricognizione spericolata, e sulla flotta turca tutti pensano al ritorno a casa

Preparandosi a salpare da Messina al comando della flotta più potente che avesse mai solcato le acque del Mediterraneo, don Juan fece tesoro dei consigli dei più famosi militari spagnoli, che intrattenevano con lui una corposa corrispondenza. Il duca d’Alba gli aveva scritto da Bruxelles un lungo promemoria, per insegnargli a gestire un consiglio di guerra, e forse è anche grazie a queste istruzioni che don Juan riuscì a pilotare la decisione nella direzione voluta. I militari – spiegava il vecchio massacratore di eretici – sono gente suscettibile, «che non darebbe un proprio dito neanche per il fratello o per il figlio»: difetto da perdonare in quanto è l’onore che li spinge a comportarsi così. Essi vivono le riunioni del consiglio come una gara in cui ognuno vuole guadagnare onore a spese degli altri, e bisogna imparare a sfruttare questa loro debolezza anziché lasciarsene trascinare. Prima del consiglio, è utile chiedere privatamente all’uno o all’altro la sua opinione, gratificandone l’amor proprio: così, chi ha già confidato al comandante il suo parere non potrà poi abbracciarne uno diverso per il puro gusto di contraddire gli altri. «In consiglio non permetta Vostra Eccellenza che ci siano contese: discutere la materia, molto bene; però contese private Vostra Eccellenza non deve permetterle in nessuna maniera, perché distruggerebbero la sua autorità».

Il duca proseguiva consigliando a don Juan di riunire di tanto in tanto un consiglio allargato, invitando i colonnelli e anche qualche capitano, «per dargli pasto di cose già pubbliche e tali che si possano discutere in un consiglio di questo tipo», gratificando, anche in questo caso, il loro amor proprio. Con i soldati bisognava mostrarsi sempre allegri e scherzare, elogiando una volta una nazione, una volta l’altra; per il resto, mostrarsi preoccupati per le loro paghe, per le vettovaglie e l’alloggio, e quando i soldati non sono trattati bene far vedere che si è dispiaciuti, e che si castigano i responsabili. Ma il problema più grande di tutti era imparare a tenere in pugno i subalterni, e non farsi trascinare da loro. «Sappia Vostra Eccellenza che i primi con cui dovrà combattere saranno i suoi stessi soldati, che le consiglieranno di combattere a sproposito e mormoreranno perché non lo fa, e diranno che perde le occasioni». Don Juan era avvertito; restava da vedere se sarebbe stato all’altezza. «Non posso non confessare che Vostra Eccellenza è troppo ragazzo per chiederle di resistere a questi assalti, con cui anche noi vecchi ci troviamo in grandissima difficoltà», concludeva dall’alto della sua gloria il governatore dei Paesi Bassi1.

Per quanto riguardava il comando della flotta in mare, però, il duca d’Alba non poteva essere d’aiuto. «Io sono un marinaio così scadente», confessava, «che quello che saprei dire del mare sono gli accidenti provocati dal mal di mare, che è l’attività in cui sono stato occupato la maggior parte del tempo che ho navigato». Eppure, una volta presa la risoluzione di salpare in cerca del nemico c’erano delle decisioni da prendere, e don Juan non ne sapeva abbastanza per prenderle da solo. Fra i comandanti cristiani a Messina si era discusso fin dal primo momento sulla formazione che avrebbe dovuto assumere la flotta il giorno della battaglia, e come annotava il Provana «varie sono state le opinioni, di farla in forma lunare, ovvero in fronte dritta, et se in un corpo solo o vero in diverse squadre»; bisognava decidere come impiegare le galeazze, ripartendole lungo tutto il fronte o assegnandole alle ali, e che cosa fare delle navi da trasporto, la cui artiglieria poteva tornare utile in battaglia, ma che erano troppo lente per tenere il passo delle galere2.

Il principe chiese aiuto a don Garcia de Toledo, che dal suo buen retiro di Pisa gli scrisse una lettera piena di cattivi presentimenti e di buoni consigli. «Confesso di nuovo a Vostra Altezza che più la vedo avvicinarsi ai nemici, tanto più mi preoccupo, e tanto meno mi sento tranquillo», cominciava, in modo poco incoraggiante, il vecchio marinaio; seguivano, però, indicazioni elementari ma pratiche, di cui don Juan fece tesoro. La flotta non doveva muoversi tutta insieme, ma suddivisa in squadroni, altrimenti il gran numero delle galere avrebbe provocato confusione, «come capitò a Prevesa». Bisognava organizzare tre squadroni, e mettere alle estremità i comandanti di maggior esperienza, lasciando tanto spazio fra uno squadrone e l’altro da poter manovrare senza intralciarsi. Era il nemico ad averglielo insegnato, e lo shock della sconfitta aveva fatto sì che don Garcia se ne ricordasse molto bene: «questo fu l’ordine che tenne il Barbarossa a Prevesa, e poiché ci è sembrato molto buono e molto vantaggioso io me lo sono sempre conservato nella memoria per valermene in caso di necessità». Soltanto in un caso conveniva modificare questo schieramento, se cioè i veneziani avessero chiesto il privilegio onorifico di formare l’avanguardia, e allora bisognava concederglielo, a costo di scontentare il resto della flotta, perché è meglio che i primi a investire il nemico siano quelli di cui ci si fida di meno. In questo caso la flotta doveva essere divisa in due linee, avanguardia e retroguardia, ognuna a sua volta suddivisa in tre squadroni, «e questo a mio giudizio si deve tenere segreto, perché se sanno che, chiedendola, gli sarà concessa l’avanguardia, magari non lo faranno».

