24. Dove i turchi assediano Famagosta e si dimostrano più capaci del previsto, la città capitola dopo aver resistito fino all’ultimo barile di polvere, e l’incontro fra due uomini collerici produce conseguenze disastrose
Famagosta era un quadrilatero del perimetro di due miglia, difeso da un profondo fossato asciutto e un’antiquata cerchia di mura con dodici torrioni circolari; la bocca del porticciolo, rivolto verso Levante, era strettissima e difesa da un piccolo castello, fabbricato su uno sperone proteso nel mare. Il lato meridionale era il più vulnerabile da terra, e qui la cortina muraria era rafforzata da opere di concezione più moderna. I quattro torrioni, o mezzelune, dell’Arsenale, di Campo Santo, dell’Andrucci e di Santa Nappa, e l’unica porta d’accesso alla città, detta la porta di Limassol, erano muniti di piattaforme sopraelevate, i “cavalieri”, che permettevano di collocare pezzi d’artiglieria protetti da gabbioni e sacchi di terra e di battere la campagna circostante. Davanti alla porta, ricavata in un torrione esagonale chiamato il Diamante, era stato edificato un rivellino che la proteggeva, permettendo di tenerla sempre aperta. Prima dello sbarco nemico il Baglioni aveva provveduto ad allargare e abbassare il fossato, e a spianare un vasto tratto di terreno intorno alle mura, abbattendo case e chiese e costringendo gli abitanti a sradicare i giardini di aranci e di cedri, per liberare il campo di tiro all’artiglieria. Si erano ammassati in città tutto il frumento, l’olio, il formaggio, la legna, il carbone, il bestiame dei dintorni, dando fuoco a ciò che non si poteva trasportare.
Alla notizia che i turchi erano sbarcati il vescovo Ragazzoni, che di lì a poco si sarebbe messo in salvo a Venezia, aveva detto messa in piazza e invitato tutti a giurare fedeltà a Cristo e al doge. Il Bragadin, il Baglioni e gli altri comandanti avevano giurato per primi, «et poi il popolo tutto con le lacrime agli occhi giuraro, essendo piene terrazze, loggie et fenestre di donne e fanciulli, in un baleno si sentì un grido universale di donne putti e fanciulli tutti ‘giuriamo fedeltà’». I fanti e gli stradiotti schierati nella piazza alzarono la mano a loro volta, ripetendo tutti insieme «giuriamo fedeltà». Ma se il morale della popolazione e dei soldati era alto, quello del Baglioni non lo era altrettanto, soprattutto dopo che l’inaspettata caduta di Nicosia lasciò Famagosta a difendersi da sola. Le fortificazioni della città erano state giudicate antiquate e deboli dagli ingegneri che le avevano ispezionate negli anni precedenti, e Astorre sapeva che avevano ragione. In una lettera ai priori del comune di Perugia, la sua città, il comandante scrisse: «Mando a Vostre Signorie il disegno di Famagosta a ciò che le possino considerare la imperfetione di questa nostra difesa», e confessò che avrebbe voluto allargare molto di più le fortificazioni, ma la presenza del nemico glielo aveva impedito1.
All’avvicinarsi della primavera il campo turco cominciò ad attivarsi. Dopo la partenza delle galere di Marco Quirini riprese l’andirivieni di legni da trasporto con la costa della Caramania e della Siria; portavano artiglieria e volontari attirati dalla prospettiva del saccheggio di Famagosta, e soprattutto sacchi di lana, legname, ferramenta, pale e picconi per le operazioni d’assedio. Dalle mura della città si assisteva con preoccupazione a quel traffico incessante, che si accrebbe ancor più dopo che il kapudan pascià, arrivato ad aprile e sbarcati i giannizzeri e gli zappatori armeni, lasciò sul posto 25 galere per collaborare al trasporto dei materiali. Nel campo di Mustafà le cataste di fascine e travi crescevano ogni giorno, come scrisse un capitano italiano, «a guisa de montagne». Occasionalmente, assedianti e assediati comunicavano: il 1° aprile si concordò una tregua per il riscatto dei prigionieri, e tre gentildonne della famiglia Podacataro fatte schiave a Nicosia vennero ricomperate e accolte in città2.
Era evidente che ben presto Famagosta sarebbe stata attaccata, e alla metà di aprile il Bragadin cominciò a prendere le sue contromisure. Quattro gentiluomini della città e quattro capitani italiani furono incaricati di ispezionare, a coppie, la città, facendo il censimento delle bocche e delle scorte alimentari; l’ordine era di «cercare con grand cura tutte le case ad alto et a basso, nelli pozzi, nelli secreti, pigliando in nota tutte le biade, et ancora tutti i legumi, come olii, vini, et aceto». Quando i registri furono pronti, le autorità decisero di espellere dalla città le ultime bocche inutili; il capitano Gatto è l’unico testimone ad affermare che venne lasciata libera scelta, pubblicando un proclama per cui coloro che desideravano uscire dovevano presentarsi agli uffici e farsi iscrivere in una lista. In totale 5370 persone registrate come inutili per la difesa ebbero ordine «che con la più prestezza dovessero andare con Dio», e vennero fatte uscire dalla porta di Limassol. Potevano portare con sé tutti i loro averi e pane per un giorno, ma non armi, frumento o farina; Marcantonio Bragadin in persona fece aprire i fagotti, perquisendoli uno per uno. A detta di tutti i testimoni, il pascià li accolse «cortesemente e benignamente» e li rimandò ai loro villaggi3.
Oltre ai fanti italiani portati dal Quirini, la guarnigione di Famagosta era stata rafforzata da parecchi capitani italiani, greci e albanesi scampati all’assedio di Nicosia, che dopo essersi rifugiati in montagna con i superstiti delle loro compagnie avevano preferito scendere in città all’arrivo dell’inverno. Il Bragadin ordinò un’ispezione generale, e risultò che dentro le mura di Famagosta c’erano ora circa 4000 fanti italiani, 3000 greci reclutati sull’isola, altri 800 delle cernide, e 200 stradiotti albanesi4. C’è da chiedersi come vennero accolti i rapporti delle spie, secondo cui il nemico aveva 240.000 uomini, di cui 7000 cavalli, 193.000 fanti e 40.000 guastatori! Poiché il capitano Gatto trascrive queste cifre con perfetta serietà bisogna concludere che i comandanti cristiani ci credevano, anche se è impossibile che i nemici avessero traghettato a Cipro e fossero in grado di mantenere una forza di gran lunga superiore all’intera popolazione dell’isola; erano verosimilmente i turchi stessi a mettere in giro questi dati, per terrorizzare il nemico, ma la fiducia nelle fortificazioni di Famagosta era tale che nessuno, all’inizio, parlò di resa5.
Prima che i turchi uscissero dall’accampamento invernale e cominciassero i lavori d’assedio, i difensori fecero tutto quello che potevano per rendere difficile l’avvicinamento. Tutt’intorno alla città fu buttata una gran quantità di triangoli di ferro appuntiti, detti triboli, e vennero seppellite nella terra tavolette di legno da cui sporgevano quattro chiodi, così numerose che non ci si poteva avvicinare a trecento passi dalle mura senza correre il rischio di calpestarle. Col favore dell’oscurità si fecero uscire cavalleggeri che avvelenarono tutti i pozzi e le sorgenti intorno alla città, usando sacchetti di veleno spediti apposta da Venezia. Ma il vero problema era la scarsità delle provviste alimentari, e soprattutto di cereali. Il pane, che i soldati pagavano di tasca propria, era fabbricato in un unico forno per evitare sotterfugi, «non dando più di doi pani al giorno per testa»; erano già finiti orzo, spelta e paglia e i cavalli vivevano di semola. Tutto il resto era distribuito gratuitamente, «talché il soldato non spendeva più che due soldi al giorno in pane»: il Bragadin in persona sovrintendeva al razionamento del formaggio e del vino, poi sostituito, quando le botti furono vuote, da aceto misto ad acqua. Presso le mura fu allestita una cucina con otto calderoni in cui si cuocevano riso e carne salata; la razione quotidiana era di una scodella di riso e quattro once di carne, e nei giorni di magro fave con olio6.
Non ultimo problema era quello di pagare i soldati. Interrotte le comunicazioni con la madrepatria, le autorità veneziane a Cipro si erano trovate subito a corto di denaro. Quando non rimasero più né oro né argento nelle casse pubbliche, ci si rassegnò a fare quel che si faceva per usanza corrente nelle città assediate: battere, cioè, una moneta d’assedio di metallo vile, imponendone il corso forzoso, dietro promessa che sarebbe stata rimborsata dopo la vittoria. A Famagosta, Marcantonio Bragadin «faceva battere giorno e notte bisanti de rame da diece soldi l’uno, e soldi da quatro quatrini», e con questa moneta si pagarono le truppe e i fornitori. La gente, va da sé, non l’accettava volentieri; ma «Sua Eccellentia fece fare una grida a pena della forca a chi ricusasse le dette monete», col risultato che il rame «correva come fusse stato oro et argento»7.
Il 17 aprile Lala Mustafà fece fare una rassegna di tutto l’esercito. Benché la distanza dalle mura fosse di tre miglia, il Baglioni puntò in quella direzione i pezzi più grossi di cui disponeva e tirò sul nemico dal cavaliere di Limassol, causando perdite e panico. Gli archibugieri turchi si trincerarono su una collina a un tiro d’arco dalla città, il Monte degli Ebrei, e da lì cominciarono a tirare su quel cavaliere e sulla piazza del rivellino; ma la posizione, isolata, era troppo vicina alla città, e i difensori in pochi giorni scavarono una mina fin sotto la collina e la fecero saltare. Fin qui, però, si trattava soltanto di punture di spillo, mentre il grosso delle truppe turche levava il campo e andava ad accamparsi più vicino alla città, nella zona dove erano stati distrutti gli aranceti; in teoria i numerosi pozzi che lo rendevano un posto ideale per l’accampamento nel clima torrido dell’estate avrebbero dovuto essere avvelenati, ma ben presto si vide che i turchi se ne servivano tranquillamente. Nel frattempo erano stati mandati a prendere a Nicosia 15 grossi pezzi d’artiglieria d’assedio, e al loro arrivo tutto era pronto per l’inizio del dramma: il 25 aprile gli zappatori turchi, con l’aiuto dei villani dell’isola e di squadre di soldati, cominciarono a scavare le trincee di avvicinamento8.
