Il distacco
Finalmente ho chiuso sotto chiave il compito che mi era stato dato per punizione. Da cinque giorni i quaderni grigiastri si trovano accatastati in bell'ordine nello scomparto di sinistra dell'armadio di metallo, l'armadio è chiuso a chiave, la chiave si trova in una piccola sacchetta di cuoio, la piatta sacchetta di cuoio è appesa a una cordicella e muovendosi si strofina contro il mio petto. Joswig ha rinunciato a chiedere del mio lavoro, non sa se ho finito o se mi sono preso una pausa, ma può darsi che non ci tenga neppure a saperlo. La mattina in cui dallo spioncino vide che non scrivevo più, che il tavolo era sgombro e lo sgabello coperto di tacche era stato spinto sotto il tavolo, venne infatti nella mia cella con una torre bianca di scatole da scarpe, il busto ritto quasi piegato all'indietro, coinvolgendo nel trasporto anche il mento, e depose il suo carico sul tavolo libero ricordandomi la promessa di aiutarlo a ordinare la sua collezione di monete antiche.
Dunque classificammo, lisciammo, incollammo, distribuimmo le banconote e le monete fuori corso nelle scatole, contrassegnammo le scatole con una matita blu, e con vigorose lettere in stampatello le trasformammo in altrettante prigioni a seconda delle epoche, dei periodi di emissione, dei monarchi e dei presidenti di banca che, per lo più barbuti, ma sempre raccomandabili e con uno sguardo che ispirava fiducia, ti fissavano dalle monete e dalle banconote. Bastò una scatola per sistemare la valuta che Joswig possedeva della monarchia, dell'epoca di Weimar e dei dodici anni; solo per la sua raccolta di denaro dell'inflazione ci occorsero invece due scatole e mezza. Per ringraziarmi dell'aiuto, mi regalò cinquanta milioni.
Cinque giorni, e non ho ancora consegnato il lavoro. Una volta sola ho aperto l'armadio e ho tolto i quaderni: è stato in quella giornata serena in cui, dopo tanto tempo, mi fu concesso di ricevere visite e venne Hilke. Adesso porta i capelli molto corti. Immutata è invece la sua amarezza che pare confinata negli angoli della bocca. Indifferente e velato il suo sguardo - velato come una giornata sulla spiaggia di Rugbull. Entrò, mi offrì dei dolciumi e una molle stretta di mano e sedette sullo sgabello sospirando, come spesso sospirava mia madre quando si lasciava cadere sulla sedia. Volgendo lentamente attorno lo sguardo, Hilke si informò sull'arredamento della mia cella e mi chiese veramente se non fosse cambiato niente nella stanza: aveva questa impressione. Poiché io tacqui, alzò la faccia e subito avvertì la mia delusione, o la mia risposta negativa. Poi mi chiese a che punto fossi con il componimento, se lo avessi già consegnato e se mi avessero dato un voto.
Aprii l'armadio di metallo, tolsi i quaderni e glieli misi sotto gli occhi. Hilke appoggiò l'avambraccio sui quaderni. Appiattì alcune orecchie d'asino. Passò le dita grassocce sull'etichetta e sorrise ed ebbe bisogno di molto tempo, di un intervallo piuttosto lungo, per risolversi ad aprire un quaderno - e non quello in alto - e cominciare a leggere. Non lesse tranquillamente ma rimase seduta in una posizione innaturale, tesa, come se volesse accontentarsi di un assaggio, tanto per farmi piacere. Lesse aggrottando la fronte e ogni volta che riconosceva una persona o un fatto, insomma ogni volta che si imbatteva in qualcosa che anche la sua memoria aveva conservato, cominciava a commentare, senza riflettere troppo a dire il vero, e in una maniera assai sconclusionata; confermava o semplicemente ripeteva: Ah, già, i gabbiani e il temporale; la festa per il compleanno del dottor Busbeck, ah sì; gli Holmsen, anche loro sono morti da un pezzo; l'uomo dal mantello rosso, già, ma come hai fatto a ricordarteli, tutti quei nomi; e il pittore sulla diga tra l'infuriare del vento; Asmus Asmussen adesso vive a Glùserup; e ti sei anche ricordato della malattia di Addi; e il pomeriggio sulle dune; e il tuo nascondiglio nel mulino; e il carretto, quello non c'è più; Heini Bunje è emigrato; ma che cosa hai contro le mie gambe; ah già, Okko Brodersen, il portalettere con un braccio solo: adesso è andato in pensione; e la guardia della stazione di polizia di Rugbùlll, ma come fai a sapere tante cose di lui… Ma era veramente così? Non ci ha raccontato delle storie, qualche volta? E pensa alle nostre estati chiare, asciutte. E quando la mamma ci portava a spasso lungo la spiaggia sulla carretta del lattaio; riusciva a essere diversa ogni tanto. E pensa al pittore che non parlava per giorni e giorni. E a Rugbull d'inverno, quando i fossati gelavano e la brina si depositava sui prati, o in autunno quando ci sdraiavamo sotto gli alberi di melo ad ascoltare le mele che cadevano. E pensa alle calde sere sulla diga quando ronzavano i maggiolini… Leggerò tutto, Siggi, oggi però no, forse presto.
