La seconda vista

Innanzi tutto faccio buio e passo la responsabilità della prima parte della serata al proiettore, proprietà registrata dell'associazione di cultura regionale di Gliiserup, acquistato di seconda mano, custodito, pulito e usato dal presidente, Per Arne Schessel, che io per abitudine chiamo mio nonno. Il proiettore è sistemato su un tavolo, il tavolo si trova nel corridoio mediano, sui due lati del corridoio sono accostate panche pesanti, diciamo pure massicce, che per ragioni inspiegabili scatenano un formicolio nelle gambe alla maggior parte degli spettatori. Perché il proiettore centri e copra interamente lo schermo, sotto la parte anteriore vengono infilati due libri tenuti sempre a portata di mano, I figli del senatore di Storm e la Messiade di Klopstock, libri che, grazie al loro spessore, garantiscono al cono di luce di coincidere perfettamente con il bordo dello schermo.

Lo schermo: è il retro di una carta storica dello Schleswig–Holstein, un quadrato grigiastro leggermente macchiato nell'angolo sinistro; sollecitato dal cono luminoso, lascia baluginare i contorni delle isole, delle coste e delle foci dei fiumi, dimostrando a chi nutrisse ancora dubbi al riguardo che se questa terra non è interamente stretta dal mare, ne è pur sempre minacciata da due lati. Lo schermo viene guardato da otto, che dico, da dodici o addirittura sedici persone sedute a destra e a sinistra, ai due lati del corridoio. Alcuni spettatori si sentono abbagliati dalla luce che esce da una fessura laterale del proiettore e viene rifratta dai vetri di armadi e armadietti addossati alle pareti o sistemati tra le finestre schermate. Nel cono luminoso sibilano schiere di insetti, vacilla una tozza falena che continua a misurare la distanza tra la lente e lo schermo e che urtando contro un ostacolo produce un piccolo turbinio metallico. Sulle panche si conversa con voce smorzata, qualcuno tossisce, nessuno fuma. Fa caldo. Dalla stalla vicina giunge di quando in quando un rumore di catene tirate fino al limite di tensione, il rumore che si produce quando un animale butta in alto la testa; talvolta arriva un grande strepito o un folle raspare. Folate di vento. Latrati di cani. Dalla semioscurità emerge contro lo schermo la faccia rossa, oblunga, sempre imbronciata, di mio nonno; persino la sagoma della sua testa sembra imbronciata. Il contadino Per Arne Schessel non ride, non sorride, non strizza l'occhio a nessuno, non rivolge mai uno sguardo amichevole: in piedi, pensieroso come un airone cenerino, sovrasta tutti. Basta la sua apparizione a spegnere ogni sussurro. Solo isolatamente si sente ancora tossire, a titolo, in certo modo, preventivo. E con ciò spero di aver dato un'idea dell'ambiente.

Ebbene. Vorrei sfruttare questo silenzio per ricordare che fino a quel preciso istante, fino all'apparizione di mio nonno contro lo schermo, tutte le serate a Kulkenwarf si somigliavano. Erano serate dedicate alla regione compresa tra Husum e Gliiserup, alla sua storia geologica, ai suoi affascinanti depositi calcarei, al suo prezioso limo, alla sua fauna e flora, ai suoi canali, ma soprattutto alle sue peculiarità e caratteristiche. Se mi concentro, se mi immergo, devo ammettere che delle riunioni del sodalizio culturale la mia memoria ha custodito soprattutto ricordi legati alla loro atmosfera: la calda semioscurità, il cono di luce emesso dal proiettore, gli insetti storditi, i rumori della stalla vicina, il brusio, l'allegria, vorrei dire, che accompagnava l'attesa dei partecipanti. D'inverno più sovente che in estate, le stesse persone venivano convocate a Kulkenwarf, la cosiddetta residenza degli Schessel, da Per Arne Schessel e ogni volta previo invito scritto.

Ricordo pure che nelle riunioni, tenute tra l'abitazione e la stalla - messa a disposizione da mio nonno per gli studi di cultura regionale - venivano esposti, chiusi in armadi o meno, anche i documenti della storia, della cultura e naturalmente delle particolarità paesistiche della regione. Solo per fare un esempio, prendiamo le fiocine con la punta di corno di renna. Prendiamo i raschini, le scuri e i martelli litici. Vorrei menzionare anche le urne, i bracciali dell'età del bronzo, le guarnizioni di foderi di spada, o gli ingegnosi vasi dell'età della pietra che potrei sempre decidermi a usare per i fiori con il gambo corto. Non posso tralasciare le else, gli ornamenti in legno e la famosa placca d'oro di Treenbarg, come pure i numerosi campioni di terra, sabbia e pietra, i resti di imbarcazioni degli acquitrini di Norschlotten, i capi di vestiario curiosi e assurdi usati dai primi cacciatori e dai contadini delle paludi e infine, quale vera e propria attrazione, il cadavere rinsecchito, contratto, diventato simile a cuoio, di una fanciulla che era stata strozzata con un laccio, ovviamente di pelle di renna, e che portava ancora lo stesso laccio intorno al collo come un rischioso monile. E poi vengono i libri, la biblioteca specialistica che mio nonno aveva collezionato nel corso degli anni: Viaggio geologico attraverso lo Schleswig–Holstein, Passato e futuro della costa, Una vita a Schobùll, L'abito verde delle mie isole, Il respiro del mattino, e infine la pila delle sue pubblicazioni, opuscoli e libri editi in proprio, tra i quali ricordo Il linguaggio dei tumuli, Oggetti rituali trovati nelle paludi di Norschlotten, nonché Le grandi mareggiate e loro conseguenze, eccetera eccetera.