Il problema degli assedianti era di accostarsi alle mura abbastanza da poter costruire forti per l’artiglieria e trincee per gli archibugieri, senza esporsi durante l’avvicinamento al fuoco dei difensori: perciò nei primi giorni quel che serviva non erano le armi, ma pala e piccone. Sotto la direzione degli ingegneri venne scavata una rete di camminamenti coperti, che si avvicinò poco per volta alla città; il Gatto, dalle mura, li vide avanzare «venendo a biscia con grand sollecitudine», e trasformando la campagna «a guisa de laberinto, con infinite trincere, e strade coperte». Le traverse che conducevano dall’accampamento in direzione della città erano così profonde che non solo gli uomini a piedi, ma addirittura i sipahi a cavallo potevano percorrerle con sicurezza: dalle mura si vedevano soltanto le punte delle lance. Di notte, quando l’artiglieria di Famagosta non poteva tirare, gli zappatori aprivano le parallele, cioè le trincee che collegavano le traverse, piene di terreno smosso in cui gli archibugieri potevano nascondersi per tenere sotto tiro le mura. I lavori di sterro alzarono tali montagne di terra che un po’ per volta le truppe vennero ad accamparsi alla loro ombra, e a pochissima distanza dalla città sorse un intero accampamento, con tanto di tende e padiglioni, completamente al riparo dal fuoco dei difensori.
I testimoni oculari e gli storici contemporanei, come il Paruta, non nascondono l’ammirazione per l’avanzatissima tecnica d’assedio dei turchi, per l’«incredibile fatica» e l’«industria maravigliosa» con cui progredivano i lavori. Gli zappatori scavavano protetti da «monti di terra assai più alti che non erano i lavoratori, onde si vedevano i monti caminare alla volta del fosso senza vedersi gli operai per poterli offendere». Il legname da costruzione ammassato nei mesi precedenti venne portato avanti lavorando giorno e notte, e quando le trincee più avanzate furono abbastanza vicine alle mura cominciò la costruzione dei forti per l’artiglieria: «alti, e grossi fuor d’ogni misura». La fronte rivolta alla città era in travi di rovere, gli interstizi riempiti con terra, fascine e sacchi di cotone; fra le travi si aprivano le feritoie per i cannoni, protette da gabbioni di legno. Il primo forte sorse con spaventosa rapidità in località Pre Cipolla, sull’angolo sud-occidentale delle mura, contro il fianco destro del rivellino che proteggeva la porta di Limassol, e gli altri si estesero a Levante fino al cosiddetto scoglio marino, davanti alla mezzaluna dell’Arsenale9.
I difensori vedevano fin troppo bene quello che stava per succedere, e fecero tutto il possibile per ripararsi dalla tempesta. Il muro della controscarpa venne rafforzato con una sopraelevazione in mattoni, larga due piedi e munita di feritoie per gli archibugieri; le mura della città furono rialzate con barricate di travi, e sui parapetti delle mezzelune e dei cavalieri si eressero steccati di tavole con feritoie per i tiratori e postazioni fisse di archibugioni; infine «si condusse tutta l’artigliaria buona da quella banda dove si aspettava la batteria». Una grossa guardia stava giorno e notte nella strada coperta della controscarpa e nelle cosiddette sortite, le aperture dei torrioni da cui era possibile sciamare rapidamente nel fossato.
All’inizio la fanteria greca e italiana usciva ad attaccare di sorpresa gli zappatori nemici; qualche volta uscivano anche i cavalleggeri albanesi, e almeno in un caso ne risultò un combattimento sanguinoso, con così tanta gente che per la calca i combattenti finirono dalla spiaggia in acqua «combattendo nel mare con l’acqua alla pancia dei cavalli», mentre i cannoni dei difensori falciavano il nemico dallo sperone del Castello. Ma a un certo punto si decise di lasciar perdere, dopo che una sortita in forze, condotta da 300 greci armati di scudo e spada e 300 archibugieri italiani, andò a impantanarsi nel labirinto delle trincee e lasciò sul campo un centinaio di morti e feriti: se volevano resistere all’assedio, i difensori non potevano permettersi simili perdite10.
A metà maggio le trincee dei turchi erano arrivate alla controscarpa, ed erano piene di giannizzeri che tiravano continuamente contro le mura, soprattutto intorno all’alba e al tramonto. Il fuoco cominciava all’estrema destra o all’estrema sinistra e proseguiva ordinatamente fino in fondo, «et quando tutti haveano fatto una sparata, ricominciavano alla testa, sparando tutti di mano in mano fino alla coda»; durante questa «spaventosa tempesta» – ricorda il capitano Gatto – era pericoloso salire sulle mura, e anzi si poteva appena uscire di casa in città, «per le tante palle d’archebuggi che vi venivano d’inimici, a guisa che parea che il cielo grandinasse». Sabato 19 maggio, due ore prima dell’alba, i giannizzeri cominciarono a sparare come nei giorni precedenti, e continuarono per un’ora; poi s’interruppero di colpo, e da tutta la linea si levò un triplice grido di guerra, accompagnato da nacchere e tamburi, mentre le insegne dei reparti ammassati nelle trincee salivano sui parapetti in segno di sfida. Subito dopo, dai dieci forti cominciarono a sparare circa 70 pezzi d’artiglieria pesante, provocando – osservò un testimone – «così orrendo e crudo rumore, che si pensava che il mondo rovinasse». Più di un anno dopo i capitani italiani sopravvissuti all’assedio e rinchiusi nella torre del Mar Nero a Costantinopoli dichiararono che il bombardamento aveva provocato «tanto fracasso, ruina et mortalità di noi altri, che non si ricorda da coloro che son più vecchi di noi, d’haver vista tal cosa in altre città assediate»11.
Acquattati sulle mura, i comandanti veneziani cercavano di riconoscere il dispositivo nemico, ed è il motivo per cui tutti i resoconti dei superstiti elencano in dettaglio le batterie, anche se con qualche discrepanza. L’artiglieria d’assedio comprendeva cannoni e colubrine d’un calibro da 50 a 120 libbre, oltre a 4 basilischi «di smisurata grandezza», con palle fino a 180 libbre. Tre forti, con 34 cannoni, battevano la porta di Limassol e il rivellino che la proteggeva. Due forti, con 2 basilischi e 9 cannoni, battevano il torrione di Santa Nappa; altri due, con 2 basilischi e 7 cannoni, il torrione dell’Andrucci; due forti con 12 cannoni bersagliavano la cortina fino all’Arsenale, e un forte edificato sullo scoglio marino, con 5 pezzi, tirava al torrione dell’Arsenale. I difensori, sbigottiti, calcolarono che il primo giorno erano state sparate 3373 palle di cannone, e che per tutta la durata dell’assedio la media fu di 2000 ogni ventiquattr’ore. All’inizio i nemici non cercavano tanto di «rovinar la muraglia, ma tiravano nella città e alli nostri pezzi»; il bombardamento, in altre parole, non mirava ad aprire una breccia, ma era diretto contro le postazioni d’artiglieria annidate nei “cavalieri” che coronavano le mura e i torrioni, e i tiri alti finivano inevitabilmente nell’abitato, per cui i soldati e gli stessi abitanti rimasti in città evacuarono le case diventate insicure e vennero a ripararsi dietro le mura12.
L’artiglieria della città rispose tirando a volontà contro le batterie d’assedio; gli artiglieri nemici non potevano mostrarsi un istante senza essere subito presi di mira. Parecchi cannoni turchi vennero colpiti e i forti mezzo demoliti, ma gli assedianti li riparavano di notte, grazie alla numerosa forza lavoro di cui disponevano e all’enorme quantità di fascine, legname, sacchi di lana e di cotone accumulata nel campo: per cui al mattino i difensori constatavano con sconforto che i danni non erano più visibili. Dopo dieci giorni di controbatteria ininterrotta qualcuno pensò di fare il conto delle munizioni e della polvere da sparo, e si scoprì che il consumo era intollerabile; perciò l’artiglieria di Famagosta sospese il tiro. Solo 30 pezzi ebbero l’ordine di continuare a tirare quando si presentava l’occasione favorevole, ma potevano farlo solo in presenza di un capitano, per evitare sprechi. In città la scoperta che le scorte di polvere da sparo non erano inesauribili provocò mormorii, e i soldati cominciarono a criticare l’imprevidenza dei comandanti. «Dove besognava tirar el mancho mille canonate al giorno per non li lasciar approssimar, non se ne tirava 50», ricorda amaramente un superstite. Non sappiamo se sia per questo o per un altro motivo che il capitano di una delle compagnie italiane, Mario Compagnone da Macerata, ebbe un diverbio con Marcantonio Bragadin, ma in ogni caso la pagò carissima: il collerico Bragadin gli sfilò la spada dalla cintura «et con essa l’ammazzò», senza che l’affare avesse alcuna conseguenza giudiziaria13.
Per tirar su il morale, i comandanti veneziani facevano circolare in città dicerie incoraggianti. Uno schiavo fuggito dal campo turco raccontò di perdite spaventose fra i bombardieri e gli ingegneri nemici, al punto che nell’accampamento di Mustafà i soldati tumultuavano esigendo che si mettesse fine al bombardamento. Ma il racconto del capitano Gatto dimostra che sulle mura la situazione era altrettanto drammatica. Il cannoneggiamento incessante aveva distrutto parecchi pezzi d’artiglieria della fortezza, demolito le cannoniere e i parapetti, e ucciso gran parte degli artiglieri; per poter ancora sparare dai cavalieri eretti sulle mura di Famagosta bisognava coprire tutte le aperture con sacchi di cotone, e toglierli solo all’ultimo momento prima di sparare il pezzo, ma anche così le perdite erano intollerabili14.
