II
L’espansione dell’universo
U n o sguardo al cielo notturno suscita in noi l’impressione pro fonda di un universo immutabile. È vero che a volte le nubi transitano dinanzi al disco della Luna, che il cielo ruota attorno alla stella polare, che, su periodi più lunghi, la Luna stessa cresce e scema e con i pianeti si sposta sullo sfondo delle stelle.
Sappiamo però che questi sono fenomeni puramente locali, causati da moti che hanno luogo all’interno del nostro sistema solare. Al di là dei pianeti, le stelle ci appaiono immobili.
In realtà le stelle si muovono, con velocità che toccano anche qualche centinaio di chilometri al secondo: in un anno una stella veloce può percorrere fino a dieci miliardi di chilometri.
Si tratta comunque di una distanza mille volte inferiore a quella che ci divide dalle stelle più vicine, cosicché la posizione apparente in cielo delle stelle anche più veloci muta molto lentamente. (Per esempio, la stella relativamente veloce nota come stella di Barnard dista da noi circa 56 bilioni [ 5 6 x l 0 1 2 ] di chilometri; essa si muove, perpendicolarmente al nostro raggio visuale, alla velocità di circa 89 chilometri al secondo, ovvero 2,8 miliardi di chilometri all’anno, e di conseguenza la sua posizione angolare si sposta in un anno di un arco di 0,0029
gradi.) Gli astronomi definiscono « moto proprio » di una stella il suo spostamento nella posizione apparente sulla volta celeste. È ovvio che un tale spostamento angolare può risultare 22 I primi tre minuti
sensibile solo per stelle relativamente vicine. La posizione apparente in cielo delle stelle più lontane muta con tanta len-tezza che il loro moto proprio non può essere rilevato neppure con le osservazioni più pazienti.
Vedremo ora come questa impressione di immutabilità sia illusoria. Le osservazioni che discuteremo in questo capitolo rivelano che l’universo si trova in uno stato di violenta esplosione in cui le grandi isole stellari chiamate galassie stanno allontanandosi l’una dall’altra a velocità prossime a quella della luce. Estrapolando questa esplosione a ritroso nel tempo, possiamo inoltre pervenire alla conclusione che in un remoto passato le galassie devono essersi trovate molto più vicine di quanto non siano oggi: tanto vicine, di fatto, che né le galassie né le stelle e neppure gli atomi o i nuclei atomici avrebbero potuto avere un’esistenza separata. È, questa, l’era che designiamo come « inizio dell’universo » e che costituisce l’oggetto di questo libro.
La nostra conoscenza dell’espansione dell’universo si fonda interamente sul fatto che gli astronomi sono in grado di misurare il moto di un corpo luminoso nella direzione del raggio visuale (« velocità radiale ») con una precisione molto maggiore rispetto alla misurazione del moto proprio. La tecnica usata consiste nell’utilizzare una proprietà comune a qualsiasi tipo di moto ondulatorio, nota come effetto Doppler. Quando osserviamo un’onda acustica o luminosa proveniente da una sorgente in quiete, il tempo compreso fra l’arrivo di due successive creste d’onda al nostro strumento è uguale al tempo compreso fra due creste d’onda nel momento in cui vengono emesse dalla sorgente. Se, invece, la sorgente si sta allontanando da noi, il tempo compreso fra due creste d’onda successive all’atto della ricezione supera il tempo compreso fra le due creste all’atto dell’emissione, poiché ogni cresta d’onda, nel suo viaggio dalla sorgente a noi, deve percorrere una distanza leggermente maggiore rispetto alla cresta precedente. Il tempo com-L’espansione dell’universo 23
preso fra due creste consecutive corrisponde esattamente alla lunghezza d’onda divisa per la velocità dell’onda stessa, sicché un’onda emessa da una sorgente in allontanamento da noi ci sembrerà avere una lunghezza d’onda maggiore che se la sorgente fosse in quiete. (In dettaglio, l’aumento frazionario nella lunghezza d’onda è dato dal rapporto fra la velocità della sorgente e la velocità dell’onda stessa: cfr. la nota matematica I, pp. 174 sg.) Analogamente, se la sorgente sta muovendosi verso di noi, l’intervallo di tempo compreso fra due successive creste d’onda in arrivo sarà minore dell’intervallo fra due creste d’on-da in partenza, perché ogni cresta successiva avrà una distanza minore da percorrere, e quindi l’onda ci sembrerà avere una lunghezza d’onda minore. È un po’ come se un commesso viag-giatore inviasse regolarmente a casa una lettera alla settimana: finché si allontana da casa, ogni lettera dovrà percorrere, per arrivare a destinazione, una distanza un po’ maggiore rispetto alla precedente, per cui le sue lettere risulteranno distanziate fra loro di un po’ più di una settimana; inversamente, sulla via del ritorno, ogni lettera successiva dovrà percorrere una distanza minore e quindi l’intervallo fra due lettere consecutive risulterà inferiore a sette giorni.
