12. Dove i turchi sbarcano a Cipro, i comandanti veneziani commettono i primi errori, si scopre che le orde invincibili del sultano esistono solo nella fantasia degli occidentali, e tutti si preparano per una lunga guerra d’assedio
Un giorno di giugno tre fuste sconosciute comparvero nelle acque di Pafos, che i veneziani chiamavano Baffo, sulla costa occidentale di Cipro. I marinai scesi a terra affermarono d’essere ponentini, e attaccarono discorso con un monaco greco, chiedendogli informazioni che però il sant’uomo non seppe dare. Al momento di ripartire i forestieri s’impadronirono con la forza di due pescatori e li trascinarono con sé a bordo delle fuste, e allora si capì, un po’ tardi, che erano turchi. Qualche giorno dopo, il 22 giugno, dai castelli che proteggevano il porticciolo di Pafos furono avvistate al largo venti fuste, e venne dato l’allarme. Accorgendosi d’essere stati scoperti, i legni ammainarono le vele, accostarono a forza di remi e disparvero dietro il promontorio di San Giorgio. Due notabili greci, il cavalier Rondakis, che comandava la piccola forza di cavalleria albanese stanziata sull’isola, e Nicola Kyrieleison seguirono il movimento da terra con una cinquantina di stradiotti, e videro che le fuste sbarcavano tre compagnie di fanteria presso il casale di Lara, ancor oggi esistente. La cavalleria caricò i turchi prendendoli alla sprovvista, ne ammazzò una trentina e costrinse gli altri a reimbarcarsi in gran fretta; «et se i villani che erano a marina havessero havute armi, sicuramente tagliavano a pezzi tutte quelle genti et guadagnavano le fuste»1.
I prigionieri confessarono che i legni appartenevano a due corsari i quali s’erano uniti alla flotta del sultano, e avevano avuto l’incarico di compiere una ricognizione lungo le coste cipriote. Le autorità di Nicosia erano abituate alle sgradevoli attenzioni dei turchi, e si ricordavano fin troppo bene di quando, neppure due anni prima, Alì pascià aveva fatto scalo a Famagosta, esaminando con grande interesse le fortificazioni e facendo domande imbarazzanti; in sua compagnia, quel giorno, si era presentato addirittura un ingegnere levantino, certo Josefi Attanto, che in passato era stato condannato al remo dal podestà di Famagosta. L’individuo era munito di lettere del bailo a Costantinopoli, che pregavano le autorità cipriote di lasciargli visitare liberamente l’isola, alla ricerca di colonne antiche per la moschea che il sultano stava fabbricando ad Adrianopoli, e con questo pretesto si era trattenuto una decina di giorni, vedendo tutto quello che voleva. Del resto, era opinione comune che spie turche si trovassero da tempo, in incognito, nell’isola, e a gennaio il Barbaro aveva trasmesso addirittura i connotati di due di costoro. Stavolta, però, l’infittirsi delle ricognizioni giustificava il timore che la tempesta si stesse avvicinando a grandi passi2.
A Costantinopoli i preparativi per l’invasione erano stati completati sotto gli occhi di tutti, e il bailo, prima d’essere segregato in casa, aveva saputo tutto quello che c’era da sapere. Già a gennaio il kapudan pascià aveva confabulato davanti a una carta di Cipro con un certo Iseppo, uomo «di assai vivo spirito»: costui era appena tornato da Acri dove cercava colonne per la moschea di Adrianopoli, il che lascia pensare che possa trattarsi di quello stesso “Josefi” che due anni prima aveva accompagnato Alì a Famagosta con un’analoga missione. Da lui, il pascià aveva appreso fra l’altro che non c’era nessun porto a Cipro in cui una grande flotta potesse stare al sicuro, giacché quello di Famagosta, il più importante, poteva ospitare appena 10 galere, e che neppure sulla costa anatolica di fronte all’isola c’erano porti adatti, a causa della scarsità d’acqua. Da parte sua, Mustafà pascià aveva fatto fare «alcuni dissegni dell’isola di Cipro, et dei forti, et alcune machine di legname». Data l’insufficienza dei porti, si era deciso che l’esercito d’invasione sarebbe sbarcato sulle spiagge per mezzo di zattere, e gli ingegneri di Mustafà avevano cominciato a realizzare «certi modelli di zattare di legnami, de quali ne hanno questi fatta tagliar gran quantità per le marine della Caramania». Il Barbaro, che aveva preso visione comodamente di tutto, era convinto che l’invasione potesse essere fermata sul bagnasciuga: i piani che aveva veduto, disse, «riuscirebbero vani, et deboli se quelli di Cipro faranno qualche resistentia a questi nel sbarcare»3.
Coll’avanzare della primavera, e subito prima che il ritorno di Kubad mettesse fine alla sua libertà di movimento, il bailo aveva scoperto ulteriori dettagli del piano, e poté informare il suo governo che l’esercito e i rifornimenti si stavano ammassando nel golfo di Antalya e nell’adiacente piccola baia di Finike, un po’ più a ovest rispetto al castello di Anamur che era stato inizialmente indicato come punto di raccolta; mentre per lo sbarco era stata scelta la zona delle Saline, sulla costa meridionale di Cipro. Per arrivare fin lì la flotta avrebbe dovuto circumnavigare l’isola, ma ne valeva comunque la pena, perché sbarcando sulla costa settentrionale, tanto più vicina ai porti di partenza, l’esercito si sarebbe trovato di fronte la catena montuosa del Pentadaktylos, che sbarra l’accesso all’interno dell’isola; mentre dalle spiagge delle Saline era facile raggiungere tanto Nicosia quanto Famagosta, le due grandi città fortificate la cui conquista avrebbe deciso la campagna4.
Non sappiamo se le informazioni del Barbaro, spedite già all’inizio di maggio, abbiano mai raggiunto le autorità cipriote. Ma che le abbiano ricevute o no, i comandanti veneziani giunsero comunque alle stesse conclusioni dei turchi, e cioè che il luogo più adatto per uno sbarco erano le Saline. Lo sappiamo con certezza, perché quando il moltiplicarsi degli avvistamenti convinse tutti che lo sbarco era imminente, fu deciso che al primo allarme tutta la cavalleria disponibile sarebbe stata radunata proprio alle Saline, per ostacolare il più possibile lo sbarco. Salpando da Rodi a giugno, per andare a imbarcare le truppe tra Finike e Antalya, i pascià ignoravano che il nemico conosceva i loro piani, o comunque li aveva indovinati, e li aspettava esattamente dove essi intendevano andare5.
Abbiamo già visto quali sforzi la costruzione della flotta avesse imposto all’amministrazione ottomana, ma anche per radunare l’esercito d’invasione nei porti della Caramania era stato necessario un immenso lavoro d’ufficio. Bisognava decidere quali e quante delle 196 compagnie di giannizzeri stanziate a Costantinopoli destinare all’impresa, in aggiunta a quelle già imbarcate sulle galere, e organizzare il loro viaggio a piedi dalla capitale fino ai porti d’imbarco. Bisognava diramare gli ordini ai sipahi, i soldati dislocati in tutte le province dell’impero, ciascuno dei quali in cambio d’un timar, il diritto cioè di riscuotere e incamerare le tasse d’uno o più villaggi contadini, era tenuto a prestare servizio a cavallo con lancia e sciabola. Bisognava decidere di quanta cavalleria irregolare c’era bisogno, tenendo conto delle limitate capacità di trasporto della flotta, e mandare ordini ai cadì affinché le comunità balcaniche mobilitassero i loro contingenti. Infine, bisognava decidere se accettare volontari, e a quali condizioni, e inviare editti in tutte le province affinché i sudditi ne fossero informati6.
