21. Dove il Venier esita sulla strategia da seguire, la flotta turca attacca Creta e fa un buco nell’acqua, i cretesi provano a ribellarsi e non ci riescono, i turchi risalgono verso lo Ionio e la flotta veneziana sfugge da Corfù appena in tempo

Quando prese il comando della flotta veneziana, il 1° aprile 1571, Sebastiano Venier trovò a Corfù 28 galere. Con le 34 che lo Zane aveva lasciato a Creta, e la dozzina che pattugliava l’Adriatico, era tutto quello che restava della poderosa flotta uscita da Venezia meno di un anno prima. Per di più, erano in cattive condizioni: il governo assicurava di aver spedito a Corfù numerose maestranze, ma al suo arrivo il Venier trovò soltanto un carpentiere e un calafato. Rispedito Marco Quirini a Creta, il generale cominciò a darsi da fare per rafforzare la flotta. A Zante e a Cefalonia aveva trovato quattro arsili, come si diceva nell’italiano di allora, cioè quattro scafi disarmati, e aveva fatto una tale scenata ai loro sopracomiti che questi non tardarono a mettersi in ordine e a raggiungerlo: tutte e quattro le galere combatteranno a Lepanto. Altri scafi si trovavano a Corfù, e il Venier si accinse a riarmarli. Da Venezia, intanto, arrivavano a piccoli gruppi le galere costruite o racconciate durante l’inverno: 2 erano uscite in mare già a marzo, ben 14 partirono ad aprile, 5 a maggio, 3 a giugno e 2 ancora a luglio1.

Non tutte queste galere giunsero in tempo per unirsi alla flotta prima della partenza da Corfù, e comunque erano meno delle trenta che il Senato aveva deciso di armare: aveva ragione il Facchinetti quando osservava che dopo l’iniziale scatto d’orgoglio l’entusiasmo dei veneziani si era raffreddato. Ma è anche vero che la Serenissima, come tutta l’Italia, stava esaurendo le risorse umane: i rettori del Dominio segnalavano la difficoltà di reclutare rematori fra una popolazione terrorizzata, perché di quelli partiti l’anno prima «pochi ne sono tornati».

Bisognò raschiare il fondo della pentola: alle città della Terraferma venne ordinato di provvedere 2000 galeotti, estendendo un onere che fino a quel momento aveva gravato solo sulla campagna, e per compensare questa richiesta con una contropartita politica si nominarono sopracomiti, eccezionalmente, dei gentiluomini di quelle città, designati dai rispettivi consigli comunali. Il fatto che Venezia accettasse di affidare le sue galere a degli stranieri, che non avevano alcuna parte nel governo della Repubblica, era una tale rarità che il nunzio si affrettò a segnalarlo a Roma: il 7 marzo «misero a banco quattro governatori di galere forestieri: cioè due padovani, un vicentino et un veronese», cui si aggiunsero due settimane dopo «due bresciani et un bergamasco». Sei di costoro, fra cui Gian Antonio Colleoni, discendente del grande condottiero, fecero in tempo a raggiungere la flotta del Venier, e uno, il padovano Pataro Buzzacarino con la sua galera Il Re Attila, sarà uno degli eroi di Lepanto2.

A questo punto il Venier doveva decidere cosa fare, ma la situazione strategica gli presentava una serie di dilemmi. Metà della flotta era a Candia, dove oltre alle 13 galere sforzate al comando di Marco Quirini e alle 21 cretesi con le ciurme a mezza paga lo Zane aveva lasciato una ventina di arsili, da riarmare a cura dei gentiluomini di quel regno. Prima o poi era necessario che la squadra di Corfù si riunisse a quella di Candia, perché se fossero rimaste separate nessuna delle due poteva tener testa alla flotta del sultano. Per il momento, però, le squadre non erano al completo e sarebbe stato autolesionistico uscire in mare senza aver scovato e messo al remo fino all’ultimo galeotto. Finché il nemico non fosse uscito dal porto era necessario aspettare, giacché ogni giorno che passava accresceva le forze a disposizione del Venier; ma appena fosse giunta notizia che i turchi si muovevano, bisognava agire in fretta. Ma quale delle due squadre doveva raggiungere l’altra? Considerando che richiamare a nord la flotta di Creta avrebbe significato lasciare l’isola esposta all’invasione, e fors’anche spingere alla rivolta una popolazione la cui fedeltà era quanto mai dubbia, il Venier era dell’idea di andare lui laggiù con la sua squadra, cercando di arrivarci prima che il kapudan pascià comparisse in quelle acque con forze sufficienti per annientarlo.