È facile, oggi, osservare l’effetto Doppler su onde acustiche: basta mettersi in ascolto sul margine di una strada di grande comunicazione e rilevare come il motore di una macchina veloce emetta un suono più alto (ossia su una lunghezza d’onda minore) quando il veicolo si avvicina che non quando si allontana. A quanto pare, l’effetto fu notato per la prima volta, sia per onde luminose sia per onde acustiche, da Johann Christian Doppler, professore di matematica alla Realschule di Praga, nel 1842. L’effetto Doppler per onde acustiche fu confermato sperimentalmente nel 1845 dal meteorologo olandese Ch. H.
D. Buys-Ballot nel corso di un ameno esperimento: come
sorgente mobile di suoni egli utilizzò un’orchestra di trom-bettieri i quali suonavano stando in piedi in una carrozza (aper-24 I primi tre minuti
ta) di un treno sfrecciante attraverso la campagna olandese nei pressi di Utrecht.
Doppler pensava che l’effetto legato oggi al suo nome potesse spiegare i diversi colori delle stelle. La luce proveniente da stelle in allontanamento dalla Terra sarebbe spostata verso lunghezze d’onda maggiori e poiché la luce rossa ha una lunghezza d’onda maggiore rispetto alla media della luce visibile, una tale stella potrebbe apparirci più rossa della media. Analogamente, la luce proveniente da stelle in movimento verso la Terra sarebbe spostata verso lunghezze d’onda mino-ri, così che la stella potrebbe apparirci più azzurra. Ben presto si appurò, da parte di Buys-Ballot e altri, che l’effetto Doppler non ha sostanzialmente nulla a che fare col colore di una stella: è vero che la luce azzurra proveniente da una stella in allontanamento è spostata in qualche misura verso il rosso; ma poiché contemporaneamente una parte della radiazione ultravioletta, normalmente invisibile, della stella è spostata nella sezione azzurra dello spettro visibile, il colore com-plessivo della stella non muta in misura sensibile. Le stelle hanno colori diversi principalmente in dipendenza delle loro diverse temperature superficiali.
L’effetto Doppler cominciò a rivestire enorme importanza per l’astronomia nel 1868, quando fu applicato allo studio delle singole righe dello spettro. Qualche tempo prima, nel 1814-1815, un ottico di Monaco di Baviera, Joseph Fraunhofer, aveva scoperto che quando la luce del Sole viene fatta filtrare attraverso una fenditura e poi attraverso un prisma di vetro, lo spettro di luce colorata che ne risulta appare solcato da centinaia di righe scure, ciascuna delle quali rappresenta un’immagine della fenditura. (Alcune di tali righe erano già state osservate in precedenza, da William Hyde Wollaston nel 1802, ma a quell’epoca non erano state sottoposte a una rigorosa analisi.) Le righe scure venivano a trovarsi sempre sullo sfondo degli stessi colori, e corrispondevano ciascuna a una determinata L’espansione dell’universo 25
lunghezza d’onda della luce. Identiche righe spettrali scure furono rinvenute da Fraunhofer nelle medesime posizioni anche all’interno dello spettro della Luna e dei corpi celesti più brillanti. Ben presto ci si rese conto che quelle righe scure sono prodotte dall’assorbimento selettivo della luce di determinate lunghezze d’onda quando la luce passa dalla superficie incandescente di una stella attraverso la sua atmosfera esterna, più fredda. Ogni riga è dovuta all’assorbimento di luce da parte di un elemento chimico specifico; per questa via diventa anzi possibile accertare che gli elementi presenti sul Sole, come il sodio, il ferro, il magnesio, il calcio e il cromo, sono gli stessi che si rinvengono sulla Terra. (Oggi sappiamo che le lunghezze d’on-da delle righe scure sono tali per cui un fotone di quella lunghezza d’onda avrebbe precisamente l’energia occorrente per far passare l’atomo dal suo stato di energia minima a uno dei suoi stati eccitati.)
