Quadri invisibili

Là dunque, dove Hilke e io andavamo a pesca, deve essere scaturita la vita con tutto quel che segue. Avete mai sentito una cosa simile? Secondo Per Arne Schessel, scrittore e studioso di cultura regionale, l'inizio si è compiuto là, sulla marina, oltre le dune sabbiose, dove la terra è grigia e color dell'argilla e la costa del Mare del Nord è incisa da minuscoli fiordi e disseminata di basse pozze d'acqua: l'essere che per primo riuscì a respirare, con tutto quel che segue, un giorno si sollevò dal fondo del mare, superò la fascia anfìbica, errò sul litorale, poi si ripulì dal fango, accese il fuoco e si fece il caffè. È mio nonno, quel granchio solitario, ad aver scritto queste cose.

In ogni caso io e mia sorella eravamo andati a pesca oltre le dune e attraversavamo il viscido fondale al largo della penisola. Hilke mi precedeva sempre. Con noi pescavano gli uccelli marini. Hilke si era sollevata il vestito e se lo stringeva sul ventre: aveva le gambe sporche di fango fino alle ginocchia e il bordo delle mutande annerito per l'umidità. Gli uccelli marini pescavano infilando il becco aperto nell'acqua delle pozze, sbattendolo e facendolo schioccare. Nelle profonde scanalature che il mare incide sulla costa, nelle ramificazioni verso il mare aperto, si pesca bene quando c'è bassa marea. Quasi sempre ci tenevamo per mano se dovevamo entrare in una pozza grigia o rasentare il fianco di uno dei nostri fiordi. Ci lasciavamo semplicemente sprofondare nella mota, tastavamo, sentivamo il fondo con le dita dei piedi e, appoggiandoci l'uno all'altra, avanzavamo sistematicamente nella melma e nel fango, sempre attenti ad avvertire qualunque cosa si inarcasse sotto i nostri piedi. Non appena stanavamo un pesce dal corpo appiattito, una razza, un rombo e molto raramente una sogliola, sentivamo sbattere, guizzare, dimenarsi. Ogni volta che pestava e bloccava un pesce, Hilke gridava e squittiva: non conosco nessuno che sappia pescare alla nostra maniera con la costanza di mia sorella. Sebbene soffrisse il solletico e ogni volta si impennasse e squittisse paurosamente, non si lasciava sfuggire nemmeno un pesce: li tratteneva sotto il piede finché io li afferravo e li tiravo fuori.

Talvolta sprofondava e l'acqua le arrivava alle cosce; allora si sollevava l'abito fin sul petto. Talvolta scivolava su un piatto banco argilloso come se camminasse sul ghiaccio. E si divertiva quando dal fango fresco salivano rutti e sputi e le bolle scoppiavano sul pelo dell'acqua, e si divertiva quando sprofondava morbidamente e regolarmente. Non dimenticava mai di tener d'occhio la corrente all'interno dei piccoli fiordi: se il fondale rigato dal moto ondoso diventava più resistente, subito si metteva a saltellare su una gamba sola e finiva su una delle cordonature anulari formate dagli escrementi dei vermi della sabbia. Allora prendeva granchi, cappelunghe, larve, li guardava per qualche istante tenendoli sul palmo della mano e subito li rituffava nell'acqua. Raccoglieva conchiglie vuote e se le infilava nelle mutande; l'elastico intorno alle cosce le impediva di perderle. Anche questi particolari sono necessari per la ricostruzione della scena, come lo sono la foschia sul Mare del Nord, le basse nubi a occidente, le raffiche di vento che increspano l'acqua dei piccoli fiordi e delle pozze e arruffano il piumaggio degli uccelli marini, il lontano rumore di un aereo solitario, lo scintillio sabbioso della penisola, l'altezza della diga - ancora più certa, ancora più indomabile vista dalle dune - e dietro, in cima alla duna, il capanno del pittore.

Io reggevo il cesto con i pesci. Seguivo Hilke tra le dune, miravo agli uccelli pescatori e come loro tentavo di saltellare su una gamba, calpestavo le giallastre montagnole di schiuma ammassate dal vento. I pesci si dimenavano nel canestro e per respirare muovevano affannosamente le branchie. Più volte Hilke mi chiese di pulirle con l'acqua corrente di un fiordo le gambe cosparse di filacce fangose, e ogni volta mi si appoggiava alla schiena. I gusci delle conchiglie nelle sue mutande si urtavano e tintinnavano come sonagli. Spesso appoggiavo il piede su minuscole alture e il fango mi sgocciolava tra le dita. Sulle cosce di Hilke l'elastico lasciava un anello rossastro, una striscia di pustole simile a una ghirlanda di punture di insetto. Il vento le scompigliava i capelli che a tratti le nascondevano interamente il viso.

Ci muovevamo già in direzione della penisola, credo, quando Hilke, che mi saltellava davanti, lanciò un flebile grido, si sedette sul terreno umido e si prese tra le mani il piede sinistro. Lo piegò, lo girò finché riuscì a vederne la pianta. La raggiunsi proprio in quel momento e mi accoccolai vicino a lei: nella pianta del piede le si era conficcata una scheggia seghettata, bianchissima, di una valva di mitilo. Non spezzarla, disse. E lei stessa afferrò la scaglia con due dita e velocissima la estrasse. Non aveva il fazzoletto. Allora prese un lembo del suo vestito ma non se ne servì per pulire la ferita. Usò invece l'orlo della mia camicia che mi sfilò dai calzoni. La ferita era a forma di falce, e già il sangue cominciava a diminuire.

Sta cessando, dissi, e Hilke ribatté: Ma non deve, la ferita deve sanguinare finché non si pulisce. Dopo una pausa chiese: Sei capace, Siggi? Ce la fai a succhiarla?

Come? dissi, e Hilke scuotendo la testa con impazienza: Come… ma con la bocca, naturalmente: succhiare e sputare! Si appoggiò sui gomiti, divaricò le gambe e sollevò il piede verso di me: mandava un delicato odore di fango e di iodio. Lo accostai alla faccia e guardai un'altra volta la ferita prima di sfiorarla con le labbra. Al primo momento sentii solo il sapore di fango e melma quindi sputai, succhiai, premetti leggermente con la lingua, sputai. A poco a poco ogni sapore svanì. Aprii gli occhi e vidi Hilke sdraiata davanti a me: mi fece un cenno di approvazione. Poi ritrasse il piede e guardò la ferita. Allora mi tese le braccia e io l'aiutai ad alzarsi. Si appoggiò alla mia spalla, io le cinsi i fianchi con un braccio: ci incamminammo così verso la spiaggia, verso la penisola dove avevamo lasciato calze e scarpe. Hilke imprecava a bassa voce: probabilmente aveva fatto dei progetti per quel giorno, non saprei dire quali, ma aveva evidentemente bisogno di entrambi i piedi sani.

Continuava a ripetere e a borbottare: Oggi, proprio oggi doveva succedermi, merda maledetta, perché non poteva capitare domani? La sua mano cominciò a diventare irrequieta: guardava spesso l'orologio, si sa come vanno queste cose. Zoppicava, appoggiava il piede sinistro solo sul calcagno e ogni volta compiva un breve movimento rotatorio sull'articolazione del ginocchio. Proprio oggi doveva capitarmi. Ma perché ti secca tanto? chiesi. Alla mia domanda mia sorella rispose letteralmente: Se continui così finirai per spezzarmi il fianco.