La decisione era complicata dagli ordini che arrivavano da Venezia, anche se la frequenza con cui il Facchinetti annota che «del general Veniero non ci è nova alcuna» lascia pensare che il vecchio cercasse di non dare al governo troppe occasioni per ricordarsi di lui. La Signoria era preoccupata per Creta, e voleva rafforzare fin da quel momento la squadra dell’isola, l’unica che al bisogno poteva uscire in soccorso di Famagosta: il 1° maggio giunse a Corfù l’ordine di mandare laggiù altre 15 galere, in modo che ve ne fossero una trentina in perfetta efficienza, in attesa che fossero riarmate quelle dell’isola. Il Venier fece fatica a prepararle, talmente era a corto di rematori; poi trovò un sopracomito che chiedeva il congedo perché gli era morto il padre, e disarmò la sua galera distribuendo i galeotti fra le altre. I 15 vascelli partirono verso la fine di maggio, agli ordini del provveditore Canal: come abbiamo già visto, incrociarono la squadra di Uluç Alì al largo di Modone, e furono abbastanza fortunati da riuscire a evitare lo scontro con le galeotte barbaresche.

Le preoccupazioni del generale erano accresciute dall’indisciplina della gente, acuita dalla depressione per i disastri dell’anno precedente e dalla prolungata inazione dell’inverno. Il governatore di Cefalonia Antonio Eudaimonogiannis, discendente di una delle più nobili famiglie dell’impero bizantino, era uno dei pochi gentiluomini greci del Dominio che avevano ottenuto il rango di patrizio della Serenissima, il che non impediva ai veneziani di storpiare regolarmente il suo cognome. «Il Monogiani», come lo chiamava il Venier, ebbe un diverbio con un capitano di fanteria e gli tirò una stoccata che lo prese alla gola, mandandolo quasi all’altro mondo. Il generale lo fece arrestare; poi, quando vide che il ferito se la sarebbe cavata, gli fece la grazia di imbarcarsi sulla flotta, al comando di una galera cretese. L’Eudemonogiannis si batterà eroicamente a Lepanto, dove perderà uno dei suoi figli, e solo allora il Venier deciderà di chiudere definitivamente il procedimento contro di lui3.

Mentre si dava da fare per ristabilire la disciplina e teneva in esercizio la fanteria con qualche incursione nell’entroterra, il Venier raccoglieva informazioni sull’uscita della flotta nemica. Il 6 maggio ebbe una pressante richiesta d’aiuto da Famagosta, dove Mustafà si preparava a riprendere le operazioni d’assedio; gli ultimi avvisi affermavano che da Costantinopoli sarebbe uscita un’armata di appena un centinaio di galere, e sulla base di questa informazione sbagliata il Venier pensò che fosse giunto il momento di concentrare l’intera flotta a Creta, ancorandola nella baia della Suda, che è il più sicuro porto naturale dell’isola, e rafforzando gli accessi con l’artiglieria. Sommando le galere di cui poteva disporre a Corfù con quelle che pensava fossero ormai state armate a Creta calcolava di averne 94, sufficienti perché il nemico ci pensasse due volte prima di attaccarlo; e «stando lì, pensavo che il nimico non saria andato in Cipro». Ma il Venier non poteva decidere da solo: per ordine della Signoria tutte le decisioni dovevano essere prese a maggioranza in un consiglio che comprendeva anche il Barbarigo, i due provveditori Canal e Quirini e il comandante delle galeazze. I presenti si opposero all’idea del Venier, giudicandola troppo pericolosa, e fu una fortuna, perché la flotta nemica aveva una forza doppia di quel che essi credevano, mentre le galere armate a Creta non erano ancora pronte, giacché «tutti in quel Regno erano stati lenti e pigri ad armare».

Costretto a trattenersi controvoglia a Corfù, il Venier cercò di sfogare in altri modi la sua energia, lamentandosi col governo per le condizioni impossibili in cui era costretto a lavorare, per il cattivo stato dei legni che aveva trovato sull’isola, e perfino di quelli nuovi che arrivavano da Venezia. Quando ne ebbe ventidue o ventiquattro in buone condizioni salpò per una scorreria in grande stile verso i possedimenti ottomani in Grecia, coll’intenzione di razziare vettovaglie e soprattutto uomini da incatenare al remo. Poiché era pur sempre in mezzo a cristiani, anche se sudditi del sultano, il generale ordinò di limitare le devastazioni, e portare via soltanto i maschi: «le donne et putti feci lasciar stare; qualche animale fu rubbato secondo il naturale de galeotti». Ma ovunque sbarcasse scoprì che gli abitanti si erano dati alla macchia, perché anche le galere turche erano arrivate in quelle acque e cercavano di far gente.