Nel 1868 Sir William Huggins riuscì a dimostrare che le righe scure nello spettro di alcune stelle tra le più brillanti sono leggermente spostate verso il rosso o verso l’azzurro rispetto a quella che è la loro posizione normale nello spettro del Sole.
Egli interpretò correttamente questo spostamento riconnetten-dolo all’effetto Doppler, mettendolo cioè in rapporto con un moto di allontanamento o di avvicinamento della stella nei confronti della Terra. Per esempio, la lunghezza d’onda di ogni riga scura nello spettro della stella Capella è maggiore della lunghezza d’onda della corrispondente riga scura dello spettro solare nella misura di uno 0,01 per cento; questo spostamento verso il rosso indica che Capella sta allontanandosi da noi a una velocità pari allo 0,01 per cento della velocità della luce, ossia a 30 chilometri al secondo. L’effetto Doppler venne uti-lizzato nei decenni successivi per misurare le velocità di protuberanze solari, di stelle doppie e degli anelli di Saturno.
La misurazione di velocità mediante l’osservazione di spostamenti Doppler è una tecnica intrinsecamente valida perché 26 I primi tre minuti
le lunghezze d’onda delle righe spettrali possono essere misurate con estrema precisione; non è insolito trovare lunghezze d’onda espresse con ben otto cifre significanti. La tecnica man-tiene la sua precisione qualunque sia la distanza della sorgente luminosa, purché l’intensità della luce in arrivo sia sufficiente a individuare righe spettrali di contro alla radiazione del cielo notturno.
È grazie all’applicazione dell’effetto Doppler che conosciamo i valori tipici di velocità stellari come quelle indicate all’inizio di questo capitolo. L’effetto Doppler, inoltre, ci offre un elemento per valutare le distanze di stelle relativamente vicine; se siamo in grado di fare congetture circa la direzione del moto di una stella, lo spostamento verso il rosso ci fornisce la velocità sia del moto proprio sia del moto radiale, cosicché la misurazione del moto apparente sulla volta celeste ci dice quanto dista quella stella. L’effetto Doppler, tuttavia, cominciò a ga-rantire risultati di valore cosmologico solo a partire dal m o -
mento in cui gli astronomi intrapresero lo studio dello spettro di corpi situati a distanze molto maggiori rispetto alle stelle visibili. Diremo ora qualche parola sulla scoperta di tali oggetti, dopo di che torneremo a occuparci dell’effetto Doppler.
Abbiamo aperto questo capitolo con uno sguardo al cielo notturno. Oltre alla Luna, ai pianeti e alle stelle, avrei potuto menzionare altri due oggetti visibili, molto più importanti per la cosmologia.
U n o di essi è così vistoso e lucente da risultare visibile, a volte, anche attraverso la foschia del cielo notturno di una città.