Se qualcuno nota l'assenza di un titolo o di un ritrovamento archeologico, non ha che da aggiungerlo. Io ora vorrei accontentarmi di questi dati perché non posso lasciare ancora mio nonno immobile a guardare il cono di luce del riflettore, per quanto lui riuscisse, come anche altri ricorderà, a fissare a lungo il buio o una qualsiasi sorgente luminosa senza riportarne alcun danno. Inoltre mi vedo costretto a disperdere l'impressione che ogni riunione dedicata alla cultura regionale, cominciata nella consueta maniera, proseguisse anche nello stesso modo, e che quindi la descrizione di una sera possa valere per tutte.

Come ho già detto, fino all'istante in cui Per Arne Schessel comparve davanti allo schermo, io prevedevo una serata mediocre senza avvenimenti particolari; lo stesso pensava la maggior parte dei presenti. Ma la sorpresa si diffuse nell'aria non appena mio nonno levò le mani, lanciò un'occhiata sospettosa alla porta e ci pregò di fare silenzio. Rimanemmo in perfetto silenzio e persino il capitano Andersen soffocò la sua tosse. Dietro la porta non si muoveva nulla. Severo, la bocca leggermente aperta, mettendo in mostra i brutti denti, mio nonno non staccava gli occhi dall'uscio. Tutti volsero gli sguardi da quella parte, si sollevarono un poco, trattennero il respiro, ma non per questo videro entrare un tarchiato cacciatore di renne, un antico contadino delle paludi o re Sven, il primo esploratore dell'Inghilterra. Continuavamo a fissare la porta. A un certo momento, però, dietro lo stretto vetro lattiginoso intravedemmo qualcosa, il mozzicone acceso di una sigaretta, e udimmo un fruscio come se qualcuno si schiarisse la gola. Mentre Per Arne Schessel si predisponeva per un gesto di invito, sia pure parsimonioso, entrò Asmus Asmussen, autore del libro Fosforescenza marina e presidente onorario dell'associazione culturale di Gliiserup. Benché indossasse l'uniforme militare, fu subito riconosciuto e salutato con esclamazioni e battimani. Rispose con il saluto militare, ma con una certa affabilità, e spense la sigaretta. Era lui che aveva creato Timm e Tine, le due figure del romanzo Fosforescenza marina, divenute popolari da noi. Se non mi confondo, i due si erano conosciuti mediante il sistema del messaggio infilato in una bottiglia che poi veniva affidata al mare; e avevano trovato così vantaggioso quel sistema che anche da fidanzati e più tardi da sposi si erano sempre scambiati i messaggi consegnandoli al mare. Avevano continuato instancabilmente il loro gioco considerando sempre, anche in età avanzata, il sistema delle bottiglie come il modo più bello e in ogni caso più economico di comunicare; così, anche molto tempo dopo la loro morte, avevano offerto al loro autore la possibilità di scoprire su spiagge remote bottiglie sigillate contenenti nuove lettere con nuovi esempi delle loro prolisse confessioni.

Dunque Asmus Asmussen, che prestava servizio nel Mare del Nord su un battello guardacoste, era venuto da Bremerhaven approfittando di una breve licenza. Aveva le gambe storte e una capigliatura vigorosa e fiammeggiante. I muscoli del collo erano paurosamente pronunciati come in un sollevatore di pesi, mentre il suo sguardo conosceva tutte le sfumature dall'ardimento alla bontà. A vederlo, nessuno avrebbe immaginato in lui l'autore di Timm e Tine, se non fosse stato per quella sua bocca rivelatrice: sensibile, rotonda e piccola come una moneta da un centesimo, oserei dire. La bocca lo tradiva. Con destrezza si tolse dal capo il berretto da marinaio con i lunghi nastri, se lo mise sotto il braccio lasciando la coccarda e l'aquila ben visibili come prescriveva il regolamento, e si fece augurare il benvenuto da mio nonno. Annuì quasi a ogni frase del discorso. Pareva concordasse con Per Arne Schessel quando questi lo chiamava profondo conoscitore della patria, quindi difensore degli avamposti della patria. Non sollevò obiezioni nemmeno quando in lui venne salutato il poeta del destino locale e per finire la coscienza di Gliiserup. Asmus Asmussen continuò ad assentire e sorrise, in perfetto accordo, quando mio nonno annunciò il tema della serata sul quale si sarebbe espresso un competente. Il tema era: "Mare e patria", il competente: Asmus Asmussen. Allora mio nonno sedette.