Avvicinandosi il momento di salpare da Messina, don Juan scrisse a Pisa per chiedere qual era la rotta migliore da seguire (dopo tutto, don Garcia, diversamente dal duca d’Alba, lo chiamava “Altezza”, e al giovane principe faceva certamente piacere ricevere le sue lettere). Gli avevano consigliato di portare la flotta nel porto di Taranto, e attendere lì il passaggio del nemico, che si credeva ancora nell’Adriatico. Don Garcia rispose modestamente che non bisognava fare troppo affidamento sul suo parere, «perché ne sa di più quello che è presente dormendo, che l’assente vegliando»; ma sentendo che al principe si davano tali consigli, e che «com’è vecchia abitudine al mondo parlano tutti quelli che non capiscono e non sanno», gli sembrava giusto dire la sua. Taranto – osservò – è meno adatta di Brindisi, perché è fuori rotta, e andare lì fa pensare che ci si voglia difendere, piuttosto che attaccare; come se non bastasse, don Garcia non era sicuro che le galere potessero entrare nel Mar Piccolo. Brindisi era un porto abbastanza grande da accogliere tutta la flotta, e così vicino alla costa dalmata da farne sentire concretamente la presenza; in caso di maltempo, la flotta ormeggiata lì sarebbe stata al sicuro, mentre chi avesse voluto attaccarla si sarebbe trovato in una situazione molto pericolosa («Perché ormai è giusto cominciare a tener conto del tempo, dato che conduce una così grande armata, e quelle marine sono pericolosissime da navigare appena i tempi si guastano un po’»). Andando a Brindisi, la flotta poteva fare scalo a Crotone, poi a Gallipoli, poi a Otranto, tutte piazzeforti ben difese dall’artiglieria, facendosi sempre precedere da galere veloci per evitare sorprese: «questo s’intende nel caso che non fosse abbastanza forte per combattere, perché quando si è forti tutte le strade sono piane e qualunque luogo è buono»3.

A Messina, però, il tempo continuava a essere cattivo, e l’impossibilità di salpare faceva rinascere i dubbi. I provveditori Quirini e Canal temevano che la flotta, dopo aver creato tante aspettative, non combinasse nulla di buono, e scrissero al doge per mettere le mani avanti: se fossero arrivate a Venezia notizie spiacevoli, doveva essere ben chiaro che loro non ne avevano colpa, perché «noi non siamo chiamati, né intervenimo in alcun consulto o deliberatione». Gil de Andrade tornò dalla sua ricognizione, e riferì di aver avvistato la flotta nemica nel canale di Corfù; non era riuscito a contare i vascelli, ma la gente dell’isola assicurava che non arrivavano a trecento vele, di cui solo 190 galere. Il rapporto confermava che la flotta era a corto di soldati, e con molti malati a bordo; il problema, però, è che non si sapeva dove fosse andata dopo che il de Andrade l’aveva persa di vista. Dato che il maltempo ostacolava anche i suoi spostamenti, si poteva sperare che fosse ancora a Corfù, ma nessuno poteva esserne sicuro. L’unica cosa da fare era procedere costeggiando fino a Santa Maria di Leuca, sperando di ricevere nel frattempo nuove informazioni; ma intanto continuava a piovere, e non si poteva far nulla4.

Finalmente, il 15 settembre il cielo si rischiarò. Venier, che ribolliva d’impazienza, voleva partire subito, ma qualche spagnolo gli disse che non c’era tutta quella fretta, «cose che mi facevano disperare». In realtà la giornata venne impiegata per rimorchiare fuori dal porto, in attesa del vento favorevole, le navi da trasporto al comando di don Cesare d’Avalos, su cui era imbarcata la fanteria tedesca, decimata dalle malattie; don Juan ordinò che quei vascelli andassero ad aspettare la flotta a Taranto. Le galere, invece, uscirono in mare dopo la messa, e vennero solennemente benedette dal legato papale monsignor Odescalchi, con una cerimonia che impressionò e commosse gli equipaggi. Il 16 era tutto pronto e quella notte la flotta salpò, anche se non fece molta strada, giacché, come nota acidamente il Venier, i vascelli si limitarono a trasferirsi «senza alcun ordine, anzi assai confusi» alla Fossa di San Giovanni, sulla costa calabrese davanti a Messina5.

