14. Dove Lala Mustafà assedia Nicosia e la prende prima del previsto, i contadini ciprioti passano dalla parte degli invasori e Cipro diventa una provincia dell’impero ottomano, benché Famagosta non sia ancora presa

All’inizio dell’estate, le notizie spedite dalla capitale di Cipro testimoniavano uno stato d’animo bellicoso e confidente. «Vengano i Turchi quando vogliono, che gli renderemo buon conto de’ fatti nostri!», si scriveva da Nicosia prima dello sbarco. Per allestire le difese era in atto una grande e concorde mobilitazione; si trasportava in città il grano appena raccolto, che stupiva tutti per la sua abbondanza, e si accumulava legname per le opere difensive. Dopo lo sbarco dei turchi alle Saline le autorità concentrarono a Nicosia, che in tempo di pace aveva circa 25.000 abitanti, 10.000 soldati e il maggior numero possibile di contadini dei dintorni. Quasi tutti i nobili ciprioti vennero a rifugiarsi nella capitale con le loro famiglie, imitati da chiunque avesse qualcosa da perdere. Serrate le porte, si contarono le bocche presenti in città e se ne trovarono in tutto 56.500. Il sovraffollamento provocò quasi subito una micidiale epidemia di dissenteria, ma la corrispondenza indirizzata a Venezia continuava a ribadire che gli animi di tutti, «non ostante la morte et infermità di molti soldati, si mostravano pronti et risoluti a volersi diffendere»1.

A cose fatte, i cronisti italiani fecero invece a gara nel sottolineare gli errori che erano stati commessi nell’attesa dell’assedio. Si scoprì, allora, che gran parte di quel raccolto favoloso era rimasto in campagna ed era caduto in mano ai nemici; che fra tanti soldati i professionisti italiani affidabili erano pochissimi, un «debole presidio di mille cinquecento fanti pagati, picciolo numero etiandio in città molto più picciola»; che la numerosa milizia locale era stata sconsideratamente licenziata poco prima dello sbarco, sicché si era poi dovuto richiamare la gente in gran fretta prima ancora che fosse arrivata a casa, e arruolarne dell’altra nel modo più caotico. Tutte negligenze che il Paruta attribuisce senz’altro ai limiti del luogotenente Nicolò Dandolo, il quale era stato messo al comando della città sapendo benissimo che era «persona di poco pronto ingegno», ma nell’illusione che vi avrebbe supplito con una certa esperienza acquistata sul campo2.

Durante la marcia dalle Saline a Nicosia l’esercito turco era preceduto dalla cavalleria, che attraversava la campagna senza alcuna opposizione, impadronendosi dei raccolti e bloccando fin dal primo momento ogni comunicazione tra la capitale e Famagosta. Il cavalier Rondakis, comandante degli stradiotti, e qualcuno dei capitani italiani e dei nobili ciprioti rifugiati in città avrebbero voluto uscire a contrastare le scorrerie dei sipahi, ma il consiglio di guerra, dove in assenza del Baglioni mancavano militari abbastanza autorevoli da assumersi quella responsabilità, preferì non autorizzare nessuna iniziativa. Molti erano ancora convinti che il nemico avrebbe assediato Famagosta prima di Nicosia, sicché quando le insegne del serdar apparvero all’orizzonte la città fu attraversata da un’ondata di panico, e ci fu anche qualche proprietario terriero che avendo ritardato fino all’ultimo l’evacuazione si fece catturare dai turchi nei casali delle vicinanze. Forse l’unico a non rimanere sorpreso fu il colonnello Palazzo da Fano, comandante di tre compagnie di fanti italiani che aveva affidato ai suoi generi, il quale già prima dello sbarco scriveva al figlio d’essere certo che il nemico avrebbe attaccato per prima Nicosia: «duolmi averci li tre tuoi cognati con le compagnie, pur faccia Iddio ciò che gli piace [...] Tutti noi moriremo onoratamente»3.

Poiché la cavalleria era in gran parte dispersa a saccheggiare e l’artiglieria, molto più lenta coi suoi traini di buoi, era rimasta indietro, le forze turche comparse davanti a Nicosia il 25 luglio erano composte quasi esclusivamente da fanteria. I militari più competenti, come il colonnello Palazzo, avrebbero voluto uscire almeno adesso ad attaccare i nemici impiegando tutte le forze disponibili, che comprendevano almeno un migliaio di cavalleggeri, con la ragionevole speranza di metterli in rotta; ma anche stavolta i comandanti più elevati in grado, il Dandolo e il conte di Roccas, preferirono non correre il rischio, «sperando più nelle fosse e ripari, che nelle armi e valor loro», come annota malinconicamente un cronista, desolato di quella «sciocca deliberazione». Nei giorni seguenti, l’artiglieria e la cavalleria raggiunsero il campo di Mustafà, e l’occasione fu perduta per sempre4.

La scarsa intraprendenza dei difensori permise ai turchi di accamparsi a qualche chilometro dalle mura, «spiegare i loro padiglioni, piantare l’artiglierie, e fortificare gli alloggiamenti senza quasi altro disturbo che quello che ricevevano dall’artiglierie della città». L’accampamento si distese da Agia Marina fino ai casali di Aglangia e Athalassa, a sud-est della città, su uno spazio di circa quattro chilometri; il padiglione del pascià fu innalzato più indietro, sulle modeste alture che dominano la pianura. La zona era ben fornita d’acqua, e anche se c’era il sospetto che i veneziani avessero avvelenato i pozzi, i «maestri da cavar pozzi» al seguito dell’esercito provvidero subito a scavarne di nuovi. L’accampamento venne fortificato col legname di grossa taglia che fin dall’inverno era stato ordinato a questo scopo dal governo ottomano e trasportato fin lì sui caramussali. Confrontato alle imponenti opere difensive costruite dal Savorgnan, l’esercito di Lala Mustafà non appariva affatto gigantesco: Nicosia era protetta da una cerchia di 11 bastioni, e l’accampamento turco ne fronteggiava appena 4. Per evitare che gli assediati potessero uscire liberamente dalle altre porte, la cavalleria turca pattugliava il circuito della città, senza però inoltrarsi nella zona battuta dalle artiglierie piazzate sui bastioni. A loro volta, stradiotti e archibugieri a cavallo uscivano spesso nella speranza di disturbare gli assedianti, ma siccome anch’essi preferivano non allontanarsi dalla copertura dei cannoni, non si registravano quasi mai scontri di rilievo, tranne quando qualche cavalleggero si lasciava trascinare dall’entusiasmo a spingersi troppo in là5.

La cerchia difensiva di Nicosia era costruita con tali e tanti accorgimenti che gli esperti di cose militari la consideravano «una delle più belle e migliori fortezze del mondo». Da quando erano state introdotte le fortificazioni all’italiana, o “alla moderna”, come si chiamavano in Italia, le operazioni d’assedio richiedevano una procedura accurata e metodica, diretta da ingegneri specializzati, e i comandanti cristiani erano convinti che i turchi non fossero in grado di padroneggiare quella scienza; ma dovettero subito ricredersi. Gli zappatori di Lala Mustafà cominciarono a scavare una rete di trincee e camminamenti coperti che si avvicinavano progressivamente al fossato, secondo tutte le regole dell’arte; ben presto furono a tiro d’archibugio, e i giannizzeri appostati nelle trincee tennero sotto il loro fuoco i bastioni, rendendo pericoloso per i difensori affacciarsi ai parapetti. Quattro ridotte fortificate vennero costruite sulle alture, lavorando di notte quando i cannoni dei bastioni non potevano impedirlo, e da lì l’artiglieria pesante cominciò a cannoneggiare la città, facendo «di molti danni nelle case, non senza grande spavento del popolo».

