18. Dove un frate maneggione fa una brutta fine, i negoziati per la Lega continuano a incagliarsi, Iacopo Ragazzoni va a Costantinopoli a trattare segretamente la pace, ma quando c’è quasi riuscito riceve l’ordine di sospendere tutto, perché alla fine la Lega è firmata

Il 10 febbraio 1571 il cappellano di Marcantonio Barbaro, un francescano che abitava nel monastero di San Francesco a Pera, ricevette una visita inattesa. Fra Paolo Biscotto era un religioso italiano che dopo aver vissuto parecchi anni a Costantinopoli se n’era andato a Creta allo scoppio della guerra, per evitare noie e fastidi, come aveva dichiarato al momento di partire. Ora, però, fra Paolo era ritornato, travestito da secolare, e portava lettere del governo di Candia, che consegnò al cappellano con preghiera di trasmetterle al bailo. Marcantonio fu non poco infastidito di questa storia («non so veramente per far che sia ritornato qui detto frate») e profetizzò che sarebbe andata a finire malissimo, come infatti accadde. Fra Paolo era conosciuto e non poteva passare inosservato. Il suo travestimento parve sospetto, per cui fu prontamente arrestato e messo alla tortura; fra i tormenti confessò di aver consegnato le lettere al cappellano.

Quest’ultimo si precipitò terrorizzato dal Barbaro, il quale escogitò il modo di cavarlo d’impaccio. Alcune delle lettere erano in cifra, e dunque non sarebbe stato un gran danno se anche fossero cadute in mano ai turchi; perciò il bailo gliele restituì dopo averle fatte copiare e sigillare con un sigillo falso, di cui possedeva un’intera collezione appunto in vista di casi del genere. Il cappellano non doveva fare altro che nascondere le lettere nell’alloggio di fra Paolo al convento di San Francesco, dichiarare che lui si era rifiutato di accettarle, e indicare al capo della polizia di Pera dove avrebbe potuto trovarle. Il cappellano fece la sua parte, ma venne arrestato lo stesso, e il Barbaro temeva che fosse condannato alla galera. Per fra Paolo, che gli inquirenti continuavano a torturare per cavargli tutta la verità, non c’era nessuna speranza, anche perché nel suo alloggio vennero sequestrati altri documenti compromettenti: fra cui la bozza d’una supplica al doge, in cui il disgraziato chiedeva una licenza commerciale per poter esportare vino da Candia e si vantava dei servizi che aveva reso alla Repubblica, recapitando lettere in territorio nemico e travestendosi da ebreo o da raguseo per spiare la flotta ottomana. Di lui il bailo si lavò le mani, e del resto doveva pensare ai propri guai: fra Paolo, infatti, aveva compromesso anche lui, dichiarando di aver spesso recapitato le sue lettere, che gli venivano gettate dalla finestra. Fu allora che il gran visir, irritato, ordinò di murare i balconi e inchiodare le finestre in casa del Barbaro1.

Nel frattempo gli ambasciatori veneziani a Roma, Suriano e Soranzo, trattavano con i cardinali e con i plenipotenziari di Filippo II la costituzione della Lega contro il Turco. Benché tutti fossero sostanzialmente d’accordo sulla bozza concordata fin dall’estate precedente, il negoziato procedeva con estrema lentezza, incagliandosi continuamente «su le difficultà et su i puntigli». Il cardinal Rusticucci si stupiva: gli spagnoli non capivano che in quel modo finivano per gettare Venezia nelle braccia del sultano, senza pensare «che il Turco è simile a un huomo al qual ogn’hora si rinovi la fame et, satiato che sarà di Cipro et di Candia, non gli resta, per pascersi di nuovo cibo, altro che cercar d’inghiottirsi la Sicilia, la Puglia, la Calabria». Se a Filippo II spiaceva impegnare le sue risorse per difendere i possedimenti veneziani, bisognava spiegargli che combattere a Cipro era il modo migliore per non dover combattere un giorno sulle coste d’Italia. Ma gli inviati del re si sentivano in una posizione di forza, ed erano scandalizzati che gli ambasciatori della Repubblica fossero disposti a concedere così poco, giacché in definitiva erano loro a guadagnare più di tutti dalla Lega: i cardinali Granvelle e Pacheco dicevano «che i veneziani trattano con loro come se fosse il Re Cattolico a essere assediato in Famagosta»2.

Lo scoglio principale, come emerse con chiarezza fin dai primi giorni di dicembre, era il comando della flotta unificata, o meglio, per quanto possa sembrare assurdo, la nomina del comandante in seconda. Tutti infatti erano d’accordo che don Juan de Austria, fratello del re e capitano generale della flotta spagnola nel Mediterraneo, avrebbe assunto il comando delle duecento galere che i collegati s’impegnavano a mettere in mare; ma il papa voleva che in caso di assenza di don Juan il comando spettasse al generale delle galere pontificie, che di certo sarebbe stato un’altra volta Marcantonio Colonna. Dopo la cattiva prova data da quest’ultimo e i suoi attriti con Gian Andrea Doria, però, gli spagnoli non si fidavano più del Colonna, non capivano l’ostinazione del papa a difenderlo («lo hanno così intestardito su Marco Antonio, che di mare non ne capisce più di me», si lamentava il Granvelle) ed erano convinti che cedendo avrebbero reso un cattivo servizio al loro re. Quando provarono a opporsi, però, rimasero scioccati sentendo che se non cedevano su quel punto il papa avrebbe mandato a monte tutto, tanto che ritardarono la partenza del corriere «per non dover scrivere così cattive notizie», nella speranza che la faccenda s’aggiustasse. In realtà la reciproca ostinazione stava rendendo il dissidio insolubile: «ho paura che si sia consumato il tempo a discutere chi sarà generale di una flotta che non si vedrà mai in essere», esultava il Rambouillet3.

Pio V e i suoi collaboratori, nel loro fervore cristiano, trovavano incomprensibile quello che stava succedendo. Il cardinal Morone scrisse al re Filippo spiegando che gli accordi presi fino a quel momento erano molto più favorevoli a lui che non ai veneziani, tanto che il papa «aspettava dai ministri del re gratie et allegrezza». Il disinganno dell’anziano pontefice era stato amaro: «credevamo, come ho detto, d’haver finito ogni cosa, et il Papa ne stava tutto contento et aspettava negli altri la medema contentezza; ma è succeduto il contrario», concludeva accorato il Morone. Pio V, però, sapeva anche muoversi con energia e le «malas nuevas» che i commissari non volevano scrivere al loro padrone gliele scrisse lui stesso, in una tremenda lettera del 9 dicembre. Vedendo come si comportavano i ministri spagnoli – scrisse – era giunto a sospettare che tirassero deliberatamente in lungo per illudere i veneziani e abbandonarli all’ultimo momento alla rovina per mano del «tiranno», ovvero il Turco; perciò, «non volendo Noi esser ministro né mediatore de gabbare alcuno», il papa preferiva chiudere addirittura il negoziato. Se poi il re avesse deciso di continuare, lo pregava seccamente che non fosse più il Granvelle a trattare con lui. Infine, Pio V ricordò al re di avergli concesso a suo tempo un sussidio, pagato dal clero spagnolo, in cambio dell’impegno di armare 60 galere per il servizio della Cristianità: se il progetto della Lega abortiva, avrebbe preteso l’esecuzione letterale di quell’accordo, di cui gli mandava copia «perché se ne possa ricordar meglio»4.