Il Venier si era convinto che né gli spagnoli, né il Colonna avevano davvero voglia di combattere, e non esitò a scriverlo nel suo rapporto; ma per quanto riguarda don Juan l’accusa era ingiusta. Quello stesso 16 settembre il giovane principe scriveva a Ruy Gómez, potentissimo segretario del re Filippo, confidandogli i suoi problemi di comandante in capo circondato da collaboratori deferenti nella forma, ma condiscendenti nella sostanza: «anche se qualcuno dice che siamo partiti più presto di quel che credevano, io non sono soddisfatto». La lentezza degli ufficiali e dei funzionari delle finanze lo aveva trattenuto più di quel che avrebbe voluto: «con tutto questo li ho lasciati riposare poco, e neanche loro me, con tutta la loro deferenza, e pretese di consigliarmi e seccature di bambinate». Molti affermavano che ormai era tardi, e che il nemico a quell’ora era al sicuro nei suoi porti, ma altri garantivano che i turchi non erano gente da fuggire, e sarebbero usciti quando avessero appreso che la flotta era nei loro mari. Il morale – assicurava il principe – era alto: fra gli uomini c’era voglia di combattere e fiducia nella vittoria. Lo stesso giorno, don Juan scrisse a don Garcia de Toledo confermando la decisione di uscire in mare per attaccare la flotta nemica, anche se la speranza di bloccarla nell’Adriatico era ormai svanita:

Considerando che la detta flotta, benché sia superiore di forze a questa della Lega, secondo le informazioni che abbiamo, non lo è per la qualità dei vascelli né per la gente, e confidando in Dio Nostro Signore, che ci deve aiutare perché è la Sua causa, si è presa la decisione di andarla a cercare; e così parto stanotte per Corfù, se piace a Dio, e da là andrò dove avrò appreso che si trova. Ho con me 208 galere, 26.000 fanti, 6 galeazze e 24 navi6.

Ripartita dalla Fossa di San Giovanni, la flotta procedette lentamente, a remi e con un poco di vento contrario, costeggiando la Calabria. La prima mattina, mentre le galere prendevano posizione secondo l’ordine di precedenza già stabilito, il Provana, a bordo della Capitana di Savoia, si accorse che la Capitana di Malta aveva preso il posto d’onore alla destra della Capitana del papa; posto che secondo il generale piemontese toccava a lui, e per cui aveva già litigato in precedenza con il priore di Messina, comandante della squadra maltese. Il Provana fece accelerare la voga per infilarsi fra le due galere, a rischio di speronare la fregata che la Capitana maltese rimorchiava a poppa, e mandò immediatamente un messaggio alla Real, per chiedere a don Juan di risolvere la questione, «o altrimenti ch’io investirei la capitana della Religione». Don Juan ordinò al priore di lasciare il posto alle galere sabaude, e i cavalieri dovettero obbedire; il Provana, però, era molto preoccupato e riferì in dettaglio l’accaduto al duca Emanuele Filiberto, raccomandandogli di intervenire presso il re Filippo, o meglio ancora presso il papa, per far ribadire ufficialmente che l’insegna sabauda aveva la precedenza su quella di Malta7.

Il 19 la flotta era a Capo Colonna, dove soffiava una tramontana gelida e don Juan decise di far sosta, con gran rabbia del Venier che vedeva in ogni ritardo un complotto; ne seguì un aspro battibecco. Leggendo il rapporto del generale veneziano si capisce di quanta pazienza ebbe bisogno il giovane principe per evitare di litigare con lui. A Crotone si erano radunati per ordine del viceré di Napoli 5 o 600 fanti della milizia calabrese, e don Juan offrì al Venier di imbarcarli sulle sue galere: «risposi che non ne havevo bisogno». Allora il principe gli fece sapere che voleva accostare per far acqua: «li mandai a dire, che se ogni altro giorno havevimo bisogno di far aqua, tardi arrivaressimo a Corfù». Esasperato, don Juan lo informò che intendeva fermarsi comunque, per aspettare le galeazze che erano rimaste indietro, e i veneziani si rassegnarono. La sosta permise di imbarcare invece gli 800 fanti calabresi reclutati da don Gaspare Toraldo, «belissima gente con molti gentilhomini honorati», come riconobbe lo stesso Venier in un raro momento di benevolenza.

Il giorno dopo capitò un brigantino armato proveniente da Corfù, con la notizia che la flotta nemica si era ritirata nella baia di Prevesa, e stava lì in attesa di ordini; si diceva anche che Uluç Alì era ripartito alla volta di Tunisi con le 50 o 60 vele dei corsari barbareschi. Questa notizia, che venne più volte confermata nei giorni successivi, era in realtà infondata o almeno distorta, ma contribuì non poco a incoraggiare i comandanti cristiani. A questo punto il Venier propose un cambio di rotta: anziché su Corfù, era meglio puntare su Cefalonia, nella speranza di intercettare il nemico se fosse uscito dal porto. I venti sembravano favorevoli a questo nuovo piano, ma il consiglio era incerto, perché il rischio di incontrare i turchi all’improvviso, con una flotta così grande e poco maneggevole, non piaceva a nessuno, e comunque non si voleva rinunciare ai 6000 fanti che i veneziani avevano dichiarato di avere a Corfù (benché il Venier sapesse benissimo che erano molti di meno). Durante la notte il tempo migliorò, e venne deciso di tenere la barra su Corfù8.