Ma ciò che sgomentò maggiormente i difensori fu la rapidità con cui gli zappatori innalzarono quattro collinette artificiali a un’ottantina di passi dal fossato, e vi edificarono dei forti che sovrastavano le opere difensive e permettevano di bersagliarle dall’alto con archibugi, frecce e fuoco greco. Trascinati fino a quella posizione avanzata, i cannoni del pascià tirarono per quattro giorni contro i bastioni, interrompendosi soltanto per qualche ora intorno a mezzogiorno, quando il caldo era tale che i pezzi, benché continuamente annaffiati con aceto e acqua di salnitro, rischiavano di incrinarsi per il surriscaldamento. Alla lunga, però, Mustafà decise che il dispendio di munizioni non valeva il risultato, e interruppe il bombardamento6.

L’inefficacia dei cannoni d’assedio conferma l’eccellenza delle opere progettate dal Savorgnan; nel frattempo, però, le trincee turche si erano estese su tutto il fronte dei quattro bastioni, e le sortite tentate dai difensori si rivelavano sempre più costose, per cui fu giocoforza diradarle. Soltanto l’artiglieria disturbava i lavori degli assedianti; ma gli artiglieri italiani più esperti, costretti a esporsi per dirigere il tiro, rimanevano vittime degli archibugieri nemici, e intanto gli zappatori di Mustafà continuavano a scavare. Il Dandolo, preoccupato per il consumo di munizioni, vietò di tirare sugli uomini al lavoro in piccoli gruppi («perché diceva che non era il profitto di San Marco»), minacciò di punizioni gli artiglieri se non avessero risparmiato la polvere, e ai suoi subordinati che gli segnalavano il pericolo rispose con alterigia che i bastioni di Nicosia non avevano paura della pala e del piccone. La formidabile artiglieria che il Savorgnan aveva ottenuto dal governo per guarnire i bastioni di Nicosia, «bellissima in quantità, et qualità», e forte di ben 125 pezzi, rimase così in gran parte sottoutilizzata per mancanza di polvere.

Quando le trincee arrivarono al fossato, vennero praticate delle aperture nella parete che lo circondava, la “controscarpa”, nel linguaggio dei tecnici; e gli zappatori sciamarono all’interno. Il lavoro poté così continuare senza essere ostacolato dai cannoni, impossibilitati a tirare con un angolo così ridotto. In corrispondenza dei bastioni gli zappatori, coperti dagli archibugi dei giannizzeri ammassati nelle trincee, riempirono il fossato con terra e fascine, così da colmare il dislivello e permettere la scalata alle mura. Ognuno degli undici bastioni era stato costruito con il contributo di una famiglia nobile della città, era affidato alla sua custodia e ne portava il nome; al primo attacco che provò a saggiare il baluardo Costanzo, i difensori si fecero cogliere dal panico, e parecchi giannizzeri scavalcarono il parapetto, piantando le loro insegne sul bastione. Due compagnie di fanteria italiana li ributtarono indietro dopo una breve e feroce mischia, ma subirono gravissime perdite, che i difensori non potevano permettersi.

Preparando il terreno per l’assalto finale, Mustafà fece allargare i camminamenti che dalle trincee giungevano alla controscarpa, e li riparò dal tiro delle artiglierie con fascine e gabbioni di vimini pieni di terra, così da poter far affluire le truppe rapidamente e senza troppe perdite fino alle mura. Nel fossato, gli zappatori stavano ammassando così tanta terra a ridosso dei bastioni che questi cominciavano a perdere la loro forma, vanificando i complessi calcoli degli angoli di avvicinamento e di tiro su cui era basata la loro costruzione. La zappa e il badile aggredivano le opere difensive – che erano costruite in terra e in qualche baluardo mancavano ancora del rivestimento finale in pietra – più efficacemente di quanto non avesse fatto l’artiglieria, minacciando di demolire gli angoli dei bastioni e aprire un varco verso l’interno7.

Non trovando nessun altro modo di interrompere i lavori, gli assediati si risolsero a tentare una sortita in forze, il giorno di Ferragosto. Il capitano Piovene, vicentino, uscì dalla città con un migliaio di fanti, deciso a disperdere gli zappatori, demolire le trincee e se possibile raggiungere i cannoni che battevano la città e inchiodarli, rendendoli inservibili. Per la sortita venne scelto il mezzogiorno, quando la calura era così forte che nel campo turco tutti dormivano. I soldati, che avevano accolto con entusiasmo la decisione di uscire, presero d’assalto due dei forti, massacrando tutti quelli che vi si trovavano, ma anziché proseguire si fermarono a derubare i caduti. Era stato deciso che la cavalleria albanese uscisse a sostenere la fanteria; i nobili e i feudatari insistevano per partecipare all’azione con i loro cavalli, ma il luogotenente Dandolo lo proibì. Gli stradiotti avevano appena cominciato a uscire, quando il Dandolo si accorse che alcuni giovani nobili greci e veneziani si erano uniti a loro, con le visiere abbassate per non essere riconosciuti. Il luogotenente, furibondo, fece chiudere le porte e revocò l’ordine di uscita per tutta la cavalleria. Nel frattempo l’accampamento turco era in allarme; i sipahi sellarono i cavalli e piombarono in mezzo ai fanti intenti al saccheggio, disperdendoli. Il Piovene tentò di difendere uno dei forti catturati, e trasmise in città il segnale convenuto per ricevere rinforzi, ma i turchi, uscendo dall’accampamento in numero crescente, premevano sul baluardo Costanzo, e i comandanti cristiani, temendo d’essere sopraffatti, non fecero più uscire nessuno, finché il Piovene e tutti quelli che si trovavano con lui «crescendo il numero de’ nemici furono tagliati a pezzi»8.

Tardivamente, i comandi di Nicosia cercarono di rafforzare le difese, ma con scarso successo. Il colonnello Palazzo fece costruire sui bastioni quello che si chiamava un “cavaliere”, una piattaforma sopraelevata di travi robuste, su cui collocare dell’artiglieria per tirare sui forti turchi da una posizione dominante. Il priore dei domenicani Angelo Calepio riferisce che per procurarsi le travi necessarie venne mezzo demolito il loro convento, «ma non mi par fosse adoperato»; il primo gentiluomo che si presentò lì sopra, fu portato via da un colpo d’artiglieria, tirato da Agia Marina, e nessun altro provò più a imitarlo. Sul parapetto vennero collocate delle travi con dei fori dietro cui riparare gli archibugieri, ma il nemico le spazzò via a cannonate. Ad abbattere ulteriormente il morale degli assediati contribuiva la dissenteria che regnava nella città sovraffollata, nel colmo della stagione più calda e malsana. Secondo il Calepio, l’epidemia falcidiò soprattutto i soldati italiani, impreparati a quel clima e incapaci di limitarsi nel bere, nel mangiare e nel sesso, riducendoli alla fine ad appena 400; ma secondo il nobile Giovanni Sozomeno, comandante degli zappatori e un altro degli scampati all’assedio, l’infezione intestinale aprì larghi vuoti anche fra i miliziani locali9.

