15. Dove la flotta cristiana si spinge fin quasi a Cipro, poi apprende la notizia della caduta di Nicosia e ritorna ignominiosamente indietro, mentre in patria comincia la caccia ai colpevoli

Ai primi di settembre, l’ottimismo e la concordia regnavano ufficialmente fra i comandanti delle flotte cristiane, e traboccavano dai bollettini che essi inviavano in patria, col risultato che per tutto ottobre le capitali italiane continuarono a cullarsi nell’attesa della vittoria. A Roma il cardinal Rusticucci ricevette lettere del Colonna, del 3 settembre, con l’avviso «che le galere erano tutte insieme – Dio gratia – con molta allegrezza del generale de’ signori Vinitiani [...]. Che ’l Signor Dio le conduca a salvamento et con quella vittoria che ognuno spera animosamente!», concludeva commosso il cardinale.

A Venezia giunsero lettere dello Zane del 5 settembre, con l’avviso «che doveano partire alli VII per andar a trovare l’armata nimica»; che a Candia si era infine reclutata gente a sufficienza, per cui «ciascuna galera delle sue havea cento soldati et erano tutte interzate di remigi, eccetto XX che haveano dall’albore in su due galeotti per remo solamente, il che è riputato cosa di poca importanza, andando massime per combattere et non per fuggire»; infine, ed è il colmo, «che tra quei capi era grandissima unione». Lettere del Doria confermarono qualche giorno dopo che la flotta era uscita in mare ed era certamente più numerosa di quella di Pialì, il quale, secondo le informazioni raccolte, «con 160 galere fornite et altri legni che arrivavano al numero di 200 vele, veniva per affrontarsi con le nostre [...]. Piaccia al Signor Dio che sentiamo presto la tanto desiderata nuova della vittoria», si augurava pieno di speranza il nunzio Facchinetti1.

In realtà, la decisione di partire da Creta venne presa fra ritardi ed equivoci. Vi contribuirono le riserve al limite del tradimento nutrite dal Doria, di cui il Colonna s’era accorto fin troppo bene: «il signor Giovanni Andrea teme di noi come dell’inimico», scriveva in una lettera privata, e allo Zane confidò addirittura che il genovese, sebbene a parole appoggiasse la decisione di dare battaglia, in realtà «non vuole in alcun modo combatter». Il giorno prima di salpare, il generale pontificio ebbe un lungo colloquio col generale veneziano, in cui gli disse fuori dai denti quello che pensava del «signor Gioan Andrea». Il Colonna si diceva sicuro che il re non c’entrasse nulla con la doppiezza del genovese, ma la sua fiducia doveva essere un po’ scossa, «perché disse: voglio parlar alla libera con Vostra Eccellentia. Io son servitor del Re, quando Sua Maestà havesse intentione di non proceder schietto, io non vorrei esser suo ministro in questo». Marcantonio consigliò allo Zane di mescolare le galere del Doria con le veneziane al momento della battaglia, per costringerle a combattere, e aggiunse che se si fosse consentito al genovese di tenere riunite insieme su un’ala tutte le sue galere, «che sono tutte galere scielte, saressimo espediti» – che in italiano moderno vuol dire: saremmo sistemati. Gian Andrea, assicurò il Colonna, sarebbe stato ben contento se i veneziani avessero perduto 70 o 80 galere, perché allora la sua squadra sarebbe rimasta la più forte, e il re avrebbe avuto più bisogno di lui, e gli avrebbe aumentato la provvigione: se il gioco gli riesce, concluse Marcantonio che aveva fatto i suoi calcoli, nel giro di qualche anno «restarà ricco d’un million d’oro».

Lo Zane ci rimase male: fino a quel momento si era lasciato impressionare dalla retorica del Doria, il quale, dopo aver fatto notare che le sue galere mancavano di biscotto, aveva avuto la faccia tosta di dichiarare «che non dimandava pane nell’andar a combatter, perché loro mangiarebbero cuogoli et sassi per andar a combatter, ma ne dimandava per il retorno»: e il generale veneziano ne aveva concluso che la sua volontà di dare battaglia era sincera. Ma anche i veneziani agivano con doppiezza: lo Zane, che di fronte agli alleati s’era sforzato in tutti i modi di nascondere la debolezza delle sue galere, nelle lettere segrete al Consiglio dei Dieci denunciava la lentezza con cui i rettori di Creta consegnavano gli uomini promessi, «anchor ch’io cridi et protesti», e al momento di salpare per Cipro scrisse a Venezia confessando di trovarsi «in confusione et desperatione per la mortalità che continua nell’armata»2.