Scansavamo i fiordi più profondi, aggiravamo le pozze d'acqua di cui non sapevamo prevedere la profondità, ma non potevamo evitare di finire ogni tanto in una buca dal fondo limaccioso e di sprofondare fino al ginocchio. Le anitre selvatiche volavano basse, dirette agli stagni. I gabbiani erano occupati tra le dune insieme alle schiere di gambecchi e di ostraleghe. Stranamente non pioveva. Appena giunti alla riva della penisola, sulla sabbia sottile, mi lasciai cadere sulle ginocchia e afferrai Hilke per il malleolo. Intendevo pulire e succhiare un'altra volta la ferita, ma mia sorella rifiutò; infilò le dita sotto l'elastico delle mutande, fece piovere sulla rena le conchiglie, poi si accoccolò e si mise a contarle mentre io andavo a prenderle le calze e le scarpe. Non bastano, disse Hilke a un tratto, me ne servono altre dieci o quindici: me le vai a cercare, Siggi? E tu mi aspetti? No, rispose, io vado avanti. Riusciva sempre a sbarazzarsi di me. Radunò le conchiglie nel cesto buttandole semplicemente sopra i pesci. Con una calza si strofinò la pianta del piede per pulire la ferita, poi scrollò la calza prima di infilarsela, si aggiustò l'abito con la mano e affrontò il vento: dopo essersi annodata i capelli e avermi lanciato un saluto distratto, prese a zoppicare sulla spiaggia, verso casa.

Io rimasi sdraiato sulla sabbia. Mi puntai sui gomiti e la guardai mentre si allontanava: blu sul verde, blu sul beige; diventò sempre più piccola, sempre più invisibile, come accadeva a chiunque, uomo o donna, si avvicinasse alla diga. La diga con la sua massa panciuta dava l'impressione di rimpicciolire, appiattire, qualunque figura si muovesse ai suoi piedi. Quando fu in cima alla diga, Hilke si voltò a guardare, mi cercò e, scorgendomi, tese un braccio verso le dune come per ordinarmi: Adesso va a cercarmi le conchiglie.

Rimasi sdraiato e attesi che scomparisse. Ma anche dopo non andai sulle dune, perché nel momento stesso in cui Hilke ridiscendeva l'altro fianco della diga vidi un uomo alzarsi da un cespuglio di avena marina ai piedi della duna, un uomo smilzo: Busbeck. Si era sdraiato in mezzo all'avena per lasciar passare mia sorella. Portava qualcosa. Il dottor Busbeck portava qualcosa stretto contro il corpo e continuava a guardarsi intorno come se temesse di veder ricomparire Hilke. Il corpo chino in avanti, il braccio libero che vogava freneticamente, arrancò sul pendio della duna e, giunto in cima, lasciò capire la sua meta, la ragione per la quale attraversava la penisola. Doveva aver avuto in mano un fazzoletto, poiché di tanto in tanto sembrava tergersi il sudore dal collo e dalla fronte. Dava l'impressione di sentirsi braccato: avanzò senza mai fermarsi neppure quando si voltava a guardare e perlustrava con lo sguardo la spiaggia nella direzione opposta. I suoi movimenti lasciavano supporre rabbia e accanimento: non riusciva ad avere la meglio sulla sabbia franosa, sulla rena asciutta della duna che non offriva alcuna presa.

Lo ammetto: per raggiungere il capanno del pittore, si era scelto la via più breve ma anche la più faticosa. Il busto chino in avanti, puntava in quella direzione e di tanto in tanto con un gesto velocissimo si sfregava gli occhi; per l'esattezza compiva quel movimento ogni volta che attraversava un turbine di sabbia. Il vento sollevava la sabbia, la girava originando un furioso mulinello e la ributtava contro terra. Ridiscendendo la duna, incontrò minori difficoltà; pareva allora che il dottor Busbeck avesse voglia di ballare. Saltava e ballava, lasciandosi scivolare giù dal leggero pendio. Ma fece di corsa l'ultimo tratto che lo divideva dal capanno del pittore. Aprì il catenaccio urtandolo con la mano, lanciò una prima rapida occhiata tutt'intorno, poi guardò più a lungo frugando con inconfondibile diffidenza ogni metro della penisola, del litorale, della stretta striscia di terra ai piedi della diga. Solo allora con un balzo entrò nel capanno e richiuse l'uscio dietro di sé. In quel momento dimenticai le conchiglie e pensai: se uno si muove in una zona visibile in quel modo, in un modo così strano e sospetto, non deve stupirsi che ci si interessi a lui, che, supponendo le cose più incredibili, ci si metta a inseguirlo.

Non aveva ancora chiuso la porta che già mi ero alzato dalla rena e compiendo un ampio arco avevo preso a correre, chino in avanti, sempre pronto a buttarmi a terra. Ma non ebbi bisogno di interrompere la mia corsa.

Rallentare sempre di più e camminare in punta di piedi verso il capanno che mi avrebbe protetto dalla foga del vento, tenere il viso contro il legno per sentire meglio, avanzare carponi fin sul lato con le finestre, aspettare, adesso si sente battere, si sente scricchiolare, un chiodo arrugginito cigola sotto uno scalpello, alzarsi con circospezione, dando le spalle alla parete, più vicino alla finestra, soltanto non sfiorare la parete, ma che cosa sta facendo quello, perché lavora intorno alle tavole dell'assito, evitare un'ombra improvvisa, sembra che voglia smuovere le tavole con lo scalpello, chinarsi contro la finestra, eccetera eccetera.

Ci riconoscemmo subito. Mi parve che avesse calcolato la probabilità di una mia apparizione: appena mi chinai contro la finestra e appoggiai una mano sulla fronte per farmi ombra, i nostri sguardi si incontrarono. Il dottor Busbeck era più seccato che sorpreso. In ginocchio sul pavimento di legno, aveva davanti a sé lo scalpello con il quale aveva già smosso alcune tavole; a una stima approssimativa, ne aveva sollevate per un tratto di venticinque centimetri. Mi meravigliai, sì, che mi avesse scoperto così alla svelta ma soprattutto mi sorpresi che con le sue mani delicate fosse riuscito a usare lo scalpello e a schiodare le tavole. I nostri sguardi si incontrarono. Lui interruppe il suo lavoro mentre io, rimanendo sempre nella stessa scomoda posizione, guardai attraverso i vetri come se non fossi stato ancora notato. Non riuscivamo a staccarci l'uno dall'altro, e più i minuti passavano meno pensavamo io a fuggire e lui a proseguire il suo lavoro. Lui non depose lo scalpello e io non abbassai la mano.

Ma poi fece un cenno, mi lanciò finalmente un segno distratto. Il suo viso non mostrava più irritazione: mi invitò a entrare, e quando aprii la porta del capanno mi aspettava in piedi davanti al tavolo da lavoro. Sul pavimento c'era lo scalpello e, vicino, una cartella chiusa. Io davo probabilmente la sensazione di sentirmi in colpa, e deve essere stata proprio l'espressione del mio viso a indurlo a investirmi con quest'accusa: Mi hai seguito di nascosto e ci sei anche riuscito, ma con quale intenzione, perché, per incarico di chi, con quale scopo?

Sarebbe stato molto soddisfatto se gli avessi detto che era stato mio padre a sguinzagliarmi sulle sue tracce. Il dottor Busbeck, semplicemente, non voleva credere che lo avessi seguito di mia iniziativa, senza essere stato mandato da nessuno. Che cosa ti aspettavi? chiese. Che cosa volevi scoprire? Pesai lo sguardo sulla cartella e mi strinsi nelle spalle. Lui seguì il mio sguardo e per qualche istante rimase in silenzio. Dunque, perché? chiese di nuovo. E io: Non lo so, veramente non lo so. Alle mie parole perse la sua sicurezza, mi sembrò disorientato e imbarazzato come sempre e mi diede la sensazione di aver bisogno di aiuto. Incrociò le mani, le infilò entro i polsini inamidati, guardò timorosamente la spiaggia attraverso l'ampia finestra; dall'ingresso osservò invece la duna.