Raggiunto lo scopo di ridurre al silenzio l’artiglieria dei difensori, i cannoni turchi «cominciaro a battere le muraglie, fracassando hor qua hor là, tirando hor alto, hor basso; e quando ebbero in molte parti fatto il saggio della muraglia, cominciaro a tiro fermo», battendo, cioè, regolarmente negli stessi punti deboli, per aprire delle brecce. Le macerie provocate dal cannoneggiamento si aggiungevano alla terra e ai detriti che gli zappatori riversavano nel fossato allo scopo di riempirlo. Gli assediati, a loro volta, lavoravano ininterrottamente per svuotarlo; le compagnie vi scendevano a turno e così pure gli abitanti inquadrati da preti e frati, mentre le donne, anch’esse organizzate dal clero, portavano alle mura mattoni, pietre e acqua. Ma il 24 maggio i turchi si impadronirono delle feritoie costruite dai difensori sulla controscarpa; da lì, tirando con gli archibugi, potevano impedire di uscire nel fossato. Astorre Baglioni fece una sortita dalla porta di Limassol con due compagnie italiane che combatterono tutto il giorno sotto la pioggia battente, con grave svantaggio perché non potevano usare gli archibugi, mentre i turchi tiravano con l’arco così fitto da oscurare l’aria, piantando nel rivellino così tante frecce «che una toccava l’altra». Alla fine gli italiani, muniti di stanghe nella mano libera dalla picca o dall’archibugio, raggiunsero le feritoie e le demolirono, coperti dall’artiglieria e dagli archibugi del rivellino e del Diamante15.
Il giorno dopo Mustafà mandò un giannizzero con lettere che chiedevano la resa. Il Baglioni, dopo averle lette, rispedì il messaggero senza permettergli di parlare con gli altri comandanti, cui erano indirizzate, e gli ordinò di riferire al pascià che Famagosta non si sarebbe arresa. Mentre l’uomo tornava indietro, i soldati dalle mura fischiavano, gridavano «Viva San Marco!» e facevano le fiche, l’antico gesto di dileggio col pollice infilato fra l’indice e il medio, all’indirizzo del nemico. L’indomani Mustafà fece lanciare un’altra intimazione di resa, attaccata a una freccia, e indirizzata stavolta alla popolazione civile, invitandola ad arrendersi se voleva avere salva la vita16.
I turchi, intanto, restavano padroni della controscarpa, e continuavano a riempire il fossato. I difensori lavoravano nottetempo per portare in città la terra che il nemico buttava nella fossa, ma gli assedianti praticarono nuove feritoie nella muraglia della controscarpa, aprendo così tanti buchi da farla assomigliare a una colombaia, e il fuoco dei loro archibugieri rese troppo pericolosa l’uscita. I soldati del Baglioni tentarono delle sortite notturne per riprendere la posizione, ma «a pena sortiti venivano ammazzati per le tante archebuggiate che dalla controscarpa venivano tirate». Un ingegnere greco, Giovanni Mormori, inventò una copertura di tavole portatili, incernierate fra loro, che un solo uomo poteva reggere sulle spalle e che avrebbero dovuto permettere di costruire un corridoio coperto attraverso il fossato, al riparo dalle archibugiate. Quando ne ebbe fabbricati abbastanza da coprire il percorso dalla sortita alla controscarpa, la notte del 30 maggio, i tavoloni vennero portati nella fossa e sotto la loro protezione i difensori ricominciarono a evacuare le macerie. Ma sotto la grandine delle archibugiate e delle frecce la copertura si rivelò insufficiente, e bisognò andar via in gran fretta, perdendo molti morti e feriti; lo stesso ingegner Mormori fu ferito da un’archibugiata in una coscia, e morì pochi giorni dopo.
Quando il fossato si riempì di macerie fino a livellarsi col terreno, gli zappatori turchi sfondarono il muro della controscarpa e col solito procedimento scavarono dei camminamenti coperti che da ogni forte giungevano fino alle mura, proteggendoli all’esterno con parapetti di terra, fascine e sacchi di lana e di cotone. A questo punto gli assedianti potevano arrivare con pale e picconi fino allo zoccolo delle mura, e non potevano essere offesi se non dai pezzi dei cavalieri che tiravano dall’alto a casaccio. Mentre nuovi forti, più avanzati, erano innalzati a ridosso della controscarpa, e l’artiglieria veniva trasportata nella nuova posizione per battere le difese a distanza ravvicinata, gli zappatori ammassarono fascine, legname e sacchi ai piedi della muraglia, sbarrando le sortite, accecando le feritoie dei torrioni e salendo in pochi giorni quasi alla stessa altezza delle mura. Il Bragadin offrì un ducato per ogni sacco di lana o di bambagia che fosse stato portato in città, ma intanto gli zappatori nemici, al riparo nei loro camminamenti, avevano cominciato ad attaccare coi picconi la muraglia17.
Ai primi di giugno, un mese e mezzo dopo l’inizio del bombardamento, il lato meridionale delle mura di Famagosta era a tal punto demolito dal cannone e dal lavoro degli zappatori da apparire pressoché livellato all’immensa montagna di detriti e sacchi ammucchiata dagli assedianti, tanto che ci si poteva salir sopra a cavallo. Ma le mezzelune offrivano abbastanza spazio da permettere ai difensori di innalzare, a ridosso dei parapetti demoliti, quelle che nel gergo degl’ingegneri si chiamavano le ritirate, ammassando gabbioni di legno, casse di terra umida e sacchi di cotone dietro cui appostare gli archibugieri. Perciò il pascià non era ancora convinto che fosse il momento di dare l’assalto generale, e si limitò a saggiare in vari punti la tenuta delle difese; quattro volte i turchi uscirono dalle loro trincee e si fecero sotto, ma senza sfidare fino in fondo il fuoco dei difensori, che li insultavano e li deridevano vedendoli venire avanti esitanti «come galline». Invece Mustafà intensificò il lavoro degli zappatori, che a forza di pala e piccone si inoltrarono fra le macerie e cominciarono a scavare sotto le mezzelune, tirando giù con uncini i gabbioni e i sacchi con cui i difensori avevano costruito i nuovi parapetti, in mezzo a una tempesta di frecce infuocate che incendiavano i sacchi di cotone18.
Ai difensori restava un’arma terribile, i “fuochi artificiati”. Erano palle di metallo o di vetro, pignatte di terracotta, fiaschi e perfino barili, pieni di misture di pece, salnitro, zolfo, canfora, trementina, acquavite, e anche mortai di pietra ripieni di queste misture, tappati con un cuneo di legno, con un pertugio ripieno di polvere da sparo. Gettati dall’alto sugli zappatori al lavoro, esplodevano lanciando tutt’intorno schegge e combustibile infuocato, attaccando il fuoco alle fascine e alla lana, straziando e ustionando gli uomini. Il capitano Gatto ne descrive esultante gli effetti, affermando «che il giorno et la notte facevano de turchi anatomia in numero senza fine»; ma anche i nemici conoscevano il segreto, e bersagliavano continuamente le difese con i loro fuochi artificiati. Erano sacchetti con dentro un pignattino pieno di polvere e di zolfo, e il Gatto ne testimonia la spaventosa efficacia: «chi da questi sacchetti veniva tocco ardeva come candela», mentre tutt’intorno esplodevano gli archibugi e le fiasche della polvere da sparo. Per tutta la durata dell’assedio i turchi sostennero i loro attacchi con una pioggia di fuoco, bruciando vivi i difensori; «et chi d’essi restava ferito, e non morto era di modo piagato, che a quella guerra non era più buono»19.
Con gli assedianti ormai arrivati ai piedi delle mura, ed anzi «cacciatisi nell’anima della muraglia», cominciava la fase più terribile e più temuta dell’assedio: la guerra delle mine. Guidati da maestranze specializzate nello scavo di pozzi e cunicoli gli zappatori del pascià, lavorando sottoterra, aprivano gallerie sotto la cortina e i torrioni, reggendo il soffitto durante il lavoro con travature di legno, poi le riempivano di polvere da sparo. Quando si dava fuoco alla mina, l’esplosione poteva far inabissare tutta la fronte d’una mezzaluna o un intero tratto di mura, seppellendo i difensori. L’unica contromisura efficace consisteva nell’individuare le mine ascoltando i rumori sotterranei e scavare gallerie di contromina, che permettevano ai difensori di sbucare all’improvviso nello scavo tagliando a pezzi gli operai.
Nel corso del mese di giugno gli armeni di Lala Mustafà scavarono sei mine, sotto il rivellino, i torrioni di Santa Nappa, dell’Andrucci e di Campo Santo, la cortina e il torrione dell’Arsenale. Nonostante il pericolo, i difensori si avventuravano tutte le notti nel fossato per ascoltare il rumore degli scavi e cercare di individuare le mine, oltre che per dar fuoco alle fascine e ai sacchi di lana che proteggevano le trincee turche. Le squadre che uscivano portavano la camicia sopra l’armatura, per non farsi scoprire dal brillio della luna sull’acciaio, per cui queste sortite notturne nel gergo dei militari italiani erano dette “incamiciate”. Zappando giorno e notte, i difensori riuscirono a intercettare le mine rivolte contro i tre torrioni centrali. Non appena la galleria di contromina sfondava quella degli assedianti nasceva una confusa sparatoria sotterranea alla luce delle torce, per cui dietro agli zappatori doveva sempre star pronta una scorta di archibugieri, e spesso i combattimenti per il possesso delle gallerie continuavano a lungo nell’oscurità. In un caso la galleria di contromina sbucò appena in tempo nella camera sotterranea, trovandola già piena di polvere da sparo, che venne trasportata in città.