Ma i soldati non erano tutto. Le artiglierie da assedio erano già state portate fuori dal Tophane, la “Casa dei cannoni” adiacente all’Arsenale, e caricate sulle maone, ma il consumo previsto di polvere da sparo era tale che bisognò farne venire anche dai depositi più lontani. Il beylerbey di Baghdad ebbe ordine di organizzare il trasporto di 3000 cantari di polvere, pari a 162 tonnellate, a dorso di cammello fino a Tripoli di Siria, dove le galere di Murat rais l’avrebbero caricata; il beylerbey di Aleppo, partendo per l’impresa con i sipahi della sua provincia, doveva portarne con sé 1000 cantari, e assicurarsi che le scorte di salnitro rimaste ad Aleppo fossero impiegate per fabbricarne dell’altra. Le comunità cristiane dell’Anatolia dovevano provvedere gli innumerevoli sterratori e zappatori necessari per le operazioni d’assedio; il che voleva dire, di nuovo, verifica di registri, spedizione di ordini ai cadì, allestimento di vettovaglie lungo il percorso e nei porti. Infine, bisognava reclutare nelle città gli artigiani che accompagnavano ogni esercito ottomano: macellai, panettieri, speziali, cuochi, rosticceri, sarti, tessitori, calzolai, sellai, maniscalchi, armaioli, tutti messi a disposizione dalle rispettive corporazioni, che dovevano munirli di tende per accamparsi e delle materie prime del loro mestiere7.
Su questi preparativi il Barbaro, finché gli era stato possibile, aveva inoltrato a Venezia puntuali rapporti. Le prime convocazioni erano dirette alle province più vicine ai porti d’imbarco, e proprio da questa notizia il governo veneziano aveva tratto la certezza che l’obiettivo era Cipro. In seguito le informazioni si erano moltiplicate, e tutte confermavano che le munizioni e l’artiglieria erano avviate verso la Caramania, dove si faceva «provisione di guastadori, gente et camelli», e si reclutavano migliaiadi «Armeni peritissimi da far mine». Solo più tardi si seppe della convocazione della cavalleria timariota nelle province più distanti, segno che il sultano preparava una spedizione di prima grandezza: da Valona fu riferito «che s’inviavano a Costantinopoli i stipendiati della militia turchesca di quei paesi, con ordine distinto di quelli ch’havevano a servire all’impresa di terra et gli altri che dovevano andare su l’armata». Dai registri ottomani apprendiamo che la convocazione interessò anche i sangiaccati dell’entroterra balcanico, benché le autorità locali avessero già il loro daffare per tenere a bada l’insurrezione albanese: in un ordine dell’anno seguente si fa riferimento al rientro «dei sipahi di Valona, di Delvina e di Giannina che erano a Cipro»8.
Coll’arrivo del Buonrizzo a Venezia, alla fine di marzo, si ebbero notizie ancor più dettagliate. Era stato ordinato «che in Natolia si descrivessero otto mille armeni zappatori et dodeci mille asappi per servitio dell’artellaria; et da poi si è datto ordine che si comprino nove mille gambeli (cammelli, N.d.A.) et tre mille mulli per servitio del proprio Signor». Alla partenza del Buonrizzo si credeva ancora che Selim avrebbe comandato personalmente la spedizione: «Io, io in persona vi voglio andare», aveva detto, «battendosi della mano nel petto» – o almeno, così aveva raccontato Mustafà pascià a un amico del bailo. Quando si seppe che il Gran Signore, dopo tutto, non avrebbe accompagnato l’esercito, alleggerendolo così di un’immensa quantità di bagagli, può darsi che i 9000 cammelli e 3000 muli siano stati in gran parte cancellati. In compenso, a Costantinopoli arrivarono centocinquanta «maestri da cavar pozzi», arruolati in regioni diverse; il bailo poté parlare con alcuni di costoro, che erano cristiani, e seppe che anch’essi erano in dubbio circa l’uso che si voleva fare della loro arte: secondo gli uni avrebbero scavato mine o cunicoli per l’assedio delle fortezze, secondo altri c’era bisogno di loro proprio per scavare pozzi e provvedere acqua all’esercito, perché si temeva che «li nostri» avrebbero avvelenato i pozzi già esistenti9.
Preparativi altrettanto complessi erano in corso sulla costa della Caramania, da cui nelle belle giornate si vede il profilo di Cipro. Verso la fine di maggio le autorità cipriote vennero a sapere di imponenti lavori appena completati «in una gola di mare stretta a tiro d’archebuggio, la quale si estende tra terra fra due montagne quindici miglia, et nel fin del canale vi è un altissimo monte con un castello in cima». Sotto il castello, che in base a questa descrizione potrebbe essere quello di Anamur, i turchi avevano costruito tre ponti a forma di mezzaluna, che avrebbero permesso di traghettare truppe, cannoni e rifornimenti per imbarcarli in tutta sicurezza sulle galere. La galera di Niccolò Donà partì da Famagosta carica di fanti, s’inoltrò nel canale e sbarcò i soldati, che «abbrusciaro et fracassaro tutti tre i ponti»10.
Fin dall’inizio di maggio le autorità di Cipro, che sorvegliavano attentamente la costa in faccia alla loro isola, avevano segnalato che in quei porti «cominciava ad arrivare genti»; tuttavia la concentrazione delle truppe sembra essere avvenuta in ritardo rispetto ai piani. La flotta dei pascià era a Finike già il 10 giugno, mentre il Barbaro a Costantinopoli annotava «che qui si fanno universali, et publice orationi per la felicità di questa impresa», eppure la forza d’attacco fu pronta a salpare solo alla fine del mese. Marco di Benetto da Venezia «marangon dell’Arsenà», che era imbarcato sulla nave Bonalda confiscata a Costantinopoli e aggregata alla flotta di Pialì con un carico di biscotto, riuscì a fuggire dopo lo sbarco e a raggiungere Famagosta, dove riferì che la flotta era rimasta circa 22 giorni a Finike «espettando la gente et la cavalleria, la qual giongeva a poco a poco». Altre testimonianze menzionano porti diversi della stessa costa e date più tardive, ma concordano sul ritardo con cui le truppe si presentarono all’appuntamento. Un genovese che si trovava a Costantinopoli sostenne che la data indicata ai sangiacchi era il 17 giugno, ma che quel giorno al porto di Antalya non c’era nessuno, «onde Piali, per lettere, ne fece gran querela col Turco, se ben di lì a 8 giorni scrisse poi che le genti cominciavano a giungere». Quel tal capitano Mizotero che aveva raccolto notizie a Negroponte riferiva invece che il giorno dell’appuntamento era il 24 giugno e il luogo Anamur, dove però la distruzione delle installazioni portuali deve aver ulteriormente ritardato l’imbarco. Sta di fatto che in seguito alle lamentele dei pascià il bey di Caramania venne destituito, il che fa pensare che le responsabilità del ritardo siano state soprattutto locali11.