Partita questa lettera, il papa si ostinò a non riprendere i colloqui finché non fosse arrivata la risposta, con sgomento di molti che vedevano avvicinarsi la primavera e con essa l’uscita della flotta turca dai suoi porti. Gli inviati spagnoli gli dissero in tutti i modi che la risposta forse non sarebbe arrivata così presto come si immaginava, ma il pontefice rifiutò di ascoltarli. Filippo II, ricevuto l’ultimatum, capì benissimo che quell’accenno al sussidio era fatto per ricattarlo e si offese, mentre l’opinione della corte di Madrid sul Colonna precipitava ancora più in basso. Il re fece sapere che non intendeva far marcia indietro: aveva deciso di assegnare a don Juan un luogotenente, e sarebbe stato quest’ultimo, non certo il comandante delle galere pontificie, ad assumere il comando della flotta in caso di bisogno. Il Castagna, quando lo seppe, previde che il negoziato non sarebbe andato lontano: «che non bastando al re di havere il generale suo fratello che commandi a tutti, voglia anchora un suo luogotenente superiore a gli altri generali in capite, non parerà giustitia a nessuno».

Alla fine, però, i colloqui fra il nunzio, l’ambasciatore veneziano e i segretari del re partorirono un compromesso accettabile per tutti: Filippo avrebbe proposto i nomi di tre illustri capitani, e cioè don Luis de Requesens, il Doria e il Colonna, chiedendo al papa di indicargli quale dei tre doveva essere il luogotenente di don Juan. Se Pio V, come pareva evidente, avesse designato il Colonna, Marcantonio avrebbe contribuito ad appianare la questione rinunciando a comandare le galere del papa, e accettando invece, oltre alla luogotenenza, il comando della fanteria imbarcata5.

La risposta di Filippo, in data 4 febbraio, arrivò a Roma la sera del 2 marzo, ma con lo stesso corriere arrivarono nuove istruzioni per gli inviati spagnoli, in cui il re si esprimeva in tono assai meno arrendevole. Irritato che il papa avesse osato ricattarlo col sussidio delle galere, Filippo prevedeva che ora il sant’uomo, tutto infiammato di zelo, avrebbe insistito perché si cominciasse subito a organizzare la grande flotta prevista dal trattato; e non aveva nessuna intenzione di dargliela vinta. La stagione – scrisse in gran segreto il rey prudente a Zúñiga e Granvelle – era ormai troppo avanzata ed era evidente che per quell’anno non c’era più il tempo di preparare grandi imprese; del resto, il trattato prevedeva che ogni autunno i commissari delle potenze coalizzate dovessero riunirsi per avviare i preparativi della campagna futura, «la quale riunione quest’anno, non essendo firmata la lega, non si è fatta». Perciò, con la massima prudenza e cercando di non far perdere la pazienza al papa, bisognava fargli capire che per la piena attuazione delle misure previste dal trattato era necessario attendere il 15726.

Gli ambasciatori accolsero queste istruzioni con costernazione, e non lo nascosero al re. Ogni volta che se ne era discusso, obiettò lo Zúñiga, si era sempre presupposto che fin da quel primo anno bisognasse uscire in mare con tutte le forze previste, non importa se in ritardo, e i veneziani non avrebbero mai accettato di rimandare l’offensiva all’anno prossimo. Con tutto questo, proseguiva l’ambasciatore, si sarebbe fatto il possibile perché «Vostra Maestà sia servita»; ma si era quasi sicuri che né il papa né i veneziani avrebbero accettato. Per di più, Filippo non aveva chiarito se per quell’anno sarebbe stato comunque disposto a offrire delle galere, e quante; e lo Zúñiga concluse mestamente che avrebbe cercato di tirare in lungo i negoziati, fino a quando Sua Maestà non si fosse degnata di farglielo sapere. L’infelice ambasciatore non avrebbe potuto spingersi oltre nel rimproverare al suo padrone la posizione scomoda in cui lo stava mettendo.

L’indomani il papa convocò gli spagnoli al mattino «molto presto», ed essi si affrettarono a dirgli subito, per tranquillizzarlo («perché è talmente sensibile che si altera facilmente»), che la venuta di don Juan era sicura, e che il re lasciava a lui la nomina del luogotenente; non ebbero invece il coraggio di dargli subito la cattiva notizia. Pio V, esultante, si affrettò a comunicare agli ambasciatori veneziani che tutte le difficoltà erano appianate, e convocò tutti quanti il 7 marzo al convento della Minerva per fare il punto della situazione. Neppure in questa riunione gli spagnoli ebbero il coraggio di confessare la verità; il papa, «molto allegro», dichiarò che ormai il negoziato era concluso, e gli italiani rimasero con la persuasione che entro due o tre giorni si sarebbe firmata la Lega. Il Rambouillet, con la solita malevolenza, trovò che la soluzione era abborracciata e che affidare il comando al luogotenente in assenza di don Juan era più facile a dirsi che a farsi: «per metterli d’accordo, bisognerà avere sempre dei notai per vedere quando don Giovanni sarà assente o presente, cosa che si può interpretare come si vuole». Ma era l’unico ad avere ancora dei dubbi7.

Il giorno dopo la tegola cadde. I commissari si ritrovarono col papa per rivedere insieme un’ultima volta il testo del trattato, e arrivati al punto dove si diceva che ogni anno a partire dal 1571 i coalizzati dovevano mettere in mare 200 galere per andare ad affrontare la flotta del Turco, Zúñiga e Granvelle, cercando di farla apparire una considerazione ovvia, dissero che per quell’anno – lo vedevano tutti – non c’era più tempo, e che era meglio non menzionare nessuna data ma mettere soltanto «singulis annis». Questa uscita scatenò un putiferio. I veneziani affermarono chiaramente che loro erano pronti a battersi, ma se il re si fosse tirato indietro erano pronti anche a fare la pace, e aggiunsero che non si accontentavano di promesse, ma volevano sapere esattamente quante galere avrebbe fornito il re di Spagna, e quando.