Mi restituì la pila di quaderni e mentre io li riponevo nell'armadio mi promise di tornare presto e sovente. Adesso le era possibile: aveva lasciato per sempre Rugbull e aveva intenzione di presentarsi come cameriera, magari quel giorno stesso, all'Haus Vaterland dove il pomeriggio c'era anche il varietà e la sera suonava l'Alster–Trio, il trio di Addi. Hilke aveva fretta.
Cinque giorni, e io non riesco ancora a staccarmi dal mio lavoro. Ogni tanto, nelle settimane di silenzio e di pioggia quando dalle officine non usciva alcun rumore, quando il vaporetto non sbarcava psicologi, quando non si udivano i fischietti, gli ordini e i passi precipitosi che solitamente confermavano il programma quotidiano: allora credevo che mi avessero dimenticato, credevo che avessero rinunciato all'isola, l'avessero consegnata ai gabbiani e alle cornacchie. E, invece, prima o poi mi ricordavano sempre che non ero solo e che anche da lontano continuavano a tenermi d'occhio.
Stamane avrei previsto tutto ma non che il direttore Himpel mi facesse chiamare. Su, disse Joswig, alzati, pettinati e mettiti la roba dell'appello: quelli della direzione hanno nostalgia di te. E prendi la prova della tua diligenza. Mi accompagnò fino alla guardiola della portineria e lì mi lasciò proseguire da solo. Non mi affrettai a raggiungere la direzione con il mio fastello di quaderni. Me la presi comoda: accarezzai il busto del senatore Riebensahm, sbirciai attraverso la finestra bassa, provvista di grata, della cucina finché la cuoca mi scacciò, la cuoca che esprimeva i suoi sentimenti nei nostri confronti nella sbobba che stava preparando; e quando vidi il cane del direttore trotterellare verso la spiaggia in armonico colloquio, conversando di filosofia, direi, con un altro cane a me sconosciuto, affrettai la loro andatura bombardandoli di frammenti di tegole rotte che trovai per terra.
Non attraversai lo spiazzo di terra battuta, ma costeggiai il retro delle officine, quindi i filari di cavolo verde, di cavolo rosso, di cavolo bianco e di cavolfiore e raggiunsi il sentiero sinuoso che porta non solo all'edificio della direzione ma anche giù al pontile d'attracco.
La marea si stava levando. Avanzai sul pontile: le giunture scricchiolavano; si sollevava e abbassava e non solo pareva mosso da un alito estraneo ma sembrava respirasse; la passerella mobile oscillava sfregando contro i sostegni. Onde brevi seguite da schizzi. Il vento gualcava e saccheggiava le canne che però non offrivano più niente da depredare. Sul grande campo di patate sabbioso stavano bruciando le sterpaglie e il vento spingeva sopra l'Elba le piatte strisce di fumo grigio striate di verde velenoso. Dal pontile si aveva la sensazione di discendere il fiume: tutta l'isola si muoveva, costeggiava fumando le sponde autunnali, spinta dal fuoco delle sterpaglie e dal nostro desiderio di mutare porto e di trasmigrare in zone più calde e felici.