Tre mine, dunque, vennero neutralizzate, ma i tonfi sordi che provenivano da sottoterra indicavano che il lavoro dei minatori continuava, e i soldati all’erta sulle mura tendevano inutilmente le orecchie nell’oscurità, per cercare di indovinare a chi sarebbe toccata. Il 21 giugno i turchi diedero fuoco alla mina sotto la mezzaluna dell’Arsenale, demolendone la maggior parte; per fortuna dei difensori, la compagnia appena montata di guardia era in gran parte appostata non sul parapetto, che crollò in blocco trascinando con sé tutti quelli che vi si trovavano, ma dietro la “ritirata” di botti di legno e sacchi di cotone già apprestata più indietro. La deflagrazione era stata così poderosa che tutta la città tremò come scossa dal terremoto. Prima che l’enorme nuvola di polvere si depositasse, i turchi spararono una duplice salva con tutti i cannoni dei forti, poi la loro fanteria andò all’assalto, arrampicandosi sopra le macerie, «e piantaro sopra il rovinaccio della mina insegne in tanta copia, che una tocava l’altra».
In mezzo al fumo e al fuoco, però, era impossibile valutare l’entità del crollo; e i turchi, trovandosi sotto il fuoco degli archibugieri italiani trincerati dietro la ritirata, non ebbero il coraggio di andare avanti senza preparazione. Bersagliando il nemico con una pioggia di archibugiate, frecce, sassi e «sacchetti di mortalissima mistura», eressero rapidamente sulle macerie un parapetto di sacchi, dietro cui si trincerarono i giannizzeri, mentre gli zappatori, lavorando in mezzo alle rovine, scalzavano la ritirata da sotto «con zappe, badili e con uncini, consumandola, tagliandola di sotto, portandone con uncini sacchetti, casse, et ciò che vi era». Ma la sosta forzata imposta all’assalto permise ai difensori di riorganizzarsi, far salire sul torrione altre compagnie e contrattaccare, cercando di ributtare gli attaccanti giù dalle macerie. L’artiglieria dal cavaliere dell’Arsenale e dallo sperone del Castello «ne ammazzava tanti che era uno stupore, frequentando il battere in modo che una botta non dava tempo all’altra», mentre la fanteria si batteva «a picca e spada, contra spiedi, et altre arme d’aste, de diverse e strane foggie, e scimitarre».
Il combattimento durò cinque ore; per sei volte i giannizzeri andarono all’assalto, e per sei volte vennero respinti. A un certo punto una moltitudine di turchi riuscì ad ammassarsi nell’angolo morto sotto la ritirata, al riparo dall’artiglieria e dagli archibugi, ma i fuochi artificiati che piovevano dall’alto li bruciarono vivi tutti quanti. Gli alfieri delle compagnie italiane, che combattevano in prima linea, erano in gran parte feriti, e tutte le bandiere erano ridotte a brandelli sfilacciati, ma alla fine il nemico rinunciò ed evacuò le macerie. Le perdite più gravi per i difensori, però, non furono provocate dall’esplosione della mina né dal successivo combattimento, ma da un catastrofico incidente, che tutti i testimoni ricordano con orrore: un carico di fuochi artificiati che stava attraversando la piazza della ritirata in mezzo alla folla degli archibugieri prese fuoco, forse per il contatto casuale d’una miccia, ed esplose in mezzo ai soldati, provocando più di cento morti e ustionati gravi20.
Il 22 giugno una fregata proveniente da Candia arrivò nel porto di Famagosta, assicurando che i soccorsi stavano per arrivare, e sollevando notevolmente il morale dei difensori: è difficile dire se la notizia sparsasi fra i soldati, secondo cui la flotta cristiana era già arrivata a Castelrosso, sia stata messa apposta in circolazione dai comandi, o sia nata spontaneamente. Intanto, però, bisognava tener duro. In tutti i luoghi battuti dall’artiglieria, e là dove si sentiva scavare, i difensori lavoravano per riparare i parapetti e rafforzare le ritirate; gli abitanti della città consegnarono materassi, stracci, lenzuola e perfino tappeti per cucire sacchi da riempire di terra. Il bombardamento continuava implacabile, fermandosi soltanto nelle ore più calde del giorno; dalle trincee turche si levavano ad ogni momento rulli di tamburi e grida di guerra, «per non lasciarci respirare», ricorda il capitano Nestore Martinengo, sicché i difensori riuscivano a dormire qualche ora solo intorno a mezzogiorno, quando il clima torrido dell’estate cipriota impediva qualunque movimento.
Il 29 giugno i turchi diedero fuoco alla seconda mina, scavata nella roccia viva sotto il rivellino, facendolo completamente crollare e riempiendo di macerie il fossato. Subito dopo l’esplosione, in tutte le trincee nemiche e nei forti «furno piantate lontan due braccia una dall’altra infinite banderuole significando assalto generale»; tutti i cannoni tirarono diverse salve contro le rovine del rivellino, poi il consueto triplice grido diede il segnale dell’assalto. La fanteria turca salì sopra le rovine «combattendo con quelli di dentro a spada e scimitarra». Il Bragadin e il Baglioni erano in mezzo ai soldati e seppero evitare che si scoraggiassero: «Sue Eccellentie», ricorda commosso il Gatto, davano un tale esempio che «haveriano fatto combatter le pietre, non che li homini d’honore et d’esperientia», e alla fine i turchi vennero respinti. Anche le rovine della mezzaluna dell’Arsenale vennero attaccate, per sette ore consecutive, «et tutte le galere turchesche s’erano messe in battaglia, e venivano verso il porto sparando molte cannonate», ma vennero tenute lontane dalle colubrine veneziane che tiravano dal cavaliere dell’Arsenale, dal Castello e dal cavaliere del Diamante, e alla fine Mustafà interruppe l’attacco. Fra i difensori, secondo il Martinengo, si contarono soltanto 35 morti21.
Per quanto scarni, i rapporti dal campo turco lasciano trasparire un inizio di scoraggiamento per la tenacia dei difensori, l’atrocità della guerra di batterie e di mine, la grandissima mortalità aggravata dalla malaria, che saliva dalle vicine paludi della Costanza. La fortezza sembrava imprendibile; una lettera diretta a una sultana assicurava «ch’ella non è fatta per mano di huomini, ma di diavoli»22. Mustafà, visto l’insuccesso dei due assalti, si convinse che bisognava ancora ammorbidire le difese. Dai forti costruiti a ridosso del fossato l’artiglieria bombardava senza tregua; la notte dell’8 luglio i difensori decisero di contare le cannonate, e arrivarono a 8000. I parapetti erano ovunque demoliti e non si riusciva più a ripararli, per la «continova tempesta delle archibugiate». Tutte le energie vennero concentrate nel rifacimento delle ritirate: finiti stracci, tappeti e masserizie, il Baglioni e il Bragadin fecero aprire i fondachi dove i mercanti conservavano i panni fini, e diedero ordine di usarli per fabbricare sacchetti di terra. La ritirata del rivellino era rosicchiata dall’artiglieria e dalla zappa e la sua piazza si era così ristretta che gli ingegneri dovettero allargarla con tavole di legno per permettere alla fanteria di prendere posizione; anche così, però, «tanto poco ve n’era restata che una picca non se poteva retirare addietro». Quando il nemico piazzò due cannoni sul muro del fossato, proprio di fronte a quel che restava del rivellino, i comandanti veneziani decisero che la posizione era perduta, e fecero scavare una mina sotto le macerie, coll’idea di farla esplodere quando il nemico fosse riuscito a impadronirsi dell’opera.
Anche all’estremo opposto, verso il mare, la situazione stava diventando rapidamente insostenibile. Con travi e sacchi i turchi eressero un forte più alto delle mura sulla controscarpa in riva al mare davanti alla mezzaluna dell’Arsenale. Molte delle compagnie di fanteria italiana erano ridotte a 20 o 25 fanti, e il morale della popolazione greca era a terra. Il 2 luglio il vescovo di Limassol, il domenicano milanese fra Serafino Fortebraccio, che durante l’assalto di tre giorni prima si era fatto vedere sulle mura con il crocifisso in mano incitando i soldati a resistere, si rivolse per la prima volta al Bragadin a nome del popolo pregandolo di negoziare la resa. Il veneziano rifiutò sdegnosamente e ordinò di pazientare, assicurando che entro due settimane i soccorsi sarebbero arrivati; arrivò invece, pochi giorni dopo, una squadra di galere turche, che sbarcarono 40 nuovi pezzi d’artiglieria. I festeggiamenti nel campo nemico fecero nascere fra gli assediati la voce fantastica che i turchi «haveano preso il Signor Gian Andrea D’Oria»23.
Il 9 luglio Lala Mustafà attaccò per la terza volta, e lungo tutto il fronte. Saliti sulla mezzaluna dell’Andrucci, i giannizzeri cominciarono a fortificarsi come al solito erigendo un parapetto di sacchi di cotone, ma i difensori contrattaccarono e riuscirono a ributtarli fuori. Ma al rivellino, dove ormai gli zappatori erano arrivati sotto il pavimento della ritirata e la scalzavano dal basso, l’attacco ebbe finalmente successo: la fanteria italiana, armata di picca, non aveva più abbastanza spazio per manovrare, e cominciò a rinculare sotto la pioggia di archibugiate, frecce e sacchetti di fuoco. Come ricorda Nestore Martinengo, «non potendo li nostri maneggiarsi con le picche per la poca piazza che vi era [...] si misero in confusione, e retiravansi meschiati con li Turchi», quando qualcuno in alto perse la testa e ordinò di dar fuoco alla mina. Le macerie del rivellino saltarono in aria seppellendo un gran numero di attaccanti, ma anche un centinaio di soldati italiani. Il Baglioni, accorso, voleva ammazzare con le sue mani chi aveva dato fuoco alla mina; poiché i turchi, temendo qualche altra sorpresa, si erano ritirati, rioccupò brevemente le macerie per recuperare i morti cristiani, ma poi giudicò che restare lì era troppo pericoloso, e quel che avanzava del rivellino tanto conteso rimase abbandonato nella terra di nessuno24.