Il nemico, dunque, era uscito in mare e l’Egeo non era più sicuro. Eppure il Venier restava dell’idea che la mossa migliore fosse di trasferirsi appena possibile a Creta con tutta la squadra di Corfù. Ma la felice conclusione delle trattative per la Lega cambiò di colpo il quadro strategico, perché ora si poteva contare sull’arrivo della flotta spagnola e pontificia, che avrebbe raddoppiato le forze disponibili e permesso di dare battaglia al nemico in condizione di vantaggio: dunque era indispensabile non mettere a repentaglio la squadra prima di quel momento. Alla fine di maggio, appena giunta la conferma che il trattato era firmato, la Signoria ordinò al Venier di non muoversi da Corfù, «aspettando d’unirsi con le galere del Re Cattolico». A Zante, mentre tornava dalla sua infruttuosa scorreria, anche il generale aveva avuto la notizia della conclusione della Lega, «per la quale fu fatta grandissima festa»; rientrò dunque a Corfù, e tenendo a freno il suo carattere bellicoso si preparò ad aspettare4.

Negli stessi giorni la Porta decise che il quadro della situazione ormai era abbastanza chiaro, e che era il momento di attaccare. La flotta veneziana, divisa in due tronconi, risentiva ancora dell’epidemia ed era a corto di rematori; l’idea che le potenze infedeli, rissose com’erano, riuscissero a firmare quell’alleanza di cui si parlava da più di un anno sembrava remota, e comunque ci sarebbe voluto molto tempo prima che la flotta spagnola potesse farsi vedere in Levante. Anche sul fronte terrestre la situazione si era chiarita: le minacce di guerra in Transilvania erano rientrate, gli Asburgo d’Austria avevano mandato ambasciatori a Costantinopoli con i doni consueti, e l’esercito di Ahmet pascià, a Skopje, poteva muoversi verso il mare per dare l’assalto ai porti veneziani sulla costa albanese e montenegrina. Perteu e Alì ebbero ordine di attaccare innanzitutto Creta, e poi risalire lo Ionio devastando le altre isole in mano veneziana. Arrivati nel canale di Corfù, era probabile che riuscissero a impegnare e distruggere la squadra nemica basata sull’isola; rimasti padroni dell’Adriatico dovevano attaccare le basi costiere, cominciando da Parga, di fronte a Corfù, e risalendo fino a Cattaro, in collaborazione con l’esercito terrestre5.

Si capisce da questi ordini che la Porta era decisa a sfruttare al meglio la schiacciante superiorità numerica di cui, per il momento, godeva in mare. L’assedio di Famagosta non preoccupava più: i rifornimenti ricevuti da Mustafà dovevano bastargli per condurre a termine le operazioni, e la flotta era libera di mirare al cuore del dominio veneziano. A bordo delle galere non c’erano forze sufficienti per tentare un’operazione analoga a quella in corso a Cipro: c’erano, sì, giannizzeri e sipahi, ma mancavano artiglieria da assedio e zappatori, e dunque le operazioni contro Creta e le altre isole dovevano essere puramente dimostrative, per spargere il terrore fra i sudditi veneziani e rafforzare la flotta col bottino e gli schiavi. Ma non appena i pascià si fossero spinti nell’Adriatico, la possibilità di operare congiuntamente con l’esercito di Ahmet pascià avrebbe conferito all’offensiva tutt’altra portata strategica: i porti veneziani che si sgranavano lungo la costa, già isolati col loro ristretto entroterra in mezzo ai possedimenti dell’impero, erano pronti per essere presi e tenuti, e se si fosse riusciti a prenderli tutti fino a Cattaro i veneziani, anziché dominare l’Adriatico, vi sarebbero rimasti imbottigliati.