La segretaria di Himpel mi vide, aprì una finestra, fischiò e gesticolò. Risposi al suo segnale e raggiunsi la palazzina della direzione. Le scale, i corridoi, i bagni erano invasi dagli imbianchini. Lavavano, scrostavano con la fiamma ossidrica gli strati vecchi di vernice, rimuovevano i battiscopa. Si erano arrampicati sulle impalcature, si erano accoccolati sulle soglie, erano indaffarati davanti ai davanzali delle finestre: oltre una quarantina di ragazzi disadattati che quelli avevano convinto a scegliere il mestiere dell'imbianchino. C'era Eddi Sillus. All'infuori di lui non conoscevo nessuno, ma benché io non li conoscessi tutti loro mi conoscevano: si misero a bisbigliare, a fischiare tra i denti, si fecero notare battendo gli attrezzi su qualunque cosa risuonasse, e quel martellio mi accompagnò su per le scale. Manici di spatole, di pennelli e di scope emettevano un martellante saluto al mio indirizzo: era il loro saluto, la testimonianza del loro rispetto. Le loro facce me lo confermarono.
Chi salutavano? Il vecchio compagno? Il compagno che era stato condannato? Oppure il loro modello vivente di costanza e di caparbietà? Per loro, mi aveva detto non so quando Joswig, tu sei un animale preistorico, una leggenda, forse addirittura un simbolo: se si sentono depressi, seguono il tuo esempio. In ogni caso gli imbianchini scandirono il loro saluto e continuarono finché bussai alla porta di Himpel. Nell'attimo stesso in cui entrai nell'ufficio del direttore sentii le spatole, i pennelli e le scope tornare alle funzioni per le quali erano destinati.
Himpel mi aspettava in camicia e pantaloni alla zuava. Intorno alla sua giacca a vento erano affaccendate le due segretarie: strofinavano, pulivano, nettavano con la trementina. Himpel indicò con una mano il corridoio mentre con l'altra additò preoccupato la giacca a vento e disse: Gli imbianchini, li hai visti, Siggi, abbiamo gli imbianchini in casa.
Sul bavero della giacca era stato affrancato il cartellino con il suo nome: Dir. Himpel; ne dedussi che, se non subito, senz'altro di lì a poco sarebbe dovuto andare ad Amburgo per un congresso. Non avevo voglia di sedermi, di bere insieme a lui una tazza di tè e in via del tutto eccezionale fumare una sigaretta? Ne avevo voglia. Appoggiai il fascio di quaderni sulla scrivania. Himpel spronava le due segretarie con brevi movimenti insulsi delle mani ma soprattutto con rapidi schiocchi di lingua; a quelle donne che non volevano staccarsi dalla sua giacca, ma che amorevolmente volevano togliere ogni macchiolina, anche la più impercettibile, fece capire la sua assoluta mancanza di tempo battendo ritmicamente il piede. Ma finì per strappare loro di mano l'indumento e per infilarselo rapidamente.
Dunque, Siggi, è bene che tu ti sia già seduto. Adesso viene il nostro tè, è già versato. Approfittiamone per parlare un po'. Lungo scambio di occhiate. Giri intorno a me e alla scrivania. Un rapido ma energico accordo sulla tastiera: Dim–da-da. Mi chiese se anch'io me ne fossi accorto, se mi fosse chiaro perché la direzione aveva acconsentito a lasciarmi scrivere per tanto tempo. No? Allora me lo avrebbe spiegato.
La direzione aveva voluto dare un esempio, soprattutto un esempio di buona volontà, aveva voluto dimostrare di saper riconoscere e appoggiare, fino a un limite sopportabile s'intende, la spontanea conversione di un giovane. Mi avevano lasciato continuare a scrivere perché avevano capito che volevo giustificare il tema, dimostrarlo in tutti i suoi aspetti. Lui, Himpel, aveva comunque notato altro: si era reso conto di come il ricordo fosse diventato per me una trappola e aveva quindi preferito lasciarmi uscire da solo da quella trappola. Sì, aveva anche riconosciuto che il castigo inflittomi era modesto in confronto alla punizione che io stesso mi ero imposto insistendo nel portare a termine il lavoro. Ma adesso bastava. Quella storia non poteva più continuare. Il limite sopportabile era stato ampiamente toccato. Avevo qualcosa da dire? No? Allora mi chiese che ne pensassi di lasciare l'isola entro dieci giorni, per sempre. Dim–da-da. Era stato emanato un decreto sul mio caso, potevo andarmene dove volevo. Certo, non avevo imparato un mestiere - e di questo personalmente si rammaricava ma le capacità che avevo dimostrato, sia nella fabbrica di scope sia nella biblioteca dell'isola, erano superiori alla media tanto che poteva benissimo rilasciarmi gli attestati. Era cosa ormai decisa? Sì, la decisione era irrevocabile, non potevano essere concesse altre proroghe. Nemmeno per alcune settimane? Neanche per poche settimane. Ma il lavoro non era finito. La cosa era irrilevante. Solo provvisoria poteva essere la fine di un lavoro del genere. Bastava. Quando dovevo consegnarlo? L'indomani. La sua decisione era irremovibile? Irremovibile. Mi avrebbe aspettato verso le otto. Dim–da-da. I quaderni, c'erano tutti? Sì, ma desideravo riprendermeli: me lo permetteva? Naturalmente. Dunque domani mattina e pensa alla risposta da dare alla commissione ristretta. Risposta? Ti domanderanno che cosa intendi fare una volta dimesso. Mi pregò allora di scusarlo: doveva andare in città per partecipare a un congresso, ovviamente internazionale.