Zúñiga e Granvelle, consapevoli che se il Turco attaccava Corfù anche la Puglia si sarebbe trovata in prima linea, finirono per dichiarare che il re avrebbe fatto tutto il possibile già quell’anno; di loro iniziativa, si assunsero la responsabilità di promettere 70 galere, e aggiunsero che per le 30 che mancavano alla sua quota Filippo avrebbe trovato i rematori, purché i veneziani fornissero gli scafi. Di tutto questo, beninteso, non c’era traccia nelle lettere ricevute da Madrid, ma gli ambasciatori erano così imbarazzati che non riuscirono a evitare di andar oltre le istruzioni ricevute, e si giustificarono poi col re affermando che altrimenti la Lega sarebbe fallita. A questo punto il papa credeva di firmare il giorno stesso e far cantare il Te Deum, ma il clima era di nuovo avvelenato e stavolta furono gli ambasciatori veneziani a bloccare tutto, affermando che non potevano assumersi la responsabilità di firmare: poiché il re aveva cambiato le condizioni, essi dovevano prima consultarsi col loro governo. È questo – concluse amaramente lo Zúñiga – il guaio di trattare «con gente de República», e d’una Repubblica che castigava così severamente gli errori dei suoi ministri, per cui nessuno di costoro osava più assumersi responsabilità8.

Toccava alla Signoria, ora, pronunciarsi; ma le lettere da Roma che descrivevano la nuova difficoltà sollevata dagli ambasciatori del re giunsero a Venezia nel peggior momento possibile. A febbraio, infatti, s’era sparsa in città la notizia che stava arrivando da Costantinopoli un ciaus del sultano, con un messaggio per il doge. Monsignor Facchinetti era molto allarmato, perché da tempo vedeva comparire segnali di disfattismo fra i patrizi veneziani: certi gentiluomini dicevano apertamente che siccome col papa e col re Filippo non si era firmato alcun impegno, sarebbe stato molto meglio mettere fine alla guerra finché si era ancora in tempo. L’impressione che dopo lo sforzo iniziale la costruzione delle nuove galere all’Arsenale e il reclutamento delle ciurme stessero rallentando aggravava i dubbi del nunzio, e la notizia che il sultano mandava un ambasciatore a Venezia lo convinse che c’era davvero qualcosa nell’aria. Ma i mercanti, che sembravano molto ben informati, assicuravano che si trattava di tutt’altro: e cioè di negoziare il dissequestro delle merci appartenenti agli ebrei levantini che la Signoria aveva fatto confiscare allo scoppio della guerra. In cambio, il sultano avrebbe certamente dissequestrato le merci appartenenti ai mercanti veneziani, e se i due governi fossero riusciti a mettersi d’accordo, i commerci avrebbero potuto riprendere come prima nonostante la guerra: cosa che può sembrare molto strana a noi oggi, ma non lo era affatto per gli uomini del Cinquecento9.

Alla fine di febbraio l’inviato giunse a Venezia, e si scoprì che non era un funzionario ottomano ma il dragomanno Mateca Salvago, interprete del bailo Barbaro, accompagnato dal maestro di casa di quest’ultimo. In apparenza i mercanti avevano ragione: Mateca consegnò lettere del bailo da cui risultava che il sultano s’era preso a cuore le lamentele dei suoi sudditi internati a Venezia. A margine d’una supplica presentata dai mercanti ebrei Selim aveva annotato di suo pugno che se davvero «li nostri patiscono nel modo soprascritto», era giusto che gli avversari ne subissero le conseguenze. Il Gran Signore era quasi deciso a far arrestare i mercanti veneziani, ma Mehmet pascià lo aveva convinto a pazientare, e aveva ottenuto dal mufti un parere secondo cui chi veniva in buona fede a negoziare nell’impero non doveva soffrirne: i sudditi ottomani erano stati arrestati ingiustamente a Venezia, ma i musulmani non dovevano rendersi colpevoli di un’analoga ingiustizia. Alla fine il sultano aveva deciso di proporre che da entrambe le parti i mercanti e le loro merci fossero lasciati in libertà, «per esser persone che non s’ingeriscono in cose di stato».

Nel giro d’una settimana la Signoria stabilì di mandare a Costantinopoli un negoziatore, e fu scelto Iacopo Ragazzoni, fratello del vescovo di Famagosta, ricchissimo uomo d’affari che per i suoi traffici col Levante aveva particolare interesse alla conclusione dell’accordo. Monsignor Facchinetti, però, non era convinto: secondo lui, coloro che avevano mercanzie e dipendenti trattenuti a Costantinopoli avebbero preferito la pace a un accordo parziale, e anche lui, come Zúñiga, notava tristemente che Venezia non era come una monarchia, dove il principe e i suoi ministri possono permettersi di ignorare il parere degli affaristi. Era una Repubblica, governata da un patriziato così numeroso che non si poteva aver fiducia nel discernimento di chi era chiamato a votare in Senato: «li gentilhuomini venetiani sono tanti che si può dire uno Stato popolare», la moltitudine, come si sa, è facilmente influenzabile, e il partito della pace non risparmiava gli sforzi per seminare il suo veleno.

I dubbi del nunzio erano più che giustificati, perché il gran visir aveva incaricato Mateca di riferire ch’egli «sentiva malvolentieri questa guerra», e che se Venezia si fosse dimostrata ragionevole la pace era a portata di mano. Nel congedarlo, Mehmet aveva raccomandato personalmente al dragomanno di dire «alli vecchi et alli Diese che governano il paese, et non alli giovani, che non faccino andare il Signor in collera, ma che mandino un uomo per quetar le cose»: lo stesso linguaggio che aveva usato qualche mese prima col segretario Buonrizzo, mandato ad accompagnare Kubad. Puntualmente il Ragazzoni, oltre alla sua commissione ufficiale, ebbe l’incarico segreto di verificare insieme al bailo le condizioni di un accordo; in caso estremo, era autorizzato anche a cedere Famagosta. Partito l’11 marzo, arrivò a Costantinopoli il 26 aprile; a quella data la notizia del suo viaggio si era già sparsa in tutte le capitali cristiane, e il suo vero scopo era così trasparente che a Madrid si pensava che la Repubblica avesse già firmato la pace, con grande fastidio dell’ambasciatore veneziano.

Durante il viaggio il Ragazzoni si fermò dal sangiacco di Erzegovina, figlio di Mehmet pascià, e tenne con lui «lunghi ragionamenti e discorsi di pace»; tutti quelli con cui parlò lungo il cammino, musulmani e cristiani, non desideravano altro che la pace. Nella capitale dell’impero venne condotto «ad una stanza non molto buona», che era stata scelta per lui da Kubad, e che aveva il vantaggio d’essere vicina al palazzo del gran visir; più tardi Ibrahim bey, concorrente di Kubad per la posizione di massimo esperto di affari veneziani alla Porta, venne a trovarlo, riconobbe che la sistemazione non era buona e gliene trovò una migliore. Tanto Kubad quanto Ibrahim gli mandavano spesso in regalo roba da mangiare, che il Ragazzoni accettava di buon grado, anche se faticava ad abituarsi alla cucina turca10.