Intanto i turchi continuavano ad attaccare ora questo ora quel bastione, senza mai tentare un assalto generale, ma provocando sempre nuove perdite fra i difensori. La loro artiglieria, portata ancora più avanti e protetta da fascine e gabbioni, batteva giorno e notte i parapetti, demolendoli; all’interno si lavorava senza riposo per rafforzarli, ammassando sacchi di terra e balle di cotone, ed erigendo un nuovo muro più indietro, la “ritirata” nel linguaggio militare dell’epoca, così da contenere i turchi quand’anche fossero riusciti a salire sulle piattaforme; ma la fatica e le perdite cominciavano a logorare la manodopera. Le truppe, in gran parte inesperte, erano atterrite dai sacchetti di fuoco greco che i turchi gettavano contro i parapetti, «quali gittati sopra li soldati nostri facevano gran male, et chi li voleva pigliare per rebutarli si brusciavano tutti». Anche le frecce tirate in gran numero dal nemico facevano paura; chi ne rimaneva ferito spesso moriva, per cui si diffuse la certezza che fossero avvelenate. Il luogotenente Dandolo mandava continuamente messaggeri a Famagosta, per avvertire il Baglioni che la situazione stava precipitando, che «là ogni giorno venivano amazati assai soldati, et che le compagnie erano redute 30 o 40 per compagnia».

Già da tempo Lala Mustafà faceva tirare frecce in città con messaggi in italiano indirizzati ai rettori, ai maggiori gentiluomini «e talora a tutto il popolo», promettendo un trattamento umano se la città si fosse arresa, e minacciando di passare a fil di spada la guarnigione e abbandonare i civili al saccheggio se la resistenza fosse continuata; che era, né più né meno, l’usanza comunemente seguita in tutti gli assedi d’Europa. Non ricevendo risposta, il serdar mandò una delegazione al baluardo Costanzo, che ottenne una tregua di due ore e reiterò l’offerta; i parlamentari informarono i difensori che la flotta veneziana aveva a bordo la peste e non era in grado di uscire dal porto, sicché era inutile fare affidamento sul suo soccorso. Inoltre li avvertirono che i soldati, irritati per l’ostinata resistenza, domandavano apertamente «che in premio delle loro fatiche, e pericoli, fosse loro data in preda la città»; sicché il pascià non era sicuro di poter offrire anche in futuro condizioni così generose. I rettori rifiutarono, dopodiché fecero spargere ad arte la notizia che un esercito di soccorso stava arrivando da Famagosta, per tener alto il morale dei soldati e del popolo. Qualcuno desiderava così tanto crederci che affermò di vedere dalle mura i turchi intenti a levare le tende e smontare le loro artiglierie10.

Mentre Nicosia resisteva all’assedio, la maggior parte della popolazione rurale si sottometteva all’invasore senza combattere, e perfino con una certa aspettativa. I veneziani, impadronendosi di Cipro neppure un secolo prima, avevano ereditato un sistema feudale che risaliva alla conquista dell’isola da parte dei crociati e che istituiva una separazione feroce fra i padroni forestieri e gli indigeni asserviti. La nobiltà cattolica, anche se agli occhi degli italiani appariva piuttosto imbastardita, rifiutava con orrore di confondersi con i propri contadini ortodossi: una decina d’anni prima dell’invasione turca Antonio Zane, tornato dal governo di Cipro, riferiva che i nobili locali «se ben la passano sotto nome di Greci» erano però una nobiltà d’importazione, composta di francesi, spagnoli, catalani, «li quali tutti viveno con riti francesi sotto il nome di Ciprioti, perché hanno in odio essere nominati Greci». A parole sono tutti fedelissimi, osservava il patrizio, ma la sua conclusione era assai disincantata: preghiamo Dio che conservi a Venezia la pace di cui gode da tanti anni, «senza che l’habbi causa de far esperientia della fede d’alcun suo soggetto»11.

Se la fedeltà dei nobili era dubbia, su quella dei contadini erano in pochi a illudersi; anzi, già prima della guerra era diffuso a Venezia il sospetto che qualcuno di loro si augurasse addirittura una conquista turca. L’ordine pubblico nell’isola lasciava a desiderare, gli incidenti e le violenze fra i villani e i soldati veneziani erano frequenti, come pure fra gli equipaggi delle due galere armate a Cipro e stazionate nel porto di Famagosta e i portuali e i pescatori locali: giacché i sopracomiti requisivano le imbarcazioni private per il servizio delle galere e arruolavano a forza rematori e marinai quando ne avevano bisogno. Le autorità processavano e condannavano senza risparmio gli elementi più infidi, ma non riuscivano a incarcerarli tutti: «al continuo di quelli ne scampano in Turchia [...] et molti si fanno Turchi».Fin dal 1561 al Consiglio dei Dieci era giunta voce che alcuni ciprioti si erano recati a Costantinopoli per invitare il sultano a invadere l’isola. Il Paruta, scrivendo a cose fatte, registra senza alcuno stupore «l’inclinazione, la quale sapevasi essere in molti di quegli abitanti di mutar Imperio, per mutar insieme fortuna, e condizione»12.

La causa di tanta insoddisfazione risiedeva nel durissimo servaggio cui era costretta una parte della popolazione rurale; questi contadini asserviti, che i veneziani con parola greca storpiata chiamavano “parici”, per testimonianza concorde di tutti gli osservatori odiavano i padroni e avrebbero accettato qualunque alternativa pur di liberarsene. I governanti inviati da Venezia criticavano gli abusi più odiosi, ma la Signoria non si sentì mai abbastanza forte da rischiare una riforma: soltanto alla vigilia della guerra il Consiglio dei Dieci ordinò al provveditore di Cipro di convocare i nobili ed esporre la necessità di accattivarsi gli animi dei parici. Cautamente, i Dieci suggerivano di liberare i servi, o almeno di concedere loro qualche esenzione. Giusto un mese prima, a Costantinopoli, i rais che si affollavano nell’anticamera del kapudan pascià s’erano vantati col cipriota Iseppo «che tutti li populi di essa isola li chiamano, per esser loro tenuti in servitù, per il ché, come comparerà l’armata in quelle parti, loro Turchi daranno la libertà a tutti, li quali perciò si ribelleranno, e serviranno in favor di essi Turchi». L’esule aveva temperato i loro entusiasmi ribattendo che se Venezia avesse liberato i servi, la popolazione sarebbe rimasta fedele. Ma quando la volontà politica maturò era già troppo tardi: come osserva il Calepio, i contadini aspettavano ansiosamente la libertà promessa dal governo, «la qual libertà non hebbero mai se non quella di Mustafa»13.

Già da mesi prima dello sbarco, infatti, propagandisti turchi agivano a Cipro, assicurando agli abitanti che il sultano faceva la guerra solo contro i frengi, e garantiva a tutti gli altri la sua protezione. Non c’è dubbio che nei primi giorni le incursioni della cavalleria turca e gli sbarchi dei corsari si tradussero in violenze e saccheggi, con incendio di casali e monasteri, cattura di bestiame e riduzione in schiavitù di chi tardava a mettersi in salvo, ma il sultano aveva fatto proclamare che i contadini non dovevano essere molestati, e Mustafà intervenne energicamente per far ristabilire l’ordine. Già il 9 luglio il pascià, informato che uno zaim, un grosso feudatario, con una fusta di corsari aveva saccheggiato diversi villaggi presso Kyrenia e catturato gli abitanti, «benché i contadini intorno a quella fortezza avessero prestato obbedienza e si fossero interamente sottomessi», lo fece punire togliendogli il feudo.