Va nascosta? chiesi sollevando la cartella. Me la strappò di mano con una rudezza di cui solo un uomo della sua natura poteva essere capace, ma il gesto successivo pareva già un gesto di scusa. Il costruttore di nubi, dissi, ma lui negò con la mano: sapeva che il pittore mi aveva affidato il quadro e che io l'avevo restituito a Ditte non appena l'automobile se n'era andata; sapeva tutto di noi e talune cose addirittura prima di noi. Stava dunque cercando un nascondiglio per la cartella. Max Ludwig Nansen stesso lo aveva mandato al capanno quando era ritornato da Husum. No, non è esatto. Va detto: quella mattina, appena tornato fiacco ed esausto, senza aver voglia di parlare con nessuno - il pittore aveva salutato Ditte con un cenno della mano e si era chiuso nella sua stanza. Aveva trascorso parecchie ore in solitudine e quando era ricomparso non aveva detto nemmeno una parola su quanto era successo a Husum, rispondendo alle loro domande con cenni negativi: evidentemente gli avevano proibito di parlare. Poi era andato a prendere la cartella, che aveva nascosto a Bleekenwarf, e l'aveva consegnata a Teo Busbeck pregandolo di portarla al sicuro, o almeno in un luogo piuttosto sicuro: lì nel capanno. Questo mi disse Busbeck e mi raccontò anche che i lavori contenuti nella cartella erano i più preziosi che il pittore credesse di possedere: lui stesso si era espresso press'a poco con queste parole. Ma dove nasconderli nel capanno, e come?

Il dottor Busbeck cominciò a cercare la carta oleata che doveva trovarsi nell'armadio, sotto l'armadio, o dietro l'armadio. Mi unii a lui nella ricerca e mentre cercavamo mi accorsi che quell'uomo non smetteva di osservarmi e continuava a cercare la carta soltanto perché non sapeva come comportarsi nei miei confronti. Non trovammo la carta oleata. Forse qualcuno l'aveva presa, forse galleggiava sulla superficie del mare o, forse, il pittore stesso l'aveva adoperata. In ogni caso, la carta che avrebbe dovuto proteggere la cartella e il suo contenuto non c'era. Quell'uomo ne constatò la mancanza più sollevato che deluso. Non c'è, disse, non si fa niente, senza la carta oleata è impossibile conservare la cartella sotto le tavole dell'assito. E chi sa, aggiunse, se questo è davvero un buon posto.

Come implicita risposta alla sua domanda, ritornò alle assi schiodate, le pressò, le riassestò. Lo aiutai anch'io e insieme saltammo sulle tavole, le pestammo e le ripestammo finché tornarono a incastrarsi. Quindi il dottor Busbeck conficcò i chiodi allentati con lo scalpello: il buco scuro sul cui fondo si vedeva brillare la sabbia umida, il nascondiglio, era dunque richiuso. La riporti via? chiesi. E lui: Sì, la porto via: qui non c'è carta oleata e questo non è affatto un buon posto. Lo pregai di mostrarmi i fogli contenuti nella cartella, ma lui si rifiutò e quando cercai di slacciare le cordicelle che la tenevano chiusa, protese la mano come per difenderla. Sono quadri nuovi? domandai. Quadri invisibili, disse.

Allora mi misi a supplicare e mi offrii di riportare la cartella a Bleekenwarf se me li avesse fatti vedere solo una volta, anche un solo quadro, sia pure alla svelta. Si rifiutò, non poteva. Disse: Non te ne fai niente. Sono quadri invisibili. Ma si possono almeno prendere in mano? Certamente si possono prendere in mano. E portare? Sì, anche portare. E appendere? Sì, anche appendere. Allora domandai per quale ragione li chiamassero quadri invisibili. Il dottor Busbeck si guardò tutt'intorno, verificò, si accertò, strinse la cartella sotto il braccio. Che cosa? Dicevo che se sono invisibili, quei quadri, non hai bisogno di nasconderli nella carta oleata qui sotto le assi; se sono invisibili nessuno può trovarli. Ciò che è invisibile è anche sicuro. Da questo punto - disse letteralmente: Da questo punto - hai naturalmente ragione tu. Pronunciò le parole girando la testa con aria distratta e avviandosi verso la porta. Ma a un tratto si fermò, si voltò e prosegui: Devi pensare che in questi quadri non tutto è invisibile: piccoli cenni, segni, allusioni - frecce se vuoi - be', questi si vedono. Comunque l'essenziale, ciò che è importante, non si vede. C'è ma non si vede, capisci? Un giorno, quando non lo so, in tempi diversi tutto diventerà visibile. E adesso non fare più domande, non dire più niente e vai a casa. E tu? Anch'io vado a casa. Comunque mi salutò con un sorriso. Allora si strinse la cartella contro il corpo e uscì dal capanno. Lo guardai per qualche istante mentre si avviava verso la duna arcuata: dapprima si mosse con esitazione, poi camminò in fretta, chinando il busto in avanti.

Il fruscio che veniva da fuori, dalle dune, era il rumore della marea. Spumeggiava contro i cordoni di sabbia che chiudevano i nostri fiordi, avanzava in lingue spumose oltre il litorale piatto e colmava le pozze e le buche della costa. La marea sommergeva l'erba e le valve dei mitili, liberava dalla sabbia i pezzi di legno, cancellava le orme degli uccelli marini, cancellava le nostre impronte, proseguiva inarrestabile verso nord, allagava la riva e la costa, quindi, stringendo il suo rapido accerchiamento, sbarrando una porzione di terra grigiastra, scivolava verso la penisola.

Niente conchiglie. Era troppo tardi per andare in cerca delle conchiglie che Hilke mi aveva chiesto. Quando uscii dal capanno, il dottor Busbeck non si vedeva più. Attraversai la penisola, avanzai sulla spiaggia verso le onde montanti: le aggiravo, indietreggiavo non appena facevano sul serio e correvano spumeggiando verso di me sul compatto terreno sabbioso. La cesta. Il mare. Avanti fino al faro rosso. Risalire l'argine, la diga, ridiscendere sulla strada ammattonata. Passare vicino alla chiusa e al palo stinto dalla pioggia con il cartello "Stazione di polizia di Rugbùll". Il vecchio carretto senza ruote — il nascondiglio degli anni infantili — mi sembrava ancor più sprofondato nel suolo, il timone proiettato in alto era marcito, mostrava lunghe fenditure, e al centro della superfìcie di carico, da sempre scheggiata, un'asse si era rotta. Dunque, avanti: oltre il carretto e il capannone. Ai piedi della scala di pietra mi fermai, fui costretto a fermarmi perché sopra di me, nel vano della porta, in attesa, portato dalla prospettiva alle dimensioni di almeno sette metri e cinquanta - come la volta in cui riconducemmo a casa Klaas sulla carriola - c'era mio padre. Bloccava per così dire il passaggio a tutto e a tutti. In ogni caso era impensabile poter passare senza fare i conti con lui. Mi fissò rimanendo immobile. Non si scostò, non allungò la mano, non mosse il viso asciutto. Mi pareva che la sua figura continuasse a crescere in altezza. Aveva un'aria così minacciosa che non mi azzardai a sollevare lo sguardo. Tenni gli occhi abbassati e fissai le punte tonde, bianche di muffa, dei suoi stivali. Fissai i suoi gambali infangati - non li portava soltanto per necessità ma perché gli piaceva metterseli - e constatai che i lacci delle stringhe erano lunghi e regolari. Si compiaceva quando le estremità delle stringhe gli riuscivano della stessa lunghezza. E si compiaceva anche del disagio improvviso e della tormentosa insicurezza che provocava con la sua presenza, semplicemente per il suo modo avido di aspettare: in quei momenti uno smetteva di avere un'ottima opinione di sé.