Mentre si protraevano le operazioni d’imbarco, le fuste dei corsari vennero mandate in ricognizione nelle acque cipriote, incontrando l’accoglienza che già conosciamo: grazie ai prigionieri catturati in quell’occasione, i comandanti veneziani seppero con certezza, e comunicarono d’urgenza in patria, che «l’armata nemica, al numero di 200 vele, si trova a Finica, poco discosto di quà», pronta a far vela per le Saline12. Disponendo di informazioni così aggiornate, un comando energico avrebbe potuto prendere misure risolute per tentar di fermare l’invasione sulle spiagge; ma sull’isola si trovava un gruppetto male assortito di comandanti, nessuno dei quali aveva l’autorità per prendere decisioni difficili e imporne l’esecuzione. Astorre Baglioni era l’unico militare di gran nome, ma il suo grado di governatore generale della milizia di Cipro lo subordinava comunque all’autorità civile; per di più, era stato deciso che dovesse occuparsi personalmente della difesa di Famagosta. In assenza d’un provveditore generale, dopo la morte di Lorenzo Bembo e il mancato arrivo del Venier, il veneziano più elevato in grado era il luogotenente Nicolò Dandolo, il cui incarico era ormai scaduto e che l’opinione pubblica stimava pochissimo; Marcantonio Bragadin era capitano del regno di Cipro, posizione che in tempo di pace comportava la sorveglianza sul sistema delle fortezze e in particolare su Famagosta.
Gli altri militari italiani si trovarono presto emarginati dai notabili greci, i soli che nell’emergenza sembravano in grado di tenere in pugno i contadini e assicurarne la fedeltà al regime; perciò quasi tutti i comandi militari vennero distribuiti fra costoro, a partire dal conte di Roccas, comandante degli stradiotti, cui fu attribuito il comando generale delle truppe con autorità parificata a quella del Baglioni, e proseguendo con Giacomo di Nores conte di Tripoli, maestro dell’artiglieria, Girolamo Singlitico che sostituì il Roccas al comando della cavalleria, e Giovanni Sozomeno comandante degli zappatori. Anche il piano di evacuazione dei contadini verso la montagna, su cui si faceva gran conto, era interamente affidato ai gentiluomini locali, legati fra loro da molteplici intrecci di famiglia e d’interessi: come scrisse il Roccas al Senato, ne furono incaricati «li signori Scipio Carraffa mio cugnato [...] Pietro Paulo Singlitico mio zio, et Gioan Singlitico mio germano»13.
Mentre i comandanti veneziani e ciprioti discutevano su cosa fare quando la flotta nemica si fosse presentata alle Saline, Pialì interrogò i prigionieri fatti dai corsari, e «seppe tutto quello che volle» sui preparativi per la difesa dell’isola. Caricati i loro vascelli di truppe, i pascià fecero vela il 30 giugno, e il 1° luglio l’enorme flotta venne avvistata al largo di Pafos, mentre doppiava il capo occidentale dell’isola e si preparava a risalirne la costa meridionale. Arrivato all’altezza di Limassol, Pialì sbarcò dei soldati, «facendo molti prigioni, e saccheggiando, e abbruciando diversi casali», ma non si fermò, proseguendo subito per le Saline, dove giunse nella giornata del 2. Con una certa incredulità, i pascià scoprirono che nel luogo designato per lo sbarco non c’era nessuno ad aspettarli, per cui «fecero tutti grandissima allegrezza», ed entro mezzogiorno del 3 misero a terra indisturbati le artiglierie e il grosso delle truppe. Per prudenza gli zappatori furono messi subito al lavoro e fortificarono l’accampamento, scavando trincee, innalzando palizzate e mettendo i pezzi in batteria, nel timore di un attacco; ma solo qualche pattuglia di cavalleggeri si fece vedere a prudente distanza. Una di queste squadre di «miscredenti a cavallo», come li chiamano le fonti ottomane, venne messa in fuga e il soldato Süleyman bin Uruç riportò al pascià il suo stendardo col leone di San Marco, per cui venne ricompensato con una gratifica di 2000 aspri14.
Il sollievo dei turchi alla scoperta che le spiagge non erano difese è confermato dalla testimonianza di Marco della Bonalda. Durante il viaggio da Finike alle Saline, fra i sipahi imbarcati sulla nave si era sparsa la voce che il luogo dove dovevano sbarcare era stato minato, e all’inizio non si muovevano sulla spiaggia senza tastare prima davanti a sé, «per vedere se la terra andasse giù». La preoccupazione era tale che durante l’attraversamento dell’ultimo tratto di mare a bordo si pregava sei volte al giorno, invece delle tre consuete; oltre alle mine, ci si aspettava che sulla costa fosse stata piazzata dell’artiglieria, e dopo lo sbarco un sipahi indicò a Marco una collinetta a ridosso della spiaggia, dove sorgeva un mulino, dicendogli che se lì ci fossero stati dei cannoni, non avrebbero potuto sbarcare15.
La scelta di non affrontare gli invasori sulle spiagge è la prima di molte decisioni catastrofiche prese dai comandanti veneziani dell’isola. Come abbiamo sentito, il Barbaro vedendo le zattere con cui Mustafà pascià contava di portare a terra la sua gente si era convinto che «se quelli di Cipro faranno qualche resistentia» lo sbarco era destinato a fallire. A giustificazione di quei comandanti si disse poi che la loro scelta era l’unica possibile, «non potendo per la poca cavalleria che haveano, vietargli la smontata, essendo il circuito dell’isola settecento miglia». Ma in realtà era previsto da tempo che i turchi avrebbero cercato di sbarcare alle Saline, e queste non erano un luogo impervio e difficile da raggiungere, ma al contrario la sede di una delle attività economiche più produttive di Cipro, ben conosciuta da tutti gli abitanti dell’isola16.
La flotta, del resto, era stata avvistata fin dal 1° luglio, due giorni prima dello sbarco, e la prima reazione di Astorre Baglioni era stata proprio quella di concentrare la cavalleria sulle spiagge e dare battaglia. Uscito da Famagosta con 300 archibugieri a cavallo e 150 stradiotti, si era diretto alle Saline, dove prevedeva di incontrare il conte di Roccas, partito da Nicosia con 200 cavalleggeri «e con cento archibugieri italiani sopra altri tanti ronzini», e il cavalier Rondakis, che partendo da Pafos con il resto degli stradiotti aveva seguito da terra il circuito della flotta. Anche se possono sembrare pochi, un migliaio fra cavalleggeri e archibugieri a cavallo, muovendosi velocemente lungo le spiagge, avrebbero potuto rendere la vita molto difficile a un nemico che cercava di sbarcare a bordo di zattere, anche se certamente l’artiglieria delle galere avrebbe aperto il fuoco per coprire l’operazione. Ma i capitani italiani e greci, che nei giorni precedenti avevano litigato perché il Roccas rifiutava di prendere ordini dal Baglioni, sprecarono ore preziose cercandosi a vicenda senza incontrarsi; alla fine, poiché calava la notte, decisero di lasciar perdere, e ognuno tornò a rinchiudersi con i suoi uomini nella fortezza da cui era partito17.