La catastrofica decisione di dare fuoco alla mina troppo presto suscitò violentissime polemiche fra i difensori. Pietro Valderio, la principale autorità municipale di Famagosta, scrive che l’ordine era stato dato «da non si sa chi – ché per onor si tace»; ma la relazione d’un gruppo di capitani italiani fatti prigionieri al momento della resa lo identifica senz’altro col capitano Alvise Martinengo. Gli stessi testimoni, peraltro, scaricano senza mezzi termini sui greci la maggiore responsabilità del disastro. Fin da quando la mina nemica aveva spianato il rivellino si erano persi di coraggio; al momento dell’attacco erano soprattutto loro a difendere la posizione, «essendovi pochi Italiani per esserne assai morti», ma fuggirono senza combattere, sicché il nemico poté impadronirsi della posizione e piantarvi le sue bandiere «con gran nostra mortalità». L’esplosione intempestiva della mina finì di scoraggiare tutti quanti, e suscitò mormorii contro i comandanti, che fino a quel momento erano idolatrati da tutti25.
La perdita del rivellino, che i turchi chiamavano la Torre Bianca e che nei loro rapporti è presentato come la chiave della difesa della città26, segnò l’inizio della fine per Famagosta. Fino a quel momento i difensori avevano potuto utilizzare la porta di Limassol, che si trovava subito dietro il rivellino e più in basso, protetta da una saracinesca di ferro con punte aguzze che poteva scendere in un attimo tagliando una corda. Di lì uscivano le sortite notturne, dopo che le aperture previste a questo scopo nei fianchi dei torrioni erano state sbarrate dall’ammasso di terra e macerie con cui i turchi avevano colmato il fossato, e anche gli ostinati tentativi di sgombrarlo portando in città quegli stessi detriti passavano per la porta. Ora, però, i turchi dopo qualche giorno di prudente attesa si avventurarono sulle macerie del rivellino e vi trincerarono i loro archibugieri, tenendo sotto tiro la porta e impedendo di usarla. I difensori utilizzarono quei pochi giorni di respiro per murare gran parte della porta, lasciando soltanto un passaggio, e per scavare un’altra mina sotto il fianco sinistro del rivellino, che era l’unica parte dell’opera di cui restava ancora in piedi qualcosa.
Il 14 luglio i turchi attaccarono la porta di Limassol, e arrivarono a piantarci davanti le insegne. A questo punto i difensori diedero fuoco alla mina, e gli ultimi avanzi del rivellino saltarono in aria. Approfittando del panico provocato dall’esplosione la fanteria italiana contrattaccò e ributtò indietro il nemico; il Baglioni, che si batteva in mezzo ai soldati, ammazzò un alfiere turco e gli strappò lo stendardo. Il giorno seguente gli zappatori nemici, lavorando di piccone fra le macerie del fossato, ruppero la porta della sortita del torrione di Santa Nappa ed alcuni vi entrarono, ma vennero tutti ammazzati, e i soldati portarono al Bragadin «nove teste de Turchi». Pochi giorni dopo un’altra porta venne sfondata, alla mezzaluna dell’Andrucci, e anche stavolta i difensori riuscirono a respingere l’attacco.
Poiché non riuscivano a impadronirsi della porta di Limassol, i turchi decisero di bruciarla, e vi accesero davanti un gigantesco falò, alimentandolo con pece e col legno di una pianta detta teglia, che bruciava senza fiamma sollevando nuvole di fumo acre e puzzolente. I difensori non riuscirono a spegnerlo, benché gettassero botti d’acqua, terra e pietre dal torrione del Diamante; il fuoco continuò ad ardere per quattro giorni, e il calore e l’odore pestilenziale costrinsero i difensori a chiudere la porta e arretrare. Mentre l’incendio li nascondeva alla vista i turchi, con rapidità che lasciò esterrefatti i cristiani, sgombrarono le macerie del rivellino, costruirono un forte e vi collocarono uno o due pezzi di grosso calibro che battevano frontalmente il vano della porta, i cui battenti di legno erano stati interamente consumati dal fuoco. A questo punto ai difensori non restò altro da fare che murare anche l’ultimo varco con «grossissima e doppia muraglia», e addossarvi una montagna di sassi, terra e sacchi di cotone, per evitare che il bombardamento aprisse una breccia27.
Fra i civili greci si stava diffondendo la consapevolezza che ormai la resistenza era impossibile. Il nemico continuava a bombardare come se le sue munizioni fossero inesauribili: gli assediati calcolavano che in due mesi e mezzo fossero state sparate contro la città 150.000 palle di ferro28. Non c’era più stoffa di nessun genere per fabbricare sacchetti di terra e riparare i parapetti demoliti dal bombardamento, tanto che alla fine ci si ridusse a cucire sacchi di pelle. Non c’era più vino né carne, si erano mangiati non solo i cavalli, ma asini e gatti; si viveva di pane e fave, e si beveva acqua e aceto, finché anche quest’ultimo non finì. I soldati italiani ancora in grado di combattere, che costituivano il nucleo più solido della guarnigione, erano ridotti a meno d’un migliaio, e anche fra i civili le perdite erano alte: il vescovo di Limassol fu ucciso da un’archibugiata alla testa mentre era a tavola in casa sua.
Appoggiando l’orecchio al suolo, si sentivano gli zappatori nemici che continuavano a scavare; già il 15 luglio una mina era stata fatta brillare sotto la cortina dell’Arsenale, per fortuna con poco effetto, ma era evidente che se ne stavano preparando parecchie altre. I difensori scavarono sotto il torrione dell’Arsenale, e dopo aver incontrato la galleria nemica diedero fuoco alla polvere, ma ne avevano così poca che la contromina ebbe scarso effetto. Perfino il Bragadin si rendeva conto che la situazione era catastrofica, e cominciò a comportarsi di conseguenza. La prima volta che gli era stata presentata una supplica degli abitanti, con la preghiera di negoziare la resa, l’aveva calpestata gridando «Dio guardi che mai da chà Bragadin si facia simil cosa», e minacciando di far impiccare chi fosse tornato a proporglielo. Ora però, accorgendosi che fra la gente si parlava apertamente di arrendersi, accettò di mandare una fregata a Candia per informare le autorità della situazione: se non gli fosse stato garantito un immediato soccorso, si sarebbe sentito autorizzato ad avviare trattative29.
Anche gli assedianti erano preoccupati che la flotta cristiana arrivasse all’improvviso nelle acque di Cipro: in quel caso, non sarebbero certo state le venti galere che stazionavano fuori Famagosta al comando di Arap Ahmet ad impedire al nemico di rompere l’assedio. Un cristiano schiavo dei turchi che lavorava sotto la mezzaluna dell’Arsenale colse il momento per venir fuori gridando «christiano, christiano»; i soldati «li porsero le picche» e lo aiutarono ad arrampicarsi di sopra, e l’uomo riferì che nel campo nemico correva voce che la flotta di soccorso fosse già stata avvistata. A sua volta, però, il pascià fu informato da un soldato disertore, un fiorentino, che in città mancava la polvere e che gli abitanti tumultuavano chiedendo di arrendersi, perciò il 28 luglio decise di mandare al Bragadin l’ennesima proposta di resa. Secondo il Gatto, il negoziato venne aperto rispettando tutte le forme: Mustafà alzò «bandiere de parlamento», subito imitato dai cristiani, e mandò plenipotenziari sotto la protezione della bandiera bianca. Ma gli altri capitani catturati al momento della resa affermano che «non li fu dato orecchio, anzi con l’artigliaria et archibusate scacciati senza niun rasonamento»30.
Bragadin e Baglioni, evidentemente, confidavano di riuscire a tener duro ancora per qualche giorno, nella speranza che si materializzasse la flotta di soccorso. Ma il loro tempo ormai era scaduto. Fra il 29 e il 30 luglio gli assedianti fecero brillare ben tre mine sotto la porta di Limassol, demolendo quasi interamente il cavaliere e uccidendo il cavalier Rondakis, travolto dal crollo; un’altra mina scoppiò sotto il torrione dell’Arsenale e lo tirò giù completamente, seppellendo quasi tutta una compagnia. Dopo ogni esplosione la fanteria turca saliva all’attacco, ma «più freddamente del solito» e con poco danno dei difensori: evidentemente le perdite subite negli attacchi precedenti cominciavano a farsi sentire. Ma per respingere l’ultima ondata gli italiani dovettero rinunciare all’artiglieria e fare poco uso anche degli archibugi, per mancanza di munizioni; l’assalto venne respinto «con picche secche, e con spiedi di alabarde, spade, e targhe». Alla fine i comandanti di Famagosta fecero il conto della polvere da sparo che restava, e si accorsero con sgomento che ce n’erano appena sette barili. Non bastava per un altro giorno di combattimento; perciò, se si voleva evitare che la città fosse presa d’assalto, il che secondo le leggi di guerra avrebbe dato al nemico il diritto di giustiziare tutti i difensori e ridurre in schiavitù i civili, non c’era tempo da perdere31.