Che cosa aveva arguito? Che cosa dovevo ammettere? Fissai i suoi stivali, lasciai che il suo silenzio mi invadesse, mi rimpicciolisse, annientasse la mia volontà, e quando mi fuse riducendomi realmente alla dimensione di una moneta da cinque pfennig, i suoi stivali si mossero nel riquadro della porta, gli stivali si avvicinarono l'uno all'altro, ruotarono di quarantacinque gradi e mi si offrirono di profilo, mi mostrarono il loro profilo ridicolo e tozzo. Anche la sua faccia si mostrò di profilo. Adesso la schiena era addossata allo stipite di destra; mio padre mi dava dunque via libera. Fu la sua stessa posizione a consigliarmi di entrare in casa. Entrai passandogli davanti. In anticamera mi fermai e sentii che si stava girando sui tacchi. In ufficio, ordinò, e io lo precedetti nella stanza angusta. Avremmo avuto un confronto.

All'inizio si limitò a leggermi in viso. Mi inchiodò con il suo sguardo preistorico, ma probabilmente la lettura non gli fu sufficiente. Sedette con la schiena rivolta verso la finestra e disse: Su, parla! Ma come si può rispondere a un ordine del genere? Parla, disse, su, racconta, io non sento ancora niente. Mi era chiaro che pensava a qualcosa di preciso, ma: che cosa? Parla! Non far quella faccia ipocrita, parla. Dunque, parlare era per lui confessare. Tu ne sai di più, disse mio padre, di più di quello che mi hai raccontato. Credo che abbiamo fatto un patto, noi due. Volevamo collaborare, no? Che ti è successo?

Si alzò e incrociando le mani dietro la schiena si mosse lentamente verso di me: prevedevo che cosa sarebbe successo. Tuttavia mio padre ritardò lo schiaffo - uno schiaffo che doveva aiutarmi più che punirmi - lo ritardò parecchio, tanto che me ne stupii. Poi credette veramente che il ceffone avesse aiutato la mia memoria, l'avesse per così dire liberata: tranquillizzato, tornò alla sua seggiola. Tu sei sempre là, disse, per tutto il giorno ciondoli a Bleekenwarf, a te non sfugge niente: dunque parla. Siccome insisteva in quel modo, cominciai: Allora, ieri a Bleekenwarf abbiamo mangiato torta casereccia, il dottor Busbeck si è messo al sole a leggere, Jutta e io ci siamo arrampicati nella carrozza, quella vecchia, sai, quella che si trova nel capannone, e Jobst si è seduto a cassetta ed è montato su tutte le furie tanto che ha fracassato una frusta. Tutti i ricordi di fatti banali che riuscivo a scovare nella memoria glieli offrii: che Brodersen, il portalettere con un braccio solo, aveva bevuto il tè, che Ditte era andata a dormire dopo pranzo e che noi avevamo messo in fuga le anitre scacciandole dallo stagno e costringendole a raggiungere i fossati. Con quanta pazienza mio padre sapeva ascoltare anche fatti di secondaria importanza! Ma poi inaspettatamente disse: Non hai dimenticato niente? La pioggia? chiesi. No, quel ragno, disse, quel Busbeck che ha portato via qualcosa. Sembrava una cartella. L'ha portata fuori di casa e se ne è andato alla penisola dove c'eri tu. Se hai occhi in testa devi averlo visto. Ah, quello, dissi. Sì. E venuto oltre la duna, dissi, aveva abbastanza fretta, voleva andare al capanno e si è nascosto dentro. Forse voleva nascondere qualcosa. Credi? chiese. Nel capanno ci è rimasto un bel po', dissi, forse ha nascosto qualcosa sotto le assi del pavimento. Sotto le assi? E l'unico nascondiglio. Mio padre rimase in silenzio per qualche istante, poi disse: Il divieto… per lui non significa niente. Ha continuato a lavorare, di nascosto. Ma io lo pescherò, questa volta non mi scappa. Acchiapperò lui o quel che ha fatto e allora nessuno riuscirà più a tirarlo fuori dai guai. Gli dimostrerò che i divieti sono fatti per tutti, anche per lui: è il mio dovere. Nel capanno? dici. Sotto le assi? E possibile, risposi. È l'unico posto che possa essere usato come nascondiglio. Mio padre si alzò. Passandomi davanti si mosse verso la finestra e standomi dietro alle spalle compì dei movimenti che io potevo indovinare: dal rumore pareva si raschiasse via con il coltello il fango asciutto dai gambali di cuoio. Non osai girarmi. Non mi mossi e ascoltai i rumori che mio padre produceva alle mie spalle. Ma in quel momento un altro rumore, più forte, giunse dalla cucina: mia madre aveva acceso la radio.

Prima sciami di cavallette sbatterono contro una lamiera ondulata, poi si sentirono mugolii seguiti da fischi, quindi qualcuno fece funzionare un trapano elettrico e infine si annunciò una voce piuttosto confusa. Mia madre girò un bottone per regolare la sintonia e quella voce diventò chiara: una voce sicura, quasi allegra, che si udiva in tutta la casa. Venne diramata la notizia che l'Italia ci aveva dichiarato guerra; un bidone di re chiamato Vittorio Emanuele e un burattino presuntuoso di nome Badoglio l'avevano ritenuto necessario. Noi però, sosteneva la voce, non dovevamo nutrire la minima preoccupazione, non dovevamo neppure sentirci delusi per il fatto che il nostro ex compagno d'arme, eccetera eccetera… perché solo adesso, sosteneva la voce, contando esclusivamente sulle nostre forze, avremmo potuto mostrare al mondo intero ciò di cui eravamo capaci. Solo adesso, liberi da ogni riguardo per il nostro insicuro alleato, avremmo potuto realizzare le virtù celate in noi. Così sosteneva la voce. Quella voce esprimeva sollievo. Fiducia e in ogni caso sicurezza.

Così è l'Italia, disse mio padre. Mi voltai. Era davanti alla finestra e guardava verso gli stagni acquitrinosi. Nella prima guerra mondiale, disse, e adesso un'altra volta: così sono fatti gli italiani: tarantella e brillantina… Nient'altro. Avremmo dovuto saperlo.

Si stirò, si irrigidì, strinse i pugni, tese il deretano e di scatto si girò e mi passò davanti senza guardarmi. Andò in corridoio e lì, via via che completava l'uniforme - si allacciò il cinturone e la rivoltella - ricostituì il poliziotto armato di tutto punto voluto dal regolamento. Gridò dentro la cucina: Ciao. E poi - forse perché mia madre gli chiese a che ora volesse mangiare - aggiunse: Più tardi, facciamo tutto più tardi. Spalancò la porta e andò a prendere la bicicletta nel capannone. La spinse fin sulla strada di mattoni, montò in sella e arrancò in direzione della diga. Alla radio trasmettevano una marcia militare. Sì, sì, vai, mi dissi, vai con la tua bicicletta!

Anch'io non avevo fame. Anch'io volevo mangiare più tardi come mio padre perché prima desideravo sbrigare qualche faccenda nel vecchio mulino, ma non feci in tempo ad arrivare in corridoio che sentii gridare: A mangiare, Siggi, marsch!