Perciò la flotta turca, nella prima metà di giugno, salpò da Castelrosso per il viaggio di 300 chilometri che l’avrebbe portata a Creta. Attraversato l’Arcipelago sostò a Milos, poi ripartì con le sole vele di trinchetto, le più basse, per non essere facilmente avvistata a distanza, e giunta alla costa settentrionale di Creta andò a infilarsi direttamente nella baia di Suda, lo straordinario porto naturale dove il Venier aveva meditato di venire a trincerarsi con le sue galere. I soldati messi a terra cominciarono a saccheggiare e bruciare gli indifesi casali della campagna, catturando gli uomini per metterli al remo ed estorcendo informazioni sulla consistenza della flotta veneziana. Qualcosa, tuttavia, andò subito storto. Proprio in quei giorni erano giunte a Creta diverse navi cariche di soldati; secondo qualche cronista arrivarono addirittura quando la flotta turca era già lì, passando sotto il naso del nemico grazie a una miracolosa nebbia mattutina. Erano i 2000 soldati reclutati in Corsica dal conte Pietro Avogadro, «bandito famoso» che si era guadagnato in quel modo il perdono, e dal colonnello genovese Francesco Giustiniani, che s’erano imbarcati a Genova parecchio tempo prima. Era gente dura e che non si tirava indietro: usciti dalla Canea sorpresero le bande dei razziatori messe a terra dalle galere turche, e col fuoco concentrato dei loro archibugi le decimarono, ributtandole in mare.

Irritati per l’inaspettata resistenza, i pascià ordinarono a Uluç Alì, che conosceva quei luoghi meglio di tutti, di uscire dalla baia di Suda e sbarcare gente più a oriente. Bloccato in porto per un paio di giorni dai venti contrari, il beylerbey di Algeri uscì appena possibile e cominciò a sbarcare soldati presso Retimno, da cui gli abitanti erano fuggiti appena le vele dei turchi erano apparse all’orizzonte. Un centinaio di soldati italiani rimasti indietro tennero per un po’ a bada il nemico sparando dalle mura con i cannoni e facendo credere che la città fosse ben difesa, ma quando i contadini catturati rivelarono la verità i turchi si fecero sotto, e i soldati preferirono sgombrare e ripiegare verso la montagna. Saccheggiata e bruciata Retimno, i razziatori sciamarono nelle campagne, ma anche lì si trovarono di fronte i soldati, cui davano manforte i paesani armati, e ovunque vennero respinti. L’impresa si rivelava meno vantaggiosa del previsto, e al ritorno di Uluç Alì i pascià decisero di lasciar perdere. Uscita dalla baia, la flotta fece vela verso occidente sfilando davanti alla Canea, con l’inevitabile lentezza d’una forza così immensa e composita. Le artiglierie della città aprirono il fuoco e qualche galera incassò un colpo: quella del corsaro Giaur Alì ebbe lo sperone troncato di netto da una cannonata. Attraversato il golfo di Canea, la flotta attraccò all’isoletta di Agiou Theodorou, che i veneziani chiamavano il Turlurù, e sbarcò i soliti razziatori. Ma l’impresa non era nata sotto una buona stella: il mare, ingrossandosi, spinse una dozzina di galere ad arenarsi, e tre subirono tali danni da restare «fracassate et inutili».

A questo punto i pascià ne ebbero abbastanza, e decisero di andarsene da Creta. Fecero tirare un colpo di cannone da ogni galera, e innalzarono sulle antenne degli alberi maestri le bandierine che segnalavano agli uomini sbarcati a terra l’ordine di ritornare a bordo. Ma di gente ne ritornò poca, e dopo due giorni, poiché non arrivava più nessuno, il serdar fece fare il conto di tutti i soldati che si trovavano sulle galere. Alla partenza, a ognuno era stata consegnata una fava; ora tutti i presenti le restituirono, e dopo averle contate si trovò che ne mancavano diverse migliaia. Fra Suda e Retimno erano stati catturati 800 schiavi da mettere al remo, ma nel complesso non ne era certamente valsa la pena. Quel che è peggio, i montanari dell’isola non erano insorti, e anzi, vedendo che i soldati tenevano testa con successo ai razziatori, avevano collaborato con entusiasmo allo sterminio delle bande; qualche autore italiano scrisse addirittura che erano stati soprattutto i cretesi, da sempre noti per la loro bellicosità, a respingere il nemico6.