Stando così le cose chi avrebbe osato ricordargli il tè e la sigaretta che mi aveva promesso? Presi il mio fastello di quaderni, feci un inchino e tolsi il disturbo. E con un atteggiamento davvero ingrato, devo ammetterlo, passai in mezzo ai quaranta imbianchini–delinquenti senza badare al loro martellamento di saluto.
Dunque, liberazione. Dunque, consegna del lavoro. Che cosa mi restava? Che cosa mi riservava il futuro? Che cosa potevo aspettarmi? Alla svelta lasciai l'edifìcio della direzione. Non tornai però nella mia cella ma, a rischio di compromettere l'imminente rilascio, attraversai lo spiazzo in terra battuta, passai vicino alla fabbrica di chiavi e alle prigioni, dove vidi la faccia impassibile di Ole Plòtz. Ole non scontava i suoi soliti otto giorni di reclusione per tentata evasione, bensì ventun giorni: era riuscito ad alleggerire del suo contenuto la borsa di una psicologa venuta sull'isola per ragioni di studio. Quindi raggiunsi la fabbrica di scope, situata di fronte, e aprii la porta.
Le macchine erano ferme. Era l'intervallo di mezzogiorno. Odori precisi mi assalirono: odore di legno di conifere e odore di colla. Lì la sega circolare elettrica, là la punzonatrice, la fresa, il trapano. Qualcosa mi costrinse ad agire, un'idea: sistemai i quaderni l'uno sopra l'altro con cura, li misi sotto la punzonatrice, inserii la corrente, abbassai la leva di sicurezza e in alto a sinistra produssi un foro della dimensione di un manico di scopa. Nel buco infilai una corda, annodai le due estremità, e così i miei quaderni parevano pernici uccise in una battuta di caccia. Mi passai la corda sulla spalla, uscii dall'officina, e come un cacciatore a zonzo costeggiai il grande campo sabbioso di patate e scesi sulla riva. Sedetti contro un palo stinto dal sole, sormontato da un cartello rivolto verso l'acqua e provvisto della firma delle autorità isolane.
Rimasi seduto sulla spiaggia e seguii una nave che da Amburgo avanzava verso di me, un posacavi con la poppa tagliata. Che fare quando mi rilasceranno? Dove andare? Dove trovare un rifugio? Klaas se n'è andato, Hilke se n'è andata - posso tornare a Rugbiill? Ma anche se rimango ad Amburgo, potrò dire di essermi veramente sganciato da Rugbiill?
Era un posacavi inglese; con la chiglia pescava nell'acqua, carico all'inverosimile di rulli neri. In quali mari avrebbe affondato il suo carico? Quali paesi avrebbe collegato? Il mio cavo, lo so, non proseguirà mai oltre Rugbiill: quanto meno, una delle sue estremità porterà sempre alla casa di mattoni non intonacati, dove sentirò una voce sbraitare: Qui stazione di polizia di Rugbiill. Nessun fatto nuovo, nessun maremoto, nessun terremoto potrà mai interrompere questa comunicazione, a questo luogo sono e sarò sempre legato. Non serve voltar via la faccia, non serve tapparsi le orecchie e andarsene. Appena mi metto in ascolto, sento subito un ronzio, uno scricchiolio e insieme a quella voce sento il sottofondo delle grida lamentose dei gabbiani, lo spazio si allarga e si apre, le proprietà si ammassano sotto l'infuriare del vento e odo il rumore del Mare del Nord che con la sua schiuma lava il frangiflutti. Rugbiill è sempre là, immancabilmente: il luogo che ho interrogato da tanti lati e che mi è rimasto debitore di tante risposte. Non è possibile rinunciare. E io non smetto di interrogare, sentendo sempre nelle orecchie il folle grido dei gabbiani, il monotono frangersi dei flutti e il fruscio del vento che rovista le siepi.