Poiché era ormai sicuro che il nemico si era allontanato verso il Levante, don Juan corse il rischio di dividere la sua flotta. Gil de Andrade e Giambattista Contarini vennero rimandati in avanscoperta con quattro galere; il marchese di Santa Cruz andò a Taranto con le 30 galere napoletane, per imbarcare un migliaio di fanti spagnoli del tercio di Napoli che erano stati concentrati lì da diversi presidi; il provveditore Canal andò a Brindisi, a Otranto e a Gallipoli con 12 galere veneziane per imbarcare la fanteria assoldata dal duca d’Atri per conto della Repubblica, e la milizia pugliese al comando del colonnello Tiberio Brancaccio, e una fregata andò a Taranto per ordinare alle navi di don Cesare d’Avalos di procedere per conto proprio fino a Corfù. Il grosso della flotta tentò di salpare il 21, ma il vento contrario la costrinse a rientrare in porto a Crotone, e la Capitana di Malta, toccato uno scoglio, «ebbe bisogno di tutto quel giorno per racconciarsi»; la sera del 22, finalmente, si ebbe un momento di bonaccia, e la flotta riuscì a prendere il mare.

Il tempo, però, tornò a guastarsi quasi subito. È il caso di ricordare che il calendario in vigore era ancora quello giuliano, perché mancavano undici anni alla riforma gregoriana: quello che per loro era il 22 settembre corrisponde al nostro 5 ottobre, e dunque la stagione era ancora più avanzata di quello che potrebbe sembrare. I pessimisti erano convinti che fosse troppo tardi per imbarcarsi in un’impresa del genere: il Provana osservò malinconicamente che quand’anche si fosse dovuto combattere soltanto col maltempo, si sarebbe già fatto molto riuscendo «a ritornar tutta questa armata in porto a salvamento». Più che ad una battaglia a cui molti non credevano più, i generali pensavano alle proprie carriere: prima di salpare da Messina era giunta notizia della morte del viceré di Milano, duca d’Alburquerque, il che significava che tutti i tre vicereami italiani erano in attesa di nomina. Il Comendador mayor aspirava a diventare viceré di Sicilia, e don Juan gli aveva promesso il suo sostegno, «non tanto per fargli beneficio quanto, come si dice, per levarselo d’attorno»; Marcantonio Colonna era quasi sicuro di avere il governo di Milano, ed entrambi occupavano le lunghe ore d’ozio a bordo delle galere cercando di procurarsi dei sostenitori. Intanto il viaggio continuava faticosamente, sotto la pioggia e sfidando venti sfavorevoli. In mare la flotta incontrò una fregata proveniente da Zante, da cui apprese che il nemico era uscito da Prevesa, aveva attaccato l’isola e la stava devastando; poi giunse la galera di Cattarin Malipiero, distaccata da Gil de Andrade con la notizia che da Zante la flotta si era allontanata verso sud. Il 26 settembre don Juan, bagnato e intirizzito, entrava con le sue galere nel porto di Corfù9.

Alla partenza della flotta da Messina, il mondo mediterraneo trattenne il fiato. A Venezia, dove non era ancora giunta la notizia della caduta di Famagosta, si pregava e si digiunava, e il doge andava ogni giorno in processione per implorare la protezione divina sulla flotta: «ché invero nel placare il Signor Dio consiste la vittoria», annotava piamente monsignor Facchinetti. In Grecia il clero ortodosso cercò di prendere contatti con l’armata cristiana, fornendo informazioni sulle cattive condizioni di quella ottomana, e preparando l’insurrezione. I turchi, allarmati, misero sotto stretta sorveglianza i monasteri dell’interno, come le Meteore, considerati focolai di malcontento; i monaci del Monte Athos, accusati di fare la spia per i cristiani e di pregare per la loro vittoria, evitarono la rovina solo a forza di regali alle autorità locali10.

Il clero secolare greco fece anche di più, soprattutto nel Peloponneso, dove gli insorti di Mani non erano ancora stati domati, e dove molti avevano veduto con i loro occhi le cattive condizioni in cui si trovava la flotta ottomana. Il bey di Morea, Mevlana Muheddin, informò il sultano che

il prete chiamato Germanos, che è metropolita di Patrasso, come pure suo nipote Dimitraki e i cristiani chiamati Istimad e Karayannis, sono diventati sudditi dei vili infedeli e sono in pieno accordo con loro. Hanno preso contatto per mare con gli insorti di Manya e non hanno mai smesso di mandare loro dei messaggi. Quando la flotta imperiale è arrivata a Patrasso, hanno mandato le seguenti informazioni: «non ci sono truppe nelle navi; le galere sono vuote; venite!». Essi stessi hanno preparato delle bandiere e preso accordi con la popolazione.