Si tratta di quella fascia luminosa che attraversa circolarmente l’intera sfera celeste e che è nota fin dall’antichità come Via Lattea. Nel 1750 un inglese, il costruttore di strumenti T h o -
mas Wright, pubblicò un libro notevole, Original Theory or
New Hypothesis of the Universe, in cui si affacciava l’ipotesi che le stelle siano disposte su una lastra, una « macina » di spessore finito ma estendentesi a grandi distanze in tutte le L’espansione dell’universo 27
direzioni sul piano. Il sistema solare si trova all’interno di questa lastra; ne consegue naturalmente che noi vediamo molta più luce quando osserviamo nella direzione del piano che non quando rivolgiamo lo sguardo in una qualsiasi altra direzione. La Via Lattea è appunto questa maggiore luminosità che vediamo guardando lungo il piano della lastra.
La teoria di Wright è stata confermata da molto tempo.
Oggi si pensa che la Via Lattea consista in un disco di stelle, con un diametro di 80 0 0 0 anni-luce e uno spessore di 6 0 0 0
anni-luce. Il sistema galattico possiede anche un alone sferico di stelle, il cui diametro sfiora i 100 0 0 0 anni-luce. La massa totale è generalmente stimata in circa 100 miliardi di masse solari ma alcuni astronomi ritengono che ci potrebbe essere una massa molto maggiore in un alone esteso. 11 sistema solare dista circa 30 000 anni-luce dal centro del disco ed è spostato leggermente « a nord » del piano centrale del disco stesso. Il disco ruota a velocità che arrivano a toccare i 2 5 0 chilometri al secondo e presenta gigantesche braccia di spirale. Una visione davvero imponente, se potessimo osservarlo dall’esterno! L’intero sistema è oggi denominato la Galassia o, allar-gando la visuale, « la nostra galassia ».
Il secondo elemento cosmologicamente rilevante del cielo notturno è molto meno vistoso della Via Lattea. Nella costellazione di Andromeda c’è una macchiolina indistinta che non sempre si riesce a localizzare ma che si può individuare senza difficoltà in una notte serena se si sa dove cercarla. La prima menzione scritta di quest’oggetto risulta essere un accenno nel
Libro delle stelle fisse, compilato nel 9 6 4 d.C. dall’astronomo persiano Abd al-Rahman ai-Sufi, che lo descrisse come una
« piccola nube ». Con la diffusione del telescopio si moltipli-carono le scoperte di tali oggetti estesi, in cui gli astronomi del Seicento e del Settecento videro un ostacolo tale da pregiudi-care la ricerca di qualcosa che sembrava loro realmente interessante: le comete. Per fornire un opportuno elenco di ogget-28 I primi tre minuti
ti che non si dovevano osservare quando si andava a caccia di comete, Charles Messier pubblicò nel 1781 un famoso Ca-
talogue des nébuleuses et des amas d’étoiles. Gli astronomi si riferiscono ancor oggi ai 103 oggetti contenuti in questo catalogo con i numeri attribuiti loro da Messier: così la Nebulosa di Andromeda è la M 3 1 , la Nebulosa del Granchio la M1, e via dicendo.
Già all’epoca di Messier appariva chiaro che questi oggetti estesi non hanno tutti la stessa natura. Alcuni sono evidente-mente ammassi di stelle, come le Pleiadi (M45). Altri sono nubi irregolari di gas incandescente, spesso colorato e non di rado associato a una o più stelle, come la Grande Nebulosa di Orione (M42). Oggi sappiamo che gli oggetti appartenenti a queste due categorie si trovano all’interno della nostra galassia, e non c’è ragione di continuare qui a occuparcene. Un terzo circa degli oggetti elencati nel catalogo di Messier erano invece nebulose bianche di forma ellittica abbastanza re-golare; tra esse la più appariscente era la Nebulosa di Andromeda (M31). Il progressivo perfezionamento dei telescopi portò alla scoperta di migliaia di questi oggetti e, alla fine del secolo scorso, in alcuni di essi, fra cui la M31 e la M 3 3 , vennero identificate braccia di spirale. I migliori telescopi del Settecento e dell’Ottocento non erano però riusciti a risolvere in stelle le nebulose ellittiche o spirali, la cui natura rimaneva problematica.