L'autore di Fosforescenza marina depose il berretto sul tavolo, badò che i nastri ricadessero lisci per tutta la loro lunghezza, infilò una mano nello scollo della giacca e rovistò sempre più in basso. Siccome neanche allora raggiunse il suo scopo, si decise finalmente a cercare nella zona del fianco sinistro, alzando le spalle e stringendo le natiche. A un tratto si fermò sogghignando e con cauta lentezza estrasse una busta contenente fotografie. La sollevò nel cono di luce: si poteva cominciare. Volevo spostarmi sulla prima fila di panche ma mio padre mi trattenne e mi calcò sul sedile. Così fui costretto a rimanergli vicino sotto la finestra e a osservare la scena da quel posto. Asmus Asmussen attraversò il corridoio mediano e raggiunse il proiettore, inserì la prima fotografia ma non la fece vedere subito.

Che cosa succedeva a mio padre? Mentre Asmus Asmussen ringraziava, portava saluti da fuori e dava inizio alla sua prolusione, mio padre piombò in uno stato di eccitazione che non gli conoscevo. Slittava in avanti e indietro sul sedile, con le punte delle dita si strofinava gli occhi, sgualciva il fazzoletto, lo strappava e lo tirava. Più volte inarcò il busto all'indietro, e io temevo che perdesse l'equilibrio, si ribaltasse e cadesse in braccio all'uccellatore Kohlschmidt. Il labbro superiore era imperlato di sudore. Ogni tanto si scuoteva come se venisse sollecitato da un'imprevedibile tensione interna. Un'espressione di stupore invadeva il suo volto: evidentemente nemmeno lui riusciva a capire che cosa gli stesse capitando. Si tergeva la fronte di frequente con un gesto energico, intollerante.

Oggi ancor più di allora, nel ricordo mi sorprende quel suo modo di starmi seduto vicino, in preda a una sconosciuta agitazione. Allora, ovviamente, ero preso dalle parole di Asmus Asmussen e soprattutto aspettavo la prima foto proiettata sullo schermo.

Ma Asmussen non aveva fretta e iniziò con il diffondersi sul titolo "Mare e patria". Lo esaminò a lungo, lo mutò più volte, ne ricavò o gli strappò un nuovo significato inserendo al posto della "e" un "come" e pregò i presenti di meditare sulle infinite possibilità che scaturivano dall'identificazione del mare a una patria. Propose di abbreviare tranquillamente il titolo aggettivando il sostantivo, di parlare semplicemente di "patria marina"; la formula, disse, gli sembrava più completa e più profonda. Si soffermò a lungo anche sulla variante "il mare patrio", sviluppando soprattutto idee legate al concetto di maternità, ma non escluse la violenza che educa alla forza, alla pertinacia e all'ostinazione. Quindi aprì una parentesi e ci invitò a riflettere sul lungo cammino che dovevamo percorrere prima di poter chiamare il mare "mare patrio". Ma una cosa era certa, sottolineò, non difendevamo un mare qualunque, difendevamo esclusivamente un mare patrio.

A questo punto mostrò la prima foto: un battello guar dacoste beccheggiò su un cielo di onde bioccolose mentre in basso si allungava un cupo orizzonte frastagliato. Scoppiammo a ridere finché due dita enormi, ingrandite all'inverosimile, afferrarono la fotografìa per il bordo e la girarono: l'imbarcazione poggiava ora in modo soddisfacente sulla superficie del mare. Nessun dubbio: quel peschereccio regolarmente fornito di armi, che si chinava paurosamente imbarcava acqua e pareva destinato a rovesciarsi alla prima ondata, era il guardacoste sul quale Asmus Asmussen montava di guardia nella sua patria marina. La foto, come si poteva presumere, era stata scattata dalla coffa. Non si vedeva nessuno dell'equipaggio; no, non è esatto: sulla piattaforma di prua, dove si trovavano i mortai della contraerea, erano accoccolati due individui coperti da schizzi di schiuma che agitavano la mano al fotografo. Il battello non aveva un nome ma era semplicemente contrassegnato da un numero e suscitava un'impressione di abbandono totale o almeno di desolazione. Ma tutti ne subimmo il fascino: tutti ci siamo per così dire, trasferiti a bordo, ci siamo portati agli occhi un cannocchiale o ci siamo lasciati riempire di spaghetti con pancetta. Io conoscevo già il significato dei due anelli bianchi intorno all'affusto del calibro 37. Era invece diffìcilmente valutabile la forza del vento.

Questa è la nostra barca, disse Asmus Asmussen con voce monotona e tuttavia incalzante come il flusso della marea nei canali litoranei del Mare del Nord, e aggiunse: La nostra eroica barca. Vi prego di considerare che è una delle tante, uno dei numerosissimi battelli che, ben scaglionati in profondità, prestano servizio sul mare patrio. Di giorno e di notte. Con la pioggia. Nelle bufere di neve. Una catena sicurissima. Nessuno riesce ad aprirsi un varco in questa rete. Neppure una lepre di mare e tanto meno un inglese. Di battelli come il nostro, il Fuhrer ne ha piazzati moltissimi altri. Disse letteralmente: piazzati.