In realtà gli isolani, presi fra l’immensa flotta all’ancora nella baia di Suda e le agguerrite fanterie corse mandate da Venezia, avevano esitato: l’istinto immediato di difendere i loro villaggi dai razziatori contrastava con la tentazione di approfittare della situazione per liberarsi dai padroni veneziani. Anche se il servaggio contadino non era così iniquo come a Cipro, il dominio della nobiltà, equamente divisa fra “nobili veneti” e “nobili cretensi”, suscitava tenaci risentimenti, come pure la presenza ingombrante del clero cattolico. Da molto tempo i cretesi protestavano contro il regime coloniale, che si rivelava incapace di garantire l’approvvigionamento dell’isola e di difenderla dai corsari, «dicendo che saria meglio che fussero sudditi del Turco». Nell’ultimo anno il malcontento era stato aggravato dal massiccio reclutamento di uomini per le galere veneziane: su una popolazione stimata a 219.000 anime, ben 27.000 maschi erano registrati coll’obbligo di servire in galera, e le ripetute convocazioni avevano provocato gravi incidenti. La corruzione e gli imbrogli non solo dei mercanti italiani, ma anche dell’amministrazione contribuivano a rendere esplosiva la situazione, e a Costantinopoli già nell’inverno si accarezzava la speranza che la popolazione dell’isola, all’arrivo della flotta, decidesse di insorgere7.

Sebbene i cronisti italiani, scrivendo dopo Lepanto, abbiano insistito sulla gloriosa resistenza dei montanari cretesi, la corrispondenza di quei mesi racconta un’altra storia. In parecchi villaggi i preti ortodossi, che alimentavano l’ostilità sotterranea contro i padroni cattolici, alla notizia che la flotta turca era entrata nella baia di Suda convinsero i loro parrocchiani che era venuto il momento di sollevarsi, e una folta delegazione di contadini fu mandata a Retimno per prendere contatti con i pascià. A far fallire il progetto fu soltanto la resistenza incontrata dai turchi, che ripartirono troppo presto: i ribelli giunti al mare scoprirono che la flotta non c’era più. Il più ricco e influente gentiluomo dell’isola, Matteo Calergi8, informato di quel che accadeva, radunò i soldati e accorse in tempo per calmare gli animi e rimandare tutti alle loro case. Come altri nobili cretesi, il Calergi era stato criticato per la scarsa collaborazione prestata al riarmo della flotta, e l’anno prima lo Zane lo aveva accusato personalmente di non aver fornito i rematori che gli erano stati chiesti. Ma lo spavento provocato dalla sollevazione abortita fece dimenticare tutto, e una Repubblica piena di gratitudine ricompensò largamente il Calergi, eleggendolo in Senato contro tutte le consuetudini: «et lo faranno anco, per quello che si crede, del Consiglio di X», annotava sbalordito il Facchinetti.

Dopo che la flotta turca si fu allontanata, le autorità provvidero alla repressione. I preti colpevoli di aver sollevato i contadini vennero impiccati, dopodiché, per evitare di esacerbare gli animi, si proclamò il perdono per tutti gli altri. Ma un’inchiesta venne aperta anche contro Marino di Cavalli, da poco nominato provveditore in Candia, e gli altri rettori dell’isola, imputati di «estorsioni, mangiarie, et tirannie». Gli interrogatori fecero emergere un intreccio complesso di faide locali, attriti fra signori e contadini, ammazzamenti e vendette, tanto che alla fine le autorità veneziane si convinsero che la sedizione era stata rivolta contro i nobili più che contro il regime. Ma sul momento l’unica cosa che contava era il rischio che la faccenda si ripetesse e che i turchi stavolta riuscissero ad approfittarne: «piaccia a Dio che siano veramente quietati et non aspettino a scoprirsi al ritorno dell’armata», sospirava il Facchinetti. A chi stava sul posto le prospettive parevano nere: il governatore militare di Creta, Latino Orsini, riferì che il popolo era inferocito per il carico eccessivo degli arruolamenti, e se la flotta turca fosse ripassata di lì, avrebbe avuto «subito a sua devotione tutto ’l paese»9.

Per quanto finita ingloriosamente, la scorreria turca contro Creta provocò grande sensazione in Occidente. Le cifre sull’enorme consistenza della flotta si rincorrevano: a Napoli, dov’era radunata la squadra pontificia, giunse la notizia che «centosettanta galere del Turco» sbarcavano gente nella baia di Suda; secondo il nunzio a Venezia erano «più di 200 legni», ma i rettori di Creta scrissero che c’erano in tutto 250 vele, tra galere, galeotte, fuste e brigantini. A Madrid giunse voce – e da lì venne rimbalzata in Italia – che tutte le 60 galere della squadra veneziana di Creta, barricate nel porto di Canea, erano state catturate, anche se a Venezia nessuno sembra averci creduto. Le cifre degli schiavi presi dal nemico vennero ingigantite: un uomo che aveva tutti i motivi di essere bene informato, il celebre corsaro Romegas, cavaliere di Malta, che combatté a Lepanto sulla galera di Marcantonio Colonna e dopo la battaglia interrogò i prigionieri turchi, parla di ottocento anime catturate a Creta; ma queste diventano ottomila in un opuscolo pubblicato a Parigi, opera di un capitano francese che pretendeva d’essere stato testimone oculare delle razzie10.