I resoconti sul modo in cui si giunse alla decisione di arrendersi sono molto contraddittori. I capitani italiani catturati affermano d’essere stati pugnalati alla schiena dalla diserzione dei greci, «non già del popolo, ma della nobiltà, la quale gettata ogni vergogna» pretese che si alzasse bandiera bianca; gli italiani erano decisi a resistere, nonostante l’esaurimento della polvere e lo sfacelo delle fortificazioni, ma Baglioni e Bragadin si accorsero «che se non si fussimo arresi haveriano havuti dui nemici, l’uno alle spalle et l’altro dinanzi», perciò non ebbero scelta. Secondo questa versione furono comunque i turchi a riaprire il negoziato, mandando avanti un parlamentare con la bandiera bianca. Il turco venne avanti cautamente, per paura che gli tirassero come era accaduto a quelli che lo avevano preceduto, ma i cristiani risposero alzando a loro volta bandiera bianca e lo fecero entrare in città. Il parlamentare avvertì «che pensassimo bene a casi nostri, perché se si fusse entrato per forza non si haveria havuto rispetto a niuna sorta di persona», e i veneziani risposero che erano disposti ad arrendersi32.
Pietro Valderio, che ha lasciato un’amplissima descrizione di quei giorni convulsi, racconta invece un’altra storia. Secondo lui, di fronte alle pressioni dei cittadini che chiedevano la resa, i due comandanti italiani riconobbero con le lacrime agli occhi che non c’era più niente da fare, e accolsero con gratitudine l’offerta delle autorità municipali di avviare il negoziato; insistettero, anzi, che bisognava farlo prima che fosse troppo tardi, «perché s’aspettava la mattina l’ultimo assalto». Il capitano Matteo Colti, comandante di una delle compagnie di milizia cittadina, venne incaricato di contattare i turchi: i suoi uomini, che difendevano il torrione di Campo Santo, avevano scavato una galleria per intercettare la mina preparata lì sotto dal nemico, e all’incrocio delle due gallerie assedianti e difensori erano a portata di voce. Lì, sottoterra e alla luce delle torce, il capitano consegnò ai turchi la lettera delle autorità comunali, in cui si assicurava Mustafà che la città era pronta ad arrendersi e che anche i militari si erano persuasi a deporre le armi. L’indomani, 1° agosto, Mustafà rispose con una lettera indirizzata ad Astorre Baglioni, dichiarando che era disposto a negoziare33.
La trattativa venne intavolata il giorno stesso, mentre sulle mura e nell’accampamento si innalzavano bandiere bianche in segno di tregua. Secondo i testimoni italiani, Mustafà mandò un foglio bianco «attaccatovi sotto il bollo del Gran Signore dove vi era scolpita la sua testa d’oro fino, et che noi havessimo scritto su quello tutto il nostro volere»: in effetti, i comandanti degli eserciti ottomani ricevevano alla partenza dei fogli in bianco già bollati con il monogramma imperiale in lettere d’oro, che gli italiani possono aver scambiato per la “testa”, e che permettevano loro di emanare firmani a nome del sultano. Il pascià spedì a trattare il suo chiecaia e quello dell’agà dei giannizzeri, che entrarono in città a cavallo, «tutti splendidamente ornati d’arme e di bellissime vesti». Per sicurezza, Mustafà chiese che la città mandasse al suo campo due ostaggi; vennero scelti il capitano Matteo Colti e messer Francesco Calergi, ma il conte Ercole Martinengo, curioso di vedere «quell’esercito e apparato turchesco», ottenne di andare al posto di quest’ultimo.
Il negoziato procedette con reciproca cortesia e l’accordo fu raggiunto rapidamente. Il pascià – stabiliva il capitolato – metterà a disposizione dei legni su cui gli italiani potranno imbarcarsi al suono del tamburo, a insegne spiegate, con armi e bagagli, e li farà condurre sani e salvi a Candia; i soldati greci e albanesi saranno liberi di seguirli o di restare, e la popolazione civile non dovrà essere molestata. Gli italiani chiesero e ottennero di portarsi via anche cinque pezzi di artiglieria, nonché tre cavalli appartenenti al Baglioni, al Bragadin e ad un Quirini, che evidentemente non erano stati mangiati, benché in città si facesse la fame. Già l’indomani, 2 agosto, Mustafà mandò galere e altri legni che si ancorarono fuori della catena del porto, e cominciarono a imbarcare donne, bambini e bagagli dei soldati. Lo scambio di cortesie intanto continuava; durante le conversazioni di quei giorni il chiecaia di Mustafà confermò agli italiani le cifre strabilianti che sarebbero poi filtrate nei resoconti dell’epoca e da lì nella storiografia, per cui i turchi avevano portato a Cipro 250.000 uomini, compresi 40.000 guastatori, e 7000 cavalli; battuto le mura con 70 cannoni e 4 basilischi; tirato 163.000 cannonate, di cui 120.000 con palle di ferro, e 43.000 di pietra; e avevano sofferto ben 80.000 morti nel corso dell’assedio34.
Sulla situazione in città e il comportamento tenuto dai turchi durante quei giorni i resoconti dei testimoni oculari divergono sensibilmente. Il capitano Gatto afferma che gli archibugieri italiani continuarono a sorvegliare gli ingressi della città, giacché formalmente Famagosta non era ancora stata consegnata, anche se molti turchi vi entravano per curiosità. Il cipriota Valderio afferma invece che le sentinelle erano state ritirate e che gli assedianti venivano in città come volevano, comportandosi molto male: entravano in tutte le case da cui i soldati italiani erano già stati evacuati, prendendo quello che volevano o costringendo i proprietari a pagare per evitare il peggio. Il Paruta, che però non è un testimone oculare, afferma infine che subito dopo la firma della capitolazione i turchi cominciarono a imbarcare i soldati malati, mentre i sani facevano la guardia agli ingressi della città e non lasciavano entrare nessuno; erano piuttosto i soldati italiani e i cittadini di Famagosta che andavano a curiosare nel campo turco. Imbarcati i soldati greci e albanesi e le prime compagnie di italiani, il 4 agosto la città venne aperta ai turchi, che però cominciarono subito a commettere violenze. Il Bragadin scrisse a Mustafà denunciando l’accaduto, e il pascià ordinò ai suoi soldati di comportarsi meglio35.
L’ultimo atto del dramma è così noto che sembrerebbe quasi inutile fermarsi troppo a lungo a descriverlo, ma in realtà basta confrontare le fonti per rendersi conto che non sappiamo ancora, e forse non sapremo mai, cosa accadde davvero, e soprattutto perché. Il 5 agosto, al vespro, i comandanti italiani uscirono dalla porta del Diamante per consegnare al pascià le chiavi della città. Marcantonio Bragadin era a cavallo, vestito di porpora come ogni magistrato veneziano nell’esercizio delle sue funzioni, e con un domestico che reggeva su di lui un parasole anch’esso di porpora; lo seguivano il Baglioni, pure a cavallo, e altri capitani e gentiluomini, fra cui il Valderio, che come rappresentante del municipio era incaricato di consegnare materialmente le chiavi. Il gruppo, preceduto da trombettieri e accompagnato da una scorta di alabardieri e archibugieri, comprendeva anche un mercante cittadino, messer Angelo di Niccolò, con un carico di seta da offrire in regalo al pascià e agli altri capi. Mustafà li accolse cortesemente sotto il suo padiglione, dichiarando che era contento di vederli; fece sedere il Valderio alla propria sinistra, per sottolineare che la città era ormai da intendersi come suddita del sultano e sottoposta alla sua protezione, e offrì sgabelli agli italiani, più bassi della panca su cui sedeva lui stesso36.
A partire da questo momento le testimonianze divergono irrimediabilmente quanto alla sequenza degli avvenimenti, anche se sembra non esserci nessun dubbio che Bragadin fece infuriare il pascià, e fors’anche lo offese a morte, in due diversi momenti della discussione, sigillando così il proprio destino e quello degli altri italiani. Uno fu quando Mustafà chiese che ne era stato dei prigionieri fatti dai difensori durante l’assedio, e in particolare della gente che si trovava sui legni catturati sei mesi prima da Marco Quirini. L’altro fu quando il pascià pretese che gli italiani lasciassero un capitano in ostaggio, a garanzia che le sue imbarcazioni, dopo aver trasportato la guarnigione fino a Creta, sarebbero potute tornare indietro senza ostacoli; quest’ultima richiesta poteva anche essere ragionevole, ma il pascià aveva sbagliato a non includerla nel capitolato steso il 1° agosto.
Secondo il Valderio, che era là, i due problemi insorsero proprio in questa sequenza, e non fu la questione dei prigionieri, ma quella degli ostaggi a far precipitare la tragedia. Mustafà chiese a Bragadin che cosa ne aveva fatto dei prigionieri catturati a bordo delle navi, uno dei quali, precisò, era un suo uomo. Il veneziano rispose che Marco Quirini se n’era portati via la maggior parte, lasciandone soltanto sei che erano stati imprigionati nel castello, da cui però erano riusciti a scappare dopo la capitolazione. Mustafà ribatté che i sei fuggiaschi gli avevano raccontato un’altra storia, affermando che i loro compagni erano stati messi a morte nei giorni precedenti, e accusò i veneziani di non aver rispettato la tregua. Li rimproverò di aver distrutto le loro scorte di vino, aceto e olio – che però secondo i difensori erano già esaurite da un pezzo – e di aver fatto bruciare cinquecento balle di cotone, distruggendo un enorme valore commerciale pur di non lasciarlo ai vincitori. Il Valderio precisa che il cotone era stato effettivamente bruciato, ma non per ordine del Bragadin, il quale anzi da buon veneziano era rimasto costernato da quello spreco.
Gli italiani – prosegue Valderio – ribadirono che nessun prigioniero era stato messo a morte, e Mustafà parve calmarsi. Le galere del Gran Signore, disse, erano a loro disposizione per partire; ma uno di loro doveva restare in ostaggio finché i legni non fossero tornati da Candia. Bragadin ribatté che una simile clausola non era stata prevista nella capitolazione, e il pascià ammise che non ci aveva pensato; ora, però, si era accorto che non poteva rischiare senza garanzie le galere che il sultano gli aveva affidato, altrimenti ne sarebbe andato della sua testa. Bragadin affermò che non poteva costringere nessuno dei presenti a rimanere, e il pascià, «alquanto in collera», si rivolse al Baglioni, chiedendo che gli fosse lasciato in ostaggio almeno uno dei capitani. Il Baglioni gli disse che doveva pensarci prima, e che ormai anche i capitani erano diventati dei privati cittadini e nessuno aveva più l’autorità di dar loro degli ordini. A questo punto, continua il Valderio, Mustafà perse la testa e ordinò di arrestarli tutti37.