La mano di mio padre fu percorsa da un tremito. Sollevò il braccio, lo allungò, puntò l'indice verso il guardacoste, tentò di parlare ma la parola gli rimase nella strozza. Non riuscì a emettere neanche un suono, e quando Asmus Asmussen inserì un'altra foto nel proiettore lasciò ricadere lentamente il braccio. La nuova foto mostrava una sezione libera di mare sovrastata da un sole lattiginoso. Il battello non si vedeva, tuttavia nessuno immaginò che fosse già stato affondato perché sull'acqua si muoveva qualcosa di biancastro, di spumoso, qualcosa che può causare solo un'elica: il ribollimento del mare a poppa. La seconda foto era dedicata appunto a questo fenomeno: chiaramente riconoscibile, il solco si allargava fino a disperdersi contro l'orizzonte, una striscia fosforescente con formazioni di schiuma che si dissolvevano presto. Sembra la scia di un battello, gridò il capitano Andersen, e Asmus Asmussen, con voce condiscendente che invitava allo stupore, rispose: Fuori, sul guardacoste, non si tratta soltanto di prestar servizio. Chi sa resistere al mare, il mare lo ama e gli si apre con tutti i suoi sentimenti e segreti. Non è una scia? voleva sapere il capitano Andersen, ma Asmus Asmussen, che aveva imboccato la rotta del lirismo, proseguì imperturbabile: A chi non ci vive, allo straniero, questo mondo non si dischiuderà mai nei suoi molteplici aspetti; chi si è deciso per la vita in terraferma, non potrà mai comprendere i messaggi del mare. Vi prego di osservare che in questa fotografìa si vedono, anche se non risultano bene, dei fuochi artificiali: noi chiamiamo il fenomeno fosforescenza marina. Sulla superficie del mare compaiono bagliori, piccole lingue di fuoco, lampi gialli e verdi. In questi momenti le bocche dei mortai tacciono. La scia si fa luminosa, soprattutto la notte. E il saluto del mare agli uomini ai quali ha concesso il diritto di residenza. Un messaggio per salutare la nave che avanza a fari smorzati, ma con l'equipaggio ben desto fino a quando quei bagliori avvolgono prua e poppa. A questo punto Asmus Asmussen tacque e osservò immobile le immagini. Forse anche lui cercava come me di osservare la falena maldestra che reiterava i suoi tentativi per tuffarsi nella scia fosforescente disegnata dal battello, ma urtava pesantemente, intontita, contro lo schermo. Ad Asmus Asmussen riusciva penoso staccarsi da quella fotografia, immagino, e sembrò sconcertato quando il fotogenico capitano Andersen di novantadue anni chiese: La fosforescenza non dipende da quella porcheria detta noctiluca o da cose simili? Naturalmente, disse Asmus Asmussen, la fosforescenza ha una sua causa precisa: sono i microscopici abitanti dell'acqua, sono i flagellati a scintillare e a lampeggiare al minimo stimolo; sono minuscoli animaletti e, se vuoi sapere di più, sono modesti protozoi. Ma non sono parte del mare? L'uno non brilla forse nell'altro, tramite l'altro?

Asmussen non rispose alla sua stessa domanda e neppure aspettò che altri rispondesse. Abbandonandosi ai ricordi, fece una pausa. Mio padre interruppe quel silenzio e sollevando leggermente il deretano dalla panca gridò: VP-22, VP-22.

Per la sorpresa alcuni spettatori si voltarono verso di noi — mio nonno, Hilde Isenbiittel e Ditte - e Asmus Asmussen meravigliato constatò: Sì, è il numero della mia barca, è vero. Tutti si aspettavano che dicesse altro, ma mio padre sorrise impacciato, fece un gesto impreciso come di scusa, di costernazione, e si abbandonò sulla panca. Appoggiò la mano sulla mia coscia e stentò a lungo prima di accorgersi che non era la sua. Finalmente ritrasse la mano. Persino in quella penombra potevo leggergli in viso che gli stava accadendo qualcosa, che era eccitato, intimorito e, a quanto mi parve, tormentato. Comunque, fu certo in quella riunione dedicata al mare patrio che la guardia della stazione di polizia di Rugbiill cominciò a mostrare i segni di un male che:

- sebbene da noi non fosse un fenomeno del tutto insolito

- avrebbe avuto qualche conseguenza sulla prassi poliziesca della sua giurisdizione.

Ma io voglio confessare solo i particolari indispensabili e, adesso, togliere una sola immagine dal mucchio. Ed ecco Asmus Asmussen allontanare già dallo schermo la fosforescenza marina e mostrarci una nuova scena. Quale? Infilò nel proiettore una foto che ritraeva un'atmosfera serale: al termine di una giornata di fatica l'equipaggio riposava sul ponte; anche il Mare del Nord riposava. Alcuni marinai si sporgevano dal parapetto: non guardavano l'ampia distesa marina — ne avevano abbastanza di quella vista - ma osservavano uno di loro intento a suonare un piccolo organino sullo sfondo della bassa nuvolaglia serale che riusciva a nascondere un bel numero di cacciabombardieri Blenheim. Qui, disse Asmus Asmussen, non c'è molto da vedere. Una sera normale. Nessuno dei marinai ha l'obbligo di guardia; si riposano ascoltando una canzone, mentre a tribordo a montare la guardia e a scrutare indefessamente l'orizzonte ci siamo noi. Le armi tacciono, come si può notare. I segnali galleggianti sono stati lanciati. La cena è finita. Un nasello catturato da noi, merluzzo e baccalà: un pregevole arricchimento del menu di bordo. Il mare nutre tutti. Il mare. A sinistra in alto, in questo settore, la batteria antiaerea con quattro bocche da fuoco. Sull'estremità del ponte ovviamente non lo si vede — c'è il comandante. Ma questa foto non dice molto. Ecco, questa è forse più interessante. E Asmus Asmussen, profondo conoscitore del mare, inserì un'altra fotografia.