Il consiglio di guerra del 5 settembre aveva partorito la decisione di lasciare la baia di Suda, che si trova nella parte occidentale dell’isola, e radunare le squadre nel porto di Sitia, all’estremità orientale di Creta. Lì si sarebbe fatta una grande rassegna della flotta, esaminando le galere una per una, per accertare le forze disponibili: un’idea introdotta da Gian Andrea, che in questo modo sperava di far emergere le insufficienze dell’armamento veneziano. L’uscita dalla baia di Suda avvenne tre giorni dopo; dopodiché si impiegò addirittura una settimana per giungere a Sitia e preparare le galere per la grande ispezione, che ebbe luogo il 15. L’indomani, il Doria indirizzò al Colonna un lungo promemoria, che in seguito si preoccupò di far stampare e che ebbe larga circolazione in Italia. In questo testo, l’ammiraglio genovese esprimeva tutta la sua diffidenza nei confronti dei veneziani, insieme alla convinzione che l’impresa era nata male e sarebbe finita peggio.

Il Doria scrive, senza pudore, che pur informato delle cattive condizioni in cui versavano le galere veneziane aveva considerato finora «molto necessario et conveniente che le galee di Sua Maestà arrivassero in ogni modo ad unirsi con esse, per le molte cure et protetioni che Sua Maestà tiene di quella Repubblica». Ora però – continua – la rassegna fatta per sua insistenza aveva rivelato tali carenze da costringerlo a cambiare parere. Aveva preparato le sue galere per l’ispezione facendo issare a bordo tutte le scialuppe, in modo che non vi fosse comunicazione fra una galera e l’altra, e presentato la flotta di Sua Maestà Cattolica in ordine di battaglia, «non sopra il porto, ma in alto mare, come si usa nella militia marina». Ma i veneziani avevano presentato le loro galere in porto, «con le poppe in terra», in modo tale che potevano comodamente far passare gente da una galera all’altra. Il Colonna, benché avvertito dal Doria dell’inganno, aveva accettato di ispezionarle così; «et tra tutti ne potemmo vedere in tutto hieri fino a 60, nelle quali si è trovato che manca fino un tercio della ciurma, et che i soldati et marinari, buoni et tristi, l’una per l’altra non passano il numero di ottanta huomini»: molto meno, cioè, di quello che pretendevano i veneziani.

A questo punto il Doria procedette ad analizzare la situazione strategica, che secondo lui offriva ben poche speranze di vittoria. Le due galere del Quirini, mandate in cerca di informazioni, erano tornate da Scarpanto con la notizia che la flotta nemica non contava più di 150 o 160 galere; anche se fosse stato vero, il vantaggio numerico della flotta cristiana non era tale da compensare il rischio. Cogliere i turchi di sorpresa era fuori discussione, «con tanti imbarazzi di galeazze e di galee zoppe», sottolineava il Doria, che delle pesanti galere grosse veneziane, armate fino ai denti ma così lente da dover spesso essere rimorchiate, non sapeva evidentemente cosa farsi. Il nemico, continuava il genovese, ha mandato più volte i suoi legni in ricognizione e a quest’ora sa benissimo che le nostre flotte si sono riunite, per cui non starà ad aspettarci; se invece decideranno di accettare la battaglia, lo faranno dopo aver imbarcato sulle galere il maggior numero possibile di soldati dall’esercito di terra, e così stando le cose, concludeva freddamente il Doria, «a me non pare che si possa vincere»3.