Nei primi tre giorni l’inviato veneziano dovette restare chiuso in casa, ma riuscì comunque a scrivere di nascosto al bailo per notificargli il suo arrivo, confermandosi nell’opinione che a Costantinopoli col denaro si otteneva tutto quello che si voleva. Peraltro la missione non cominciava sotto buoni auspici: il 28 aprile, due giorni dopo l’arrivo del Ragazzoni, fra Paolo Biscotto, sopravvissuto a due mesi di torture, fu condannato a essere impalato nella chiesa del convento di San Francesco. In genere quello era un luogo tranquillo e sicuro, dove i domestici del bailo andavano regolarmente a scambiare corrispondenza segreta con gli agenti veneziani, approfittando del fatto che i giannizzeri di scorta non entravano mai nell’edificio sacro; ma stavolta la volontà di dissacrarlo era deliberata e inequivocabile. Fra Paolo fu condotto col palo in spalla davanti alla casa del bailo, e poi alla chiesa, dove avvenne l’esecuzione. Il giorno dopo, mentre era sul palo, alcuni azap gli tirarono delle frecce, che gli rimasero conficcate in corpo; dal resoconto della vicenda non si capisce se il disgraziato fosse ancora vivo. Era certamente morto il 6 maggio, quando due apprendisti giannizzeri ubriachi buttarono giù il palo col cadavere, lo trascinarono fino alla marina e lo gettarono in acqua. Il cappellano del Barbaro, coinvolto nella faccenda delle lettere cifrate, venne condannato alla galera, ma gli fu concesso di riscattarsi pagando 200 zecchini, e poté ritornare al convento, alquanto provato dall’esperienza11.

Il giorno in cui il Ragazzoni stava per partire erano arrivate a Venezia le lettere degli ambasciatori a Roma, che informavano dell’ennesimo cavillo sollevato dai ministri spagnoli. Il Consiglio dei Dieci lesse le lettere e subito dopo fece imbarcare l’inviato; non c’è da stupirsi se il Facchinetti, che già da un po’ osservava con preoccupazione il rallentare dei preparativi bellici, trovò che anche l’ansia di concludere il trattato si era notevolmente raffreddata. Poco più d’un mese prima aveva scritto che «della lega questi signori stanno con incredibile desiderio», ma ora si accorse che l’abituale cortesia con cui era ricevuto nascondeva una riserva. Convocandolo dopo aver discusso fra loro l’inattesa svolta dei negoziati romani, i signori del Collegio gli dissero che l’indecisione dei «ministri cattolici» nascondeva la cattiva volontà del re, e che essi non credevano più all’intenzione degli spagnoli di condurre una campagna offensiva. Il Facchinetti cercò di spostare la discussione sul problema concreto delle galere da armare, e trovò i suoi interlocutori più disponibili: galeotti non ne avevano, ma se il re li avesse trovati, avrebbero fornito i legni e l’artiglieria, come richiesto da Zúñiga e Granvelle. Il nunzio rimase comunque stupito per l’insolita durezza dei toni, e non poté fare a meno di sospettare «che habbino già fisso il chiodo di volersi accordare col Turco»12.

Mentre il Ragazzoni viaggiava verso Costantinopoli, fra Roma, Venezia e Madrid si continuava a discutere su quante galere il re avrebbe armato. Il papa era furibondo, perché anziché accontentarsi dell’offerta spagnola i veneziani insistevano per averne di più, e al più tardi entro maggio. Zúñiga e Granvelle erano anche loro a corto di pazienza e a un certo punto si lasciarono sfuggire che se poi le galere tardassero quindici giorni, non bisognava fare difficoltà. Come se non bastasse, venne fuori che sui rematori non ci si era capiti: il re non ne aveva, e sebbene da tempo si discutesse di incentivare anche nei suoi regni l’arruolamento di buonavoglia, per il momento non se n’era fatto niente; quanto a introdurre la coscrizione forzata, non c’era neppure da pensarci. Quando avevano detto che il re poteva mettere in mare soltanto 70 galere, ma era disposto a venire incontro ai veneziani se avessero contribuito loro alla quota mancante, gli spagnoli non intendevano dire che avrebbe fornito i galeotti, ma soltanto che avrebbe aiutato i veneziani a reclutarli. I veneziani ribatterono che 70 galere erano poche e che se quelle mancanti dovevano armarle loro bisognava che il re fornisse almeno 8000 rematori.

I commissari spagnoli non sapevano cosa rispondere, ma Pio V si prese la responsabilità di garantire che Filippo avrebbe mandato almeno 80 galere entro maggio, e che i rematori sarebbero stati reclutati nel regno di Napoli a spese del re. I commissari, grati dell’aiuto, gli baciarono i piedi e scrissero al loro padrone per convincerlo che quello era l’accordo migliore possibile; ma Filippo, quando lo seppe, si turbò e disse che pretendere da lui 8000 galeotti dimostrava tutta la malafede dei veneziani, giacché gli chiedevano «quello che essi medesimi sanno che è impossibile». A Venezia il nunzio cercava di convincere il doge ad ammorbidire la sua posizione, sottolineando che il tempo passava; ma Mocenigo, imperturbabile, gli rispose «che li ministri del Re Cattolico havevano consumato tanti giorni che a me non doveva parer strano se la Republica ne spendeva quattro in trattar et risolver negotio di tanto momento». Nel frattempo, i mercanti interessati alla conclusione della pace con il Turco eccitavano gli animi contro la doppiezza degli alleati spagnoli13.

A sbloccare le trattative fu il viaggio di Marcantonio Colonna a Venezia, deciso dal papa all’inizio di aprile e approvato dai commissari del re. Giunto a Venezia l’11 aprile, il Colonna vi restò fino al 6 maggio, dimostrandosi un mediatore straordinariamente abile: egli promise ai veneziani tutto ciò che volevano, senza troppo preoccuparsi se Filippo sarebbe poi stato in grado di mantenerlo, e scrisse ai commissari che la Lega era cosa fatta, evitando di menzionare le condizioni più scabrose messe avanti dalla Signoria. Il dialogo fra i prudenti affaristi veneziani e l’esuberante principe romano, che si proclamava disposto ad affrontare il Turco anche senza l’aiuto spagnolo («Se il sig. Don Giovanni venirà, sarà di gran beneficio [...] ma se non venirà, faremo noi») era un dialogo tra sordi, ma intenzionati a far finta di capirsi. Facendo leva sul senso dell’onore dei patrizi favorevoli alla guerra, spingendo abilmente perché le decisioni più importanti non fossero prese nel segreto del Consiglio dei Dieci ma nell’aula pubblica e assai più emotiva dei Pregadi, il Colonna fece il miracolo di trasformare le aspettative e far rinascere le speranze: il 14 aprile il doge scrisse al Barbaro informandolo che i negoziati per la Lega erano ripartiti, e che non bisognava avere troppa fretta di concludere la pace; il 7 maggio, all’indomani della partenza del Colonna, ordinò ai negoziatori a Costantinopoli di non cedere a nessun patto Famagosta, e di non firmare pace né tregua senza prima riferire a Venezia e attendere risposta.