In verità, non tutte le notizie erano cattive: schiavi fuggiti dall’armata riferivano che il nemico aveva «molte galee mal ad ordine d’homini da remo et con poche genti da combatter, et con l’infirmità di pettechie»; in altre parole, avevano il tifo a bordo, com’era avvenuto l’anno prima alla disgraziata flotta dello Zane. Il contagio, che già nell’inverno aveva colpito le galere delle guardie e che serpeggiava sulla flotta di Perteu fin dalla sua uscita in mare, continuava a minare il potenziale dell’armata. Ma le conseguenze strategiche dell’offensiva turca erano comunque preoccupanti: se le flotte cristiane non si fossero affrettate a riunirsi, «è pericolo che ’l Turco passi inanzi et si ponga in sito dove possi impedire la congiuntione di dette armate», rifletteva il Facchinetti. A Napoli si pensava che il nemico volesse assediare la Canea, e Onorato Caetani, comandante della fanteria imbarcata sulle galere pontificie, lo sperava addirittura, perché la fortezza era ben difesa e avrebbe resistito; ma era ovvio che in quelle condizioni la squadra veneziana di Candia non avrebbe potuto uscire in mare per congiungersi con gli alleati. Il Venier seppe dell’attacco a Creta il 24 giugno dal cipriota Giambattista Benedetti, uno dei sopracomiti più esperti al servizio della Repubblica, spedito apposta con la sua galera dalla Canea, dove regnava il panico. Apprendendo che la flotta nemica era uscita dai suoi porti, e che era già arrivata così vicina, il Venier si allarmò: due galere mandate a Messina per avere notizie della flotta spagnola vennero richiamate d’urgenza, e tutte quelle in servizio nell’Adriatico ebbero l’ordine di raggiungerlo a Corfù. Ma in ogni caso il generale non poteva pensare di affrontare il nemico in mare con le poche forze di cui disponeva: «trovandomi 55 galee, et mal ad ordine, che potevo fare?»11.

Non soltanto non poteva fare niente, ma la sua posizione diventava ogni giorno più pericolosa. La flotta turca, infatti, dopo aver rinunciato a ulteriori operazioni contro Creta faceva vela verso occidente, e si stava avvicinando a lui. Devastata al passaggio l’isola veneziana di Cerigo, dove i maggiori latifondi erano di proprietà della famiglia Venier, il kapudan pascià fece scalo alla fortezza di Modone, sulla costa del Peloponneso, dove sbarcò prigionieri e bottino; l’intendente dell’Arsenale, che viaggiava con la flotta e ne gestiva la contabilità, lasciò in deposito al comandante locale cinque sacchi di aspri destinati al soldo dei rematori. Poi la flotta si spostò nella vicina baia di Navarino per spalmare, in vista della tappa successiva che l’avrebbe portata alle isole ionie. L’arrivo di quelle centinaia di vele, salutate al passaggio dall’artiglieria dei forti turchi, non passò inosservato: a Corfù l’arrivo delle prime galere a Modone fu annunciato già il 4 luglio, e se ne concluse, correttamente, «che quella fosse l’avant guardia dell’armata turchesca». Quattro giorni dopo, la galera di Giovanni Loredan mandata in ricognizione portò la notizia che il nemico si era avvicinato di un altro centinaio di chilometri, e aveva sbarcato truppe a Zante, bruciando e saccheggiando sistematicamente l’isola12.

Le operazioni contro Zante e poi contro Cefalonia e Itaca, che si trovano poche decine di chilometri più a nord, furono molto più proficue per i turchi rispetto all’incursione a Creta. Le isole erano popolose e poco difese; a Zante il provveditore veneziano riuscì a far riparare la maggior parte della popolazione dentro le mura della fortezza, che non venne attaccata, ma a Cefalonia i turchi rastrellarono sistematicamente l’isola, catturando in massa contadini e pescatori che avevano cercato scampo in montagna. Secondo le informazioni del Romegas vennero catturate 6000 persone; qualche anno dopo una stima più prudente riferiva che nella sola Cefalonia «la passata guerra furono prese forse 2500 anime, e la maggior parte sopra li monti, e se non succedeva la felice vittoria, con la quale si liberarono quasi tutti, senza dubbio quell’isola rimaneva in gran parte diserta». La notizia che le isole erano in fiamme si sparse rapidamente nei porti cristiani, accompagnata però dalla rassicurante menzogna che i turchi non avevano catturato quasi nessuno, e lasciato molti prigionieri nelle mani dei difensori; solo dopo Lepanto si seppe che anche durante la sosta alle isole ionie la flotta era stata investita da una burrasca e aveva perduto altre 4 galere13.