Lo stesso giorno, 16 settembre, Gian Andrea scrisse al suo confidente e alleato, il marchese di Pescara, sfogando tutta la sua bile nei confronti del Colonna. «Il signor Marcantonio si governa in modo che par nato venetiano et poco si cura dell’armata del re di Spagna»; quanto a me, racconta il Doria, ho fatto tutto quello che potevo, tranne «dir che non voglio andar a Cipri», che è l’unica cosa che l’onore mio e del re impedisce di dire. «Metter difficoltà delle vettovaglie l’ho fatto et me n’hanno provisto; dir il mal ordine che è ne l’armata venetiana [...] l’ho detto, ma Marc’Antonio ha fatto molto manco conto delle parole mie et ricordi di quello che il re s’imaginava». Io però so, continua il Doria, di non voler perdere la flotta che il re mi ha affidato; bisognerà tirare la fine di settembre, dopodiché «mi licentiarò, et tra qua e là pregarò Dio mi aiuti». La sensazione di aver giocato le sue carte migliori e di avere perduto non lo abbandonava; la stessa sera scrisse alla cognata Costanza: «suo cognato travaglia non solo col corpo, ma con l’animo et sta in punto di giocar il resto con triste carte»4.

La verità è che all’ispezione di Sitia Gian Andrea era l’unico ad aver interesse a sottolineare che le galere veneziane erano così a corto di uomini da ritrovarsi “zoppe”. L’anno seguente, durante il processo celebrato a Venezia contro lo Zane, Marcantonio Colonna fu chiamato a testimoniare e dichiarò che lui, il Santa Cruz e il Cardona erano stati soddisfatti di quello che avevano visto. Cencio Capizucchi, capitano al servizio del Colonna, che era andato col Doria a ispezionare le galere del provveditore Celsi, dichiarò che Gian Andrea pretendeva di non aver visto uomini a bordo; ma lui gli aveva ribattuto: «Guardi bene, che ne sono». In verità, che le galere veneziane fossero a corto di uomini lo ammise lo stesso Zane nel suo rapporto al Senato: tutte avevano, se non i cento promessi, almeno ottanta uomini da spada, ma quanto a rematori ce n’erano parecchie messe male, e Gian Andrea – commenta stizzito lo Zane – era andato a vedere proprio quelle. Ma i romani e gli spagnoli avevano una gran voglia di andare a combattere e coprirsi di gloria, sicché il genovese si ritrovò isolato, e dovette accettare la decisione del consiglio: che fu di portarsi nelle acque di Cipro, cercare riparo nel porto turco di Finike, e lì restare in agguato per sorprendere la flotta nemica5.

Gian Andrea non era l’unico a dubitare della saggezza di questa risoluzione; anche Sforza Pallavicino temeva che ne sarebbe seguita «la total rovina della nostra armata». Le galere del Quirini, ripartite un’altra volta in cerca di informazioni, non erano andate oltre Rodi; non avevano mai incontrato davvero la flotta turca, né riportato notizie sicure, ma soltanto voci. Così stando le cose, pareva al Pallavicino che fosse troppo arrischiato spingersi alla cieca nelle acque levantine; molto meglio dirigersi addirittura a Costantinopoli e cannoneggiarla, il che avrebbe costretto il nemico a interrompere l’assedio di Cipro e accorrere in difesa della capitale. Il Pallavicino aveva avanzato questa proposta stravagante già durante i primi consigli di guerra, e l’aveva reiterata per iscritto prima dell’arrivo a Sitia. Il provveditore Celsi si trovò d’accordo con lui: l’idea di «saccheggiare et distruggere» Costantinopoli gli sembrava eccellente, e i suoi informatori gli riferivano che l’impresa era facilissima. Lo Zane, sia detto a sua lode, non ne tenne alcun conto, e quando, nel consiglio tenuto dopo l’ispezione, il Doria tornò ad esprimere i suoi dubbi, l’ammiraglio veneziano, che nella vita civile era un fortunato uomo d’affari, offrì sprezzantemente di assicurargli le sue galere con «polizze da cento scudi», nel caso che avesse paura di arrischiarle in battaglia6.

In ogni caso il comandante supremo era Marcantonio Colonna, e il principe romano non condivideva affatto i dubbi del Doria. I greci di Scarpanto avevano riferito che la flotta nemica «era ridotta a 150 galee, e che mai ne contò 161; né mai Uccialì e i corsari di ponente ad essa si unirono», e il Colonna era disposto a crederci. È vero che lo Zane alla fine si era risolto a disarmare cinque delle sue galere peggio equipaggiate e qualcuna delle navi da trasporto, e il Colonna aveva disarmato una delle sue, sicché in tutto la flotta cristiana contava ora 180 galere, 11 galeazze, un galeone e 6 navi, ma ce n’era sempre a sufficienza per affrontare la flotta nemica con «buona speranza di sbaragliarla». La fanteria imbarcata era anch’essa poderosa: 1100 fanti sulle galere pontificie, 3500 sulle spagnole, 8561 sulle veneziane, insomma, come scrisse il Colonna, «molto più artiglieria, e più gente armata che non usano li Turchi». Perciò nella notte dal 17 al 18 settembre la flotta salpò da Sitia, «con molta confusione» secondo il Pallavicino, dopo aver fatto acqua e caricato bestiame vivo per garantirsi la massima autonomia operativa7.