La sequenza degli avvenimenti si ritrova identica nella relazione che Mustafà mandò a Perteu pascià, per mezzo di una fusta il cui rais, nativo di Budva, decise di disertare dirigendosi su Creta, sicché i veneziani se ne impadronirono e la fecero tradurre: «la notte che doveano partire, hanno dato la morte molto crudelmente a tutti li turchi che tenevano per schiavi, presi in diverse occasioni». Mustafà prosegue affermando che tre di quei prigionieri erano riusciti a fuggire e avevano raggiunto il campo, raccontando l’accaduto. Poi il Bragadin era venuto a portargli le chiavi della città, «et era con tutta la sua corte armati tutti, et con gl’arcobusi, et stopini impiciati, et vedendoli a quel modo li giannizzari dissero: mo’ che tregua è questa? Si vien a questo modo armati?». Mustafà rinfacciò al Bragadin la morte dei prigionieri, «et lui negò, et scusandosi diceva che li soldati li haveano amazzati senza sua commissione. Consideri dunque V.S. che tregua è stata questa, e se l’hanno osservata». Secondo la versione di Mustafà, insomma, i prigionieri erano stati uccisi davvero, e il Bragadin non l’aveva negato, limitandosi a dichiarare di non averne colpa. Il pascià, comunque, sostiene di aver accettato, almeno per il momento, questa risposta, e di aver posto al Bragadin un’altra questione: le fuste e altri legni su cui si stava imbarcando la fanteria italiana avevano equipaggi turchi, e Mustafà temeva che arrivando a Candia potessero essere uccisi o fatti schiavi; perciò chiese di far sbarcare i turchi, e di lasciargli in ostaggio «qualche persona honorata di quei principali». A questo punto il Bragadin gli rispose alteramente che se non voleva osservare la tregua, tanto valeva romperla. Mustafà, la cui collera doveva essere montata sordamente fino a quel momento, lo prese in parola e lo fece arrestare, ordinando «che tutti li soldati ch’erano venuti in sua compagnia fossero presi, alli quali immediatamente ho fatto tagliar la testa, et tutti quei soldati et altri ch’erano imbarcati con le moglie et figlioli ho fatto far schiavi»38.
Le relazioni dell’accaduto che cominciarono subito a circolare nell’impero ottomano identificano invece unicamente nell’assassinio dei prigionieri turchi la causa della tragedia. Il Barbaro, appena giunta la notizia della caduta di Famagosta e prima ancora che si sapesse per certo del supplizio del Bragadin, sentì dire che i soldati turchi, a furor di popolo, avevano preteso dal pascià l’esecuzione dei soldati italiani prigionieri, «perché haveano il giorno prima tagliati a pezzi tutti li priggioni che haveano fatti»; quando poi si seppe a Costantinopoli che il Bragadin era stato giustiziato, il gran visir se ne dispiacque, ma aggiunse che se l’era comunque meritato, per aver fatto morire i prigionieri. Anche i capitani italiani catturati quel giorno, che però non erano presenti alla conversazione sotto la tenda, non parlano affatto della richiesta d’ostaggi, e attribuiscono la svolta del colloquio unicamente all’accusa, rivolta da Mustafà al Bragadin, d’aver fatto uccidere i prigionieri prima di firmare la capitolazione. Il console veneziano ad Aleppo riferì la stessa cosa: Mustafà «dimandò ove erano i turchi ch’erano sta fatti pregioni, et essendogli resposto che parte erano morti, et parte amazzati perché havevano poca vittovaglia», ordinò di fare a pezzi il Baglioni e tutti quelli che erano con lui. La diplomazia ottomana fece subito circolare questa versione, il che dimostra che alla Porta si coglieva perfettamente l’enormità dell’accaduto, e si cercava di rimediare al danno d’immagine che ne sarebbe derivato: già a settembre l’imperatore Massimiliano ricevette una lettera del pascià di Buda, il quale scriveva «che a Sua Maestà sarà sta detto che i suoi non hanno osservato la fede, et non era vera, perché essi sono stati i primi a romperla, havendo amazzato molti musulmani che tenevano pregioni»39.
Questa sequenza si impose nella memoria, come traspare dal racconto del cronista turco Peçevi, in cui prima viene il rifiuto da parte dei veneziani di lasciare un ostaggio, e poi la domanda del pascià sul destino dei prigionieri musulmani. Il modo in cui Peçevi calca la mano sul comportamento insultante del Bragadin dimostra che il cronista era consapevole dell’enormità di ciò che era accaduto, e aveva bisogno di spiegare il comportamento di Mustafà:
Ogni cosa pronta, si mossero in fila e andarono a dire addio al serdar. Andarono undici bey, dicendo le solite parole, sebbene tra di loro ci fosse un cane. A ognuno fu dato un posto e furono fatti sedere alla presenza del serdar. Allora con grave espressione il serdar disse: «A voi diedi molte navi, sul mare c’è la vostra flotta; un ostaggio permetterà alle mie navi di tornare indietro, un bey rimane al mio fianco». A queste parole l’imprecatore arrabbiato rispose: «Non puoi trattenere un bey e neppure un cane». A questa risposta il serdar si arrabbiò molto e disse: «Dove sono i prigionieri musulmani?». La risposta dell’imprecatore fece così: «Non erano tutti miei, ognuno si trovava presso un bey e un gruppo di soldati; nella notte della resa vennero uccisi». «Allora cosa ne facesti dei tuoi?». «Quando gli altri uccisero i loro anch’io uccisi i miei». Allora il serdar disse: «Così hai mancato ai patti di resa». Egli fece legare tutti e di fronte alla tenda fece tagliare la testa a dieci di loro40.
Fermo restando che fu certamente il comportamento insultante del Bragadin a scatenare la rabbia di Mustafà, sarebbe interessante capire se l’assassinio dei prigionieri musulmani fosse un’accusa completamente pretestuosa, o se invece fosse vera. Le fonti cristiane appaiono piuttosto reticenti in proposito. Fra i testimoni che si trovavano a Famagosta, solo il Martinengo afferma con decisione che nell’accusa non c’era niente di vero; il Gatto non si spinge a tanto, perché alla richiesta del pascià («Che hai tu fatto de miei schiavi ch’havevi nella fortezza?») fa rispondere al Bragadin che parte sono ancora a Famagosta, e parte sono stati mandati a Venezia, e riferisce senza commenti il furore che s’impadronì di Mustafà a questa risposta: «Non so io che li hai ammazzati tutti?». Secondo un’altra relazione anonima, il Bragadin avrebbe invece risposto «che alcuni erano stati rimandati et altri erano morti di morte naturale», confermando, in ogni caso, che di vivi non ce n’erano più. Il rapporto del console ad Aleppo è ancora più inquietante, giacché riferisce come un fatto, e senza stupirsene minimamente, che i prigionieri superstiti vennero uccisi dagli assediati, perché non c’era niente da dar loro da mangiare41.
Fra gli storici italiani che scrissero negli anni successivi, il Paruta accetta la versione affermatasi a ridosso degli avvenimenti, e diversa da quella dei testimoni oculari, per cui la conversazione cominciò a prendere una brutta piega quando Mustafà chiese di poter trattenere degli ostaggi: il Bragadin rifiutò con alterigia, e allora il pascià, irritato da quella risposta insolente, lo accusò di aver ucciso i musulmani che erano prigionieri a Famagosta, dopodiché la situazione precipitò rapidamente. Il Paruta, come quasi tutti gli storici cristiani, sostiene che Mustafà aveva intenzione fin dal principio di violare i patti, e che sollevò pretestuosamente la questione degli ostaggi; ma quanto all’accusa mossa contro «i nostri, perché contra ogni ragione di guerra, e contra le leggi dell’umanità avessero dato la morte alli suoi Mussulmani, che tenevano prigioni», lo storico veneziano preferisce non commentarla – mentre gli sarebbe stato così facile scandalizzarsi, come il genovese Foglietta, per la «sfacciatissima bugia, e calonnia». Ancora più sorprendente la versione di Natale Conti, secondo il quale era verissimo che i prigionieri erano stati giustiziati, e il Bragadin lo disse in faccia al pascià; precisando, però, che il fattaccio non era avvenuto in tempo di tregua, ma prima, e in risposta ad analoghe esecuzioni di prigionieri cristiani nel campo turco42.
Quale che sia la causa, non c’è dubbio che Mustafà ebbe una reazione di insensata violenza. Il Bragadin venne imprigionato e riserbato a uno spaventevole supplizio, prolungato per una decina di giorni, e in cui le torture si accompagnarono volutamente alle umiliazioni. Il pascià gli fece tagliare il naso e le orecchie, lo costrinse a portare sulle spalle un carico come una bestia da soma e ad inginocchiarsi a baciare la terra davanti a lui; lo innalzò legato sull’albero di una galera, così che tutti potessero vederlo, e finalmente il 15 agosto lo fece scorticare vivo. Il resoconto d’un frate, testimone oculare, assicura che il Bragadin continuò fino alla fine a insultare ferocemente i turchi; un imam che voleva convincerlo a convertirsi all’Islam per aver salva la vita venne trattato di «can traditor nemico di Dio [...] bruto beccho fotuo», e a Mustafà Bragadin disse che se fosse stato lui a vincere avrebbe usato la sua barba per «cavar la merda» dai cessi43.