È pur vero che Marco di Benetto riferisce di frequenti atrocità commesse nei primi giorni dopo lo sbarco proprio per ordine del pascià: un soldato fuggito da Nicosia e venuto al campo fu condannato alla decapitazione, ma poiché implorava di farsi turco venne circonciso, e poi decapitato lo stesso; i contadini catturati erano egualmente decapitati, o legati al sole e lasciati morire così, a «dimandare per l’amor di Dio un poco d’acqua, et non gli vien data»; quando il padrone di un’imbarcazione, cristiano, volle dare da bere a uno dei poveretti, «gli sono stà date tante bastonate, che i suoi marinari l’hanno portato a peso nel suo vassello». Prestar fede a testimonianze di questo genere, anche quando pretendono d’essere oculari, è sempre una scelta rischiosa, ma se anche Marco vide davvero queste esecuzioni, si trattò certamente di spie, o di poveracci scambiati per tali, perché tutte le testimonianze coeve, di parte veneziana e cipriota, attestano che chi veniva a sottomettersi pacificamente era bene accolto14.

E infatti la grande maggioranza dei contadini si sottomise senza far resistenza, e Mustafà non ebbe difficoltà a negoziare l’adesione pacifica di tutta l’isola al nuovo regime. Appena sbarcato, il pascià era già in grado di mandare spie a Famagosta «con la scorta d’alcuni Cipriotti rifuggiti nel loro campo»; e il rapporto che la galera Trona, subito salpata per Creta, portò al generale Zane lo informò che «andavano molti di quei contadini spontaneamente a dar obedienza al bassà»15. Quando la sua cavalleria arrivò al grosso casale di Lefkara, a una quindicina di chilometri dalle Saline, i contadini la accolsero amichevolmente; Mustafà li premiò per la loro pronta sottomissione, distribuì denaro e raccomandò di spargere la voce fra gli altri casali, invitando tutti i contadini a scendere dai monti e venire a giurare fedeltà al sultano.

La notizia che i villani di Lefkara non solo erano passati ai turchi, ma avevano mandato messaggi alle altre comunità per invitarle a seguire il loro esempio giunse anche a Nicosia, non ancora assediata, e spaventò le autorità veneziane a tal punto che venne decisa una spedizione punitiva. Come nota sarcasticamente il Paruta, non avevano il coraggio di andare ad attaccare i nemici, ma ebbero quello di usare le truppe per punire i «suoi proprj». Nottetempo, tre compagnie di fanti e un centinaio di cavalleggeri uscirono dalla città, raggiunsero il villaggio addormentato e lo incendiarono. Quasi tutti gli abitanti maschi vennero uccisi; due prigionieri portati a Nicosia vennero impiccati per un piede come traditori. Il terrore provocato dalla rappresaglia arginò per il momento le defezioni; ma di lì a poco i turchi vennero a mettere il campo davanti ai bastioni, e dalla città non poté uscire più nessuno16.

Alla fine di agosto le operazioni d’assedio a Nicosia erano giunte al momento critico. L’accesso ai bastioni era ormai facilitato dall’enorme quantità di terra ammassata tutt’intorno; eppure gli assedianti continuavano a saggiare le difese con assalti parziali, senza mai risolversi a un attacco in massa. Il Paruta sottolinea la riluttanza dei giannizzeri a impegnarsi in un’operazione così rischiosa, giacché l’attacco frontale a una cerchia fortificata moderna era forse in assoluto, all’epoca, il tipo di combattimento in cui si subivano le maggiori perdite. Ma secondo lo storico il vero motivo di tanta prudenza era la «poca gente» di cui disponeva Mustafà, a ulteriore conferma che l’esercito sbarcato a Cipro non era certo l’orda smisurata di cui si favoleggia. Durante il primo mese d’assedio il pascià aveva compiuto progressi spettacolari, che suscitarono la riluttante ammirazione di tutti i cronisti italiani, ma se non avesse trovato il modo di accelerare le operazioni, rischiava di impantanarsi in una routine che alla lunga avrebbe avvantaggiato soltanto gli assediati17.

La grande incognita, per i turchi, era la temuta comparsa della flotta veneziana, o peggio ancora delle flotte cristiane riunite, nelle acque di Cipro. Non c’era nessun porto nell’isola in cui la flotta di Pialì potesse ripararsi: finché il tempo reggeva, le galere potevano anche trattenersi presso le Saline, ma certo non in formazione di combattimento, per cui un attacco improvviso avrebbe potuto avere effetti catastrofici. Per tutelarsi Pialì fece costruire un forte sulla spiaggia, in modo da tenere sotto tiro con i suoi cannoni le acque antistanti, e informò Costantinopoli che se l’armata cristiana fosse comparsa sarebbe uscito in mare per affrontarla, dal momento che considerava disonorevole portare in salvo la sua flotta in acque più sicure. Verso la metà di agosto, infine, decise di guidare di persona una ricognizione in forze e a largo raggio, per accertarsi del pericolo. Salpato dalle Saline con un centinaio di galere, si spinse a occidente fino a Rodi, senza trovare alcuna traccia del nemico, e da lì mandò quattro o cinque galeotte coll’ordine di far vela fino a Creta. Arrivati sulle coste dell’isola, i corsari scesero a terra e catturarono qualche prigioniero, da cui seppero «che l’armata venetiana era nell’isola sola, et mal conditionata per la gran mortalità che havea havuta», e che aspettava l’armata di Spagna, senza la quale non sarebbe partita dall’isola18.

Erano i primi di settembre quando Pialì ritornò a Cipro con queste notizie, che non avrebbero potuto essere migliori: la minaccia che i cristiani si materializzassero al largo delle Saline o che sbarcassero un esercito di soccorso a Famagosta era ancora molto lontana. Nel suo padiglione sulle alture che sovrastavano Nicosia, davanti al quale era piantata l’insegna a tre code di cavallo che attestava il suo rango di visir, Mustafà rifletté sulla situazione e decise che c’era un solo modo per approfittarne: gli occorreva l’aiuto della flotta. Secondo le cerimoniose regole di etichetta che tutti loro avevano imparato nel Serraglio, mandò due ciaus alla spiaggia, con la richiesta formale al suo collega Pialì e al kapudan pascià di sbarcare da ogni galera un centinaio di soldati e metterli a sua disposizione, per impiegarli nell’assalto decisivo.

I due ammiragli, che si detestavano l’un l’altro e non amavano affatto neppure Mustafà, dovettero prendere una delle decisioni più difficili della loro vita. Le migliaia di giannizzeri, di sipahi e di azap imbarcati sulle galere erano parte integrante della flotta e indispensabili alla sua efficienza in combattimento; privarsene, anche solo per qualche giorno, significava correre un grosso rischio. Se Pialì non avesse verificato di persona che la flotta veneziana era ancora al sicuro nella baia di Suda, e che non aveva intenzione di uscirne tanto presto, ben difficilmente lui e Alì avrebbero accettato la richiesta del serdar. Così stando le cose, però, la tentazione di risolvere in un colpo solo l’assedio di Nicosia, condividendo la gloria e il bottino di un successo che pochi si attendevano in tempi così rapidi, convinse gli ammiragli a correre il rischio. Nei giorni seguenti, 15 o 20.000 uomini vennero sbarcati dalle galere e si avviarono verso Nicosia, dove giunsero nel tardo pomeriggio dell’8 settembre, ricevuti da Mustafà «con grande honore et allegrezza». Il mattino dopo, fin dall’alba, i tamburi dell’accampamento turco rullavano, dando il segnale dell’assalto finale19.