A Venezia si era così lontani dall’immaginare che i comandanti sul posto rinunciassero a contrastare lo sbarco, che le prime voci giunte all’inizio di agosto parlavano di perdite spaventose subite dai turchi. Lo Zane, informato dagli schiavi che fuggivano dalle galere nemiche e in qualche modo riuscivano a raggiungere Candia, assicurò «che nel principio dello smontar in terra furono morti da X in XII mila Turchi». Rimbalzata da Creta a Corfù, e da lì a Napoli, la notizia andò via via ingrossandosi, e quando ritornò a Venezia a settembre si sosteneva ormai che «n’erano morti da 40.000». Era già il 23 settembre quando finalmente giunsero alla Signoria le prime lettere spedite direttamente da Cipro, che la galera di Francesco Tron aveva portato da Famagosta a Candia, e con enorme delusione si apprese la verità: che i turchi erano sbarcati «senza danno alcuno, perché fu risoluto tra i capitani, per non perder gente, che non se li dovesse far resistenza». Quando seppe che il nemico era riuscito a sbarcare senza danno, Cosimo de’ Medici, granduca di Toscana, commentò laconicamente: «Cypro è perso»18.
Una miniatura dalla cronaca del regno di Selim, conservata nella biblioteca di Topkapi, rappresenta lo sbarco delle truppe turche a Cipro. In primo piano, una galera è ancorata nella baia, con i remi sugli scalmi e i vessilli al vento. Sulla spiaggia un pascià, col turbante candido, e un alto ufficiale dei giannizzeri cavalcano in mezzo a squadre ordinate di giannizzeri, con gli archibugi in spalla e gli alti berretti candidi, il cui colore simboleggia la luce dell’Islam. Più indietro si accalcano disordinatamente altri fanti in turbante, armati chi d’archibugio e chi di picca, probabilmente dei volontari. Sullo sfondo, una palandaria col portello di poppa abbassato sta sbarcando una mandria di cavalli, e un paio di sipahi già montati spronano verso l’interno, la lancia in pugno, arco e faretra a tracolla. Sono questi gli uomini che fortificarono la testa di ponte occupata il 3 luglio, e che nei giorni seguenti cominciarono a uscirne per «scorrere, e depredare il paese vicino», cercando di catturare prigionieri e raccogliere informazioni. Ma quante truppe, e quanto agguerrite, aveva davvero ai suoi ordini il serdar, Lala Mustafà?19
La domanda è tanto più necessaria in quanto la leggenda dell’immenso esercito sbarcato dai turchi a Cipro è ancor oggi moneta corrente: anche nella storiografia più seria capita di leggere che l’esercito contava da 70 a 100.000 uomini. Gli autori dell’epoca danno cifre altrettanto mirabolanti, anche se discordanti fra loro: il Calepio, reduce da Nicosia, parlò di centomila persone, compresi diecimila cavalieri; il Sereno, reduce di Lepanto, conferma: «novanta mila fanti»; secondo il Paruta, che ebbe più tempo per raccogliere e comparare informazioni, «si ritrovò essere nell’esercito Turchesco (come i più affermano) cinquantamila soldati a piedi». Anche allora l’opinione pubblica occidentale amava fremere di delizioso terrore all’idea delle sterminate moltitudini che si muovevano a un cenno del sultano, e gli uomini coinvolti nel processo decisionale non dimostravano più spirito critico degli altri, anzi semmai di meno: il Facchinetti sentì dire che oltre a Cipro i turchi minacciavano di attaccare anche Corfù, e riferì che la cosa era possibile, perché per l’assedio di Cipro bastavano 100.000 fanti e 15.000 cavalli, e il Turco volendo era in grado di mettere in campo 200.000 fanti e 60.000 cavalli20.
Sul momento, però, erano circolate valutazioni più modeste, anche se talmente contrastanti fra loro che appare difficile farvi qualche affidamento. Un gentiluomo genovese partito da Costantinopoli a luglio riferì che l’esercito ammassato nei porti contava «XII mila cavalli et 30.000 fanti»; ma secondo qualcun altro, aveva parlato di 34.000 uomini in tutto, di cui 12.000 a cavallo. A Creta giunse notizia che i turchi avevano sbarcato a Cipro «da 40 mila fanti et cavalli». Il marangone dell’Arsenale fuggito dalla Bonalda parlò di circa 50.000 fanti e 3000 cavalli. Il primo rapporto che il Baglioni mandò al suo governo riferì che erano sbarcati 26.000 fanti e 6000 cavalli. Una lettera di Pialì alla moglie, che un confidente del Barbaro sentì leggere in casa del pascià, riferiva che erano stati sbarcati 20.000 uomini e 3000 cavalli. Le cifre, come si vede, divergono soprattutto sul numero dei cavalli, probabilmente perché la cifra prevista sulla carta negli uffici della capitale si scontrò con la scarsità di montature di cui soffrivano i sipahi e con la strozzatura insuperabile rappresentata dai trasporti21.
Infatti, tutta questa gente doveva essere traghettata via mare, e noi sappiamo quanta fatica avesse fatto il sultano per mettere insieme una flotta da trasporto di dimensioni piuttosto limitate. Il Barbaro, che la vide salpare, contò 20 palandarie, 8 maone, 5 navi e parecchi caramussali; le palandarie erano così piccole che a suo giudizio non avrebbero portato più di 20 cavalli l’una. Altre 4 palandarie, giunte in ritardo dal Mar Nero, vennero mandate a giugno a raggiungere la flotta; i mastri andati a fabbricarne nel golfo della Giazza riferirono di averne fatte 12, piccole come le prime. Il marangone della Bonalda riferì che a Finike si erano contate in tutto 50 palandarie da 12 o 13 banchi, capaci di 8 o 10 cavalli l’una; 8 maone, ognuna delle quali portava 200 uomini e 12 cavalli; le due navi veneziane, un galeone, 6 navi “moresche”, 10 “navette” di Chio, 50 caramussali e altre 50 piccole imbarcazioni (“grippi”), oltre a qualche naviglio candiota carico di legname. Non troppo diverso il calcolo fatto a Cipro dal Calepio, che dà 3 palandarie vere e proprie e 40 semplici “passacavalli”, 8 maone, 4 navi turche, le 2 navi veneziane sequestrate, un galeone e 30 caramussali22.
Non è molto, in particolare per quanto riguarda i cavalli: anche accettando le stime del Barbaro anziché quelle più modeste di Marco di Benetto, le palandarie potevano portarne in un viaggio al massimo un migliaio, altri 100 le maone, e 300 le galere, se davvero si corse il rischio di imbarcarne due su ciascuna, come affermano i testimoni ciprioti. Il Calepio aggiunge che cavalli e muli vennero traghettati anche sulle navi, e perfino con barche, ma anche così il totale non può aver superato i 1500 quadrupedi. La capacità di trasporto in uomini è più difficile da calcolare; tenendo conto che le navi, le maone e i caramussali erano carichi di artiglierie, munizioni, attrezzi, legname e vettovaglie si ha l’impressione che la maggior parte siano stati stipati a bordo delle galere, che potevano portare un centinaio di soldati ciascuna: in totale, quindi, circa 20.000 uomini, che è poi la cifra menzionata da Pialì nella lettera alla moglie. Si potrebbe supporre che i legni fossero sovraccaricati al massimo, in considerazione della brevità della traversata, ma i rapporti che i pascià inviarono a Costantinopoli affermavano l’esatto contrario, e cioè che la flotta non aveva potuto salpare a piena forza, perché nei porti non c’erano tutte le truppe che si aspettavano23.