L’accaduto è così abnorme che si può spiegare soltanto con l’urto fra due caratteri violenti e orgogliosi, in una situazione di estrema tensione e stanchezza, e con la convinzione d’entrambi che giunte le cose a quel punto non si poteva più tornare indietro senza perdere la faccia. Sta di fatto che il pascià, perdendo la testa a quel modo, rischiò di compromettere la propria carriera. Appena la notizia che il serdar non aveva rispettato i patti di resa giunse a Costantinopoli, il dottor Salomone Askenazi riferì a Marcantonio Barbaro che il gran visir era indignato, e fin qui non ci si può stupire, giacché conosciamo l’inimicizia mortale fra i due. Ma quando Lala Mustafà di ritorno da Famagosta arrivò alla capitale, ai primi di dicembre, il bailo seppe che alla Porta era stato ricevuto molto freddamente, e criticato per l’accaduto; fra la gente correva voce che per discolparsi il pascià sosteneva di aver avuto ordine di farlo, ma da chi, è impossibile immaginarlo. In seguito, Mehmet pascià assicurò al Barbaro che il sultano in persona, ricevendo Mustafà, lo aveva rimproverato aspramente. Il Garzoni, che scrive poco più di un anno dopo, conferma che la morte del Bragadin «spiacque universalmente a tutta la corte di Costantinopoli», e non poteva che essere così, perché si trattò di un’enormità senza precedenti, contraria a tutte le regole e disastrosa dal punto di vista dell’immagine44.
Lo stesso Mustafà assicurò al Garzoni che s’era pentito di quello che aveva fatto: il pascià – riferisce il diplomatico – «si duole della esecuzione che fece contro li resi di Famagosta, e si scusa accusando per troppo superbo il misero Bragadino». Pochi anni dopo, discutendo con un altro veneziano, Mustafà dichiarava d’essere amico della Serenissima, e insisteva «che bisogna smenticarsi tutte le cose passate»45. Ce n’è abbastanza per ritenere che nel dialogo rapidamente degenerato col Bragadin, che oltretutto avveniva per mezzo di interpreti, Mustafà abbia avuto la certezza d’essere stato insultato, e che per non perdere la faccia abbia considerato indispensabile vendicarsi sanguinosamente, salvo rendersi conto, a cose fatte, di aver esagerato. In questa logica si comprende anche il protrarsi della vendetta a sangue freddo contro l’uomo che lo aveva sfidato davanti a tutti, e la feroce ostinazione con cui il pascià volle demolire il corpo e l’immagine del Bragadin, facendo perdere a lui la faccia, tanto in senso figurato quanto in senso spaventosamente letterale, col taglio del naso e delle orecchie.
Che non si sia trattato d’un tradimento ordito a freddo, ma della reazione a qualcosa d’imprevisto che si verificò durante il fatale colloquio, è dimostrato anche dal fatto che l’ira funesta di Mustafà colpì gli altri presenti in misura proporzionale e non indiscriminata. Il Baglioni e gli altri capitani italiani, che si erano resi complici dell’insulto presentandosi così pomposamente sotto la sua tenda, «a guisa piuttosto di vittoriosi che di vinti», come ammette il Paruta, che avevano sostenuto il Bragadin nella discussione, e che secondo la versione ottomana erano tutti egualmente colpevoli dell’eccidio dei prigionieri, vennero immediatamente fatti decapitare. Ma il Valderio e gli altri gentiluomini greci che si trovavano nel padiglione, come il capitano Matteo Colti e il mercante Angelo di Niccolò, vennero risparmiati e rimessi in libertà, a conferma che il pascià intendeva distinguere accuratamente fra la città, che si era arresa in debita forma e non doveva essere punita, e la guarnigione italiana, colpevole secondo lui di tradimento.
Le violenze che si scatenarono dopo l’eccidio degli ufficiali italiani si adeguarono, nei limiti del possibile, a questa volontà di distinguere. I soldati italiani che erano venuti ad accompagnare i comandanti, e molti altri militari e civili che si trovavano in visita nel campo, vennero aggrediti e massacrati; davanti al padiglione del pascià si ammucchiarono 350 teste di italiani, greci e albanesi. Tanto il Valderio quanto il capitano Gatto raccontano che a questo punto i soldati turchi sfuggirono di mano e si riversarono in città, ma che Mustafà fece il possibile per impedirlo, proclamando che i civili erano sotto la sua protezione. Molti soldati che si trovavano ancora a Famagosta vennero uccisi, altri svaligiati e imbarcati a forza sulle navi, dove tutti quanti furono bastonati, spogliati e messi ai remi, e le loro donne violentate. La stessa sorte toccò ai soldati che si erano già imbarcati e attendevano d’essere trasportati a Creta, tutti quanti derubati e incatenati al remo. Le violenze contro la popolazione civile, però, furono contenute, e in ogni caso fu evitato il massacro, anche se nelle prime ore i furti e gli stupri non si contarono: nel loro linguaggio tecnico, che fa rabbrividire, i capitani italiani fatti prigionieri riferiscono che agli abitanti greci i vincitori «diedero un sacco leggiero, usando con loro mogli et loro figliole in loro presentia».
Secondo la testimonianza di Valderio, non appena gli ufficiali turchi riuscirono a riprendere il controllo dei loro uomini nella città occupata si ristabilì una sorta di precaria, paurosa normalità. Venti giannizzeri vennero incaricati di obbedire allo stesso Valderio e di garantire l’ordine nelle strade, anche se con risultati discutibili: i due che erano stati mandati a custodire la cattedrale greca si assentarono senza permesso, e nel frattempo altri turchi entrarono nella chiesa rompendo o saccheggiando ogni cosa di valore, compreso l’argento delle icone. Una parte delle truppe vittoriose venne alloggiata in città, nelle case dei borghesi più agiati, il che offrì l’occasione per rinnovate estorsioni: Valderio afferma che il primo giannizzero acquartierato in casa sua gli estorse quaranta zecchini in otto giorni. In seguito Mustafà, che aveva bisogno della sua collaborazione per far andare avanti l’amministrazione cittadina, mandò due giannizzeri a bloccare la strada in cui abitava, impedendo a chiunque il passaggio; ma anche questa protezione dovette essere pagata in denaro sonante. In ogni caso al Valderio, che collaborò fedelmente con gli invasori, andò molto meglio che non ad altri notabili di Famagosta, i cui palazzi e botteghe vennero confiscati46.
I civili, comunque, non vennero ridotti in schiavitù, come era accaduto a Nicosia, e come accadde ai superstiti della guarnigione. Il Gatto calcola che su 3700 soldati italiani che si trovavano a Famagosta all’inizio dell’assedio, ben 600 erano morti di malattia, 2400 caddero in combattimento o nell’eccidio dopo la resa, e 700 sopravvissero, di cui 200 feriti. Se analizziamo il destino dei 34 colonnelli e capitani che comandavano la guarnigione al momento dello sbarco turco arriviamo a risultati non troppo dissimili, anche se fra di loro la mortalità in combattimento risulta complessivamente inferiore: ben 10 morirono di malattia tra il maggio 1570 e l’aprile 1571, 3 si licenziarono e tornarono in Italia con le galere di Marco Quirini, 9 vennero uccisi in combattimento durante l’assedio, 1 fu assassinato dal Bragadin, 2 vennero uccisi nell’eccidio del 5 agosto, 9 vennero fatti schiavi.
In tutto i superstiti ridotti in schiavitù ammontavano, secondo il Gatto, a 38 capitani e 700 soldati italiani, 7 capitani e 200 soldati albanesi, tenendo conto che ovviamente i capitani morti erano via via sostituiti da altri. Alcuni di loro riuscirono a liberarsi pagando un riscatto grazie al console dei mercanti francesi di Tripoli, il quale, rappresentante d’una potenza alleata del sultano e in ottimi rapporti col pascià, era accorso a Cipro per rendersi utile ai prigionieri cristiani. Nestore Martinengo fu liberato dopo 42 giorni, pagando 500 zecchini. Il padrone però, che era sangiacco d’una provincia in Mesopotamia, gli disse che lo avrebbe lasciato andare solo dopo essere rientrato a casa sua sull’Eufrate; il Martinengo preferì non fidarsi e scappò pagandosi un passaggio sulla barca d’un pescatore greco, dopodiché riuscì fortunosamente a tornare a Venezia, dove giunse ai primi di dicembre. Fu lui il primo a raccontare i dettagli di quanto era accaduto, il che spiega perché la sua relazione, subito stampata da tipografi intraprendenti, sia servita da base per tutti gli storici successivi. Il Martinengo riferì che la capitolazione si componeva di due accordi, di cui il primo, circa la libera partenza della guarnigione, non era stato osservato; il secondo era quello «che non si dovesse dare il sacco alla città né far offesa alcuna al popolo; il qual secondo patto è stato osservato».
Il 22 settembre Mustafà partì da Famagosta per tornare a casa, con 22 galere e una trentina di legni da trasporto: la campagna di Cipro era ufficialmente conclusa. Durante il viaggio la flotta fu dispersa dal maltempo, e andarono perdute quattro maone, su cui erano imbarcate l’artiglieria presa a Famagosta e, tragicamente, la maggior parte delle donne italiane. Il 18 ottobre le prime due navi da carico giunsero a Costantinopoli e cominciarono a sbarcare bottino e schiavi. Il 3 novembre entrò in porto Mustafà con 5 galere, «per la qual venuta fu fatta dal popolo assai allegrezza», e altri legni continuarono ad arrivare nei giorni seguenti. In tutto 1350 schiavi furono scaricati dalla flotta e rinchiusi nel bagno del sultano, mentre la pelle impagliata del Bragadin era «mostrata al populazzio per dargli ristoro». I capitani vennero imprigionati nella famigerata torre del Mar Nero, dove trovarono ad accoglierli molti compagni di sventura con cui abbiamo già fatto conoscenza in queste pagine, come il marchese Giacomo Malatesta catturato in Albania, il sopracomito messer Piero Bertolazzi della galera Zarattina, catturata da Uluç Alì, e il capitano Manoli Murmuri, fatto prigioniero a Sopotò47.