E mattino. Sul mare brilla il sole, libero e limpido, un sole che non impedisce di aver freddo. C'è mare grosso con ondate lunghe. Il VP-22 rolla: è evidente. Proprio in questo momento la sentinella a prua ha costretto alcuni gabbiani a sollevarsi in volo. Un sottile pennacchio di fumo si leva dal fumaiolo risvegliando ricordi di focolari domestici accesi di buon'ora. Di malumore il cuoco sta probabilmente già scaldando il caffè del mattino, e gli uomini del VP22 si stanno lavando i denti compromessi dallo scorbuto. La radio trasmette la musica del buongiorno diffusa su tutti i ponti e nelle cuccette. Vi prego di notare, disse Asmus Asmussen, che là nell'aria sono sospese delle bombe. Quattro bombe che a ogni istante… Contro il sole è difficile dire… ma a guardarle bene… Tutte cadono a tribordo.

Io balzai in piedi. Davanti e vicino a me altri corpi si irrigidirono sulle panche per la tensione. Nessuno si sarebbe aspettato quel colpo di scena, nessuno era preparato: l'atmosfera della riunione non ammetteva bombe, quel mattino sul guardacoste lasciava immaginare tutto ma non bombe a perpendicolo sul fianco di tribordo. Tuttavia le abbiamo viste. Un segnalatore le aveva riprese dando prova di grande freddezza d'animo. Due, colpite dal sole del mattino, addirittura brillavano di una luce nerastra. Cadevano ad altezze differenti e congiungendo gli stabilizzatori si sarebbe ottenuta una diagonale. Sarebbero piombate in acqua una dopo l'altra, in superficie o a una certa profondità, sarebbero esplose fornendo a un pittore di marine grandi attrattive prospettiche: quattro bombe di medio calibro, o meglio piuttosto piccole, sganciate da un aereo invisibile. Velocità, angolo di caduta, rotta della nave: la matematica in questo caso era favorevole al VP-22.

Una mattina qualsiasi, disse Asmus Asmussen, e tuttavia. Si deve essere pronti a tutto. Il mare tace, non conserva segni. Peccato che nessuno sia riuscito a fissare la scena dell'impatto, le fontane rigogliose. Nel mio diario ho parlato del giardino delle fontane attraverso il quale la barca tiene impassibile la sua rotta, eccetera eccetera. All'improvviso il capitano Andersen gridò: Da sotto non salta fuori niente? Asmus Asmussen diede l'impressione di non aver afferrato subito la domanda, e quando infine rispose nella sua voce si avvertì un'inconfondibile irritazione.

Il mare cancella rapidamente le tracce delle bombe, disse. Certo, dapprima si sollevano le alghe, alghe rossastre, alghe brune. Mancano le alghe verdi. Alghe e pesci morti ricoprono la superficie: triglie, rombi, sogliole e molti merluzzi. Rari sono gli scorpioni di mare, e ancora più rari i selaci, quali la razza o il gattuccio. Nessun omaro o crostaceo in genere. Il mare inghiotte con indifferenza queste vittime. Dopo breve tempo tutto si disperde, scompare e affonda. Dopo breve tempo nulla rivela più che in quel punto sia caduta una bomba. Il mare cancella ogni traccia. Non c'era niente sopra? gridò Andersen, e il conferenziere rispose: No, non ci sono state perdite, se è questo che vuoi dire.

Mentre Asmus Asmussen esaminava, ordinava o mescolava le altre fotografìe alla luce del proiettore, mio padre continuava a fare nodi nel suo enorme fazzoletto azzurrino: annodò una lepre, poi un porcospino, con un solo nodo al centro tirò il fazzoletto per le due estremità e ottenne un serpente che si era mangiato un coniglio. E non lo faceva perché conoscesse già le foto o si annoiasse. Doveva distrarsi, scaricare la tensione: vicino a me pareva sedesse una piccola cateratta tenuta sotto una pressione eccessiva. Quando sarebbe traboccata?

Traboccò quando con uno schiocco della lingua Asmus Asmussen inserì una foto che mostrava l'equipaggio del VP-22 mentre puliva la nave. Questa volta non c'erano le bombe sospese a perpendicolo nell'aria. Il mare era calmo. In fila, a regolare distanza l'uno dall'altro, con i frettazzi sollevati, sei marinai tra cui l'autore di Timm e Tine strofinavano e ripulivano le tavole del ponte centrale. Tutti fissavano la macchina fotografica. Tutti ridevano. Evidentemente si divertivano a frettare il ponte della nave e non si curavano del secchio rovesciato e dell'acqua saponosa che si spandeva. Il cielo era grigio, la visibilità cattiva. Nascosto sullo sfondo, o di lato, si poteva immaginare un organino che aiutasse gli uomini a tenere il ritmo.