Va da sé che questo modo di trattare era destinato a perpetuare degli equivoci. Ai ministri spagnoli il Colonna scrisse che per convincere i veneziani a firmare bastava promettere l’arrivo di 80 galere entro maggio, il reclutamento di galeotti per altre 20 per mezzo dei baroni del regno di Napoli, e la fornitura di 20 navi da trasporto. Zúñiga e Granvelle risposero che garantivano le 80 galere e le 20 navi entro quella scadenza «o poco dopo»; quanto ai rematori, si sarebbe fatto ogni sforzo, ma se non si fosse riusciti a reclutarli non sarebbe stata colpa del re. Il Colonna riferì questa risposta ai veneziani, guardandosi bene dall’insistere sull’ultima precisazione, e i suoi interlocutori furono soddisfatti.

A sua volta, però, Marcantonio non era stato troppo chiaro nel riferire le richieste veneziane, giacché la Signoria voleva mettere per iscritto che non solo le galere del re sarebbero state pronte entro la fine di maggio, ma che per quella data dovevano essere già a Otranto; in secondo luogo si chiedeva al re di anticipare ai mercanti veneziani il denaro per pagare il grano acquistato nel regno di Napoli; infine, poiché nei capitoli della Lega era previsto che ogni contraente fornisse un contingente di fanteria, i veneziani volevano che fosse computata al loro attivo anche quella che tenevano nei presidi d’Oltremare. Il Colonna, a quanto pare, comunicò solo al papa, e non allo Zúñiga, le prime due condizioni e tacque del tutto la terza; ma provvide l’ambasciatore veneziano Soranzo a metterla sul tavolo subito prima del ritorno di Marcantonio, suscitando l’irritazione degli spagnoli per questa ennesima cavilación dei veneziani14.

Tornato a Roma, il Colonna si aspettava di trovare il negoziato concluso, e ci rimase molto male scoprendo che non era così. Lo Zúñiga, cui il papa aveva riferito allegramente le prime due condizioni convinto che si trattasse di dettagli senza importanza, aveva risposto con gravità che il testo concordato prometteva le galere per la fine di maggio ma non diceva dove; lui sperava che entro quella data la flotta sarebbe arrivata in Italia, e ripeté che comunque dieci o dodici giorni di ritardo non erano da considerare cosa grave. Dilazionare il pagamento del grano era possibile, mentre invece era escluso che si potesse calcolare a vantaggio dei veneziani la fanteria che tenevano nei loro presidi. Su questa base, prevedibilmente, Soranzo rifiutò di firmare, Zúñiga protestò perché le richieste erano diverse da quello che i veneziani avevano fatto credere al Colonna, e quando quest’ultimo arrivò a Roma la trattativa si era di nuovo arenata.

Marcantonio cercò dapprima di spaventare gli spagnoli insistendo che bisognava firmare a tutti i costi e concedere ai veneziani quello che chiedevano, perché da un giorno all’altro poteva arrivare a Venezia un corriere da Costantinopoli portando le condizioni di pace. L’indomani, però, dopo aver parlato col Soranzo, il Colonna tornò dallo Zúñiga e gli disse che non c’era da aver paura, i veneziani non avrebbero certamente fatto la pace con il Turco, e annunciò di aver convinto il loro ambasciatore a mettere per iscritto le sue richieste in una forma più ragionevole. Lo Zúñiga, molto irritato di sentirsi dire dal Colonna l’esatto contrario «di quello che mi aveva detto a me don Juan de Zúñiga il giorno prima», chiarì che se si trattava ancora della fanteria non c’era nemmeno da parlarne; il Colonna negò, lo spagnolo volle vedere il testo e scoprì che era proprio come temeva.

A questo punto il negoziato assunse cadenze da commedia. Il Colonna cercò di convincere lo Zúñiga che il testo non era da prendere alla lettera: i veneziani non pretendevano di calcolare nella loro quota la fanteria che tenevano nei presidi del Dominio, ma volevano dire che quella era la fanteria che avrebbero imbarcato sulla flotta. Lo Zúñiga, ostinato, disse che lì non c’era scritto così. I commissari pontifici, interpellati, dissero che anche a loro sembrava che il testo fosse da interpretare come pensava Zúñiga. Marcantonio si riscaldò, dicendo che lui era stato a Venezia e sapeva meglio di loro cosa volevano dire i veneziani. Finalmente tornò dal Soranzo, e dopo una lunga discussione lo convinse a mostrargli gli ordini che aveva ricevuto da Venezia, lo persuase che li aveva interpretati male, e gli fece riscrivere il capitolo, portandolo poi trionfalmente allo Zúñiga. Lo spagnolo lo lesse e trovò che era uguale a prima. A questo punto il Soranzo decise di consultarsi col suo collega Suriano, di cui aveva preso il posto a capo della commissione veneziana, e intanto il Colonna e gli spagnoli continuarono a lavorare sugli altri punti rimasti in sospeso.

Stavolta la capacità del Colonna di dar sempre ragione all’interlocutore del momento e promettere generosamente per conto d’altri si volse a vantaggio dei commissari di re Filippo: per quanto riguardava l’arrivo della flotta, Marcantonio promise che se anche le galere avessero tardato fino al 20 giugno per arrivare a Otranto nessuno avrebbe obiettato, e s’impegnò a farlo confermare dal papa per iscritto. Le galere dovevano essere 80 senza contare, secondo i veneziani, quelle del duca di Savoia e dei cavalieri di Malta; Zúñiga obiettò che era stato il papa a parlare di 80 galere, mentre loro ne avevano offerte 70, e senza quelle dei cavalieri e del duca poteva darsi che non ci arrivassero; e Colonna non si oppose. Quanto al grano di Napoli, i veneziani non si accontentavano più che il re sospendesse il pagamento, ma volevano che il prezzo fosse fissato dal papa; Marcantonio, però, promise segretamente agli spagnoli che il papa lo avrebbe fissato secondo le loro indicazioni, e ancora una volta s’impegnò a far mettere questa promessa per iscritto. Il problema, a questo punto, era soltanto l’insistenza degli ambasciatori veneziani a proposito della fanteria, su cui affermavano di non poter cedere senza l’autorizzazione del loro governo. Il Colonna voleva che fossero gli spagnoli a cedere senza attendere la risposta da Venezia, e lo Zúñiga cominciò a sospettare che Marcantonio temesse di veder smascherata la sua mala fede, perché non gli pareva possibile che la Signoria avesse corso il rischio di dire a lui una cosa e ai propri ambasciatori tutto il contrario15.