Il lettore non tema che anche quella sera ci fosse pesce. Quella sera c'erano verdure cotte miste: fagiolini con pere e patate, niente carne, solo cotenne di maiale. Sedevamo in silenzio l'uno di fronte all'altra, io e mia madre, perché Hilke non era ancora tornata. Mia madre guardava pensierosa davanti a sé mentre affondava i denti in una patata e in una pera. Non aveva mai bisogno di soffiare: niente era per lei troppo caldo. Mangiava di malavoglia, con gli occhi persi, trangugiando lentamente. Riuscì a infilzare un fagiolino e lo fissò tanto a lungo da far sorgere forti sospetti su di lui; io mi dissi che dopo quella diffidente ispezione lo avrebbe appoggiato sul bordo del piatto e buttato nel lavandino. Invece lo sfilò dalla forchetta con i suoi lunghi denti, non lo masticò ma piuttosto lo spappolò con la lingua contro il palato e, sempre senza espressione, deglutì la poltiglia verdastra. Quando mangiavamo insieme, ogni volta che cominciavo a raccontarle qualcosa mi additava il piatto con un gesto imperioso e mi diceva: Il tuo compito è quello di mangiare, non parlare, mangia! Se invece mangiavo troppo alla svelta mi sgridava, e se non avevo appetito mi minacciava: niente mi divertiva meno che sedere a tavola da solo con Gudrun Jepsen.

Terminai molto prima di lei ma non mi lasciò andare. Ci teneva alla mia presenza e mi ordinò di rigovernare: i piatti sporchi nel lavandino, le pentole non ancora completamente vuote nella madia. Persino il tavolo dovetti pulire mentre lei continuava a restare seduta con aria assente facendo scricchiolare i denti di tanto in tanto. Ma io non voglio tirar per le lunghe la mia rabbia e non desidero affatto cominciare a descrivere mia madre vista di dietro: la crocchia ben tesa, il lungo collo punteggiato di efelidi, la schiena rigida, i fianchi prepotenti. Preferisco far entrare subito il sovrintendente alla diga, quel vecchio gallinaccio che, come avevo potuto constatare di persona, portava non uno ma tre distintivi del partito: uno sulla camicia, uno sulla giacca e un altro sul cappotto. Bussò quando era già entrato. Confondeva sempre i suoi nove figli: era dunque inevitabile che anche per me trovasse ogni volta un nome diverso. Mi chiamava Hinrich o Berthold o Hermann, talvolta anche piccolo Asmus. A me la cosa non importava purché mi facesse salutare la mia banca privata. Mi spiego: ogni volta che mi incontrava mi dava un centesimo e mi diceva: Saluta la tua banca privata.

Quella sera mi chiamò Josef, mi fece vedere la moneta e trovò adeguate parole di riconoscimento per il mio lavoro di sguattero. Non si sedette, ma si arrotolò, sulla seggiola, che per lui era troppo piccola e consentiva spazio solo a metà del suo deretano. Diede affettuosi colpetti sulla mano di mia madre. Respirava a fatica come se dovesse eliminare il vento che gli era entrato nei polmoni. Mi lanciava ripetuti cenni e con quelle strizzatine d'occhio approvava la mia solerzia, i miei continui andirivieni dal lavandino al tavolo, dal tavolo alla dispensa.

Proprio ora ricordo che mia madre non chiedeva mai a chi entrava in casa nostra la ragione della sua venuta: chi veniva era lì, e basta. Mi resi conto subito - dal modo in cui tese l'orecchio da tutte le parti - che Bultjohann non intendeva far visita a mia madre. Chiese infatti: Jens, c'è? Mia madre scosse la testa e il sovrintendente alla diga, chinando sul tavolo il busto voluminoso, disse: Deve agire, Jens deve agire. Sussurrò queste parole, o meglio le pronunciò nel tono che lui avrebbe definito sussurrato. Persino nella dispensa lo si sentiva più che distintamente.

Aveva visto qualcosa che doveva segnalare a tutti i costi: per questo era passato da casa nostra. Voleva riferire che verso mezzogiorno nel Wattblick… La sala vuota, Gudrun, e io me ne sto seduto per un po' vicino alla finestra e aspetto: riesci a immaginartelo, no? Non penso a niente, aspetto Hinnerk, ma lui non viene… Allora mi alzo, faccio qualche passo, lancio una voce: meglio non versarsi da bere da soli, te lo immagini, Gudrun. Penso che non possano essere… perciò mi dico: ma come ci si può far sentire? Si è sempre a disagio quando ci si… Si suppone che quelli possano pensare: Ma che avrà fatto quello in questo tempo. La radio. Nel Wattblick c'è una radio vicino al banco di mescita, lo sai, no? Gudrun. Io giro la manopola, aspetto qualche istante che si scaldi e a un tratto sento l'annuncio di radio Londra: quelli semplicemente l'hanno lasciata sintonizzata sull'ultima stazione che hanno sentito: capisci? Radio Londra.

Il sovrintendente alla diga Bultjohann scrutò mia madre sperando di trovare sul suo volto un segno di approvazione o per lo meno un segno di conferma: che aveva fatto bene a segnalare la sua scoperta e a spifferarla nella casa del poliziotto. Le sue aspettative andarono deluse. Mia madre non disse nemmeno una parola. Non si voltò neppure a guardarlo in faccia. Con gli occhi vacui, lo sguardo rivolto alla finestra - presumibilmente perso nell'autunno che fuori cominciava a mostrare i suoi colori — mia madre rimase seduta immobile al tavolo di cucina. Bultjohann, era evidente, stava invece considerando come sollecitare la partecipazione di quella donna. Ma bisogna averla vista, quella scena! Quel gallinaccio ansimante le prese un'altra volta la mano, le massaggiò l'avambraccio destro e si offrì di farle un nuovo racconto, più stimolante e breve. Nel Wattblick, immaginati Gudrun, è una cosa che interesserà Jens: quelli ascoltano emittenti nemiche. Hinnerk. Ho le prove.

Mia madre non si mosse. Mia madre lo lasciò finire, poi si risvegliò dal suo torpore, si toccò la crocchia, la sistemò, e inaspettatamente si voltò verso di me per ordinarmi: Vai in camera tua, Siggi, su, marsch, è ora. Di malavoglia uscii dalla dispensa, esitai, feci il muso lungo, andai al lavandino e cominciai a strizzare lo straccio. Mia madre lo ritenne un lavoro inutile perché disse con impazienza: Marsch, hai finito. Allora io appesi al rubinetto lo straccio unto, incrostato di resti di cibo e ancora sgocciolante: silenziosa protesta, tacito atto di accusa. Mi congedai senza dire una parola. Diedi la mano a mia madre, diedi la mano al sovrintendente alla diga Bultjohann, e per dimostrare loro che quanto a me potevano restare benissimo da soli in cucina, richiusi la porta alle mie spalle. Appena uscito afferrai il binocolo di mio padre appeso all'attaccapanni: non so se lo avesse dimenticato o lo avesse lasciato deliberatamente a casa. Senza saltare nemmeno un gradino salii di sopra, nella mia stanza. Nei miei oceani personali non era successo molto: era in corso la fine della Graf-Spee, che insieme a tre incrociatori inglesi avevo convogliato davanti alla foce del Rio della Plata; la Spee non aveva più alcuna probabilità di sal varsi e doveva affondare: avevo rievocato la battaglia in modo esemplare e questo ne era il logico epilogo. Mi avvicinai alla finestra e mi sedetti sul davanzale: cominciava a scendere la sera.