Pulizia, disse Asmus Asmussen, il mare pretende pulizia. Vorrei far notare il secchio che si è ribaltato: sono necessari quattro di questi secchi pieni di sapone liquido per una completa pulizia della nave. Anche una patria galleggiante deve luccicare! Le squame dei pesci. La sabbia dei fondali. La vicinanza del pericolo non è una scusa per la sporcizia. Vi invito a osservare la schiuma.

No, gridò mio padre, no Asmus, e si sollevò indicando con il braccio puntato il VP-22. Parve strozzarsi ma urlò ancora: No, Asmus, aspetta, aspetta.

Quasi tutti si girarono verso di noi. Mio padre si passò il fazzoletto sulla fronte, barcollò leggermente e tentò di voltarsi per non guardare lo schermo, come se non potesse tollerare la vista dei marinai che spazzavano ritmicamente il ponte. Asmus Asmussen, tuttavia, non tolse la foto dal proiettore, si girò verso mio padre, lo fissò socchiudendo gli occhi e chiese: Che vuoi dire con il tuo no? Tutti puntarono gli sguardi su di noi attendendo la risposta che la guardia della stazione di polizia di Rugbull avrebbe dato. Ma non rispose: prima si slacciò precipitosamente i due bottoni superiori della giacca della divisa, poi si strofinò le mani come per lavarsele; esitò; quindi si avvicinò ad Asmus Asmussen. La striscia di luce del proiettore gli intersecò le guance come uno sfregio di fiamma. Posò la mano sull'avambraccio piegato di Asmus Asmussen e probabilmente glielo strinse. Nelle prime file alcuni si erano levati in piedi per cogliere meglio le parole che mio padre avrebbe detto. Dunque? domandò Asmus Asmussen, e con un gesto istintivo si portò al petto la busta con le foto non ancora proiettate.

C'era molto silenzio nello stanzone quando il poliziotto della stazione di polizia di Rugbull disse con molta calma, con una calma superiore alle aspettative: Aspettate, io vi ho visti. Che dice? gridò il capitano Andersen, e qualcuno lo mise al corrente: Ha visto qualcosa. Vi ho visti avvolti nel fumo, annunciò mio padre, poi è salito il vento e ha spazzato via il fumo e di voi era scomparsa ogni traccia.

Si udiva solo il monotono brusio del proiettore e l'eco dei rumori della stalla: il solito sferragliare e raspare. Sullo schermo i sei marinai con i frettazzi levati continuavano a ridere mostrando i denti e, imperterriti, pulivano il ponte della nave per la prevista fine.

Vi ho visti avvolti nel fumo, ripetè mio padre, e quando il fumo si dileguò, sulla superficie del mare galleggiavano solo giubbotti salvagente e zattere di salvataggio. Vuoti. Era questo, il vostro battello, il VP-22, che fumava. Si guardò intorno. Nella semioscurità della stanza cercò un aiuto, una conferma. Ma tutti tacevano sorpresi, e ormai non solo sorpresi: spaventati, sbalorditi. Nessuno voleva o poteva confermargli ciò che suo malgrado aveva visto su uno schermo visibile a lui soltanto. Rimaneva in piedi, quasi in atteggiamento di scusa per quelle sue parole, con le spalle curve e gli occhi bassi: dava tuttavia l'impressione di essersi rilassato. E Asmus Asmussen? Gli batteva sulla spalla per tranquillizzarlo? Con la sua profonda conoscenza del mare lo incoraggiava a giudicare un po' più ottimisticamente le prospettive del VP-22! O gli impediva di intromettersi nel futuro della sua nave? Asmus Asmussen tese la mano a mio padre. In silenzio lo ringraziò tenendogli la mano nella sua e spingendo, o piuttosto tirando verso il basso, quelle due mani strette che tendevano a sollevarsi. Solo quando il capitano Andersen gridò: Ha mai avuto le visioni, quello? Asmus Asmussen squadrò mio padre con aria non solo stupita ma anche timida e disse: Ci penserò, Jens. Lo dirò anche agli altri. Ci staremo attenti.

Poi gli batté sulla spalla con un gesto che intendeva tranquillizzarlo, lo fece ruotare sul fianco e gli impresse una velocità ben calcolata cosicché mio padre atterrò vicino a me senza eccessiva precipitazione. Con naturalezza, nonostante quanto gli era accaduto, ritrovò il suo sedile e sedette. La tensione si era visibilmente allentata. In cambio sembrava sfinito, svuotato, sconfitto. Ma gli altri, che pure non smettevano di guardare dalla nostra parte, non colsero questo mutamento. Taluni si erano addirittura irrigiditi per lo stupore, forse anche per la paura che mio padre potesse cominciare a far concorrenza al proiettore, a sovrapporre le proprie immagini a quelle proiettate sullo schermo o a mettere in dubbio queste ultime.