La commedia, in ogni caso, si avviava all’epilogo. Gli spagnoli tenevano duro, e Pio V mandò a dire agli ambasciatori veneziani che se non volevano la Lega, non se ne sarebbe più parlato. Il 19 maggio Soranzo e Suriano ricevettero una risposta conciliante da Venezia, e quella sera stessa andarono dal papa e gli dissero che si rimettevano in tutto alle sue decisioni. Il giorno dopo ci si ritrovò per firmare il trattato della Lega e i protocolli aggiuntivi sulle operazioni di quell’estate. La pretesa veneziana di computare a proprio carico la fanteria dei presidi d’Oltremare venne tacitamente cassata; in compenso, si confermò che entro fine maggio il re doveva avere 80 galere a Otranto, senza contare quelle di Savoia e di Malta. Vedendo questa clausola messa nero su bianco, mancò poco che lo Zúñiga accusasse il Colonna di aver mentito nelle sue lettere da Venezia, negando di conoscere le pretese veneziane quando invece le conosceva benissimo; Marcantonio si offese e negò tutto con estrema faccia tosta, e finalmente lo spagnolo firmò, pur protestando che «all’impossibile nessuno è obbligato». Il papa era così contento che discusse coi cardinali se non fosse il caso di comunicare il grande avvenimento, oltre che ai sovrani cattolici, «etiam ad principes haereticorum, per animarli a questa santa impresa»; ma si trovarono d’accordo che sarebbe stato un po’ troppo, e che mandare un legato apostolico agli eretici «era anathema»16.

La firma del trattato nascondeva spaccature profondissime. Sulla faccenda delle 20 galere mancanti si evitò di ritornare: il re aveva scritto ai suoi commissari che «siccome io non le ho, s’intende che me le daranno i veneziani armate di ciurma e tutto il resto che occorre per metterle alla vela»; i veneziani fecero sapere che loro potevano prestare al re 20 scafi di galera ma senza artiglieria né rematori, dopodiché dell’intera faccenda non si parlò più17. L’andata delle galere a Otranto doveva servire a soccorrere Famagosta, ma lo Zúñiga era convinto «che prima dell’arrivo di don Juan quella piazza sarà perduta»; a Madrid tutti erano certi che per quell’anno non si sarebbe fatto nulla, e si sperava che i veneziani, arrendendosi all’evidenza, avrebbero messo a disposizione le loro galere per qualche impresa in Nordafrica. I veneziani, per giudizio comune, avevano firmato soltanto perché erano coll’acqua alla gola, e il Soranzo sembrava addirittura pentito di averlo fatto, giacché si notava che dopo aver messo avanti così tante difficoltà «non cessa di continuare nel suo sinistro modo di procedere». Soltanto i turchi sembravano prendere sul serio la Lega, a giudicare dal modo in cui ne scrissero i loro cronisti:

Essi firmarono un patto di alleanza giurando sulla loro falsa religione di trarre vendetta della sconfitta a Cipro e cominciarono a raccogliere uomini e denaro per costruire una forte flotta contro la flotta dei Musulmani. Inoltre essi dichiararono che «non è permesso sonnecchiare»18.

Ma se gli scettici erano in maggioranza nelle corti cristiane, la conclusione della Lega sollevò egualmente una ventata di ottimismo. Giacché, per quanto profonda fosse la divisione fra i coalizzati, non c’era dubbio che le loro forze sarebbero state superiori a quelle del Turco. Il Colonna aveva detto a Venezia che la vittoria era certa, perché già l’anno prima i cristiani erano più forti, e per quanto potessero esser «cresciute le forze del Turco in mare», quelle dei coalizzati erano cresciute ancora di più. Un altro che ci credeva era l’ambasciatore veneziano a Madrid, Lunardo Donà, addirittura commovente nella sua perseveranza: già a dicembre s’era dichiarato ottimista per l’anno prossimo, «dovendo il turco essere travagliato dalle nostre armate grossissime della Lega», e dopo che il trattato fu concluso ripeté che di fronte a forze così gagliarde il Turco doveva temere d’essere assalito «fin quasi dentro delli Dardanelli». Ma il più ottimista di tutti era il papa: convocati i cardinali tre giorni dopo la firma del trattato, dichiarò che la sorte dell’«impio tiranno», ovvero Selim, era segnata, e che per volontà di Dio la Santa Lega era pronta «a romper le corna a così indomita bestia». Per quanto l’impresa si preannunciasse difficile, non si può certo dire che i cristiani si preparassero alla guerra succubi del mito dell’invincibilità dei turchi19.

Mentre a Roma si concludeva il trattato, a Costantinopoli il Ragazzoni aveva potuto finalmente incontrare il Barbaro, alla cui autorità gli era stato ordinato di subordinarsi. Marcantonio sostenne in seguito d’essere rimasto negativamente sorpreso dall’arrivo dell’inviato, la cui missione a suo giudizio rivelava la debolezza della posizione veneziana, ma la sua corrispondenza di quei giorni lascia trasparire soprattutto l’immenso sollievo di avere finalmente ristabilito un contatto con Venezia: le lettere che gli portava il Ragazzoni erano le prime che riceveva da 15 mesi! Mehmet pascià, dopo qualche difficoltà, accettò di riceverli insieme, e il 7 maggio li convocò al suo palazzo; lì, dopo aver avviato la trattativa sulla liberazione dei mercanti, il vecchio serbo e i due italiani gettarono la maschera e cominciarono a parlare di pace.

L’inizio non fu promettente, perché i veneziani, obbedendo alle istruzioni ricevute dal Consiglio dei Dieci, ponevano come condizione addirittura la restituzione di Cipro; mentre il sultano per fare la pace pretendeva che la Repubblica rinunciasse alla sua piena indipendenza e si piegasse a pagargli il tributo come i suoi sudditi cristiani. Il Ragazzoni cercò di impressionare il gran visir agitando la prospettiva della Lega che stava per essere firmata: le forze dei due imperi riuniti potevano far mutare fortuna alle armi ottomane. Mehmet ribatté, serafico, che sapeva benissimo quanto poco era amata Venezia dai principi cristiani, e quanto poco poteva fidarsi di loro: perciò non credeva che la Lega sarebbe mai stata firmata, e quand’anche fosse i musulmani, «avendo Iddio dal canto loro, non avevano da temere di tutte le potenze insieme». Il Ragazzoni, alquanto imbarazzato e «stimando a proposito di finire questo ragionamento», concordò che alla fine Dio avrebbe deciso chi doveva essere il vincitore. Mehmet ribadì che avrebbe vinto il sultano, e non si sarebbe accontentato di Cipro, ma avrebbe occupato ancora altre parti del dominio veneziano, tanto che il doge avrebbe implorato la pace come una grazia.