Vorrei sapere chi bussa alle nostre porte quando infuria il temporale e chi fa uscire dalla stufa tremolanti folate di fumo. Vorrei sapere perché da noi disprezzano chi è malato e perché incontrando qualcuno che, come dicono, "ha le visioni" si sentono rabbrividire o hanno tanta paura. Chi evoca il buio e la foschia, chi fa bollire la poltiglia vischiosa delle paludi, chi attira sulla piana la nebbia, chi fa gemere le travi del tetto, chi zufola con le marmitte e chi interrompe il volo delle cornacchie facendole cadere sul campo: questo vorrei sapere. E mi chiedo perché lascino il forestiero fuori dalla porta e disdegnino il suo aiuto. E perché non possano tornare sui propri passi e cambiare idea: anche questo mi chiedo. Chi annerisce i pascoli per la sera e chi attraversa correndo i granai? E vorrei sapere perché da noi la gente ci vede meglio la sera che il giorno e perché tutti si accaniscono tanto nel portare a termine qualunque compito venga loro assegnato. Interrogo anche la loro muta avidità di cibo, il loro senso della giustizia e il loro culto della terra nel quale si beano. Interrogo pure la loro andatura, il loro modo di stare in piedi, i loro sguardi e le loro parole e non potrò accontentarmi di ciò che verrò a sapere.
In ogni caso fumai una sigaretta là sotto il palo, seppellii il mozzicone e prima di andarmene scrissi con il tacco la parola merda nella sabbia bagnata. Camminando sulla spiaggia, rasentando le canne dove gli uccelli migratori scendevano per la notte, percorsi metà dell'isola senza che nessuno mi vedesse o mi chiamasse. Non mi videro nemmeno i due cani: restarono seduti buoni buoni, l'uno vicino all'altro, appoggiati sulle zampe posteriori, a osservare l'Elba come se attendessero la loro nave.
Tornare. Tornai a passi lenti verso il nostro edifìcio e trovai la guardiola del portinaio vuota. Joswig stava evidentemente pranzando. I cassetti della sua scrivania non mi riservarono novità: c'erano sempre le fette di pane e formaggio rattrappite e in parte fossilizzate e in una busta delle monete antiche probabilmente destinate agli scambi. Nuovo per me era invece uno sgombro che a una stima approssimativa doveva avere almeno vent'anni: imputridiva beatamente mandando riflessi fosforescenti e riempiendo la guardiola di un fetore insopportabile; impossibile potersi abituare a quell'odore, nonostante tutto l'affetto che potevamo nutrire per il nostro amato sorvegliante. Non posso dimenticare la lettera, una lettera appena cominciata che, come notai con mia viva sorpresa, era indirizzata proprio a me ed era scritta nel suo tono inconfondibile: Caro Siggi, fra poco tu lascerai la nostra isola. Dall'altra parte ti aspetta la vita. Non è difficile immaginare che ci dimenticherai alla svelta. Per noi invece non è facile lasciarti andar via e non già perché non siamo contenti della tua liberazione, ma perché ci siamo affezionati a te. Ma così è la vita. A noi qui sull'isola, mi dico sempre, succede la stessa cosa che agli insegnanti: quando finalmente ci si è abituati a un ragazzo bisogna già prepararsi a dirgli addio.
Per il momento non gli era venuto in mente altro. Dunque, anche lui sapeva del mio imminente rilascio. Dunque, occorreva che consegnassi il lavoro. Ma Korbjuhn lo avrebbe letto e valutato? E poi? I miei quaderni sarebbero finiti su un ripiano di libreria per morire della silenziosa morte delle carte archiviate? O invece li avrebbero buttati al macero? O Korbjuhn li avrebbe dati al suo nipotino che non ha mai carta a sufficienza per provare i gessetti colorati? O li avrebbero trasmessi a qualche istanza superiore interessata al recupero dei ragazzi disadattati? Ma che importa! Io non ho niente da dire; mi restano solo alcune domande alle quali nessuno risponderà, nemmeno il pittore, nemmeno lui.