Sembra che il primo a congetturare che alcune nebulose
siano galassie come la nostra sia stato Immanuel Kant. Facendo propria la teoria della Via Lattea di Wright, Kant formulò nel 1755, nel libro Storia generale della natura e teoria del
cielo, l’ipotesi che le nebulose, « o piuttosto una specie di es-se », siano realmente dischi stellari aventi press’a poco la forma e le dimensioni della nostra galassia. Esse appaiono ellittiche perché sono viste per la maggior parte in prospettiva obli-L’espansione dell’universo 29
qua; ovviamente, la loro evanescenza è dovuta all’enormità della distanza.
L’idea di un universo gremito di galassie come la nostra conobbe, all’inizio dell’Ottocento, una vasta seppure non certo universale diffusione. Rimaneva pur sempre aperta la possibilità che queste nebulose ellittiche e spirali si rivelassero semplici nubi di gas interstellare all’interno della nostra galassia, come altri oggetti inclusi nel catalogo di Messier. Fonte di notevole confusione era l’osservazione di esplosioni stellari in alcune nebulose spirali. Se queste nebulose erano autentiche galassie indipendenti, troppo lontane da noi perché il telescopio potesse risolverle in singole stelle, le esplosioni osservate dovevano avere una potenza incredibile per risultare visibili a simili distanze. In questo contesto, non so resistere alla tentazione di citare un saggio di prosa scientifica ottocentesca al culmine della sua maturità. Agnes Mary Clerke, studiosa inglese di storia dell’astronomia, scriveva nel 1893:
L a b e n n o t a n e b u l o s a d i A n d r o m e d a e l a g r a n d e s p i r a l e nei L e v r i e r i s o n o fra l e n e b u l o s e p i ù r a g g u a r d e v o l i n e l l a c a t e g o r i a d i q u e l l e c h e d a n n o u n o s p e t t r o c o n t i n u o ; e , d i n o r m a , l e e m i s s i o n i d i t u t t e q u e l l e n e b u l o s e c h e p r e s e n t a n o l ‘ a p p a r e n z a d i a m m a s s i s t e l l a r i i n d i s t i n t i p e r l ‘ e c c e z i o n a l e d i s t a n z a s o n o d e l l o s t e s s o t i p o . S a r e b b e p e r ò t r o p p o a v -
v e n t a t o c o n c l u d e r e s u q u e s t a b a s e c h e esse s i a n o a u t e n t i c h e a g g r e g a -
z i o n i d i c o r p i p a r a g o n a b i l i a l n o s t r o S o l e . L ‘ i m p r o b a b i l i t à d i u n a t a l e i n f e r e n z a è s t a t a n o t e v o l m e n t e a c c r e s c i u t a d a l l ‘ o s s e r v a z i o n e , c o n u n i n t e r v a l l o d i u n q u a r t o d i s e c o l o , d i e s p l o s i o n i s t e l l a r i i n d u e d i e s s e .
È p r a t i c a m e n t e c e r t o , i n f a t t i , c h e , p e r q u a n t o l o n t a n e s i a n o l e n e b u l o s e , l e stelle e s p l o s e e r a n o a l t r e t t a n t o r e m o t e ; o r a , s e tali n e b u l o s e f o s s e r o c o m p o s t e d i a s t r i s i m i l i a l S o l e , l e s f e r e d i i n c o m p a r a b i l e a m p i e z z a d a c u i l a l o r o d e b o l e l u c e v e n i v a q u a s i c a n c e l l a t a d e v o n o e s s e r e s t a t e , c o m e h a i n t u i t o i l s i g n o r P r o c t o r , d i u n a s c a l a d i g r a n d e z z a t a l e c h e l ‘ i m m a g i n a z i o n e s i r i f i u t a d i c o n c e p i r l a .
Oggi sappiamo che quelle esplosioni stellari avvenivano veramente su « una scala di grandezza tale che l’immaginazione si rifiuta di concepirla ». Si trattava di supernovae, di stelle che, dilaniate da esplosioni, raggiungono una luminosità prossima a quella di un’intera galassia. Ma nel 1893 lo si ignorava.