Bisogna però considerare che l’esercito non venne traghettato in una sola volta. Non appena Lala Mustafà si fu fortificato nella testa di ponte, i due ammiragli salparono con la maggior parte dei loro legni, Pialì per i porti levantini di Tripoli e Adana e Alì per il golfo di Antalya, per imbarcare i soldati che continuavano ad affluire sulla costa. La galera Trona, partita da Famagosta il 18 luglio con il rapporto del Baglioni, incrociò la squadra di Alì che ritornava, e valutò che entro tre o quattro giorni le nuove truppe sarebbero sbarcate; il Contarini conferma che sbarcarono alle Saline il 22 luglio, e il giorno dopo il serdar uscì dall’accampamento e iniziò la fase più attiva della campagna. Per calcolare la forza totale dell’esercito bisogna dunque raddoppiare la capacità di trasporto della flotta: e allora appare verosimile che in tutto siano stati sbarcati a Cipro i 35 o 40.000 uomini previsti in origine secondo il rapporto del genovese, raddoppiando la cifra fornita, per la prima ondata, dalla lettera di Pialì24.
Ma una volta ammesse queste cifre, bisogna ancora chiederci quanti fossero i combattenti effettivi. Il Calepio, che prima d’essere fatto prigioniero dai turchi aveva creduto alle cifre mirabolanti che circolavano a Nicosia, rimase molto sorpreso sentendo dire dai suoi catturatori che quanto a soldati di professione, nell’esercito del serdar c’erano soltanto 6000 giannizzeri e 4000 sipahi. Tutti i più informati cronisti italiani, che scrissero negli anni immediatamente seguenti e che spesso non concordano affatto fra loro, accettano queste cifre, confermate anche dal Sozomeno, il quale precisa che il totale venne sbarcato in due viaggi. L’invio di 6000 giannizzeri è perfettamente credibile se ricordiamo che altri 4000 erano stati imbarcati sulle galere, e 1500 vennero spediti di lì a poco in Albania, dopodiché, a detta del Barbaro, a Costantinopoli non ne rimasero quasi più: in effetti, i giannizzeri accasermati nella capitale erano in tutto 12.00025.
Il numero di 4000 sipahi può sembrare basso, ma bisogna ribadire che l’esercito di Lala Mustafà non poteva essere ben provvisto di cavalleria, e non soltanto per i problemi di trasporto su cui abbiamo insistito. Dopo le enormi perdite subite nell’ultima campagna di Solimano in Ungheria, la mancanza di cavalli è regolarmente additata nei rapporti degli inviati veneziani come la principale debolezza dei turchi. Erano talmente sforniti di cavalli dopo il ritorno da Szeget, che i sipahi avevano «urgentissimo bisogno di tempo, et di buoni donativi per potersi metter all’ordine», aveva riferito il Barbaro nell’autunno precedente. «Non hanno cavalli», confermava il Buonrizzo, «perché è cosa certa che da poi la guerra di Seghet non è spachi che habbia cavallo da niente». Il problema era tanto più acuto in quanto i quadrupedi servivano anche per il trasporto dei bagagli; i giannizzeri non avevano nessuna intenzione di marciare senza animali da soma, e non era certo la scarsità di cavalli sul mercato che poteva convincerli a rinunciarvi. Quando, per un’indiscrezione del loro agà, corse voce nelle caserme che la guerra era imminente, i giannizzeri si affrettarono a provvedersi di cavalli col semplice sistema di confiscarli dove capitava, per cui «ne nacquero grandissimi tumulti»; dopodiché l’ordine fu revocato e i giannizzeri furono costretti a restituire i quadrupedi ai proprietari.
Per quanto pochi fossero i cavalli che Lala Mustafà poté traghettare a Cipro, non tutti erano dunque disponibili per la cavalleria; e in questo contesto due notizie del Paruta appaiono sostenersi a vicenda. Il cronista scrive che l’esercito aveva sì 4000 cavalieri, ma soltanto «duemila cinquecento cavalli da guerra, senza altrettanti, e più da soma»; e più avanti annota che i sipahi «hanno perpetuo stipendio per servire a cavallo, ma ne’ bisogni sogliono militare con gli altri fanti a piedi». Il cipriota Sozomeno afferma che i quadrupedi erano 4000, «ancorché la fama fosse di diecimila», ma comprendevano un gran numero di muli utilizzati per il trasporto dei materiali da assedio; il Calepio concorda sulle cifre, anche se crede che i muli, equipaggiati con sella e bardatura, fossero usati dai cavalieri26.
I combattenti veri e propri, appartenenti alla classe militare, armati e addestrati a livello professionale, su cui poteva contare il serdar erano dunque i 6000 giannizzeri e i 4000 sipahi, forse non tutti a cavallo, su cui concordano testimoni e cronisti. Ad essi bisognava però aggiungere «molti venturieri, delli quali non si può sapere il numero», come nota onestamente il Contarini. In effetti nessuno può sapere quanti erano i volontari, e forse non lo sapeva neppure il governo ottomano. Parlando di “venturieri”, infatti, ci si riferiva sia ai soldati a piedi reclutati per la campagna, che nei registri ottomani erano indicati di solito come azap, termine passepartout che si usava anche per i marinai o i serventi d’artiglieria, sia a combattenti che si univano all’esercito senza ricevere paga né razioni, mossi soltanto dalla speranza del bottino. Nelle guerre terrestri gli eserciti turchi comprendevano sempre «molta gente male a cavalo, et si può dire senza arme», reclutata fra le popolazioni balcaniche; costoro vivevano con poco, accontentandosi di «un poco di farina di orzo cotta col latte et una bisaccia con l’orzo per il cavallo», e non erano molto utili in battaglia, ma battendo la campagna davano «ogni incommodità all’inimico». È difficile, però, che l’esercito mandato a Cipro, così dipendente dall’esiguo numero di palandarie, abbia accolto un gran numero di questi irregolari a cavallo; e del resto il Barbaro osserva che l’afflusso di volontari era molto deludente, tanto che si dovette incentivare l’arruolamento offrendo ai cavalieri uno stipendio più alto del consueto27.
I volontari saranno dunque stati soprattutto combattenti a piedi, armati in modo eterogeneo come quelli rappresentati nella miniatura. Non c’era bisogno di avere un cavallo per unirsi all’esercito in questo modo, e anzi neppure di possedere delle armi: molti le ricevevano da un finanziatore con cui poi s’impegnavano a spartire gli eventuali profitti. Anche questi avventurieri, però, non possono essere stati molti, giacché secondo il Barbaro la guerra di Cipro era estremamente impopolare, e in genere il servizio militare esercitava pochissima attrattiva sui pacifici sudditi di Selim: l’anno prima si era fatta molta fatica a reclutare mille soldati da mandare al Cairo, benché fossero molto ben pagati («et è gran cosa da dir, et è pur vera, che sono hormai alcuni giorni che usano in ciò diligentia, et non possono trovar chi vi voglia andare», scriveva il bailo stupefatto). È sicuro che l’afflusso di volontari per Cipro si accrebbe più tardi, quando si sparse la voce delle prime vittorie e del bottino che avevano garantito; ma certamente non stava in loro la forza principale dell’esercito di Lala Mustafà28.