Nei comandi delle flotte cristiane, però – tanto quella veneziana a Corfù quanto quella spagnola e pontificia che si stava radunando fra Genova, Napoli e Messina –, ciò che dava da pensare era piuttosto il fatto che il nemico, pur attaccando dappertutto lungo la rotta, non aveva mai provato ad assediare le città fortificate, accontentandosi d’aver «danneggiato et abbrugiato il paese». Non era una buona notizia, perché significava che i pascià non avevano ordine di fermarsi, ma di andare ancora avanti ed entrare nell’Adriatico. A Napoli, Marcantonio Colonna rifletté inquieto sulla «tardità della unione dell’armata christiana», e sui rischi che correva il Venier trattenendosi a Corfù in un momento in cui le flotte alleate non erano ancora pronte a soccorrerlo. Ne parlò con l’ambasciatore Buonrizzo, e insieme discussero sulla strategia migliore che il Venier poteva seguire. Che dovesse andar via di lì non c’era dubbio, ma le possibilità erano due: andare a Brindisi, da dove avrebbe comunque potuto operare in difesa dell’Adriatico, oppure fare una scelta più drastica e puntare direttamente su Messina, dove le flotte ponentine dovevano fare tappa in attesa di spingersi nel Levante. Alla fine si trovarono d’accordo che la scelta migliore era Messina, e scrissero in questi termini al Venier; dopodiché lo stesso Colonna partì per la Sicilia, dove lo raggiunse la notizia che il 17 luglio «l’armata nemica era in canale di Corfù»14.

Il Venier aveva già capito da solo che era meglio andarsene di lì prima che arrivasse il nemico a sorprendere la sua flotta in porto «e buttarla tutta a fondo», ed era arrivato anche lui alla conclusione che la cosa migliore era andare a Messina: ripiegando nell’Adriatico avrebbe perduto ogni possibilità di congiungersi con la squadra di Candia e con la flotta alleata. Ma bisognava, come al solito, convincere i membri del Consiglio, e non era facile, perché nessuno voleva assumersi la responsabilità di aver abbandonato l’Adriatico, e anche a loro Brindisi appariva un’alternativa rassicurante. Il generale li riunì e chiese «dove dovevo ritirarmi. Tutti sentivano a Brandizzo, et io a Messina, dove niuno di quelli Signori la sentivano». Alla ricerca di un compromesso si discusse l’ipotesi di Taranto, meno esposta di Brindisi ma ancora abbastanza vicina al mare di casa; senonché risultò che quel porto non era abbastanza ben difeso. A questo punto arrivarono le lettere da Napoli, «che discorrevano il mio andare a Messina, et quasi protestavano, che venendo in Golfo, non si congiungeriano», e i signori del Consiglio si arresero.

Il fatto che Venier nella sua relazione al doge, scritta dopo Lepanto, si preoccupi ancora di giustificare quella decisione presa tanti mesi prima dimostra quanto fosse pesante la responsabilità che si prendeva lasciando indifeso l’intero Dominio e la stessa Venezia, per andare a rifugiarsi in un porto straniero. Il governo si aspettava che la flotta ripiegasse a Brindisi, anche se, con preoccupazione molto moderna, non voleva che «si spargesse voce, che questa fosse una retirata»: per evitare di demoralizzare l’opinione pubblica, i Dieci consigliarono al Venier di far credere che Brindisi era stata designata come luogo d’incontro con la flotta del re. È vero che il Colonna aveva mandato a Venezia addirittura un parere scritto, in cui osservava che non sarebbe poi stato un gran male se la flotta turca al completo fosse entrata nell’Adriatico, perché le flotte cristiane avrebbero potuto aspettarla all’uscita, e nel frattempo le galere di Candia potevano soccorrere Famagosta; ma ai senatori, quando era stato letto quel parere, si erano rizzati i capelli in testa. Perciò, si erano affrettati a comunicare al Venier il loro totale disaccordo: non si poteva assolutamente permettere all’armata nemica di devastare il litorale adriatico, «per haverla ad aspettare da poi, fatti questi danni, vittoriosa a Corfù», e il modo migliore per soccorrere Famagosta era di riunirsi con le galere spagnole e dare battaglia in mare aperto15.