Quell'interminabile autunno. Una primavera breve, quindi un autunno interminabile. Tolsi il binocolo dalla custodia di cuoio ormai sformata e poco prima che calasse la sera captai quell'autunno in dischi nitidissimi. Parlassero pure quei due, giù in cucina! Il rado bosco a destra di Gliiserup, rachitico, scompigliato dal vento: già marrone. I prati e le siepi che correvano lontano verso Husum volevano essere ancora verdi, ma in realtà cominciavano a mandare riflessi giallo bruciato. I fossati ombrosi offrivano colori plumbei. Ma nel campo visivo si inserivano con grandissima frequenza zone di rosso mattone. Da noi non ci sono montagne, non ci sono fiumi né rive: soltanto la pianura verde, gialla, interrotta da strisce brune. Filari di ontani con i frutti neri che il vento getta nei fossati. Tutto - la campagna, gli alberi, i piccoli giardini - è striato di bruno, quasi ricoperto di muffa, come gli oggetti conservati da lungo tempo. Le vacche immobili nella sera, il loro respiro irregolare, alcune già coperte con la tela incatramata contro il freddo della notte. Volsi il binocolo e seguii l'orizzonte. Nel suo pometo il vecchio Holmsen raccoglieva le mele, a quell'ora tarda. Era in piedi su una scala a pioli, traballante, e lo si vedeva solo fino ai fianchi, mentre il busto sembrava dissolto nella chioma dell'albero ancora carica di foglie. Sul pennone davanti al Wattblick svolazzava una bandierina, il vessillo privato di Hinnerk Timmsen: campo bianco con due chiavi blu incrociate. Le chiavi le ha, ripeteva spesso mio padre, gli mancano solo le porte da chiudere. Sugli stagni si muovevano le folaghe, simili a tappi di sughero: avevano mangiato per tutta la prodiga estate e adesso erano incapaci di levarsi in volo. Il mio mulino. Il binocolo mi avvicinò il mio nascondiglio, la cupola a cipolla coperta di ardesia, la torre ottagonale, i telai bianchi delle finestre: anche gli ultimi pezzi di vetro si erano staccati. Individuai il cartone sulla fìnestrina dietro alla quale io e Klaas eravamo rimasti sdraiati e avevamo osservato l'arrivo dei cappotti di pelle. Litigavano di sotto in cucina? La radio. Mia madre aprì la radio. Riportai agli occhi il binocolo che per un attimo avevo lasciato cadere, e tornai a guardare il mulino: li vidi uscire dalla porta.

Devo ammettere che al primo momento pensai: ecco, il pittore ha scoperto il mio nascondiglio, il giaciglio, le riproduzioni dei cavalieri, la collezione di serrature e chiavi, e ovviamente il suo uomo dal mantello rosso. Per un caso, pensai, avrà scoperto il mio rifugio nella cupola e sarà salito con mia sorella per fare una perizia, un elenco delle cose trovate, per ammirare il tutto non senza un certo malessere. L'angoscia. Ricordo pure l'angoscia al pensiero che potesse avere staccato dal chiodo l'avvolgibile con l'Uomo dal mantello rosso. Ma uscendo non aveva niente sotto braccio, niente in mano. Sorreggeva appena mia sorella e la spingeva in avanti, delicatamente. Che cosa poteva averli portati nel mulino? Hilke zoppicava sempre un poco. In silenzio scesero per il viottolo che conduceva allo stagno. Al crocicchio si divisero. Si divisero in questo modo: i loro passi si fecero sempre più lenti, i corpi si avvicinarono sempre più e, quando si fermarono, le spalle si toccarono per un attimo. Forse il pittore sfiorò inavvertitamente Hilke passandole vicino, ma subito si girò di scatto come se volesse sbarrarle la strada. Non allargò le braccia. Prese invece le mani di Hilke e le strinse all'altezza dell'ombelico. Alzò e abbassò, alzò e abbassò le mani di mia sorella al ritmo delle frasi che continuava a pronunciare, frasi di esortazione, suppongo, di conferma, in ogni caso frasi brevi del tipo: Pensaci, o: Facciamolo, e simili. Hilke teneva il viso basso e non parlava, ma si esprimeva non opponendo resistenza al movimento delle mani del pittore.

In modo sorprendente, sorprendente almeno per me, il pittore lasciò le sue mani, no, le buttò per così dire in basso, si voltò, e di buona lena si incamminò o meglio veleggiò in direzione di Bleekenwarf, il busto chino in avanti e il cappotto gonfio. E Hilke? Di colpo fece un salto - poteva procedere solo a saltelli per via della ferita al piede - e sempre saltellando si avviò verso casa. Ma si girò più volte per agitare la mano. L'agitò senza successo, devo dire, poiché il pittore proseguì imperterrito e non rispose mai, neppure una volta, al suo saluto. A un certo momento Hilke si fermò a riflettere - lo capii benissimo perché rifletteva nello stesso modo inconfondibile della guardia della stazione di polizia di Rugbiill. Di scatto si girò e zoppicando - adesso zoppicava veramente - tornò al mulino dove scomparve per qualche istante. Ricomparve con il cesto al braccio, e con insospettata gioia, come se nulla fosse accaduto, prese il sentiero di Rugbiill, non dimenticando però di agitare ogni tanto la mano. Agitò la mano per l'ultima volta con un gesto meccanico, disegnando un movimento impreciso nell'aria, quando giunse alla chiusa. Poi scese sulla strada ammattonata e qui, all'improvviso, si ricordò di avere una ferita al piede: fu dunque costretta a zoppicare nuovamente.

Mi vide dietro alla finestra e mi minacciò con la mano. Io le feci un segno che indicava visite: in cucina ci sono visite. La cosa non la interessò. Sorridendo salì la scala e prima di entrare in casa si scostò i capelli dal viso. Nello stesso istante io corsi alla porta e mi appostai in vedetta. Hilke scoppiò in una risata: Bultjohann l'aveva dunque afferrata per il didietro, un modo locale di salutare; Hilke non tolse dalla credenza il piatto: non aveva quindi appetito; Hilke andò nella dispensa: lasciava quindi a mio padre il compito di uccidere i pesci, sventrarli e salarli. Aveva fretta di lasciare la cucina; comunque non augurò la buona notte.

Sentendo i suoi passi su per la scala, mi precipitai al tavolo e mi chinai per assistere all'affondamento dell'incrociatore corazzato Graf Spee. Hai vinto? chiese entrando, e io: La barca è a mal partito. Nonostante la ferita, mia sorella si avvicinò senza fare il minimo rumore. Mi passò un braccio intorno alla spalla e, chinandosi sulla battaglia navale che infuriava alla foce del Rio della Plata, mi accarezzò il collo con il dito. Cosa saprà, deve aver pensato in quel momento, cosa non saprà? Ma può darsi che abbia anche pensato: Per precauzione sii gentile con lui, questo in ogni caso non può danneggiarti. Non mi chiese delle conchiglie. Si diede da fare intorno al mio collo, mi accarezzò la nuca, appoggiò il mento sulla mia spalla fingendo un gesto spontaneo. In effetti non lo era: lo specchio mi rimandò i suoi sguardi incerti e la contraddizione mi fu subito evidente. Non indovini certamente che cosa desidero in questo momento! Che cosa? Fumare! Fumare? Voglio provare a fumare, poi possiamo aprire la finestra. La mamma non si accorgerà di nulla.

Mia sorella, non so più da dove, estrasse uno di quegli stretti pacchetti da quattro sigarette e lo appoggiò sulla carta nautica a nord delle Azzorre. Io scossi la testa e glielo ripassai facendolo scorrere sul piano del tavolo. Ma Hilke aveva già sollevato la mano come per protestare. Mi costrinse a trattenere il pacchetto. Allora lo presi e mi misi una sigaretta in bocca. Anche lei, dopo essere andata alla porta ed essere rimasta in ascolto per qualche istante, se ne portò una alle labbra.