La sera della partenza, scrivendo al viceré di Sicilia, il Doria tenne a chiarire che non aveva paura dei turchi («P.S. Temo più al tempo che alli nimici», aggiunse in un poscritto), ma era preoccupato per la troppa fiducia che i suoi colleghi accordavano ai rapporti circa la forza della flotta avversaria. Ormai si andava a Cipro, ma prima di accettare battaglia era indispensabile scoprire se gli ammiragli ottomani avevano riarmato le loro galere, «sapere se l’armata ha imbarcato della gente di terra et il numero di forze di essa». Durante il primo giorno di navigazione, Gian Andrea scrisse a un altro dei suoi corrispondenti reiterando lo stesso concetto: «questa armata de’ Venetiani è disarmata et dal combattere con l’armata nimica, se si valesse dell’essercito che ha in terra, se ne potria aspettar tristo esito».

Ma il Doria si stava persuadendo che se il Colonna, nella sua abissale inesperienza, non capiva niente della situazione reale, i veneziani erano abbastanza esperti per capirla, e che in realtà nemmeno loro avevano voglia di combattere. A metterlo di malumore non era quindi l’eventuale pericolo, quanto la gigantesca perdita di tempo: «vado di malavoglia perché, sebene non temo di male, non spero di bene, mercé delli magnifici che a mio parere hanno poca voglia di veder l’armata nimica». Dopo tutto, e qui è difficile dargli torto, non era colpa sua, ma dei veneziani se le flotte riunite avevano indugiato diciotto giorni a Creta. I «magnifici», concluse, «bravano, a mio parere, in credenza et con speranza che l’armata se n’andarà», e anche lui pensava che Pialì se ne sarebbe andato, non avendo nessun motivo di accettare la battaglia; ma se invece il nemico fosse rimasto ad aspettarli, secondo Gian Andrea i veneziani sarebbero stati i primi a ripensarci8.

Il Doria, dunque, che comandava galere da quando aveva 15 anni ed era di gran lunga il più professionale fra i comandanti alleati, era persuaso che l’imbarco di truppe di terra sulla flotta turca per rafforzare i giannizzeri e i sipahi assegnati alle galere poteva fare tutta la differenza in caso di battaglia navale. È necessario avere ben chiara questa valutazione per capire quel che accadde nell’animo dei generali cristiani quando Alvise Bembo, mandato in ricognizione verso Cipro, tornò indietro con due fregate turche catturate e la traumatica notizia che Nicosia era caduta. Era la sera del 21 settembre e la flotta, che secondo diverse testimonianze navigava in grande disordine, era in vista di Kastellorizon, ultima isola orientale del Dodecaneso, a nemmeno tre chilometri dalla costa turca; il tempo si stava guastando e di lì a poco si levò una violenta burrasca. La maggior parte delle galere cercò rifugio nei porti più vicini, ma Gian Andrea, com’era sua abitudine, preferì restare in mare aperto, con grande irritazione di Marcantonio che gli mandò una fregata con l’ordine di venire a raggiungerlo; il Doria rispose che avrebbe obbedito volentieri, «ma il tempo è come Vostra Eccellenza vede et sono sì ben provisto di piloti che in tutt’hoggi non hanno saputo di certo dove erano». Solo il mattino dopo le galere del Doria arrivarono in porto; il tempo era buono e il Colonna, disgustato, annotò che era stata una fortuna: col cielo sereno «non hebbe occasion il signor Giovanni Andrea di appartarse da noi altrimenti, et così se ne ritornò da me»9.