Ma il Venier non era in grado di difendere il Golfo. A seconda dei movimenti dei vascelli mandati in ricognizione, egli aveva a Corfù 55 o 60 galere, troppo poche per poter dare battaglia. Inoltre, non era ancora stato raggiunto dalle galeazze riarmate in Istria, anche se le prime sei erano già in viaggio, mentre altre tre si stavano mettendo in ordine. I soldati mancavano: a Corfù c’erano diversi reggimenti italiani al comando di Paolo Orsini, ma i loro effettivi erano molto inferiori a quelli previsti sulla carta e bastavano appena per la difesa dell’isola («non ne havevimo in tutto mille, se ben si pagava, per quanto mi ricordo, poco meno di duemille»). Gli scapoli reclutati in Dalmazia erano troppo pochi, forse solo venti o trenta per galera, come parrebbe di capire dai faticosi calcoli del Venier: «de scapoli in tutta l’armata, a quaranta per galea, mi mancavano 1396, a volerle far a sessanta, che anco erano pochi, bisognavano ottocento». La situazione dei rematori era altrettanto penosa, tanto che il generale disarmò tre delle 13 galere che lo avevano raggiunto dall’Adriatico. Ne ricavò in tutto 376 galeotti, appena 125 per ciascuna, in luogo dei 150 d’ordinanza: il che vuol dire che su quelle galere metà dei banchi avevano solo due rematori anziché tre. Ben 240 dovettero essere distribuiti fra le 10 restanti, che dunque erano arrivate con ciurme egualmente sotto organico: «hor pensi Vostra Serenità di che voglia mi trovavo». Lo sforzo di riempire le galere di uomini, peraltro, non era dettato soltanto dal timore di dover combattere di lì a poco i turchi, ma dal prossimo incontro con un nemico ancora più odiato: il Venier si ricordava «che l’anno passato Andrea Doria haveva voluto venir a vedere le nostre galee», e non voleva dargli il pretesto di criticare un’altra volta l’impreparazione veneziana16.

Ai primi di luglio il generale era quasi pronto a partire. Il 7 giunsero a Corfù le sei galeazze; l’indomani ritornò il Barbarigo, mandato nell’Adriatico a cercare di radunare le ultime galere uscite da Venezia, con la cattiva notizia che non le aveva incontrate. Anzi, facendo scalo nel porto veneziano di Dulcigno, sulla costa montenegrina, aveva appreso che poderose forze turche si stavano avvicinando da terra: Ahmet pascià si era mosso, e veniva all’appuntamento con la flotta imperiale. Il panico a Dulcigno era tale che il Barbarigo aveva deciso di lasciare sul posto due galere, coll’ordine di occupare l’estuario del fiume Boiana e collaborare con la loro artiglieria alla difesa della città. Il giorno stesso in cui tornò il Barbarigo, l’8 luglio, arrivò la notizia che i turchi bruciavano Zante: con tutta evidenza, era ora di andar via.

Mentre caricava le galere, le galeazze e le navi da trasporto, il Venier mandò fuori i suoi migliori comandanti, in missioni che l’approssimarsi della flotta nemica rendeva sempre più pericolose. Giambattista Benedetti tornò a Creta per avvertire i provveditori Quirini e Canal che il generale ordinava di raggiungerlo a Messina con tutte le galere dell’isola. «Il magnifico Tron governator delle sforzate» andò nell’Adriatico, coll’ordine «che incontrando nave o galee, le facesse tenere la banda di Otranto, et venire a Messina». Le «due miglior galee d’armata», la Trona di messer Francesco Tron e la Chersana al comando del gentiluomo dalmata Collane Drasio da Cherso, vennero mandate verso Cefalonia per spiare i movimenti della flotta turca, e una fregata, che poteva sperare di passare inosservata, ebbe ordine di spingersi fino a Zante. Il 10 luglio il Barbarigo partì con le navi da trasporto e con le galeazze, rimorchiate da 16 galere, perché in mancanza di vento quei vascelli lenti e pesanti erano quasi incapaci di muoversi. Il Venier ordinò a Paolo Orsini di mandargli un certo numero di soldati da imbarcare sulle galere restanti; l’Orsini gli mandò «li più tristi, et disgraziati che fossero, che mi vergognavo che fossero veduti», fra cui «trenta ammalati che non potevano star in piedi, et fui necessitato mandarli indietro». Ma non c’era più tempo di aspettare, se «non si voleva incontrare nella mala ventura»; perciò il Venier rinunciò ai soldati e l’11 luglio salpò per Messina17.