30 I primi tre minuti
Il problema della natura delle nebulose spirali ed ellittiche non poteva essere risolto in assenza di qualche attendibile metodo di determinazione della loro distanza. Un tale regolo per la misurazione delle distanze fu infine scoperto dopo il completamento del telescopio di 100 pollici ( 2 5 4 cm) di Monte Wilson, non lontano da Los Angeles. Nel 1923 Edwin Hubble fu per la prima volta in grado di risolvere la Nebulosa di A n -
dromeda in stelle separate. Egli identificò nelle sue braccia di spirale alcune stelle variabili molto brillanti, che presentavano un tipo di variazione periodica della luminosità già familiare agli astronomi perché caratteristico di una classe di stelle nella nostra galassia note come variabili cefeidi. La ragione della importanza di questa scoperta risiedeva nel fatto che, nel decennio precedente, Henrietta Swan Leavitt e Harlow Shapley, dello Harvard College Observatory, avevano rivelato l’esistenza di una stretta correlazione fra i periodi osservati nella variazione di luminosità delle cefeidi e la loro luminosità assoluta. (Per luminosità assoluta si intende l’energia di radiazione totale emessa da un oggetto astronomico in tutte le direzioni.
La luminosità apparente coincide con l’energia di radiazione da noi ricevuta per ciascun centimetro quadrato al secondo nei nostri strumenti. È la luminosità apparente, non quella assoluta, a determinare il grado soggettivo di splendore degli oggetti astronomici. Va da sé che la luminosità apparente dipende non soltanto dalla luminosità assoluta, ma anche dalla distanza; perciò, conoscendo sia la luminosità assoluta sia la luminosità apparente di un corpo astronomico, possiamo inferirne la distanza.) Hubble, osservando la luminosità apparente delle cefeidi appartenenti alla Nebulosa di Andromeda, e sti-mandone la luminosità assoluta sulla base dei periodi, potè calcolare immediatamente la loro distanza, e quindi, implici-tamente, la distanza della Nebulosa di Andromeda; a tal fine fu sufficiente applicare la semplice regola secondo cui la luminosità apparente è direttamente proporzionale alla luminosità L’espansione dell’universo 31
assoluta e inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Hubble concluse che la Nebulosa di Andromeda si trova a una distanza di 9 0 0 0 0 0 anni-luce, cioè a una distanza dieci volte maggiore rispetto ai più lontani oggetti conosciuti che rientrano nei confini della nostra galassia. Talune correzioni apportate alla relazione periodo-luminosità delle cefeidi da Walter Baade e altri hanno oggi aumentato la distanza della Nebulosa di Andromeda a oltre due milioni di anni-luce, ma la conclusione era già chiara nel 1923: la Nebulosa di Andromeda e le migliaia di nebulose affini sono galassie come la nostra, disperse a grandi distanze in tutte le direzioni dell’universo.
Ancora prima che si accertasse la natura extragalattica delle nebulose, gli astronomi avevano identificato alcune righe presenti nel loro spettro con righe tipiche di spettri atomici familiari. Fra il 1910 e il 1920 Slipher del Lowell Observatory scoprì però che le righe di molte nebulose risultavano leggermente spostate verso il rosso o verso l’azzurro. Questi spostamenti vennero subito interpretati come una conseguenza dell’effetto Doppler, e quindi come un’indicazione del fatto che le nebulose si allontanano dalla Terra o viceversa si avvicinano.
Si rilevò, per esempio, un moto di avvicinamento verso la Terra della Nebulosa di Andromeda alla velocità di circa 3 0 0 chilometri al secondo, mentre gli ammassi di galassie più lontani, nella costellazione della Vergine, risultarono allontanarsi dal nostro pianeta alla velocità di circa 1 0 0 0 chilometri al secondo.