La dispersione della flotta, che solo nella giornata del 22 fu di nuovo tutta riunita, non è il solo motivo per cui l’informazione cruciale portata dal Bembo venne comunicata in ritardo ai comandanti alleati. Lo Zane, ovviamente, era stato il primo a conoscerla; incredulo, fece torturare i patroni delle due fregate, ma i due disgraziati continuarono a dichiarare che Nicosia era caduta. Il primo impulso dello Zane fu di tenere nascosta la notizia, temendo l’impatto negativo che avrebbe avuto sul morale della flotta, ma la voce si diffuse così rapidamente fra gli equipaggi che il generale si rassegnò a condividerla con il Pallavicino e, per forza di cose, col Colonna. Il Doria, arrivato in porto per ultimo, fu anche l’ultimo a venirne informato, e più tardi sostenne con acrimonia di averla appresa dalle voci che correvano, ben prima che qualcuno si degnasse di informarlo ufficialmente. Fra le ciurme, la notizia ebbe esattamente l’effetto che lo Zane temeva: la gente cominciò a mormorare che la flotta nemica ora sarebbe stata troppo forte per poterla affrontare con speranza di successo, e che continuare l’impresa significava condurre la flotta al macello10.

Quando finalmente il consiglio si riunì sulla galera del Colonna per decidere il da farsi, i comandanti veneziani avevano già avuto il tempo di valutare la situazione. Sforza Pallavicino, che anche in precedenza era stato fra i meno risoluti, sostenne apertamente che non era più il caso di andare avanti. Secondo i prigionieri catturati sulle fregate, la flotta turca era più numerosa di quel che si era creduto, «et tanto più potendo hora li nemici rinforzarla di quanta gente vorranno»; il nemico aveva le mani libere, poteva accettare o no la battaglia a suo piacimento, e aveva il morale alto per la vittoria. La flotta cristiana, al contrario, si trovava troppo lontana da casa, senza un porto sicuro in cui rifugiarsi, e la burrasca della sera prima aveva dimostrato la sua vulnerabilità. Perciò, continuare significava mettersi «a manifesto pericolo di perdere se non tutta almeno una gran parte di questa armata».

Il provveditore Celsi, che aveva sempre condiviso i dubbi del Pallavicino, riuscì a tirare dalla loro parte anche l’altro provveditore, il Canal, «con li più straordinari mezzi che si possino pensare», come denunciò Marco Quirini in una lettera confidenziale ai fratelli. Lo Zane sostenne coraggiosamente che bisognava lo stesso «andar a combattere», e provò addirittura a mettere in dubbio le notizie provenienti da Nicosia, ma si trovò isolato, e la decisione finale fu contro di lui. Per non perdere la faccia, tutti dissero che non si trattava di rinunciare all’impresa, ma soltanto di tornare indietro fino a Scarpanto e lì pensare a qualche altra iniziativa, magari contro Durazzo o Valona, luoghi più vicini all’Italia dove lo stesso Doria ammetteva che «avrei potuto trattenermi di più»; dopodiché, la sera stessa del 22 la flotta fece vela in gran fretta verso ponente.

Marco Quirini, scandalizzato da quella «vergognosa fuga», stese un parere contrario, e riuscì a farlo firmare dal comandante delle galeazze e dal governatore delle galere sforzate; col solo risultato di farsi «odiare a morte» dal Pallavicino e dai provveditori, i quali si sarebbero liberati volentieri di lui. Fumante di rabbia e d’angoscia («mi creppa il cuore»), si sfogò raccontando l’accaduto ai fratelli, ma li pregò di non comunicarlo a nessuno, perché rischiava di perdere anche la fiducia del generale: il quale, scriveva, non aveva colpa, se non l’essersi fidato troppo di quei signori che gli erano «stati dati per compagni». In verità la notte della partenza lo Zane, non ancora persuaso, scrisse una lettera al Colonna, invitandolo a convocare una nuova riunione per ridiscutere il da farsi; ma il mare era in burrasca, la flotta che navigava in disordine fu di nuovo dispersa dai venti, e ci vollero diversi giorni perché tutte le galere fossero riunite in porto a Scarpanto.