Su, comincia, dissi fra me e me. Nello stesso istante Asmus Asmussen introdusse una nuova foto e si accaparrò l'attenzione del nostro sodalizio di cultura regionale spiegando che i due uomini nel canotto pneumatico erano americani, aviatori americani; remavano verso una fiancata della nave. La fotografia era stata scattata dall'alto e di traverso. Gli aviatori indossavano giubbotti salvagente gonfiati; sodi salsicciotti si erano formati intorno al loro collo e le stesse giubbe parevano strozzarli. Affondavano contemporaneamente il remo nell'acqua e davano entrambi, per quanto si poteva capire, l'impressione di essere soddisfatti. Remavano verso la prigionia. Remavano per abbordare la fiancata del VP-22, dalla quale pendeva già una scala di corda. Una fune volava fendendo l'aria per agganciare il canotto pneumatico. Il resto si poteva intuire senza alcuna fatica.

I nostri calibro 37, disse Asmus Asmussen, quando ci sono arrivati a tiro, li abbiamo tirati giù. Una colonna di fumo. Ammaraggio di fortuna. Appena caduti in acqua hanno sparato un razzo. Da quel momento erano naufraghi. Lo sapevano benissimo. Americani. Per loro tutto è un gioco, disse mio nonno, anche la guerra. Non conoscono legami, disse Asmus Asmussen, un impegno morale è loro sconosciuto; dovunque si sentono a casa. Mangiano solo pappine e bevono limonata colorata, aggiunse mio nonno in tono seccato. L'ho letto proprio io: è la loro alimentazione tipica, quella che fa per loro. Si sentono a casa dovunque si trovino, disse Asmus Asmussen, quindi non sono a casa in nessun posto. Le loro canzoni: canti di viandanti. Le loro dimore: dimore di nomadi. I loro libri: libri di vagabondi. Vita americana: vivere come viene salvo contrordini, senza obblighi durevoli, alla giornata insomma. Diciamo: sul carrozzone dei loro pionieri. Borghesi, disse mio nonno sprezzante, borghesi e basta, anche quando vestono l'uniforme. Proprio così, ribadì Asmus Asmussen, e poi gli riuscì questa frase: Alle grandi tempeste resiste solo chi è ben radicato nella sua terra.

La frase era stata detta per chiudere l'argomento. Asmus aveva già sfilato dalla busta un'altra fotografìa e stava per introdurla nel proiettore quando mio padre interruppe un'altra volta il corso della proiezione, e non già per mettere il becco nella sua veste di poliziotto. Mentre le sue labbra si muovevano febbrilmente provando parole e frasi, avanzò come un sonnambulo verso l'oratore, ad assediarlo con le sue nitide visioni dell'imminente disgrazia, e garantì alla serata una nuova suspense dicendo: Te, Asmus, ti ho visto sul canotto pneumatico. Non ti muovevi. La tua mano penzolava fuori dal bordo e sfiorava l'acqua. Nessun altro era con te, Asmus, e non c'era niente nelle vicinanze.

Mio padre non aveva altro da aggiungere. Aveva detto quel che gli restava da dire. Non aveva più bisogno di parlare. Il conferenziere, come per difendersi, lo tenne lontano, non gli permise di avvicinarsi e disse: Aspetta, aspetta per favore.

Ma tu non ti muovevi nel canotto, disse mio padre piano a sua discolpa e Asmus: Ti vorrei pregare di non continuare a interrompere la conferenza.

La guardia della stazione di polizia di Rugbull si guardò in giro sconcertata. Cercava qualcosa. Cercava forse un altro schermo? Voleva proiettare le immagini, che aveva sviluppato nella camera oscura della propria mente, contro una superfìcie chiara per dimostrarne l'evidenza? Va bene, borbottò, va bene. Anche quella sera comprese e valutò la situazione con grande lentezza: era la sua fortuna; proprio grazie a questa sua lentezza riusciva a sopportare parecchie cose, innanzi tutto se stesso. Sospirando, si strinse nelle spalle e si mise in tasca il fazzoletto nel quale aveva annodato la propria agitazione. Senza mostrare sorpresa, guardò Hinnerk Timmsen che, probabilmente sollecitato da altri, gli era venuto vicino, e lo tirava per la manica chiedendo: Non è meglio andarsene, Jens?

Mio padre non si sorprese affatto che gli spettatori si alzassero quando, con passo da sonnambulo, percorse il corridoio per raggiungere la porta; guidato da Hinnerk Timmsen, il locandiere, pareva anzi sollevato come se fosse ufficialmente finita una proiezione che non lo aveva divertito molto. Mentre varcava la soglia disse: Per me, Hinnerk, possiamo anche andar via. Non notò affatto la muta spalliera di conoscenti davanti alla quale doveva passare, e io stesso indugiai alquanto, aspettai che qualcuno si fosse riseduto prima di uscir fuori, nel cortile di Kiilkenwarf pieno di pozzanghere. I due uomini si tenevano a braccetto, no, non è esatto: Timmsen teneva agganciato mio padre e nella chiara sera destate lo conduceva su per la strada che porta alla diga.