Ci sedemmo a fumare sul mio letto. All'inizio fumammo con foga, una boccata dopo l'altra, guardando più il mozzicone acceso che non la nuvoletta azzurrognola, ma poi cominciammo a soffiarci il fumo in faccia. Si potevano scoprire le forme più diverse: foche, per esempio, pecore bioccolose e chiome d'albero. Il fumo che si rincorreva, avanzava e si dissolveva lentamente uscendo dalle nostre bocche, si mescolava, scorreva, si scontrava, e tra Hilke e me nascevano azzurri cervi, boe ondeggianti e sempre nuove pecore. Si formò anche un volto umano, un viso estatico ma inafferrabile, per il quale cercai invano una somiglianza.

Creavamo alberi e rimorchiatori; dallo scontro delle nostre colonne di fumo riuscii a evocare persino un tre alberi in navigazione: era davvero gradevole star seduti sul letto a fumare. Non tossimmo mai. Solo quando aprii la finestra e mandai fuori il fumo agitando una calza sopra la testa come un ventilatore, Hilke andò in bagno e vomitò. Tornò qualche istante dopo, sedette, si strofinò la bocca con il dorso della mano e attentamente tirò un filo di saliva fino a spezzarlo. Io buttai dalla finestra i mozziconi, richiusi la finestra e mi sorpresi vedendo mia sorella che ridacchiava.

Perché ridi? chiesi. Ah, Siggi, disse, cosa credi che farebbero di noi se venissero a saperlo? Polpette? chiesi. Sì, carne trita, disse, e aggiunse: Oggi tu non hai visto niente, mi senti? Oggi non ti ricorda niente. Si distese sul mio letto e si girò bocconi rilassando le membra pesanti. La lasciai respirare tranquillamente e le concessi di rilassarsi nella mia buca. Ma quando minacciò di addormentarsi, le chiesi: E nel mulino? Che cosa avete fatto nel mulino? Parve non capire la domanda. Stavo già per formularla con maggiore esattezza quando nella sua spina dorsale si produsse, oserei dire, un corto circuito: qualcosa scricchiolò, scintillò, vibrò dentro di lei. Balzò a sedere, si curvò e mi si avventò contro: la sua faccia rifletteva paura frammista a rabbia. Tientelo per te, disse. Mi hai spiato con il cannocchiale. Niente è successo, disse in tono di voce piuttosto alto, non è successo niente al mulino, hai capito? Ci siamo incontrati come capita di incontrarsi. Di sopra? domandai. Quando mia sorella mi guardò con aria stupita, mi sentii soddisfatto e la tranquillizzai: Per me, non ho visto niente.

Visibilmente sollevata, lei si abbandonò sul letto, immerse la faccia nei cuscini e compì il tentativo davvero comico di abbracciare il materasso. Immaginai Hilke morta e cominciai a osservarla con maggiore attenzione: la pesante collana di dadi di legno lucido, le sorprendenti saliere alle clavicole, la pelle rugosa dei gomiti. Sulle sue mani non c'era niente da dire - mi parevano normali - mentre l'attaccatura dell'orecchio era leggermente gualcita e la colonna vertebrale un po' troppo lunga. La toccai nel punto in cui il reggiseno le incideva la carne sulla schiena. Mi sarebbe anche piaciuto, ma non osai, contare le sue vertebre e batterle con le nocche per provarne il registro; in quel momento mi venne in mente Addi, il paziente fisarmonicista.

Con circospezione spinsi mia sorella di lato. Mi ubbidì lamentandosi e girò la calda massa del suo corpo per farmi posto. Ma i suoi movimenti mi parevano troppo lenti, troppo insonnoliti: in fondo si trattava del mio letto. Se non vuoi farmi posto, allora vattene, dissi allungandomi vicino a lei, e inaspettatamente provai un capogiro sempre più forte. Foche volanti, boe e pecore cominciarono a roteare allo stesso ritmo. Mi aggrappai a Hilke, cercai di colpire le pecore bioccolose, e udii il mio nome. Lontano, molto lontano, qualcuno mi chiamava, ripeteva: Siggi, vieni giù, Siggi. Hilke si rizzò. Aveva un'aria stordita, e là, accovacciata sul letto, la testa china, i capelli abbandonati da una parte che le ricoprivano il viso, somigliava a una scopa a frange di lana.

Il babbo, disse, ti sta chiamando, è tornato, e in quello stesso istante sentii la voce di mio padre: Ti ci vuole altro tempo, Siggi! Poiché non mi parve prudente irritare ulteriormente quell'uomo (che in quel periodo sembrava già abbastanza irritato) ritardando a eseguire i suoi ordini, scesi dal letto e mi feci aiutare da Hilke a ritrovare l'equilibrio: mi feci guidare da lei fino alla porta o meglio fin sulle scale. Mio padre gridò un'altra volta: Devo venirti a prendere, Siggi? Nella sua voce c'era impazienza, non ira, come potei constatare. Gridai di rimando: Sto venendo, e scesi la scala con passo pesante. Mio padre mi aspettava ai piedi della scala, con una piega di leggero disappunto sulle labbra e il braccio già teso verso di me. Mi strappò letteralmente giù dall'ultimo gradino e seguendo un'abitudine ben nota mi trascinò subito attraverso il corridoio fin nel suo angusto ufficio: di nuovo comunicazioni ufficiali. Il senso di vertigine si era calmato, quelle figure non mi accerchiavano, non mi avvolgevano più: mi sarei sentito capace di camminare sul giunto delle mattonelle, se qualcuno me lo avesse chiesto. Mio padre voleva da me una cosa del genere?

Mi trascinò fino alla scrivania e con mia viva sorpresa mi fissò per qualche attimo con uno sguardo particolare che pareva di elogio; giudicò addirittura opportuno battermi sulla spalla in segno di riconoscenza. Mi sentii allarmato. Quando disse: Hai fatto un buon lavoro, Siggi, sei stato davvero attento, cominciai a dimenarmi e tentai di liberarmi dai granchi che mi si arrampicavano su per la schiena, incalzati da un bruciante sospetto. Non riuscii a restare seduto tranquillamente. Mi girai di lato e subito mi chinai in avanti per poter vedere la scrivania attraverso il triangolo formato dal suo braccio piegato sul fianco. Hai veramente fatto un buon lavoro, disse, e io allora, pronto ma pieno di angoscia, domandai: Che cosa? Di quale lavoro parli? Mio padre fece un passo verso la finestra, mi liberò la visuale, addirittura mi additò la scrivania. Vedi? Naturalmente vedevo. Non aveva certamente bisogno di dirmi che cosa nascondeva la carta oleata verdastra, luccicante. Per me non aveva bisogno di pronunciare nemmeno una parola. Nel capanno, disse, sulla penisola, proprio come dicevi tu: sotto le tavole del pavimento.

Mi avvicinai alla scrivania e passai la mano sulla carta oleata; era fresca e liscia. Presi la cartella con le due mani e la soppesai come per gioco. Ho schiodato le assi con uno scalpello. C'era là un aggeggio del genere, disse mio padre. Nessuno, chiesi, non c'era nessuno? Neppure un'ombra. Neanche il dottor Busbeck? Neanche Busbeck. E il nascondiglio era fresco? Che significa fresco? disse. L'uccello era nel nido, e questo è quel che importa. Mi tolse la cartella di mano, la pose sulla scrivania, puntò l'indice e mi ordinò di aprirla. Esitai: volevo e nello stesso tempo non volevo. Comincia, disse, hai collaborato bene e per questo hai il diritto di presenziare e di aprire tu stesso. Mi tendeva, già aperto, il temperino con il rivestimento di corno nero. Lo abbassò sulla cordicella incerata. Non tentai di slegare la corda ma per guadagnare tempo vi appoggiai il coltellino, feci forza, e la corda si ruppe con un rumore secco. E adesso la carta, disse, la bella carta oleata.