Le truppe prestate dalla flotta avevano raddoppiato le forze disponibili, e vennero incaricate di attaccare due dei quattro bastioni resi accessibili dal lavoro degli zappatori, mentre le truppe dell’esercito di terra attaccavano gli altri due. Secondo il diario di guerra di Mustafà la faccenda si risolse in fretta, e due ore dopo la preghiera del mattino la città era caduta. Secondo i resoconti occidentali, i difensori di tre dei bastioni ributtarono l’assalto con gravi perdite, ma il quarto, il Podacataro, venne preso, e «in questo assalto furono tagliati a pezzi in un subito molti gentilhuomini et soldati», mentre «i villani delle cernide» si davano alla fuga, calandosi giù dalle mura verso l’aperta campagna. Il conte di Roccas e il colonnello Palazzo, accorsi insieme a molti altri gentiluomini, tentarono di frenare la rotta, ma vennero uccisi insieme a tutti quelli che erano con loro; dopodiché i turchi irruppero nella città e presero alle spalle i difensori degli altri tre bastioni, tagliandoli a pezzi. La resistenza continuò confusamente nelle vie e nelle piazze della città, «senza ordine et senza capi»; i turchi uccidevano tutti coloro che non gettavano le armi, facendo prigionieri gli altri.

Il resoconto circolato immediatamente in tutta Italia, per cui la caduta della città fu dovuta allo sbandarsi dei miliziani greci, andrà corretto notando che nelle settimane e nei mesi seguenti un flusso ininterrotto di capitani italiani e albanesi riparò in Famagosta insieme ai propri soldati, raccontando che «il dì della presa città si salvorno alla montagna»; il che vuol dire che tutti quelli che ci riuscirono parteciparono alla grande fuga dalle mura verso i campi, ufficiali compresi. Mentre si combatteva nelle strette viuzze attorno alla cattedrale, il Calepio vide dei soldati italiani e greci sfondare una delle porte della città per darsi alla fuga in direzione delle montagne, ma quasi tutti vennero ammazzati o catturati dalla cavalleria nemica. Le ultime squadre di fanteria italiana rimaste intrappolate in città si attestarono nella Piazza Grande; i turchi dovettero calar giù dalle mura tre pezzi di artiglieria e portarli nella piazza per sgombrarla, costringendo i difensori a rifugiarsi nel palazzo del luogotenente. Finalmente Mustafà entrò a cavallo nella piazza e ordinò ai suoi di risparmiare chi era disposto ad arrendersi. Non era ancora mezzogiorno quando i superstiti deposero le armi, mentre i soldati turchi si spargevano per la città, abbandonandosi a un saccheggio che durò per tre giorni20.

Il luogotenente Dandolo, che era andato a rifugiarsi nel palazzo con qualche centinaio di soldati appena il nemico era salito sul baluardo Podacataro, venne affrontato con la spada sguainata dal senatore Andrea Pesaro, che lo accusò di codardia e voleva ammazzarlo, ma il luogotenente ordinò ai suoi alabardieri di ucciderlo, e il Pesaro venne buttato a terra coi calci delle alabarde. Mentre i turchi stavano per sfondare la porta del palazzo, i soldati superstiti gridarono dalle finestre che si arrendevano. Intanto, troppo tardi, il Dandolo corse agli uffici della cancelleria, trovò un segretario e gli fece scrivere una lettera a Mustafà, in cui offriva la resa della città in cambio della vita salva per tutti i cristiani; poi liberò un prigioniero e lo mandò fuori col messaggio. I turchi lo trovarono così ridicolo e insultante che appena impadronitisi del Dandolo gli tagliarono la testa, mentre un greco saliva sul tetto del palazzo e vi issava uno stendardo turco, ammainando quello veneziano21.

Su 17 capitani che comandavano la fanteria italiana all’inizio dell’assedio, 6 erano caduti in combattimento, uno era morto di malattia, 6 vennero uccisi nel massacro finale, 3 furono presi vivi, e uno riuscì a fuggire in montagna. Il giorno seguente il serdar spedì a Costantinopoli suo figlio con i capitani prigionieri, ventuno bandiere e un primo gruppo di schiavi di particolare valore destinati al sultano. I capitani vennero mostrati a Selim ricoperti delle loro armature, prima di essere spogliati e condotti al bagno insieme agli altri schiavi; peraltro, il bailo Barbaro fece sapere un mese dopo che «tutti li pregioni mandati di Cipro erano benissimo trattati». Il figlio di Mustafà fece rapporto al divan sull’esito delle operazioni e informò che alle Saline si stavano caricando tre galere con ragazzi e ragazze fatti schiavi e altri regali per il sultano. Poi, obbedendo a un ordine espresso di suo padre, non sappiamo se più cortese o più beffardo, fece restituire al Barbaro una delle bandiere catturate, su cui era ricamato il leone di San Marco22.

Nicosia ebbe la sorte spaventosa di tutte le città assediate che cadevano senza aver patteggiato la capitolazione, aggravata dal fatto che nelle guerre fra cristiani e musulmani i civili catturati erano ridotti in schiavitù. Le informazioni più precise sull’accaduto giunsero in Occidente direttamente da Costantinopoli, attraverso il rapporto del Barbaro: il nunzio Facchinetti annota che i turchi, entrati in città, «fecero morire tutti i soldati et tagliorno la testa ai rettori del luogo», e mandarono prigionieri al sultano i nobili che non erano caduti in combattimento, «aggiugnendovi poi quelle sceleratezze et crudeltà che porta seco l’espugnatione d’una città presa per forza, spetialmente da barbari et empii». L’ultima precisazione è di rigore sotto la penna di un prelato, ma i rapporti che giunsero sul tavolo del re di Spagna attestano che il bagno di sangue si mantenne entro i limiti riconosciuti dalle leggi di guerra europee, che equiparavano la resistenza a oltranza di una guarnigione assediata a un crimine e autorizzavano il vincitore a giustiziare i responsabili, mentre gli abitanti e i loro beni rimanevano alla mercé dei vincitori: i turchi «ammazzarono i soldati forestieri e concessero salva la vita agli abitanti della città e tagliarono la testa al governatore Nicolò Dandolo»23.

In realtà, anche molti civili vennero uccisi nei giorni atroci del saccheggio. I soldati ammazzavano i lattanti, le donne che resistevano alla violenza, le vecchie che nessuno avrebbe voluto comprare, i prigionieri che cercavano di scappare (a questi, scrive il Calepio, quando li riprendevano «li tagliavan le gambe, e mentre che questi vivevano, passando delli altri iannizari, ogni un li deva la sua ferita»). Cinque giorni dopo la caduta di Nicosia, il frate fu condotto attraverso la città e vide i baluardi demoliti, i cannoni inchiodati dagli artiglieri al momento di abbandonarli, dappertutto sacchi di grano, fave, lardo, balle di lana e di cotone gettati a terra e calpestati, botti di vino e giare d’olio rovesciate, e ovunque cadaveri sbudellati e straziati, già in decomposizione dopo essere rimasti per tutto quel tempo al sole. All’odore terribile che aleggiava sulla città contribuivano le carcasse dei maiali, perché i musulmani trovando in città gran quantità di quelle bestie impure le avevano ammazzate tutte; solo dopo aver finito di seppellire i propri caduti accatastarono i cadaveri dei cristiani e le carogne delle bestie e le cremarono24.