Ormai era il 26 settembre, e a quel punto Gian Andrea disse chiaramente che il suo tempo era scaduto, e che «dovendo egli andare a svernare tanto lontano» sarebbe tornato in Sicilia, dopo aver accompagnato gli alleati fino a Candia. I veneziani ora temevano d’essere attaccati dal nemico sulla via del ritorno, e insistevano che li accompagnasse almeno fino a Zante. Gian Andrea ribatté che non ce n’era bisogno, «et che l’armata nemica non venirebbe», ma scoprì, con sua costernazione, che Marcantonio era d’accordo con i veneziani. Esasperato da quella che a lui pareva l’incapacità del Colonna di capire come stavano davvero le cose, il Doria accennò per la prima volta «di aver comandi particolari» del re che gli imponevano di badare innanzitutto alla salvezza della sua squadra: e se necessario se ne sarebbe avvalso anche per disobbedire agli ordini del Colonna. Marcantonio, prevedibilmente, si risentì, incerto se credere che l’altro mentiva oppure, ancor peggio, che davvero il re «avesse a lui affidato segreti che a me non palesò», e gli intimò che se davvero aveva un ordine del genere lo mostrasse. Ne seguì uno sgradevolissimo scambio di commenti, che per poco non finì in un duello fra il generale pontificio e uno dei subalterni spagnoli del Doria; dopodiché Marcantonio, sconcertato, finì per concludere «che il signor Giovann’Andrea facesse quel che meglio li paresse». Come il Doria aveva sperato fin dall’inizio, la spedizione di soccorso a Cipro era morta e sepolta11.

Il rientro della flotta cristiana a Creta avvenne nel caos, per la sfiducia reciproca degli ammiragli e per l’ostinazione d’un maltempo che sembrava deciso a perseguitarli. Gli scritti pubblicati nei mesi seguenti dai protagonisti contengono un tale diluvio di accuse reciproche che è impossibile discernere la verità, ma non c’è dubbio che le galere cristiane uscirono molto malconce da quell’esperienza deprimente. Secondo un memoriale fatto circolare dal Doria subito dopo l’arrivo a Creta, già durante il ritorno a Scarpanto la sua squadra fu l’unica a mantenersi unita e ad arrivare in porto senza difficoltà; le altre si dispersero nella burrasca, e i veneziani persero una galera «che fu aperta dal mare et restò affogata». Ripartiti per Creta dopo qualche giorno di furibondi litigi, veneziani e pontifici secondo il Doria «andarono tempestando per mare e seminando galee al solito», tanto che due delle galere pontificie andarono perdute. Il Doria, a sentir lui, partì per ultimo e arrivò per primo al sicuro nel porto di Suda; Marcantonio arrivò quattro giorni dopo, il 4 ottobre, «con la maggior parte della armata così mal trattata, che non si attendeva ad altro che a metterla in porto». Visto lo stato in cui erano ridotte le galere del papa, il Doria ne dedusse che per qualche giorno non sarebbero potute ripartire, mentre lui aveva fretta; per cui si congedò dagli alleati e con la loro benedizione, o almeno così pretende, fece vela già l’indomani per la Sicilia12.

Marcantonio, da parte sua, scrisse al re Filippo per denunciare i «brutti modi» del Doria e accusarlo di aver messo a rischio tutta la flotta cristiana, lasciando esposti gli alleati all’eventualità di un attacco nemico. Con una punta di malafede, il Colonna afferma che l’ammiraglio genovese prima della partenza da Scarpanto «avendo egli voluto ancorare fuori del porto perdé quattro galee», una frase ambigua che può far pensare a un naufragio, mentre si tratta – come risulta dal rapporto dello stesso Doria – di vascelli che il vento aveva allontanato dagli altri, e che vennero poi ritrovati nei giorni seguenti. In realtà, Gian Andrea sapeva meglio di tutti come evitare i pericoli della burrasca: quando aveva appena 16 anni, e comandava 12 galere al servizio della Repubblica di Genova, era stato sorpreso dalla tempesta sulla costa della Corsica e ne aveva perdute 11 in pochi minuti. Quell’esperienza traumatica gli aveva insegnato «quanto facilmente si perdono le galere et il poco che si può fidare di tempi», perché nel giro di un’ora la bonaccia può trasformarsi in fortunale e far naufragare le galere anche in vista del porto. Da allora in poi era sempre stato molto attento a non correre rischi, e in caso di tempesta preferiva restare al largo anziché tentare di guadagnare il porto com’era il riflesso automatico di quasi tutti i comandanti13.