Tornato alla sua stanza dopo questo colloquio inquietante, il Ragazzoni ebbe contatti con i soliti gentiluomini italiani che sembravano pullulare fra gli schiavi del sultano e, in questo caso, del gran visir («un suo eunuco rinegato di casa Caraffa») e cercò di ricavarne tutte le informazioni possibili sulle intenzioni della Porta; i suoi informatori gli confermarono che Mehmet avrebbe volentieri concluso la pace prima che il suo rivale Mustafà riuscisse a completare la conquista di Cipro. Ben presto il gran visir convocò di nuovo il Ragazzoni e il Barbaro, e i negoziati si protrassero per diverse settimane. I due veneziani non mancarono di lasciar capire al gran visir e a Ibrahim bey che se si fosse firmata una buona pace la Repubblica avrebbe dimostrato ad entrambi una sostanziosa gratitudine: le istruzioni mandate da Venezia, in effetti, li autorizzavano a promettere fino all’enorme somma di 50.000 zecchini a Mehmet, e 6000 al dragomanno, in cambio della loro compiacenza.

È difficile esagerare il ruolo decisivo giocato in queste trattative da Ibrahim, l’uomo che traduceva al gran visir le proposte dei veneziani, e interpretava per loro le risposte. Dalla scelta delle sue parole poteva dipendere l’esito d’un negoziato: qualche tempo prima, l’ambasciatore francese lo aveva accusato d’aver volutamente falsificato la traduzione d’un suo colloquio col gran visir, per promuovere gli interessi del Migues che lo aveva profumatamente pagato. Il Barbaro rimpiangeva i tempi in cui la Porta accettava di negoziare tramite gli interpreti del bailaggio anziché imporre i propri; ma per fortuna il polacco era un amico, a cui si poteva chiedere molto. In occasione d’altri negoziati Marcantonio aveva addirittura osato chiedergli di mancare qualche volta agli incontri, in modo da potersi servire dei suoi dragomanni; ora, però, la trattativa era troppo delicata per arrischiare il minimo passo falso, anche se gli interlocutori erano sempre cortesissimi nella forma. Come ebbe a dire più tardi il Barbaro, «il negoziato con li Turchi era simile a chi giocava con una palla di vetro, che quando il compagno la manda con forza, non bisogna violentemente ribatterla e nemmeno lasciarla cadere, perché nell’uno e nell’altro modo si viene a romperla»20.

Nonostante tutto, pareva che la pace fosse a portata di mano. Le istruzioni che il Barbaro aveva ricevuto dai Dieci gli imponevano di cominciare la trattativa chiedendo la restituzione di Cipro, ma in caso estremo lo autorizzavano a rinunciare all’isola e anche a consegnare Famagosta, a patto che potessero uscirne liberamente «li nostri ministri, li soldati, et altri che vorranno venir di qua, con tutte le cose sacre, le artigliarie, monitioni, campane», e il gran visir non chiedeva di più. Il 23 maggio il bailo si decise a cedere, e invitò a casa sua Ibrahim bey; questi arrivò nel tardo pomeriggio, ma tre ore prima il Barbaro aveva ricevuto lettere di suo cognato Andrea Gradenigo da Venezia, che lo avvertivano come «le cose habbino a un certo modo mutato faccia». Il Gradenigo, che già altre volte aveva scritto a Marcantonio lettere in apparenza private, ma in realtà dettate dal Consiglio dei Dieci, preannunciava l’arrivo di nuove istruzioni: ovvero la lettera del 14 aprile, arrivata poi il 29 maggio, in cui i Dieci informavano il bailo che Marco Quirini aveva soccorso Famagosta, e che i negoziatori spagnoli erano diventati improvvisamente molto più solleciti di concludere la Lega, sicché non era più così sicuro che la cosa migliore fosse la pace a tutti i costi. Sulla fiducia di quel che gli anticipava il cognato, il Barbaro cambiò all’ultimo momento la proposta che stava per fare a Ibrahim, e gli disse che in cambio di Famagosta Venezia pretendeva un vasto compenso, con la cessione di Valona, Castelnuovo e Durazzo, le più importanti basi turche nell’Adriatico.

La proposta era ridicola e ovviamente venne rifiutata. Incagliate le trattative per la pace, proseguirono quelle parallele circa il dissequestro delle mercanzie. Lo scoglio principale consisteva nel fatto che le merci fermate a Costantinopoli erano già state riconsegnate ai proprietari, mentre quelle sequestrate a Venezia agli ebrei levantini erano state vendute sottocosto dal governo, che aveva impiegato il denaro per le spese della guerra. Il sultano, incitato dagli ebrei a ripagare i veneziani con la stessa moneta, aveva ribattuto «che Cristiani facessero pure secondo il loro cristianesimo, che egli in ogni caso non voleva mancare di far quanto conveniva alla religione e giustizia sua». Il Ragazzoni e il Barbaro cercarono di salvare la situazione assicurando che gli ebrei, e ancor più i musulmani, erano trattati benissimo a Venezia, e che se erano state vendute delle merci si trattava solo di quelle deperibili, vendute all’asta col consenso dei proprietari «a prezzi buonissimi»; il denaro era serbato con cura e sarebbe stato restituito appena concluso l’accordo, perché il doge, grazie a Dio, non ne aveva bisogno, avendone abbastanza anche per una guerra maggiore di questa. Non sappiamo se i negoziatori turchi abbiano finto di credere a queste pietose menzogne, ma il 29 maggio si pervenne comunque a un accordo, per cui il Gran Signore ordinava di lasciar circolare liberamente in tutto l’impero i mercanti veneziani e le loro merci, accontentandosi della parola del bailo che Venezia avrebbe fatto lo stesso.