L’arcivescovo di Monemvasia, Makarios, raggiunse la zona di Mani e prese la testa della sollevazione «con bandiere del Salvator nostro e di santo Marco, daneggiando et faccendo ogni stragge di quei cani», come riferisce un rapporto al doge11.

Non si può non restare colpiti dalla simmetria fra ciò che pensavano i greci sotto dominio turco e sotto dominio veneziano: gli uni e gli altri detestavano i dominatori e ritenevano che cambiar padrone avrebbe migliorato la loro condizione, col risultato paradossale che ciprioti e cretesi colsero l’occasione della guerra per cercar di passare dal dominio di San Marco a quello del sultano, mentre le popolazioni della Morea tentavano di fare l’esatto contrario. I canti popolari greci creati dopo la battaglia di Lepanto evocano sbalorditi l’incontro fra «le due grosse armate, / grosse e terribili, del turco e del franco», cariche entrambe di rematori greci il cui destino era di morire al servizio di padroni stranieri12.

A Lepanto, il kapudan pascià, Perteu e Uluç Alì erano ben consapevoli della tempesta che si stava addensando. Uno dei più vecchi e spericolati rais algerini, Karagia Alì, mandato in ricognizione verso occidente, era entrato nottetempo nel porto di Messina a bordo di una piccola fregata, contando i vascelli della flotta cristiana, e catturando dei soldati per estorcere informazioni; poi l’aveva seguita nei primi giorni del suo viaggio, fino al golfo di Taranto, catturando altri prigionieri a terra e impadronendosi in mare d’una fregata. La presenza di quell’incomodo compagno di viaggio non poteva passare del tutto inosservata, e a Santa Maria di Leuca don Juan fu avvisato dell’accaduto; la notizia corse in un lampo fra i galeotti, ingigantita come avviene in questi casi, e in tutte le galere cristiane si raccontò che il corsaro era entrato a Messina addirittura con una galeotta, tutta dipinta di nero per mimetizzarsi nella notte13.

Al ritorno di Karagia Alì, i pascià erano a Patrasso e stavano organizzando la divisione delle loro forze in base agli ultimi ordini ricevuti dal Gran Signore: Perteu si preparava a ritornare a Costantinopoli e Alì a svernare a Lepanto con la maggior parte della flotta. Ma il rapporto del corsaro li convinse a sospendere tutto, giacché i prigionieri confermavano che la flotta nemica, al comando di don Juan, stava dirigendosi a Corfù. Le lettere che essi inviarono al sultano ci permettono di sapere esattamente di quali informazioni disponevano i comandanti turchi alla vigilia della battaglia, e quali intenzioni attribuivano al nemico. «Tu ci informi che hai ricevuto a Lepanto il mio ordine di svernare insieme al beylerbey di Algeri nel porto di Cattaro», scrisse il sultano rispondendo al kapudan pascià;

che Karagia Alì reis, uno dei capitani del beylerbey d’Algeri, era stato mandato verso Messina per catturare un informatore, e che al suo ritorno ha riferito che la flotta degli infedeli era entrata nel porto di Taranto presso Messina; che è stato catturato un piccolo naviglio che si era allontanato dalla flotta degli infedeli e che si è interrogato il suo equipaggio sulla situazione della flotta del nemico maledetto: la flotta è stata completata con le navi dei dannati spagnoli e veneziani che erano rimaste indietro, e queste flotte hanno intenzione di venire, al comando di don Juan, il fratello, comandante in capo, verso Corfù, sia per combattere la flotta imperiale, sia per fare un’incursione verso qualche territorio dell’impero. Tu ci informi che si discuterà la situazione al consiglio di guerra e che si farà il meglio per la Religione e lo Stato.

Il rapporto di Perteu pascià conteneva informazioni ancor più dettagliate:

Alì reis, un capitano algerino inviato per cercare informazioni, è tornato da Messina e ha portato la notizia che la flotta degli infedeli è entrata nel porto ben conosciuto di Taranto presso Messina; ed ha appena catturato un vascello che si era allontanato dalla flotta maledetta. 230 galere, 28 navi, 6 galeazze e 70 fregate dei maledetti infedeli spagnoli e veneziani sono riunite all’interno. Si ha la certezza che intendono venire a Corfù; di là, non si sa in che direzione si volgeranno.