Quella volta Joswig ritornò senza far rumore. Comparve all'improvviso dietro alla vetrata della guardiola, bussò, rise, e accostò la faccia al foro del vetro. Andare a chiudere, cella due. Lo raggiunsi sul corridoio. Non sarebbe male, Siggi, rifletti: potresti fare il sorvegliante. Avrai un'uniforme, un mazzo di chiavi e una qualificazione. Ti ubbidiranno. Le ore di riposo ti sono assicurate. Hai buone prospettive di riuscire come educatore. Pensaci. Va bene, dissi. Mi misi la corda con i quaderni a tracolla e senza aggiungere nemmeno una parola lo precedetti fino alla mia cella. Aprì. Mi fece entrare e poi entrò a sua volta. Si prese lo sgabello. Io mi appoggiai alla finestra e vidi sul pontile d'attracco Himpel: lanciava segnali al vaporetto che arrancava tagliando la corrente.
Il tempo è passato. Quale tempo? Il tuo tempo sull'isola. Sembra proprio. Sei contento? Di che? Di andartene di qui, di andare dall'altra parte e fare qualcosa di nuovo. Qualcosa di nuovo? Ma che cosa? Forse qualcosa che si può fare da soli. Non esiste. C'è sempre qualcuno che ti manda alla malora quel che fai. Strascicando i piedi Joswig mi raggiunse alla finestra. Sentii che voleva dirmi qualche parola semplice, di conforto, qualche parola lubrificante per così dire, ma non riuscì. Riuscì solo a ricordarmi il pranzo di addio; era mio diritto scegliere il menu. Al mio posto, disse, avrebbe scelto la sogliola allo speck perché almeno era "reale". Gli promisi di riflettere sul suo suggerimento. Joswig mi sfiorò leggermente per salutarmi e mi lasciò solo. Con quanta circospezione, con quanta discrezione sapeva chiudere la porta quando voleva! Con quale sensibilità sapeva poi allontanarsi se voleva!
Da cinque giorni ho finito di scrivere. Domani devo consegnare il lavoro. Devo? Ciò che conta, aveva detto Himpel, non sono i risultati ma la buona volontà e la costanza che, sole, rendono possibili i risultati desiderati. Ma se era soddisfatto della mia costanza, perché dovevo consegnargli anche i quaderni? Avrei potuto regalarli a Hilke o a Wolfgang Mackenroth o all'indifferenza dell'Elba. Avrei potuto buttarli nel fuoco sopra alle sterpaglie del campo di patate o venderli come carta straccia appena rilasciato. Possibilità. Ci sono ancora delle possibilità. Ma saprò utilizzarle?
Accerchiato dal mio mondo, attorniato dai ricordi, paralizzato dai fatti, ossessionato dalla certezza che il tempo non suggerisce niente, assolutamente niente, so soltanto quel che devo fare, quel che farò domani mattina. Fallimento nei confronti di Rugbiill? Forse si può definirlo così.
In ogni caso mi alzerò alle sei, quando per i corridoi si scateneranno i fischietti dei sorveglianti, si accenderanno le lampadine in tutti i locali e dietro agli spioncini si incolleranno i loro occhi. Prima di accostarmi al lavandino per radermi e lavarmi guarderò come sempre l'Elba, non so nemmeno con quale speranza. Per qualche istante osserverò nella penombra il debole scintillio dei fanali e la loro traiettoria regolare, quasi solenne, e mi fumerò la prima sigaretta provando sicuramente un leggero senso di capogiro. Indosserò la divisa per l'appello, lascerò entrare Joswig che sul vassoio mi porterà la prima colazione: caffè annacquato e due fette di pane con marmellata fatta sull'isola con quattro diversi tipi di frutta. Come sempre mangerò solo una fetta di pane mentre dall'altra leccherò via la marmellata. Mangiando sentirò la canzone con cui sotto, in refettorio, i ragazzi disadattati saluteranno il mattino, un inno che ovviamente ha visto la luce qui sull'isola.