Concluso questo negoziato, e giunto a un punto morto quello sulla pace, il Ragazzoni capì che la sua missione era terminata. Il gran visir, che intanto aveva concluso con successo un altro negoziato con gli ambasciatori degli Asburgo d’Austria per regolare la successione nel principato di Transilvania, non aveva più tanta voglia di continuare a trattare con interlocutori così imprevedibili, e i veneziani si accorsero di un netto mutamento nel suo tono. Il 10 giugno ebbe luogo l’ultimo incontro, nel corso del quale Mehmet pascià «in materia della pace prese termini così alti e disonesti, che diede chiaramente a conoscere la mutazione del suo pensiero», e dette licenza al Ragazzoni di ripartire quando voleva. Il congedo fu estremamente cerimonioso; Mehmet avvertì i veneziani di non fidarsi dei principi cristiani, e aggiunse che se la Repubblica, anziché comportarsi da nemica, si fosse risolta «a tenersi con la mano a un lembo della veste del suo signore, che non solamente la sarebbe vissuta in una perpetua quiete, ma che avrebbe potuto disegnare ancora a qual impresa le fosse parso contra gli altri principi». Ragazzoni replicò cortesemente d’essere comunque soddisfatto della sua missione, «avendo avuto occasione di vedere il maggior principe del mondo, e di conoscere e negoziar con il più savio, giusto, prudente e valoroso governatore di un imperio che oggidì viva in terra».

Ma prima della sua partenza il clima fece ancora in tempo a deteriorarsi. Selim ritornò sulle decisioni prese a proposito dei mercanti, facendo sapere agli inviati veneziani che non si fidava di loro e che perciò non avrebbe ordinato il dissequestro delle merci se prima non avesse saputo che a Venezia era stato fatto lo stesso; tanto più che fino a quel momento i mercanti veneziani nell’impero ottomano erano comunque rimasti in libertà, mentre i levantini a Venezia erano agli arresti. Per maggior sicurezza, Selim propose di condurre da entrambe le parti tutti i mercanti e le loro mercanzie a Ragusa, o anche a Zara se i veneziani preferivano, e lì effettuare lo scambio. Ibrahim bey spiegò che era stato il Migues a mettere in testa quest’idea al sultano, e può anche darsi che fosse così, non tanto per odio verso Venezia, quanto per sana diffidenza in una questione così rilevante. Il Ragazzoni e il Barbaro ci rimasero malissimo, protestarono che quello non era un modo dignitoso di negoziare, e conclusero che a tali condizioni non valeva la pena di firmare; era meglio che ser Iacopo tornasse in patria a riferire.

Di fatto, la missione del Ragazzoni non aveva portato ad alcun risultato concreto, e il suo ritorno a Venezia fu assai lontano dalle aspettative che avevano circondato la sua partenza. Partito da Costantinopoli il 18 giugno, arrivò a luglio a Ragusa, dove trovò una galera veneziana, la Trona, che si era rifugiata in quel porto inseguita da corsari turchi. Ormai abituato a negoziare, ser Iacopo prese contatti con quei corsari, ottenendo la garanzia che lo avrebbero lasciato ripartire a bordo della galera, e non avrebbero molestato gli spaventatissimi ragusei. La galera, però, si scoprì così malconcia che il Ragazzoni rifiutò di imbarcarsi, e rimase ad aspettare un altro passaggio; da Venezia volevano scrivergli di restare lì, per evitare che il suo arrivo risollevasse nelle capitali alleate il sospetto che la Signoria volesse fare la pace col Turco. Alla fine gli scrissero di fare un po’ quel che voleva, e «che se ne venesse con quel commodo che gli paresse». Quando infine arrivò a Venezia, il 9 agosto, le operazioni militari si erano spinte così avanti che della sua missione non importava più a nessuno; gli restava la soddisfazione, come scrisse malignamente il Facchinetti, d’essere «stato con molte carezze trattato da’ Turchi»21.

A Costantinopoli, il Barbaro rimase più perplesso che mai, roso dal dubbio di non aver interpretato bene le ultime istruzioni ricevute, e sempre più solo. Pochi giorni prima della partenza del Ragazzoni la peste, che d’estate serpeggiava sempre nella metropoli sul Bosforo, era comparsa in casa d’Ibrahim bey; prima era morto qualche servitore, poi s’era ammalato il padrone di casa, e il 17 giugno era morto. Con lui scompariva un uomo prezioso, che aveva svolto un ruolo decisivo in tutte le trattative fra il Barbaro e Mehmet pascià. La perdita del dragomanno fu un problema anche per il gran visir, perché in assenza di Mahmud bey, trattenuto a Venezia, il polacco era l’unico fra i suoi collaboratori che sapesse l’italiano; può sembrare incredibile, ma il bailo asserisce formalmente che «a questa Porta hora non si ritrova alcuno che sia buono da servire per dragomano, né che sappia legger una lettera». Quando arrivò a Costantinopoli un pacchetto di lettere da Candia che era stato catturato su una fusta veneziana, ricchissime di informazioni preziose sulle difese dell’isola, Mehmet pascià non seppe a chi rivolgersi per farle tradurre se non a rabbi Salomone Askenazi; soluzione catastrofica, perché il dottore, che era sì amico suo, ma ancor più del Barbaro, si offrì di non tradurre le informazioni più delicate, fece sparire «bellamente» una lettera cifrata, e ne sostituì altre due, sempre in cifra, dei rettori di Candia con altre false preparate apposta dal bailo.

In quei giorni capitò a Costantinopoli Marco di Scassi, dragomanno del console veneziano ad Alessandria, venuto a sollecitare l’ordine di dissequestro delle mercanzie; Mehmet, che l’aveva conosciuto quando era pascià di Aleppo, gli propose di farsi turco e gli offrì il posto di Ibrahim bey. La scarsità di personale istruito alla Porta era tale che il gran visir reiterò la proposta con fastidiosa insistenza, tanto che lo Scassi, poco tranquillo, preferì ripartire in gran fretta per l’Egitto. Ma quanto a collaboratori, il bailo non stava affatto meglio: al suo arrivo il baliaggio impiegava tre dragomanni, ma il dragoman grande, Ludovico Marucini, era morto dopo una lunga malattia, che aveva costretto i medici ad amputargli una gamba in cancrena; Mateca Salvago era ripartito col Ragazzoni, e gli restava solo un interprete, messer Pasquale Naon, membro come gli altri d’una famiglia levantina che per tradizione serviva i baili. Era poco, e il Barbaro propose anche lui allo Scassi di fermarsi al suo servizio, rimanendo assai deluso quando l’altro ripartì.

Non si può non restare colpiti dal fatto che in una società multietnica e meticcia come quella mediterranea, piena di gente che si muoveva, di emigrati e di profughi, di mercanti e di rinnegati che parlavano più lingue, e nei cui porti era entrata in uso addirittura una lingua artificiale e imbastardita con cui tutti più o meno si capivano, i governi delle maggiori potenze dimostrassero una tale orgogliosa impermeabilità alle lingue altrui, una tale indifferenza verso la necessità di disporre, ai vertici, di personale adeguatamente istruito. Se avessero avuto bisogno di intavolare di nuovo trattative importanti, il gran visir e il bailo si sarebbero trovati in grave imbarazzo; coll’avanzare della stagione estiva, però, l’ora era più favorevole alle armi che ai negoziati22.