Gran parte degli abitanti sopravvisse comunque al saccheggio e agli stupri, dal momento che gli schiavi rappresentavano un valore considerevole: un registro cominciato il giorno dopo la caduta di Nicosia e aggiornato fino alla fine di ottobre riporta i nomi e la tassa di vendita di 13.719 persone ridotte in schiavitù. Già quel primo giorno si tenne un bazar in cui i soldati vendettero i loro prigionieri, spesso acquistati dai rais delle galere bisognosi di rematori: il Calepio fu acquistato da Osman Çelebi, che su preghiera del frate comperò anche le sue due sorelle. Il turco, che con poca gratitudine il frate chiama «questo fiero cane», anziché incatenarlo al remo lo fece mangiare con sé, e ospitò sottocoperta lui e le sorelle, in attesa che arrivasse dall’Italia il denaro del riscatto25.

Il rapporto d’un agente genovese da Costantinopoli, spedito nel gennaio 1571, conferma che la stragrande maggioranza degli abitanti di Nicosia e di quelli che avevano avuto la cattiva idea di rifugiarsi in città finirono in schiavitù. «È grandissima pietà de veder tanti schiavi portati de Cipro et tante richezze de la spoglia de la povera Nichosia, dicono passar 75 mila schiavi cavati for de la isola». Gli schiavi, che in tempi normali potevano costare anche 100 ducati, si vendevano a 2, 3 o 4 ducati l’uno, e c’era qualche «omo da niente desgraziato» che spingeva innanzi a sé 10 o 15 schiavi «como se fossero pechore: ne son pien per tuto». La deportazione fuori dall’isola di una così grande quantità di persone preoccupò il governo, che dapprima decise di farle riportare indietro, ma poi pensò piuttosto di servirsene come mezzo di pressione sul nemico. Finché ogni resistenza non fosse cessata a Cipro, venne proibito che i cristiani potessero comprare gli schiavi per liberarli; «non prendendo Famagosta dicono non voran liberarne nisuno»26.

In realtà, molti fra gli schiavi di condizione sociale elevata vennero riscattati o scambiati nei primi mesi, compreso il Calepio, che già l’8 gennaio 1571 ricevette da papa Pio V e dal generale dei domenicani i 400 scudi per pagare il suo riscatto. La Cristianità si attrezzò per liberarne il più possibile, e il primo elenco di prigionieri con le istruzioni per ritrovarli venne spedito da Costantinopoli a Venezia nell’aprile 1571: vi si legge ad esempio che Lucia, vedova del nobile Scipione Podacataro, «è schiava di Morat rais insieme con una creaturina che partorì in galera», mentre «il signor Giacomo Benedetti, avocato fiscal, è schiavo di Sinan rais», e «la madre del Gobbo Pasqualigo è schiava d’un spahi». Alcuni, messi al remo, vennero poi liberati a Lepanto, o scambiati con turchi catturati nella battaglia, e nel novembre 1571 il Barbaro riuscì a liberarne molti altri dietro pagamento di 20.000 zecchini raccolti fra i mercanti veneziani a Costantinopoli.

Ma per i meno fortunati la prigionia durò molto più a lungo: le raccolte di fondi promosse dal papato per la loro liberazione continuarono fino alla fine del secolo. La nobile Fiorenza Podacataro persuase il padrone d’essersi convertita all’Islam, convisse con lui per ventidue anni dandogli tre figli, e alla sua morte nel 1592 riuscì a fuggire a Venezia; al Sant’Uffizio, che la interrogava sulla sua conversione, assicurò di aver sempre continuato in segreto a recitare le preghiere cristiane. Il nobile Giacomo de Nores, che aveva solo un anno al momento della cattura, fu ritrovato e riscattato dalla famiglia quando ne aveva 18; nessuno gli aveva insegnato l’italiano, che dovette imparare da zero. In compenso parlava turco, e questa capacità era così rara a Venezia che gli valse l’incarico di interprete ufficiale della Signoria. Andò peggio a un greco di Nicosia, Pietro Catarotì, appena diciassettenne e fatto turco per forza: ripreso dai cristiani a Lepanto, affermò d’essere cristiano anche lui, e don Juan ordinò di liberarlo, ma il capitano di una galera genovese lo catturò coll’inganno e lo incatenò al remo, finché, diciassette anni dopo, il disgraziato riuscì a far arrivare una supplica al re Filippo II, implorando d’essere liberato27.

Per qualche tempo Nicosia rimase una città fantasma: il primo censimento ottomano di Cipro, redatto già nel 1572, registra nella capitale appena 235 maschi adulti. La caduta della città comportò anche l’annientamento della nobiltà cipriota, che si era rifugiata in gran parte dietro i suoi bastioni: il vescovo di Famagosta, Girolamo Ragazzoni, che una galera trasportò a Venezia quell’autunno per sottrarlo all’assedio, affermò che «di più che di 500 gentilhuomini cipriotti, che andavano in Conseglio, 21 solamente ne sono restati vivi et questi tutti pregioni, eccetto che uno», e i libelli antiturchi coevi insistono che la nobiltà cipriota era «spenta». Con essa disparve dall’isola il clero cattolico, che era mandato da Venezia e non aveva alcun radicamento fra la popolazione indigena: il vescovo di Nicosia era in patria al momento dello sbarco turco, e quello di Famagosta, come s’è visto, riuscì a ritornarvi; quello di Pafos, un Contarini, rimasto intrappolato a Nicosia, partecipò all’ultima difesa armato di corsaletto, dopo essersi fatto allacciare i bracciali e la celata da fra Angelo Calepio, e secondo le prime notizie giunte a Venezia morì per le ferite ricevute in combattimento sulla piazza del palazzo (ma in realtà sopravvisse e venne catturato, si riscattò in contanti e sei mesi dopo era sano e salvo a Venezia)28.

Peraltro, non tutti i membri dell’aristocrazia di piantatori latini che dominava Cipro sotto il regime coloniale veneziano condivisero questo destino. Scipione Carafa, Pier Paolo Singlitico e altri nobili avevano avuto la fortuna d’essere mandati in montagna, al comando dei contadini che dovevano lasciare la pianura secondo il piano di evacuazione predisposto dalle autorità, ma visto il precipitare della situazione decisero che non era il caso di continuare la resistenza; per cui vennero a sottomettersi a Mustafà e giurarono fedeltà al sultano, «accompagnati da molti preti greci, e una gran turba di villani». Il pascià li accolse con tutti gli onori, donando loro abiti intessuti d’oro, secondo l’usanza della corte ottomana. Non appena Costantinopoli riorganizzò amministrativamente l’isola, i feudatari che avevano accettato di sottomettersi riebbero le loro terre in forma di timar, trasformandosi in sipahi, e la maggior parte si convertì all’Islam. Altri fuggirono in Occidente, affluendo a Venezia oppure a Creta, dove pochi anni dopo si notava che «vi sono assai Ciprioti»; ma col tempo parecchi ritornarono a Cipro, sottomettendosi all’autorità del sultano, salvo mandare i loro figli a studiare a Roma al Collegio Greco. Collettivamente, tuttavia, l’orgogliosa nobiltà cipriota, che pretendeva di risalire alle crociate, aveva cessato di esistere29.