Dapprima si pensò che queste velocità potessero essere semplicemente relative, che riflettessero cioè un moto del nostro sistema solare verso alcune galassie e un suo allontanamento da altre. Questa spiegazione si fece sempre più insostenibile via via che negli spettri di galassie di volta in volta osservati affioravano spostamenti sempre più consistenti, e tutti verso il rosso. Risultò quindi che, prescindendo da poche galassie vici-32 I primi tre minuti
ne al nostro sistema, come la Nebulosa di Andromeda, le altre galassie stanno generalmente allontanandosi dalla nostra a elevata velocità. Ciò non significa, ovviamente, che la nostra galassia occupi una posizione centrale nell’universo. Si direb-be, piuttosto, che l’universo stesso stia subendo gli effetti di una sorta di esplosione in cui ogni galassia sta allontanandosi da ogni altra galassia.
Questa interpretazione venne universalmente recepita dopo il 1929, quando Hubble annunciò di avere scoperto che lo spostamento verso il rosso delle righe spettrali delle galassie aumenta press’a poco in proporzione alla loro distanza da noi.
Osservazione fondamentale, quella di Hubble, poiché prospetta esattamente ciò che dovremmo predire in accordo col quadro più semplice possibile del movimento della materia in un universo che sta esplodendo.
Dovremmo attenderci, intuitivamente, che in un dato m o -
mento l’universo presenti lo stesso aspetto a tutti gli ipotetici osservatori che lo scrutino da tutte le galassie tipiche, qualunque sia la direzione verso cui si rivolge il loro sguardo. (Qui, e più avanti, userò l’espressione « tipiche » per designare galassie che non abbiano alcun apprezzabile moto peculiare ma siano semplicemente trasportate nel generale flusso cosmico.) È un’ipotesi così naturale (almeno dopo Copernico), che l’astrofisico inglese Edward Arthur Milne l’ha definita il Principio cosmologico.
Nella sua applicazione alle galassie, il Principio cosmologico presuppone che un osservatore situato in una galassia tipica veda tutte le altre galassie muoversi con la medesima distribuzione delle velocità, qualunque sia la galassia tipica su cui l’osservatore sta viaggiando. Una diretta conseguenza matematica di questo principio è che la velocità relativa di due galassie scelte a piacere dev’essere proporzionale alla distanza che le separa, proprio come riscontrò Hubble.
Consideriamo, ad esempio, tre galassie tipiche A, B e C, di-
L’espansione dell’universo
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Figura 1. L’omogeneità e la legge di Hubble. La figura rappresenta una sequenza di galassie Z, A, B, C,… . intervallate uniformemente, in moto relativo l’una rispetto all’altra. Le velocità, quali sono misurate da A o da B o da C, sono indicate dalla lunghezza e dalla direzione delle frecce. Il principio di omogeneità richiede che la velocità di c, qual è vista da B. sia uguale alla velocità di B qual è vista da A; la somma di queste due velocità dà la velocità di C qual è vista da A, velocità che è indicata da una freccia di lunghezza doppia. Procedendo in questo modo, possiamo completare l’intero diagramma delle velocità illustrato nella figura. Come si può vedere, le velocità obbediscono alla legge di Hubble: la velocità di ogni galassia, qual è vista da ogni altra, è proporzionale alla distanza che le divide. Questo è l’unico modello di distribuzione delle velocità conforme al principio di omogeneità.
sposte su una linea retta (fig. 1). Supponiamo che la distanza fra A e B sia uguale alla distanza fra B e C. Quale che sia la velocità di B vista da A, il Principio cosmologico richiede che
C abbia la stessa velocità rispetto a B. Ma si osservi allora che C, che dista da A il doppio della distanza fra A e B, sta anche muovendosi, rispetto ad A, con una velocità doppia di B. Possiamo aggiungere altre galassie alla nostra catena, e il risultato sarà sempre che la velocità di recessione di ogni galassia relativamente alle altre è proporzionale alla distanza che le separa.