Né il Colonna né lo Zane, politici prestati al mare, avevano la stessa esperienza, e il risultato è che durante il rientro a Creta le loro squadre pagarono al maltempo un durissimo pedaggio, proprio durante la difficile fase dell’avvicinamento ai porti: due galere pontificie si arenarono mentre tentavano di entrare a Candia, e altre 11, otto veneziane e tre del papa, si sfasciarono arenandosi durante il successivo trasferimento verso il più sicuro porto di Suda. Lo Zane dovette comunicare a Venezia che durante il viaggio «s’erano per fortuna rotte X o XII galere, salvandosi però tutte le genti, tra le quali n’erano due o tre di quelle di Nostro Signore»; da questa insistenza sul fatto che almeno gli equipaggi si erano salvati parrebbe che avessero ragione quei cronisti più disincantati secondo i quali le galere spiaggiate «tutte si ruppero», e non quelli ottimisti secondo i quali «alquante ne furono recuperate», ma in realtà durante l’inverno l’energia di Lorenzo da Mula permise davvero di rimetterne in sesto qualcuna14.

Dopo aver deciso di separare il suo destino da quello degli alleati, il Doria ripartì da Creta il 5 ottobre e arrivò a Corfù il 12; da lì attraversò lo stretto fino a Lecce, dove sbarcò una parte della sua fanteria, per poi proseguire fino a Messina. A questo punto la squadra siciliana era arrivata a casa, e Gian Andrea lasciò a svernare in Sicilia anche le sue galere private; quanto a lui, con la sola Capitana accompagnò nel ritorno a casa la squadra napoletana. Giunto a Napoli il 26 ottobre, ripartì subito per Genova e da lì per la Spagna, deciso a raccontare personalmente al re la sua versione dei fatti. Durante tutti quei viaggi sembra che non abbia fatto altro che scrivere lettere: al re, al papa, ai segretari Pérez e Gómez, al viceré di Sicilia, allo Zúñiga, al doge; a tutti raccontò il suo dispiacere per l’impresa finita male, garantì che «quanto si è potuto fare con l’armata di S.M. tutto si è fatto», e che quanto a lui, era tornato indietro solo quando non c’erano più alternative, con molto dispiacere «che questa unione di armata non sia stata di quell’effetto che si desiderava». A seconda del destinatario, aggiungeva commenti devastanti sull’inettitudine del Colonna e dei veneziani, e continuò a farlo a voce una volta giunto a Madrid: «come quello che vorria esser reputato solo al mondo nella sua professione», osservava infastidito l’ambasciatore della Serenissima15.

Avendo deciso di restare fedele ai suoi ordini, che gli imponevano di operare insieme con la flotta veneziana, Marcantonio Colonna non poteva impegnarsi di persona in un’analoga operazione d’immagine. Ma scrisse comunque, da Creta e poi da Corfù, a tutti i corrispondenti possibili, e mandò in Italia il cugino Pompeo Colonna, col compito di giustificare il suo operato e chiarire all’orecchio dei potenti le vere responsabilità del fiasco. Pompeo si mosse così rapidamente che arrivò a Napoli prima del Doria: lì raccontò che il comportamento di quest’ultimo aveva insospettito ed esasperato i veneziani, ma confermò anche la voce che correva già da qualche giorno, per cui quell’estate a causa del tifo «nell’armata veneta erano morte più di 20 milia persone». Il 24 ottobre Pompeo era già a Roma, intento a spiegare a Pio V che la colpa dell’insuccesso era tutta del Doria; il papa gli credette volentieri, e lo spedì a Madrid, coll’incarico di esprimere al re lo scontento di Sua Santità per il comportamento dell’ammiraglio genovese16.