Svolsi per benino la carta oleata liberando la cartella e lessi la scritta in caratteri cubitali: "Quadri invisibili". Apri dunque, disse mio padre. Guardiamo quel che si è permesso. Si accese la pipa, appoggiò un piede sulla sedia dello scrittoio, un gomito sul ginocchio, e si mise nella regolamentare posizione di riposo, la migliore per osservare dei quadri. Lui, il poliziotto. Pensai al dottor Busbeck, al nostro incontro nel capanno e alla sua spiegazione dei quadri invisibili che mi era parsa insufficiente. La cosa più importante, aveva detto, resta invisibile. Ma di che cosa si trattava? Su, ordinò mio padre, comincia.

Come posso descrivere quei quadri invisibili dei quali Max Ludwig Nansen aveva detto che contenevano il suo messaggio sul nostro tempo, la sua confessione sulle cose conosciute nel corso della propria vita? Che aveva ricavato da quelle esperienze e come le aveva raffigurate, fissandole nell'angoscia e nella luce? In che modo descrivere e guardare i suoi quadri invisibili? Anche nel caso di quadri visibili non basta la buona volontà. I suoi occhi hanno esaminato ciò che andava esaminato, la sua mano ha emesso ciò che poteva venire emesso, e tuttavia, credo, ha pur pensato a qualcosa di preciso.

Mio padre prese a dondolare il piede: Muoviti! Mi diede una leggera spinta come per ordinarmi di cominciare e fece schioccare la lingua: Muoviti! E io al ritmo da lui voluto cominciai a sollevare un foglio dopo l'altro, girai e appoggiai un foglio dopo l'altro seguendo i brevi movimenti della sua mano; ma non so dire che cosa lo inducesse a variare di volta in volta il tempo delle pause. Si intravedeva solo l'indispensabile: a mio giudizio solo la settima parte. Il resto - la maggior parte, bisogna riconoscerlo - rimaneva invisibile. Mio padre aveva già scoperto qualcosa? Quei segni, quelle allusioni - le frecce come aveva detto il dottor Busbeck - gli erano sufficienti per scovare quanto era stato volutamente taciuto e per trarlo alla luce? La sua seconda vista lo aiutava a colmare gli spazi vuoti? Neppure omettendo, tralasciando, ci si salvava dunque da mio padre? Io vidi solo ciò che si vedeva, e come allora anche oggi non voglio vedere altro.

Vidi una grande ruota che gualcava l'acqua girando rumorosamente, muoveva l'acqua di un fiume nero senza confini precisi, senza un cielo: si arrischi chi vuole a indovinare ciò che non si vedeva! Un altro foglio mostrava solo gli occhi di un vecchio, occhi che non conoscevano né la pensosa gentilezza né la disponibilità al dialogo, ma parevano indicare che davanti a lui c'era qualcosa di particolarmente irritante, una presenza assolutamente inaccettabile: tutto si può attendere da quella presenza invisibile, ma non un atto amichevole. Oppure un girasole, il disco d'un grigio terroso, stancamente abbandonato, il gambo curvo senza foglie, gli anelli dei petali gialli, scompigliati ma ancora lucenti: un'immagine che si potrebbe intitolare Autunno o Tramonto se il pittore non avesse lasciato vuoti i cinque sesti del foglio. Oppure l'albero, no, non un albero, ma solo la sezione ingrandita del tronco nel punto in cui la corteccia si gonfia dopo l'innesto, e su quel punto cade una luce ammonitrice. Ricordo diversi toni di marrone: senza dubbio ci sarebbe da narrare tutta una storia sulle cose taciute.

Mio padre non si spazientì, non mi spronò ad affrettarmi. Rimase in silenzio e nemmeno una volta, né con un gesto né con uno sguardo, lasciò immaginare quali reazioni suscitassero in lui i quadri invisibili. Il foglio successivo dunque: lo schienale istoriato di una sedia tipica della Germania del nord, più croci che stelle, rose grossolane e semicerchi spezzati e ovunque e sempre corone: ogni particolare sormontato da una corona, quindi anche il culo basso–tedesco che vi sedeva. O la giacca - probabilmente la giacca sdrucita di una divisa militare - appesa a un chiodo: si vedevano buchi, macchie e triangoli, o viceversa: i buchi e i triangoli guardavano l'osservatore, la giacca involontariamente diventava il testimone, la memoria di un uomo rimasto imprecisato: questo buco: una pallottola nella fuga; questo strappo: comune file spinato. Le cose tralasciate avevano più valore? O ancora: il pesce volante, trasparente, curvo come l'estremità di una frusta; o il punto trigonometrico, un'impalcatura triangolare di legno con un piano che sembra fuori posto; o l'ancora inusitata con il ceppo conficcato nel cielo, con le catene arrugginite che penzolano a terra mosse dal vento; o un volo di rondini, due frecce luminose che cercano una meta e la trovano; o il gonfio covone di fieno che il vento scompiglia e sospinge verso fattorie di cui si intuisce la vicinanza; o le orme sulla neve, nere e senza origine: chiunque potrebbe essersi fermato in quel punto; o le brocche per l'acqua incise da crepe e legate l'una all'altra con una corda; e un viso femminile buttato all'indietro, la bocca spalancata in un grido che nessuno udrà; o le ombre curve delle sartie di un cutter sfasciato, lo si può immaginare in secca; o le funi appese a un disco solare alle quali si possono legare tante cose. Ma non posso dimenticare le assi, la staccionata azzurra, cinque o forse solo tre assi con i necessari traversini, niente davanti né dietro, nessuno, unicamente un accenno di sfondo olivastro e sullo sfondo un piccolo faro rosso.

Questo foglio. Avevo appena sollevato il foglio con la staccionata azzurra del quale si poteva dire veramente poco, come per gli altri quadri del resto, quando mio padre con un gesto velocissimo mi afferrò per il polso, mi trasse a sé e disse: Perché tremi? Alla tua età non c'è ragione di tremare. Non so, dissi, non mi accorgo di tremare. Basta che il tremito non ti venga da questi quadri, disse mio padre. Tolse il piede dalla sedia e si girò verso la finestra. Disse: Si chiamano quadri quelli che uno appenderebbe e si guarderebbe volentieri per tutto il giorno. Quadri invisibili questi, ma non mi faccia ridere!

Scettico, seccato, non trionfante ma sempre più deluso, mio padre osservò la cartella appoggiata sulla scrivania. A un certo punto si diffuse sul suo viso un'espressione di sospetto, si manifestò una certa diffidenza che mio padre si portò in giro per l'ufficio. Dopo aver fissato le fotografie alla parete e avere chiesto loro il consiglio, la conferma di cui aveva bisogno, ostentò un sottile disprezzo. Mi fece cenno, lasciò che il suo onnisciente dito indice crescesse di misura mentre mi avvicinavo e disse: Ma noi non ci caschiamo, noi no, Siggi. Gli offrii la mia sorpresa e non persi d'occhio il suo indice. Farmi cadere in trappola, con questa roba voleva farmi cadere in trappola. Ma io li conosco i suoi quadri. Cose del genere sono pastoie per distrarmi, lo si vede bene, Uno scherzo, nient'altro.

Con movimenti secchi avvolse la cartella nella carta oleata, aprì un cassetto della scrivania e ve la fece scomparire. Se adesso pensa che io sia soddisfatto, si sbaglia, disse. Adesso comincia il bello, adesso che mi ha giocato un tiro simile. Doveva sapere che cosa si può e che cosa non si può fare con uno di Gliiserup… Non vale proprio la pena di inoltrare questa roba a Husum: quelli non farebbero che scuotere la testa. Devo riportarla? domandai. Qui non occupa spazio, disse, può restare tranquillamente nella scrivania. Ma perché tremi? Continui a tremare. Ti è successo qualcosa?