Come spesso accade in ambito scientifico, quest’argomento può essere usato sia in avanti sia all’indietro. Accertando una proporzionalità fra le distanze delle galassie e le loro velocità di recessione, Hubble verificava indirettamente l’esattezza del Principio cosmologico. Questo fatto è, da un punto di vista filosofico, quanto mai soddisfacente: perché una parte o una direzione particolari dell’universo dovrebbero differire da qual-34 I primi tre minuti
siasi altra? Ci assicura, inoltre, che gli astronomi stanno realmente osservando una considerevole porzione dell’universo, non un mero vortice locale compreso in un più vasto « maelstrom »
cosmico. Inversamente, possiamo considerare il Principio cosmologico come garantito a priori e dedurne la relazione di proporzionalità tra distanza e velocità, come abbiamo fatto nel precedente capoverso. In tal modo, attraverso un procedimento relativamente semplice qual è quello della misurazione degli spostamenti Doppler, siamo in grado di valutare la distanza di oggetti lontanissimi sulla base della loro velocità.
A prescindere dalla misurazione degli spostamenti Doppler, il Principio cosmologico poggia su un altro supporto offerto dall’osservazione. Pur tenendo conto delle distorsioni dovute alla nostra galassia e al non lontano copioso ammasso di galassie appartenente alla costellazione della Vergine, l’universo appare notevolmente isotropo; presenta cioè lo stesso aspetto in tutte le direzioni. (Ciò è dimostrato in modo ancor più con-vincente dalla radiazione di fondo a microonde, di cui ci inte-resseremo nel prossimo capitolo.) Ma da Copernico in poi abbiamo imparato a diffidare della supposizione che l’ubicazio-ne dell’umanità nell’universo abbia un significato speciale. Se dunque l’universo è isotropo intorno a noi, dovrebbe essere isotropo anche intorno a ogni galassia tipica. Ma ogni punto dell’universo può essere trasportato in qualsiasi altro punto da una serie di rotazioni intorno a centri fissi (fig. 2); se l’universo è isotropo intorno a ogni punto, necessariamente è anche omogeneo.
Prima di procedere oltre, occorre aggiungere qualche precisazione a proposito del Principio cosmologico. Innanzitutto, non vale ovviamente su piccola scala: noi ci troviamo in una galassia che appartiene a un piccolo gruppo locale di altre galassie (comprendente la M31 e la M 3 3 ) , il quale a sua volta si trova in prossimità dell’enorme ammasso di galassie della Vergine. In effetti, delle 33 galassie elencate nel catalogo di
Figura 2. Isotropia e omogeneità. Se l’universo è isotropo sia attorno alla galassia 1 sia attorno alla galassia 2, è anche omogeneo. Al fine di dimostrare che le condizioni attorno a due punti A e B scelti a piacere sono uguali, tracciamo un cerchio che passi per A, con centro nella galassia 1, e un altro cerchio che passi per B, con centro nella galassia 2. L’isotropia attorno alla galassia 1 richiede che le condizioni siano le stesse in A e nel punto C, in cui i due cerchi si intersecano. Analogamente, l’isotropia attorno alla galassia 2 richiede che le condizioni siano uguali in B e in C. Perciò esse sono uguali anche in A e in B.
Messier, quasi la metà sono concentrate in una piccola parte del cielo, la costellazione della Vergine! Ammesso che sia valido, il Principio cosmologico entra in gioco solo dal momento in cui consideriamo l’universo su una scala almeno pari alla distanza tra ammassi di galassie, equivalente a circa 100 mi lioni di anni-luce.
Veniamo a un’altra puntualizzazione. Usando il Principio cosmologico per derivarne il rapporto di proporzionalità tra velocità e distanze delle galassie, abbiamo supposto che se la velocità di C rispetto a B è uguale alla velocità di B rispetto ad A, allora la velocità di C rispetto ad A è doppia della prima. Questa è la regola consueta per una somma di velocità familiari a noi tutti, una regola che senza dubbio funziona benissimo per le velocità relativamente modeste della vita quotidiana. Ma che non vale più per velocità prossime alla velocità della luce (300 0 0 0 chilometri al secondo); se così non fosse, sommando un certo numero di velocità relative, potremmo ottenere una velocità totale maggiore di quella della luce, ciò che non è consentito dalla Teoria speciale della relatività 36