Ciò che bruciava soprattutto a Marcantonio – che era sì il generale pontificio, ma anche suddito e vassallo del Re Cattolico, dal cui favore dipendeva il suo futuro politico – era il dubbio che il Doria non mentisse quando s’era vantato di avere ordini del re che a lui non erano stati comunicati. Il Colonna scrisse a Filippo in tono quasi offensivo, assicurando che lui non ci credeva, ma che sarebbe stato gravissimo per l’immagine del re se altri lo avessero creduto: egli si augurava «che i principi del mondo non sentano mai che Vostra Maestà abbia dato ordini opposti per un medesimo negozio, come non li ha dati». Poi, però, capitarono lettere da Ragusa con una rivelazione clamorosa, che fu subito di dominio pubblico. Pagano Doria, fratello di Gian Andrea, che si trovava convalescente in quella città, aveva scommesso che non ci sarebbe stata battaglia, «perché Giannandrea haveva ordine di Sua Maestà di non lo fare in quest’anno». Di fronte a questa testimonianza Marcantonio aprì gli occhi: quando vi accenna nella sua corrispondenza non contesta più il fatto in sé, ma si limita a deplorare il cattivo gusto dimostrato da Pagano «quando li venne voglia di far questa gentile scommessa»17.

In Italia la notizia che la spedizione di soccorso a Cipro, preparata con tanti sforzi diplomatici e uscita in mare con tante speranze, si era risolta in un fiasco provocò la generale costernazione. «Qui da ieri corre un gran rumore che la flotta cristiana, che si era incamminata, è ritornata senza battere nessuno, e anche senza essere battuta», scriveva da Roma il Rambouillet, il 23 ottobre; «temo che la flotta del Turco sia più potente di come ce l’hanno rappresentata finora, e che gli affari di Cipro siano messi peggio di quel che i veneziani facevano sapere in giro». «Sua Santità ha sentito dispiacere che l’armata di quest’anno non habbia fatto quel progresso che si sperò da principio», scrisse il cardinal Rusticucci al nunzio Facchinetti, incaricandolo di «consolare quei signori et inanimargli acciò che non si perdessero d’animo». Il papa, furibondo, confidò all’ambasciatore veneziano che «questo Gioan Andrea non si è portato bene»; aggiunse che «il Re è di buon animo ma li suoi ministri sono tutti cattivi, et gli faranno far molti errori», e concluse scuotendo la testa: «basta; se ne potrebbono pentire»18.

A Venezia lo sgomento fu ancora maggiore che a Roma. Per prima venne la notizia che Gian Andrea Doria era già tornato in Italia e aveva sbarcato la sua fanteria, «la qual nuova ha traffitto tanto questi signori ch’io non basto a esprimerlo», comunicava il nunzio. Dapprima l’ostilità dell’opinione pubblica si rivolse tutta contro il genovese, accusato di aver fatto fallire l’impresa comune «con tanto danno et ignominia publica». Solo il 7 novembre giunse il rapporto ufficiale dello Zane, spedito da Candia quasi un mese prima, e ritardato dal maltempo che ormai infuriava fra l’Egeo e l’Adriatico. Il generale avvertiva di aver preparato un soccorso da mandare a Famagosta, 1500 fanti imbarcati su quattro navi da trasporto, ma quanto a lui, intendeva portare la sua flotta al sicuro a Corfù, e lì attendere ordini. A questo punto l’irritazione del governo e del pubblico si rivolse anche contro il generale, e si cominciò a discutere se non fosse il caso di richiamarlo a Venezia per chiedergli conto della sua condotta19.

A Madrid «l’acerbissima nova della perdita di Nicosia et del ritorno di tutte le armate senza haver operato alcuna cosa per soccorso di quell’importantissimo regno» arrivò soltanto alla metà di novembre. L’ambasciatore veneziano Lunardo Donà ne rimase così sconvolto che si mise a letto, masticando amaramente sulla «calamità de tempi presenti, pieni de heretici et de arme turchesche». La sua angoscia era accresciuta dalla precisa sensazione che il re, il quale aveva appena celebrato il proprio matrimonio e aveva ben altro a cui pensare, non fosse poi così sconvolto dal ritorno della flotta. Quando trovò il tempo di concedere udienza al Donà, Filippo osservò pacificamente che «il tempo era in effetto tanto inanti che non era possibile di far altro», e anzi lasciò capire che secondo lui era stata un’imprudenza salpare con tutta la flotta da Creta per cercare la battaglia. Pompeo Colonna, giunto a Madrid per difendere l’operato di Marcantonio, scoprì che gli spagnoli non biasimavano il Doria per essere tornato indietro, ma piuttosto il Colonna e lo Zane per aver voluto andare avanti, e consigliò al Donà di guardarsi dai ministri spagnoli, «li quali – disse – daranno tutta la colpa a voi altri»20.