Mustafà ciaus, latore del rapporto, aveva preso la via terrestre verso Costantinopoli e raccolto notizie più fresche. «Tre giorni fa è arrivato alla mia corte Mustafà ciaus con le tue lettere», scriveva il sultano a Perteu il 12 ottobre;

passando da Delvina, ha fatto sapere che la flotta dannata dei malfattori infedeli è arrivata il settimo giorno del mese [27 settembre] nei pressi di Corfù. Attualmente è certo che i vascelli dei miserabili infedeli aspettano l’occasione del rientro della flotta imperiale verso l’interno per attaccare qualche punto del territorio dell’impero14.

Anche Uluç Alì aveva mandato un rapporto. La notizia che il beylerbey di Algeri si era allontanato da Lepanto con una sessantina di vele non era in sé falsa, e infatti venne più volte confermata nei giorni seguenti; ma era semplicemente andato a Modone, sulla costa del Peloponneso, a caricare soldati e vettovaglie, e verso Tunisi aveva mandato soltanto una ricognizione, come risulta anche dalla risposta del sultano:

Tu hai mandato una lettera con cui ci informi di quanto segue: mentre, conformemente all’ordine che ti ho mandato di restare fuori insieme alla mia flotta, stavi preparando gli approvvigionamenti, due galeotte sono state mandate verso Tunisi e altre due sono arrivate davanti a Cattaro e hanno fatto dei prigionieri. Interrogati sulla flotta maledetta dei vili infedeli, essi hanno dato le seguenti informazioni: i vascelli di Quirini bey, che erano a Creta, e le altre galere si sono riuniti con le navi spagnole, in totale 230 galere, 70 fregate e 28 navi; il loro comandante è il fratello del re di Spagna, il malfattore chiamato don Juan. Ha rifornito di soldati le galere veneziane e ha ben equipaggiato i soldati spagnoli, e sono sul punto di andare a Corfù15.

Come si vede, se i comandanti cristiani ricevevano continuamente rapporti sui movimenti della flotta turca e sulle sue cattive condizioni, le informazioni di cui disponevano i pascià non erano meno abbondanti. Karagia Alì aveva saputo dai pescatori catturati che la flotta era andata a Taranto: era un errore, dovuto al fatto che don Juan entrò nel golfo di Taranto e mandò in quel porto parecchie vele per caricar gente, ma un errore irrilevante. Anche il calcolo delle galere di cui disponeva il “malfattore” era leggermente esagerato; ma i pascià sapevano perfino che una parte della fanteria spagnola era stata imbarcata sulle galere veneziane. Quella flotta si stava avvicinando, e le sue intenzioni erano certamente cattive; per quanto la stagione fosse avanzata, i “maledetti infedeli” avrebbero ancora avuto il tempo di arrecare gravi danni. Toccava a Perteu e al kapudan pascià impedirlo con tutti i mezzi.

A Costantinopoli la notizia che la flotta cristiana si avvicinava provocò grande sensazione, e la Porta decise che erano indispensabili energiche contromisure. Selim scrisse al kapudan pascià che poiché la flotta nemica, giunta a Corfù, si preparava evidentemente ad attaccare il territorio dell’impero, era necessario uscire ad affrontarla. L’ordine non fece in tempo a raggiungere Alì prima della battaglia di Lepanto, ma sul punto più importante non faceva altro che ribadire un concetto già espresso tre mesi prima:

Ora io ordino che appena avrete raccolto notizie affidabili sul nemico, attacchiate la flotta degli infedeli, confidando pienamente in Dio e nel suo Profeta. All’arrivo di quest’ordine andrai da Perteu Pascià e terrai consiglio con lui e il beylerbey di Algeri, gli altri bey, zuama e capitani di mare, decidendo tutti insieme in perfetto accordo e unità ciò che troverete più opportuno; se l’occasione si presenta, attaccate insieme la flotta del nemico e mettetela in rotta, senza perdere un minuto, dispiegando tutti uno zelo senza limiti e una perfetta vigilanza per la difesa della Religione e dello Stato. Se ritieni che la mia imperiale flotta debba svernare, per volontà di Dio, in quelle acque come io avevo ritenuto nel mio precedente ordine, puoi decidere se fermarti nel porto di Cattaro o in un altro porto dopo aver consultato Perteu Pascià, e sottoponimi le misure che prenderai così da poter agire in accordo con quelli che saranno i miei imperiali ordini.

Il sultano aggiunse che aveva già mandato al serdar, Perteu pascià, comandante dell’esercito imbarcato e superiore gerarchico di Alì, «un ordine dettagliato per l’offensiva da intraprendere contro la flotta nemica». Quest’ordine recitava:

Se l’occasione si presenta, devi appellarti al soccorso dei meriti del Profeta e prendere le misure necessarie per attaccare il nemico con la mia flotta, destinata alla gloria [...]. Fammi un rapporto sulla necessità di reclutare truppe fresche per la mia flotta imperiale. Esigi dal bey di Küstendil, incaricato della guardia delle frontiere, una quantità sufficiente di sipahi, e prendili per le navi. Se non bastasse, prendine anche fra le truppe fresche delle fortezze di Mizistra e di Morea [...]. I sipahi di Valona, di Delvina e di Giannina che erano a Cipro sono sul punto di arrivare a destinazione [...]. Quanto al mio ordine precedente, se sia preferibile che la flotta imperiale, con la volontà di Dio, sverni nel porto di Cattaro o nella regione di Prevesa, tu mi farai un rapporto scritto.