A contendere ai soldati l’esiguo spazio a bordo dei trasporti c’erano poi la moltitudine di artigiani necessari per mantenere operativo l’esercito, gli schiavi e i domestici che tutti i sipahi portavano con sé, e soprattutto gli sterratori e i serventi d’artiglieria, reclutati fra i sudditi cristiani. Secondo il Buonrizzo erano stati coscritti ben 8000 zappatori armeni; ma secondo il Paruta, che è l’unico fra i cronisti ad azzardare una cifra, ne vennero traghettati a Cipro soltanto 3000. Sempre secondo il segretario, che riferiva le notizie raccolte dal Barbaro prima della sua partenza, gli «asappi per servitio dell’artellaria», serventi e mulattieri, erano ben dodicimila, ma anche questa cifra sarà da ridimensionare, giacché in tutto l’artiglieria di Lala Mustafà non arrivava al centinaio di pezzi. In ogni caso, zappatori e artiglieri dovevano essere più numerosi del solito in un esercito che si preparava a sostenere almeno due assedi impegnativi, e il loro numero s’intende compreso in quel totale di 35 o 40.000 uomini su cui concordano diversi rapporti coevi e i nostri pur provvisori calcoli sulla capacità di trasporto della flotta29. Sono cifre assai più basse di quelle messe in circolazione, allora come oggi, dalla propaganda di entrambe le parti, ma anche più credibili: i registri della Porta, con la soprannaturale precisione delle scritture d’ufficio, attestano che durante la sua ultima campagna d’Ungheria Solimano il Magnifico aveva sul libro-paga esattamente 48.316 uomini, e sembra logico che per una campagna a cui il Gran Signore non partecipava di persona, e che per di più richiedeva un complicato trasporto via mare, gli effettivi dell’esercito siano rimasti al di sotto di questo totale30.
Anche 40.000 uomini erano comunque una cifra molto consistente per un esercito cinquecentesco; soprattutto se si considera che tutta questa gente bisognava nutrirla, in un’isola che non raggiungeva i 200.000 abitanti e che nelle annate cattive non produceva abbastanza grano per tutti. Ma da questo punto di vista i turchi furono doppiamente fortunati. Il raccolto del 1570 a Cipro fu così abbondante che si prevedeva di avere grano per tre anni, e i comandanti veneziani, nella loro incompetenza, non riuscirono a impedire che gli invasori se ne impadronissero. A Venezia si dava per scontato che il raccolto sarebbe stato messo al sicuro nei magazzini delle fortezze, ma le autorità attesero l’ultimo momento per ordinare che il grano fosse portato a Nicosia, e quando si accorsero che era troppo tardi escogitarono un editto inaudito, in base al quale chiunque poteva «pigliarsi le biade, ove ne ritrovasse, le quali conducendo nella Città s’intendessero esser fatte sue». Pubblicato insieme all’ordine di evacuazione delle popolazioni verso la capitale e le montagne, l’editto provocò il caos; e mentre molti abitanti delle campagne venivano a rifugiarsi entro i bastioni di Nicosia gran parte del raccolto rimase «fuori ne’ casali con doppio incommodo de’ paesani, per lo commodo che da esse riceverono i nemici»31.
I comandanti veneziani disponevano di forze tutt’altro che insignificanti per fronteggiare l’invasione. Il 1° marzo il nunzio riferiva che i Signori intendevano avere a Cipro 5000 soldati italiani, da aggiungere agli 11.000 miliziani reclutati fra i contadini dell’isola, più 800 cavalleggeri albanesi e altri 500 cavalieri «che per obligo feudale sono tenuti darli i loro feudatarii»32. Questo programma, come vedremo, venne realizzato e addirittura superato, anche se qualche imprevisto sfortunato e parecchi errori di valutazione fecero sì che alla fine le forze stanziate nell’isola risultassero meno agguerrite di quel che si era sperato. Ma per comprendere il perché è necessario che ne esaminiamo separatamente le diverse componenti.
Il nucleo più importante era la fanteria italiana. In tempo di pace, la guarnigione di Cipro contava meno di 2000 soldati; tra l’inverno e la primavera era stata rafforzata coll’invio di altri 1500 fanti, e poi con i 2000 reclutati in Lombardia da Girolamo Martinengo. Questo reggimento, che aveva tanto rincuorato i veneziani quando si era schierato in assetto di guerra sulla piazza San Marco, non aveva però avuto un viaggio fortunato, anzi il suo destino apparve ai cronisti veneziani emblematico dell’intera, disgraziata vicenda della guerra di Cipro. Durante il viaggio il Martinengo, che era uno degli uomini d’arme più popolari a Venezia e su cui la Repubblica faceva grandissimo affidamento, s’era ammalato ed era morto; si rivelava così stranamente profetica la cautela del Senato, che non gli aveva consentito di portare con sé il figlio, affinché in caso di disgrazia «almeno resti in queste parti la imagine di lei, amato da noi come proprio figliolo». Gli strapazzi del viaggio e le malattie che sempre serpeggiavano a bordo fecero strage degli uomini, tanto che all’arrivo «n’erano morti la metà». La notizia fece tanta impressione che si gonfiò progressivamente, e a Genova si disse addirittura che morto il Martinengo, «tutto il presidio ch’egli conduceva, da varia peste fu consumato e distrutto». In realtà, ai primi di maggio ne sbarcarono a Cipro 1290, ma poco cambiava, osserva non senza commozione il Paruta, perché il loro destino era comunque segnato: «tanti, e così valorosi uomini in breve tempo si rimasero tutti estinti, parte da’ disagj consumati, parte dall’arme de’ nemici»33.
Appresa questa ferale notizia, a Venezia si designò un altro militare, Rangone Pallavicino, che si stava imbarcando «come privato, con alquanti soldati a sue spese», e lo si incaricò di raggiungere al più presto Famagosta per assumere il comando della guarnigione al posto del Martinengo; ma ormai era troppo tardi, i pascià erano usciti in mare, e il Rangone, arrivato fino a Candia, non giudicò prudente proseguire. Del resto la malasorte continuava a perseguitare i veneziani con un’ostinazione da far rabbrividire, perché anche il Rangone si ammalò e morì qualche mese dopo il suo arrivo a Creta. Il clima di Cipro, con le sue temperature torride e gli estesi acquitrini, non era migliore, anzi era considerato così infausto che i veneziani si aspettavano che i turchi differissero l’impresa «sin passate le prime acque d’agosto», per non arrischiare le loro truppe nell’afa estiva. Ma a soffrirne più di tutti furono i fanti venuti dall’Italia, che continuarono a morire; al momento dello sbarco turco ne rimanevano al massimo 4200, ma il loro numero diminuiva di settimana in settimana34.
L’altra componente stabile della guarnigione cipriota erano i cavalleggeri di origine albanese trasferiti in permanenza sull’isola, gli stradiotti. In tutte le regioni costiere della Cristianità si era compreso da tempo che il modo migliore per difendere le popolazioni rivierasche dalle incursioni dei corsari consisteva nel mantenere una forza mobile di cavalleria, in grado di accorrere rapidamente dove fosse segnalato uno sbarco. A Cipro era perciò insediato un contingente di stradiotti, al comando del cavalier Rondakis, che abbiamo veduto intervenire con successo contro i turchi sbarcati presso il casale di Lara. Qualche anno prima una relazione aveva denunciato la crescente inefficienza di questi soldati, che erano pagati con assegnazioni di terra e si stavano trasformando in contadini: gli stradiotti, si diceva, badano solo ai loro campi, e proprio nella stagione in cui la minaccia dei corsari è maggiore hanno ben altro a cui pensare, «perché del mese di april è da tagliar li orzi, et de mazo li formenti, et poi da governarli, dalli quali servitii non li rimoveria l’artiglierie, non che le trombette». Per una volta, il governo veneziano aveva accolto il suggerimento, abolendo le assegnazioni in natura e aumentando lo stipendio in contanti, sicché l’efficienza bellica dei cavalleggeri si era di nuovo accresciuta. In tutto ce n’erano circa 800, di cui 5 o 600 a Nicosia e 200 a Famagosta35.