La conquista turca, dunque, comportò la distruzione del regime coloniale contro cui protestava da tanto tempo la popolazione rurale, e proprio per questo non c’è da stupirsi che durante l’assalto finale la milizia reclutata fra i contadini si sia data alla fuga anziché farsi ammazzare sui bastioni. Lettere di privati da Famagosta, fra cui il vescovo Ragazzoni che stava tornando a Venezia a bordo della galera Donata, lamentavano «che i Cipriotti havevano mostrato incredibile viltà, fuggendo et gettando via l’armi in luogo di combattere», e in altre testimonianze coeve risuona la medesima indignazione. Eppure già da anni le relazioni che giungevano a Venezia prevedevano che sarebbe andata a finire così. «Mettere le armi in mano de’ Ciprioti» era inutile, avvertiva Ascanio Savorgnan: erano tutti contadini, e quando avessero avuto ordine di distruggere i raccolti e chiudersi nelle città, avrebbero preferito scampare in montagna derubando i padroni, «da loro molto odiati». Il Savorgnan dava per scontato che tutti i contadini «desiderano mutazione di quella dura condizione, non solo li parici, per essere schiavi, ma anco li liberi per essere parenti delli schiavi e per molte angarie». L’unico modo di tenerli in soggezione era per mezzo degli stradiotti albanesi, ma anche su di loro si poteva contare sempre meno, perché si stavano imparentando cogli indigeni; armare le cernide, concludeva pessimista il Savorgnan, significava rischiare che usassero le armi per «farsi forti» contro quei pochi stradiotti che erano ancora fedeli al governo30.

Almeno un cronista italiano registra senza alcuno stupore la defezione dei miliziani, e la considera anzi ovvia e prevedibile. Bartolomeo Sereno utilizzò come fonte la relazione del cipriota Giovanni Sozomeno, stampata a Bologna fin dal febbraio 1571. Di qui trasse la notizia che la milizia aveva dato cattiva prova di sé, rivolgendo le armi contro coloro che cercavano di impedire la fuga, ma la inserì in un più ampio ragionamento in cui spiegava come mai «non volevano esporsi a periglio i paesani per difender la nobiltà, dalla quale erano essi tanto male trattati, che ogni altro severissimo imperio avriano sostenuto più volentieri che il loro». Per il Sereno, insomma, l’insoddisfazione dei contadini per la schiavitù in cui erano tenuti dai nobili e la pessima prova della milizia radunata a forza in Nicosia stavano in rapporto di causa ed effetto: i contadini non avevano nessuna intenzione di farsi ammazzare per evitare una conquista turca che tutto sommato non costituiva ai loro occhi una prospettiva spiacevole, e che anzi molti desideravano31.

La fuga della milizia anticipò il comportamento dei contadini, trattenuti per qualche settimana dalla terribile rappresaglia di Lefkara: appena sulle montagne si seppe che la capitale era stata presa, la guarnigione italiana sterminata e i rettori decapitati, tutte le comunità rurali mandarono deputati a Mustafà per negoziare la sottomissione. Il pascià li accolse alle abituali condizioni dei sudditi cristiani dell’impero, imponendo il pagamento della tassa dovuta dai non musulmani, ma abolendo la condizione servile e garantendo libertà di religione. Quell’autunno, Mehmet pascià scrisse al re di Francia, l’unico alleato occidentale del sultano, per comunicargli la felice notizia della conquista di Nicosia e dell’intera isola di Cipro:

Il popolo dei campi, alla detta disfatta, nel numero di più di 400.000, si sono arresi e sottomessi all’obbedienza di Sua Altezza, che per la sua grazia li ha ricevuti nel novero degli altri suoi sudditi sotto le sue potentissime ali, mettendoli nella loro pristina libertà, e usando loro ogni clemenza e giustizia32.

Il gran visir esagerava, perché l’intera popolazione dell’isola non superava le 200.000 anime; ma al di là delle cifre, la sostanza era quella. Al momento dello sbarco, le autorità veneziane avevano costretto il maggior numero possibile di contadini a evacuare i casali e salire in montagna, ma appena fu chiaro che i turchi vincevano la gente cominciò a ritornare: a Venezia, insieme alla notizia della caduta di Nicosia, giunse quella che i contadini «ritirati alla montagna s’andavano ogni dì riducendo all’obedienza de’ Turchi». È sintomatico che diversi capitani albanesi, scampati in montagna con i loro stradiotti al momento della presa di Nicosia, anziché rimanervi e condurre la guerriglia contro gli invasori siano scesi già poche settimane dopo a rifugiarsi dietro le mura di Famagosta: evidentemente i montanari non erano disposti ad appoggiarli. Ma del resto s’è visto che persino i nobili mandati da Nicosia coll’incarico di organizzare la resistenza in montagna preferirono scendere e sottomettersi a Mustafà, insieme ai contadini guidati dai loro preti33.

Anche la fortezza di Kyrenia, che i veneziani chiamavano Cerines, e per le cui difese era stata stanziata da poco un’enorme somma, si arrese senza combattere quando Mustafà fece portare un’intimazione da un capitano prigioniero, incatenato sul cavallo, con due teste tagliate sopra l’arcione, fra cui quella del Dandolo. Il governatore e il comandante di Cerines, i quali fino al giorno prima avevano proclamato di voler resistere fino alla morte da «generosi Cavalieri», riunirono gli abitanti e i soldati e chiesero se volevano combattere; le risposte furono contraddittorie, ma a quell’ora, secondo un testimone oculare, i comandanti in segreto avevano già mandato al pascià le chiavi della fortezza. Mustafà li lasciò liberi di tornare a Venezia, dove però furono arrestati, processati e condannati alla prigione, mentre tre gentiluomini del luogo facevano atto di sottomissione e diventavano “nuovi Musulmani”, ricevendo in dono abiti intessuti d’oro e ottenendo immediatamente dei timar. A questo punto restava solo Famagosta, e nessuno si faceva troppe illusioni sulla sua tenuta: con la fine della buona stagione, osservava il cardinale di Rambouillet, «l’isola di Cipro è senza speranza di soccorso per otto o nove mesi, quasi tutti i suoi popoli ribellati contro la signoria di Venezia, e Dio sa se Famagosta sarà abbastanza forte per resistere così a lungo alle forze del Turco, per di più appoggiate dagli abitanti del paese»34.

Il 15 settembre 1570 Lala Mustafà, con gli altri comandanti e le autorità religiose che accompagnavano il suo esercito, tenne la preghiera del venerdì nella cattedrale gotica di Santa Sofia. In nome del sultano istituì la prima fondazione religiosa islamica, o vakf, destinata al mantenimento della nuova moschea e delle istituzioni caritatevoli annesse; in seguito lo stesso Lala Mustafà e il comandante della guardia di galere, Arap Ahmet, avrebbero fondato i propri vakf nell’isola. Il pascià donò anche una spada (poi rubata nel 1987) e un esemplare del Corano con questa iscrizione:

Lala Mustafà pascià, il leone della guerra, il valoroso che ha distrutto i castelli degli infedeli – possa Dio dargli il potere di soddisfare i suoi desideri! – ha donato questo sacro Libro col permesso di Dio grande e generoso a questa nobile e onorevole moschea, entro le mura del castello di Nicosia.