Infine il sultano scrisse a Uluç Alì, confermando che se possibile doveva restare con la flotta e svernare in Levante. Ma poiché il beylerbey di Algeri aveva sulle sue braccia anche la responsabilità della difesa del Ponente, gli lasciò la libertà di decidere:

Se tu avessi delle informazioni provenienti dalle province dell’ovest che rendano necessaria la tua partenza, ci andrai senza perdere un istante, conformemente al mio firmano di sublime valore; completerai i preparativi e ti troverai di nuovo pronto in seno alla mia flotta imperiale avanti la primavera di felice presagio.

Subito dopo essere stata informata della ricognizione di Karagia Alì, la Porta emanò anche una raffica di ordini per i comandanti terrestri, che danno la misura della preoccupazione con cui da Costantinopoli si seguiva l’offensiva della flotta cristiana. Nessuno immaginava che lo scopo di don Juan fosse di andare a cercare la flotta imperiale e annientarla, e che quindi ordinando agli ammiragli di uscire in mare si faceva esattamente il gioco del nemico. All’epoca non erano stati elaborati i concetti di battaglia decisiva e di dominio del mare, e i turchi davano per scontato che una flotta così imponente fosse stata costituita in vista di qualche importante conquista territoriale. Anche i comandanti cristiani, del resto, non avevano le idee così chiare, tant’è vero che nei consigli di guerra capitava continuamente che qualcuno proponesse di attaccare questo porto o quell’isola.

L’idea che la battaglia rappresentasse uno scopo in sé, e che le conseguenze strategiche d’una vittoria avrebbero largamente superato quelle d’una qualsiasi conquista territoriale, non venne mai chiaramente formulata, ma don Juan, il Venier, forse il Colonna sembrano averla comunque intuita e si comportarono di conseguenza, mentre né la Porta né i suoi comandanti a Lepanto ne furono sfiorati. Perciò il sultano richiese alla flotta già esausta il massimo sforzo per impedire che i “maledetti infedeli” potessero far danno sul territorio dell’impero, e mise in allarme tutte le autorità costiere in vista della minaccia incombente, ordinando di mettere in stato di difesa le fortificazioni, evacuare le popolazioni civili dalle coste, radunare truppe e vettovaglie: «Dio guardi che ne manchiate nel caso che il nemico venisse ad invadervi!».

L’ordine più importante in questa prospettiva è quello per Ahmet Pascià, comandante dell’esercito che operava contro i ribelli albanesi. «È possibile che il mio glorioso visir Perteu Pascià – che la sua gloria sia durevole! – mandi un messaggero per chiedere truppe fresche», lo avvertiva il sultano; e proseguiva: «a questo proposito non può essere ammessa alcuna negligenza [...]. Occorrono truppe fresche, perché i soldati della flotta sono esausti». Il sultano sapeva che anche l’esercito terrestre, data la stagione avanzata, era stanco di restare in campagna, e diede ordini perentori per evitare che si dissolvesse.

Quando quest’ordine ti arriverà, sii vigilante, non lasciare disperdere le truppe musulmane [...]. Bisogna che tu faccia annunciare e proclamare che i timar di quelli che sono assenti dal loro posto saranno dati ad altri, in modo che siano pronti nel caso che – a Dio non piaccia! – i malfattori nemici venissero a causare dei danni. Se ci sono dei settori dove i miserabili infedeli potrebbero attaccare, informane Hüseyin Pascià, beylerbey di Rumelia [...]. Che venga a svernare in un luogo vicino a questi e che si sbrighi a cacciare, coll’aiuto di Dio, i dannati infedeli.

Le operazioni condotte da Ahmet contro i ribelli restavano beninteso importanti, e il pascià venne elogiato per aver «punito i cristiani che si erano rivoltati», e «sistemato le cose con la popolazione, in modo tale che essa non avrà più, ormai, i mezzi per osare intraprendere dei torbidi e delle azioni perfide»; ma la preoccupazione dominante era la difesa delle coste. Il sultano informò Ahmet di aver nominato un comandante unico, responsabile per le fortezze di Prevesa, Patrasso, Delvina, Valona e Durazzo; «così pure Mehmed Özküroglu – che il suo valore sia durevole! – si è offerto di reclutare duemila uomini e di andare a fronteggiare la flotta nemica dovunque essa appaia; ha avuto ordine di ispezionare i luoghi ritenuti pericolosi e di marciare senza ritardo contro gli infedeli nel punto della costa in cui sbarcheranno»16.