I feudatari dell’isola, italiani e greci, erano tenuti a fornire a proprie spese un altro contingente di soldati a cavallo, ma non si poteva fare troppo affidamento su questo avanzo del regno medievale di Cipro. Una relazione del 1559 afferma che i feudatari non possedevano più d’un centinaio di cavalli; in occasione di un torneo si erano trovati solo tre cavalli addestrati, e i giostratori avevano dovuto alternarsi in sella, sicché la gara era durata settimane. La scarsità di cavalli aveva fatto nascere la moda di cavalcare muli, al punto che le autorità, per scoraggiarla, proibirono di far coprire le cavalle da asini. Negli anni seguenti sembra che qualcosa si sia fatto, imponendo ai feudatari di osservare più precisamente i loro obblighi, e distribuendo provvigioni a soldati disposti a prestare servizio con cavalli propri. Al momento dello sbarco turco il Baglioni poteva contare su almeno «mille tra feudatari, provisionati, gentilhuomini con loro servitori», anche se forse non tutti disponevano davvero di cavalli da guerra36.
Per la difesa era comunque cruciale il contributo della milizia locale, che solo da poco tempo si era deciso di istituire anche a Cipro, come già a Creta. Il reclutamento di queste cernide dava occasione a lamentele, diserzioni ed abusi, ma i notabili locali, che erano incaricati di organizzarle e godevano le relative prebende, promettevano meraviglie. Il Facchinetti riferiva l’opinione corrente a Venezia quando comunicò a Roma che i miliziani ciprioti erano, «come s’intende, molto bene essercitati»37. Vedremo poi quale fosse la realtà; limitiamoci, per ora, a constatare che dal punto di vista numerico il reclutamento delle cernide fu un successo. All’approssimarsi dell’invasione venne levato, in parte a spese di alcuni privati e in parte del governo, un nuovo contingente di contadini da affiancare a quello già in servizio, e se ne improvvisò uno analogo reclutato fra i cittadini, arrivando in totale a 13 o 14.000 uomini. Se aggiungiamo che fra la popolazione locale erano stati reclutati anche gli zappatori, o “guastatori”, come si diceva nell’italiano d’allora, indispensabili nelle operazioni d’assedio, tanto che nella sola Nicosia se n’erano radunati 4000, lo sforzo di mobilitazione appare effettivamente cospicuo38.
Ai numeri imponenti non corrispondeva però un’adeguata efficienza bellica. La gente, secondo il Paruta, «era quasi tutta nuova, e inesperta, e non molto ben fornita d’armi: onde mancando a molti le picche, e gli archibugi, convenivano usare gli spontoni, e l’alabarde». Era dunque una fanteria dall’armamento antiquato e dall’organizzazione tattica superata, certamente non in grado di misurarsi con i giannizzeri. Il Calepio, che vide all’opera il contingente di 2500 uomini reclutato fra gli abitanti di Nicosia, dichiara che per armarli era stato trovato solo un migliaio di archibugi, e anche quelli che riuscirono ad averne uno erano così inesperti da non essere in grado di sparare senza bruciarsi la barba. Reclutati a forza e senza soldo, morivano di fame, poiché erano quasi tutti artigiani, e fra loro serpeggiava il malcontento. La maggior parte rimasero disarmati e vennero usati per lavorare alle fortificazioni, e capitò anche che nascendo una baruffa fra costoro e una compagnia di soldati italiani addetti allo stesso lavoro, «gl’italiani spietatamente con gli archibugi e con le spade ammazarono alquanti delle cernite disarmati», tanto che un italiano venne poi impiccato, e la compagnia trasferita a Famagosta. Non stupisce apprendere dal Paruta che fra le truppe locali solo qualcuno dei volontari nobili poteva stare alla pari della fanteria italiana per «il desiderio della gloria, la fede verso il suo Principe, e la carità verso la Patria»; fra le righe si capisce che tutti gli altri, e in particolare le migliaia di villani appena strappati ai loro casali, davano poco affidamento, e sarebbe stato meglio non metterli alla prova39.
Con 18.000 fanti, anche se solo 4000 erano buoni archibugieri e picchieri italiani e tutti gli altri miliziani male armati, e un buon migliaio di cavalli i comandanti veneziani avrebbero certamente potuto affrontare il primo contingente turco sbarcato alle Saline il 3 luglio, con qualche speranza di successo, ma una decisione del genere significava giocarsi l’isola in una sola giornata, e ci voleva molto fegato per farlo. Sebastiano Venier, che il governo aveva appena nominato provveditore generale di Cipro, lo avrebbe forse avuto, ma il vecchio gentiluomo era ancora a Corfù quando Mustafà mise in mare le sue zattere al largo delle Saline, e quando finalmente poté partire per raggiungere il suo comando anch’egli scoprì che arrivare a Cipro ormai era impossibile, e non poté spingersi oltre Creta.
Una volta perduta l’occasione di affrontare i turchi sulle spiagge, la decisione più facile era quella di rinchiudersi nelle città fortificate, confidando nella capacità di resistenza dei loro bastioni e nel soccorso che prima o poi sarebbe certamente arrivato. Le capacità d’assedio dei turchi erano considerate scadenti, e si dubitava che i loro comandanti, compreso Mustafà, disponessero delle competenze adeguate («per espugnar fortezze ben fatte, ben munite et ben guardate da Christiani, tutti insieme sono stimati pochissimo atti a saperlo fare»)40. Si comprende perciò la fiducia dei capitani nelle imponenti fortificazioni che difendevano le uniche due città davvero importanti di Cipro, la capitale Nicosia e il porto di Famagosta. Quest’ultima era l’unica via d’accesso all’isola e per molto tempo tutti gli investimenti erano stati concentrati lì; pochi anni prima, però, col moltiplicarsi dei segnali inquietanti che arrivavano da Costantinopoli, a Venezia si era deciso di fortificare anche Nicosia.
La città giaceva in mezzo a una pianura, in una posizione che in qualunque altra epoca sarebbe stata giudicata poco adatta alla difesa, ma quella era precisamente la situazione sognata dagli ingegneri militari del Cinquecento, liberi di edificare una cinta fortificata a regola d’arte senza alcun impedimento naturale. Il più famoso di loro, Giulio Savorgnan, era stato mandato a Nicosia nel 1567, quando il governo veneziano s’era convinto che prima o poi i turchi avrebbero attaccato Cipro, e aveva avviato la costruzione d’una poderosa cerchia di fossati, bastioni e rivellini, progettata in ossequio alle teorie più moderne. L’intera periferia della città aveva dovuto essere spianata per lasciare il posto ai bastioni, radendo al suolo case e chiese, spiantando giardini e frutteti. Tutta quella distruzione, come scrisse il Savorgnan in una lettera personale, era indispensabile («non si pò far de manco per raggion di guerra») e i cittadini l’accettavano senza protestare, come una sciagura inevitabile; eppure lo spettacolo era così deprimente da suscitare nell’ingegnere un sorprendente moto di ribellione contro l’arte di cui era maestro: «et questo mio mestiero è molto furfante et crudele, empio et inhumano, et non è possibile menar la cosa più a longo», confidava il Savorgnan41.