Le altre chiese latine, che con lo sterminio dell’élite veneziana non avevano più fedeli, vennero anch’esse trasformate in moschee, oppure cedute al clero ortodosso e armeno, anche se dopo la guerra fu riaperta a Nicosia una cappella cattolica, per uso dei mercanti occidentali che ricominciavano ad affluire a Cipro35.

La riorganizzazione dell’isola come provincia dell’impero ottomano procedette senza intoppi. Il giorno stesso in cui cadde Nicosia Lala Mustafà, cui il sultano aveva concesso pieni poteri, provvide a nominare un beylerbey, che fu all’inizio Muzaffer pascià, trasferito da Valona, e un cadì o giudice capo; per coadiuvarli istituì un consiglio di governo o “divan di Cipro” insediato a Nicosia, tredici tribunali distrettuali dotati di interpreti cristiani, comandi di porto e di fortezza, una direzione del Tesoro e una direzione dei timar. Il vescovo Ragazzoni, partito ai primi di novembre, riferì «che il Turco havea già trovato due cipriotti di Nicosia che havevano preso in appalto l’entrata del regno et gliene pagavano 50.000 scudi», anche se per il primo anno gli abitanti vennero esonerati da una parte delle imposte36.

Ci volle naturalmente del tempo perché la vita ritornasse alla normalità, anche perché per il momento Cipro continuava ad essere zona di guerra, e l’esercito di occupazione non trattava certo i civili con i guanti. Nel settembre 1571 il capitano Nestore Martinengo, fuggito in barca da Famagosta dopo la presa della città, toccando terra chiese ad alcuni villani «come erano trattati da Turchi, et come era lavorata, et seminata l’isola; mi risposero che non potevano esser trattati peggio, non havendo cosa che fusse sua, essendo villaneggiati et battuti sempre», e aggiunsero che la parte orientale dell’isola, dove aveva infuriato la guerra, era quasi spopolata, e le campagne abbandonate. Un medico mantovano, che da anni viveva in Siria e in quello stesso periodo si trovava a Cipro, giunse a Venezia nel gennaio 1572 e raccontò che sull’isola, benché la forza d’invasione fosse stata in gran parte rimpatriata, «vi era una estrema carestia, che i contadini vivevano di mortella sola». Per di più, dopo la caduta di Famagosta un’imbarcazione venuta dalla Siria portò sull’isola la peste; benché le autorità cittadine che collaboravano con gli invasori avessero cercato di applicare le procedure di quarantena consuete sotto il dominio veneziano, i turchi, che in questa materia erano meno attenti, le ignorarono, con risultati catastrofici37.

L’impatto della guerra sulla popolazione e sull’economia dell’isola fu dunque più traumatico di quel che gli invasori avevano sperato. Nella primavera 1571 Mehmet pascià disse all’inviato veneziano Ragazzoni, fratello del vescovo, che Cipro era spopolata dalla guerra, «mancando in quell’isola ottantamila persone fra morti e schiavi», e che il governo imperiale si proponeva di ripopolarla. La cifra è forse esagerata, ma si avvicina stranamente a quella di 75.000 schiavi fornita dalla spia genovese; in ogni caso, è indubbio che la quasi totalità delle 56.500 persone ammassate in Nicosia perirono durante l’assedio e il saccheggio o vennero deportate in schiavitù fuori dell’isola. I successivi censimenti ottomani mostrano che la popolazione di Cipro faticò a riprendersi, non solo nella capitale, ma anche nelle campagne, dove il 7% dei 968 villaggi risultavano abbandonati38.

La Porta non tardò ad accorgersi che la situazione sull’isola era più grave del previsto. Un firmano di Selim indirizzato al nuovo beylerbey Sinan pascià nel febbraio 1572 prende atto senza infingimenti che «l’isola di Cipro è stata conquistata con la forza, e perciò la situazione dei contadini si è alquanto deteriorata». Seguivano prevedibili esortazioni a trattarli con giustizia, a mostrare misericordia nell’imposizione della sharia e nella riscossione delle tasse, e a garantire la tranquillità di chi lavorava, «in modo che il paese possa tornare alla sua precedente prosperità»; soprattutto, non bisognava a nessun costo provocare la fuga degli abitanti, né creare contrapposizioni e attriti fra cristiani e musulmani. Ma vennero prese anche misure più specifiche e concrete: per tre inverni consecutivi, dal 1571 al 1574, il sultano emanò ordini per l’invio di grano a Cipro. Nel frattempo si svolgevano le operazioni del censimento, completato nell’ottobre 1572; dopodiché Sinan pascià riferì al sultano che la popolazione cristiana preferiva il passaggio alla legge ottomana anziché il mantenimento delle consuetudini giuridiche precedenti. Perciò la terra dell’isola, che prima apparteneva per circa un terzo allo Stato e per due terzi alla nobiltà e alla Chiesa, divenne integralmente proprietà del sultano, e a tutti i contadini fu riconosciuto il diritto perpetuo di coltivarla e trasmetterla ai propri figli, anche se la confisca e la rivendita di case e terre rimaste abbandonate durante la guerra diedero luogo a speculazioni e abusi, che il sultano tentò più tardi di riparare39.

Come aveva preannunciato il gran visir, la Porta intraprese anche energiche iniziative di ripopolamento, con le tecniche brutalmente efficaci che aveva ereditato dall’impero bizantino, incoraggiando l’immigrazione dall’Anatolia e organizzando il trasferimento forzato di sudditi musulmani ed ebrei. In diverse province anatoliche venne pubblicato l’ordine di deportare a Cipro una famiglia ogni dieci, scegliendo fra i contadini miserabili o senza terra, gli immigrati da altre province, i rurali emigrati in città, ma anche fra i soggetti notoriamente ribelli o troppo inclini ai litigi. L’ordinanza provocò comprensibili resistenze: l’architetto Sinan intervenne presso Selim per evitare la deportazione ad alcuni abitanti del suo villaggio, e parecchi deportati tentarono di ritornare indietro, ma con scarso successo. Venne anche insediata nell’isola una guarnigione stabile, con l’assegnazione a Cipro di 1000 giannizzeri e 2779 fra artiglieri, azap e “volontari”, per i quali si cominciò a organizzare l’arrivo di donne da sposare, fornite di dote a spese dello stato. Una parte dei volontari giunti coll’esercito vittorioso e dei soldati insediati nelle fortezze e nei porti ebbero assegnati dei timar e vennero promossi a sipahi; col tempo l’isola giunse a comprendere 565 timar40.

La produzione del cotone, che era la principale derrata commerciale, non tardò a riprendere e già pochi anni dopo la fine delle ostilità il beylerbey di Cipro, che era ora il rinnegato calabrese Giafer pascià, ne esportava a Venezia per migliaia di ducati, di contrabbando e utilizzando dei prestanome. Il servaggio ereditato da secoli di sfruttamento coloniale non tornò mai più in vigore, garantendo la fedeltà dei contadini al nuovo regime, nonostante la sua brutalità imperiale e il peso oppressivo del fisco. Nel 1575 un viaggiatore tedesco capitato a Cipro si sentì dire che al tempo dei veneziani gli abitanti erano trattati peggio degli schiavi, ma che sotto i turchi i poveri erano stati liberati, e i loro padroni venduti in schiavitù in Turchia. Vent’anni dopo un altro viaggiatore, stavolta inglese, venne condotto a vedere i palazzi diroccati e disabitati dei nobili veneziani, e gli fu spiegato che i loro proprietari erano stati tutti massacrati, come giusta punizione per il servaggio disumano in cui tenevano i contadini41.