Abbiamo citato largamente questi ordini, perché ci permettono di vedere la situazione strategica con gli occhi dei turchi, e di capire in che modo essi interpretavano le intenzioni del nemico. In pratica, però, non bisogna dimenticare che tutti quegli ordini vennero dettati nei giorni seguenti il 9 ottobre, data in cui i rapporti dei pascià raggiunsero la capitale, e perciò nessuno dei loro destinatari poté più riceverli. Quello per il kapudan pascià porta la data del 13 ottobre, sei giorni dopo che Alì era stato ucciso alla battaglia di Lepanto. I comandanti della flotta imperiale, dunque, non presero le loro decisioni sulla base di questi ordini, ma di quelli ricevuti in precedenza; che comunque imponevano anch’essi senza possibilità di dubbio di uscire in mare e affrontare gli infedeli, se fossero venuti a cercare la battaglia17.

Perciò i pascià si prepararono a combattere, anche se la situazione era tutt’altro che favorevole. Durante tutta l’estate il tifo e la dissenteria avevano serpeggiato a bordo, con violenza forse non inferiore all’epidemia che aveva devastato la flotta veneziana l’anno precedente; alla partenza da Prevesa i pascià avevano dovuto lasciare a terra molti ammalati18. Per di più, quando la flotta aveva iniziato a ripiegare verso il Levante la gente s’era persuasa che la campagna fosse finita, e chi poteva se n’era tornato a casa. Per gli ammiragli, ancor più che per i generali di terra, la diserzione dei sipahi destinati all’impopolare servizio sulle galere era da sempre un problema. Già nel corso dell’inverno 1570-71 l’equipaggio di un galeone veneziano approdato sulla costa del Peloponneso aveva appreso dagli abitanti del posto «ch’alquanti spachi erano partiti dall’armata per andar a vedere i loro figliuoli et habitationi ch’erano in quelle bande, i quali poi non ritornorono più et ch’erano scampati alla montagna per non ritornar più in armata». Anche la sosta a Lepanto produsse il medesimo effetto, come attestano concordemente i cronisti ottomani: «poiché l’inverno era vicino, restavano pochi timarioti sui vascelli dei bey del mare, e i legni dei corsari se ne andavano uno dopo l’altro con qualunque pretesto; anche una parte dei combattenti e dei rematori si disperse».

Nelle discussioni fra i pascià alla fonda nel porto di Lepanto, così come sono immaginate dai cronisti turchi, chi si opponeva a uscire in mare insisteva proprio su questo: «la maggior parte dei combattenti avevano lasciato le navi e la maggior parte delle imbarcazioni si trovavano sprovviste di soldati; i giannizzeri e i sipahi, che avevano compiuto le razzie nelle isole, avevano offerto dei regali ai comandanti e ottenuto il permesso di sbarcare, pretendendo che abitavano lì vicino». In particolare il serdar, Perteu pascià, più acutamente consapevole della scarsità di combattenti, continuava a battere sullo stesso tasto: «Quando la flotta è venuta da Corfù a Lepanto, soldati e giannizzeri si sono dispersi, col permesso o senza, dicendo: ‘Si torna!’». Naturalmente, i cronisti scrivono nel solco d’una tradizione ufficiale che doveva cercare giustificazioni per la battaglia perduta, e in parte si ricopiano l’uno con l’altro. Ma anche un cronista contemporaneo dei fatti e che scrive in modo indipendente, Alì, attesta: «La flotta incrociò in mare per molto tempo. Non apparve nessuno. Gli Ottomani credettero che i Cristiani non avessero il coraggio di affrontarli. L’inverno si avvicinava. I corsari e i beg delle province costiere chiesero alla Porta il permesso di tornare a casa. Così l’armata si disintegrò»19.

Negli ultimi giorni, quando fu ormai chiaro che la flotta cristiana si stava avvicinando, i pascià si adoperarono febbrilmente per raccogliere nuova gente. Come scrive Selaniki, «quando giunse notizia che la flotta nemica era pronta allo scontro e che lo scontro era inevitabile, si radunarono con difficoltà e ricorrendo alla forza guerrieri dalle fortezze e ausiliari». Le truppe vennero reclutate soprattutto nel Peloponneso, come risulta da un ordine del sultano in cui si avverte che il beylerbey di Morea si è imbarcato sulle galere e «ha prelevato molte truppe dalle guarnigioni delle fortezze costiere, sicché quelle regioni sono poco difese». Il precettore dei figli del kapudan pascià, Lala Mehmet, catturato a Lepanto e interrogato dagli spagnoli, alla richiesta se «la flotta ha preso degli uomini a Lepanto e in altre località vicine» rispose: «non solo si sono presi tutti gli uomini che si è potuto, ma a tal punto che si sono lasciate solo le donne per chiudere le porte delle case», e aggiunse che col beylerbey di Morea si erano imbarcati «circa 1500 soldati, i migliori di quella provincia». Quale fosse il morale di tutta quella gente, imbarcata per forza sulle galere appestate in una stagione in cui ormai navigare era pericoloso e le flotte si preparavano di solito a rientrare in porto per il lungo sciverno, è facile immaginare20.