L’investimento era stato notato e Alì pascià, al tempo della sua famosa gita a Famagosta, s’era informato se davvero i veneziani stavano ricostruendo la città di Nicosia, trasformandola in fortezza. Avuta una risposta affermativa, osservò soavemente che non ne vedeva lo scopo, visto che nessuno minacciava Cipro, e che se per caso il re di Spagna si fosse messo in testa di attaccarla, il sultano avrebbe aiutato i veneziani a difenderla. Il suo interlocutore ebbe la presenza di spirito di rispondere che l’immenso cantiere serviva soprattutto a dare lavoro ai poveri, che erano numerosi a Cipro, e il discorso venne lasciato cadere. Quando i turchi sbarcarono alle Saline, le fortificazioni di Nicosia non erano ancora completate; ma passavano già per un miracolo di architettura militare. Perciò il luogotenente Dandolo vi si rinchiuse con metà delle truppe, e con «tutta la nobiltà del regno». Il Baglioni si ritirò come previsto a Famagosta, dove almeno avrebbe evitato di litigare col Dandolo, e dove comunque si credeva che i turchi avrebbero compiuto il primo sforzo. Ma Lala Mustafà non aveva intenzione di fare quello che il nemico si aspettava da lui42.
Il 23 luglio l’esercito turco, ora al completo dopo il ritorno della flotta e lo sbarco della seconda ondata, uscì dall’accampamento con tutti i suoi sipahi a cavallo, la colonna dei giannizzeri cogli archibugi in spalla, la moltitudine disordinata degli azap e degli sterratori, l’interminabile fila dei cannoni e dei carriaggi, e anziché avviarsi lungo la costa in direzione di Famagosta si diresse all’interno verso Nicosia, da cui lo separavano due giornate di comoda marcia. Il piano proposto dal capitano del mare, che avrebbe voluto assediare innanzitutto la città portuale, era stato abbandonato già prima che i pascià partissero da Costantinopoli, in seguito a un’attenta valutazione degli aspetti strategici. Mettere l’assedio a Famagosta lasciando gran parte dell’esercito nemico al sicuro dietro i bastioni di Nicosia, libero di uscirne a suo piacimento, di interrompere le comunicazioni tra l’esercito assediante e le navi e di attaccarlo alle spalle, magari in concomitanza con una sortita degli assediati, era decisamente troppo pericoloso. Molto meglio assediare per primo quell’esercito che s’era messo in trappola da solo, e che se non fosse riuscito a disturbare l’avvio delle operazioni d’assedio, avrebbe poi trovato molto difficile uscirne43.
Sulla qualità delle truppe al comando del serdar si può discutere. L’armamento dei suoi cavalieri era sorpassato: il bottino che il capitano Angelo Gatto vide riportare in città dagli stradiotti vittoriosi nelle scaramucce sotto le mura di Famagosta comprendeva turbanti, scimitarre, lance di canne d’India, mazze ferrate. Il marangone Marco di Benetto, interrogato dal Bragadin, riferì che i sipahi «in buona parte sono vecchi, di 50 et più anni, et anco li loro cavalli sono vecchi»; ognuno aveva al seguito un garzone, per lo più cristiano e quasi disarmato. I giannizzeri, reclutati attraverso il rigoroso apprendistato della Raccolta, erano più temibili; tuttavia all’inizio del regno di Selim essi avevano ottenuto il privilegio di far entrare nel corpo i propri figli, e gli occidentali si erano subito accorti che gli standard qualitativi ne avevano sofferto. «Questa militia è molto adulterata, et chi la vede, come n’ho veduta io, forse seimille insieme, non la giudicherà mai degna di quel nome tanto famoso et sì temuto da Christiani», osservava un inviato veneziano. Rispetto alle altre truppe turche, che «nel tirrar l’archibuso non riescono più che tanto», i giannizzeri erano gli unici a fare un uso adeguato delle armi da fuoco, e tuttavia qualcuno affermava senza mezzi termini che questa fanteria non «si può in alcuna cosa paragonare ad una mediocre fanteria de’ christiani».
In parte, naturalmente, questi commenti risentono d’un inveterato pregiudizio, e chi li accettasse come oro colato peccherebbe di quello che ormai, sulla scorta delle denunce di Edward Said, si è convenuto di chiamare “orientalismo”. Ma in parte si trattava invece di giudizi tecnici, dati da competenti: quando un autore spagnolo, sia pure in un libro dedicato alla «nefanda e fiera nazione dei Turchi, e al loro ingannevole e crudele modo di guerreggiare», osserva che i giannizzeri, nonostante il loro valore, possono essere battuti dalla fanteria cristiana, con la sua capacità di far cooperare picchieri e archibugieri, riflette la grande raffinatezza che le tecniche del combattimento di fanteria avevano ormai raggiunto in Occidente. Anche Marco di Benetto forniva un preciso dato tecnico quando riferiva al Bragadin che fra i nemici non più di 2000 avevano elmo e giaco di maglia, e solo gli «huomini grandi possono aver qualche pezzo d’armatura»; che i giannizzeri erano gli unici ad usare l’archibugio, «gli altri hanno i suoi archi», e che neppure gli archibugieri, a differenza degli occidentali, erano protetti da morione e corazza. In ogni caso, orientalismo o no, è importante sottolineare che contrariamente a un mito ancor oggi diffuso, alla vigilia di Lepanto gli occidentali non erano affatto soggiogati dal timore dei turchi e della loro pretesa invincibilità: al contrario, erano persuasi di poterli affrontare perlomeno alla pari. «Tutta la loro forza consiste nel gridar, ma non sono huomini da combatter», concludeva sprezzante Marco di Benetto44.
E i turchi, che cosa pensavano? Il Barbaro, tenendo informato il suo governo sull’opinione pubblica di Costantinopoli, aveva sempre affermato che le «voci popolari» giudicavano la conquista di Cipro impresa difficile e pericolosa, oltre a biasimarla come ingiusta, e si aspettavano una guerra lunga e sanguinosa; e se è davvero così, può darsi che all’inizio questa preoccupazione fosse diffusa anche fra i soldati. Se dobbiamo giudicare dalle loro canzoni tradizionali, in genere essi non peccavano d’orgoglio né di vanagloria, sapendo troppo bene che l’uomo non è nulla di fronte alla volontà di Dio. Più che per la vittoria, pregavano di poter ritornare a casa, giacché «il cuore non può resistere in territori stranieri», e uno dei ritornelli favoriti fra i soldati recitava: «Signore, facci tornare al nostro paese natio!».
Ma sapevano anche di essere dalla parte giusta, e che chi combatte per la fede non deve temere: «I credenti gridano ‘Dio!’, gli ipocriti sono annientati». Sapevano di essere «l’esercito dell’Islam» (asker-i Islâm) ed anche l’esercito degli Ottomani, al-i Osman askeri, al servizio della dinastia più potente che avesse mai regnato sulla terra. Fra quei 30 o 40.000 uomini ch’erano venuti a Cipro, la maggioranza erano obbligati a farlo, in cambio degli stipendi elargiti dal sultano, o semplicemente perché erano suoi sudditi; altri, una minoranza, erano volontari desiderosi di bottino o di gloria, con la speranza d’essere celebrati al loro ritorno come gazi, eroi della guerra contro gli infedeli, e magari anche ricompensati con un timar dall’imperatore riconoscente. Tutti speravano di tornare a casa; ma per riuscirci bisognava prima conquistare quest’isola afosa, piena di paludi miasmatiche, e perciò marciarono verso Nicosia, nella calura spossante di luglio45.