E utile dire qualcosa sul conto di Hinnerk Timmsen? Aveva una sciarpa lunga quanto la catena di mestieri nei quali - ogni volta con rapida decisione - si era provato e regolarmente era fallito, una sciarpa lunga fino alle ginocchia, floscia bandiera dell'insuccesso. Timmsen era stato marinaio, commerciante di bestiame, fabbricante di sacchi per cereali, bracciante agricolo, rigattiere e venditore di biglietti della lotteria. L'avevamo conosciuto già prima che ereditasse da una sorella la locanda Wattblick: vendeva il latte su una carretta con le ruote di gomma. Seguendo il suo istinto, all'inizio aveva tentato di trasformare il Wattblick in un grande locale, nel primo della zona, per così dire: c'era la musica, e lui stesso si esibiva come presentatore, comico e prestigiatore. Ma tutto sembrava aver congiurato per far naufragare i suoi sforzi: nel bel mezzo dei suoi numeri gli avventori si alzavano infastiditi, pagavano prima di aver finito di bere la birra, scappavano via lasciando i piatti ancora colmi. Anche allora le sue ambizioni erano rimaste incomprese, e se non fosse venuta la guerra avrebbe sicuramente cercato il successo in un'altra attività.. Era un uomo risoluto, Hinnerk Timmsen, un uomo altezzoso. Guidava mio padre su per la diga. Io li seguivo o li precedevo. I due uomini non si curavano di me, occupati a discutere fra loro. Mio padre si dispiaceva per quello che aveva detto, o meglio spifferato, e sembrava non conservasse ricordi precisi ma solo la sensazione di essere stato costretto a parlare, a dire quelle cose che erano state prese in malo modo.

Ho sbagliato? chiese più di una volta. Dimmelo, Hinnerk, se ho sbagliato. E quell'uomo corpacciuto, che si era cimentato in tanti mestieri, scuoteva la testa senza smettere per questo di tenere d'occhio il poliziotto di Rugbiill tormentato dai rimorsi. Lo osservava lanciandogli occhiate di traverso, lo guardava con aria preoccupata, direi talvolta con timida ammirazione: sembrava che lo ritenesse capace di ben altro, molto più di quello che gli aveva visto fare quella sera.

In ogni caso era in preda a una strana impazienza che lo portava a camminare in fretta. Tranquillizzava distrattamente mio padre pur continuando a spingerlo e a trascinarlo: prima sul coronamento della diga e poi giù sulla marina. Il Mare del Nord avanzava lento, perdeva forza contro il frangiflutti e si frangeva quietamente, come al rallentatore. Niente fragore, niente violento risucchio quella sera. Il mare dimenticava di sollevare zampilli d'acqua tra le pietre e i blocchi di cemento. Sopra di noi una squadriglia di aerei volava a grande altezza in direzione di Kiel. L'odore di iodio del mare, i venti carichi di salmastro: come tutto si avvicina, come tutto è pronto a tornare se solo si coglie il momento, se solo si trovano le parole! Basta annaspare un po' cercando quelle sensazioni, o ascoltare, ascoltare una voce che di quando in quando ti raggiunge. Ma è meglio evitare ciò che facilita, meglio non aver fiducia in quella voce a cui il dubbio è sconosciuto: qui c'è la diga, là il Mare del Nord e davanti a me camminano i due uomini.

Scendemmo al Wattblick. Salimmo sulla terrazza di legno lanciata sopra la diga. Le larghe finestre con la vista sul mare erano schermate. Il palloncino che indicava la direzione del vento era sempre appeso a un palo ma si era afflosciato. Sul mare, fasce di grigio intersecavano le ombre bluastre. Mio padre prese la bicicletta dal posteggio e la girò, ma Hinnerk Timmsen disse: Venite dentro, giusto per un bicchiere. Oggi no, disse mio padre. E Timmsen con insistenza: Solo un bicchiere, no? Alcuni istanti di sì e no, poi alla fine mio padre, sempre tormentato dai rimorsi, rimise la bicicletta nel posteggio. In fila indiana entrammo nella sala passando dalla porta laterale. Non c'era nessun avventore. Solo Johanna era seduta e sferruzzava. Vedendoci, non ripose la calza: Johanna, la donna che era stata sposata con Timmsen e che ora lavorava per lui, rispose appena al nostro saluto e si trincerò dietro al lavoro. Timmsen ci rimorchiò fino a un tavolo e si prese cura della guardia della stazione di polizia di Rugbiill.

Si curò di lui con zelo ostentato: diede un'energica ripulita al tavolo; cercò dei sottobicchieri; con una risata eloquente andò a prendere la bottiglia del rum che serbava in un armadio per le grandi occasioni; lo versò facendo intendere di misurare la porzione molto generosamente, eccetera eccetera. Mai aveva servito mio padre con tanta sollecitudine. Appoggiò la bottiglia sul tavolo, in una sottintesa trasgressione del precedente accordo: il poliziotto poteva servirsi a suo piacimento. Ora sulla faccia di Hinnerk era comparsa un'espressione di frenetica, rischiosa giovialità. Proprio a questa gaiezza, vagamente minacciosa, si poteva imputare la precipitosa fuga di molti suoi avventori; ricordo esattamente di aver esitato a lungo prima di assaggiare la limonata che mi aveva messo davanti. Calcolò ogni movimento e non sedette prima di avere allontanato Johanna.

Non le disse una parola, semplicemente storse la faccia ed emise un lungo suono sibilante, il verso che si fa per scacciare i polli. Risultato: quella donna larga, vestita con trascuratezza e con i capelli bruni annodati sulla nuca, arraffò con rancore il suo lavoro a maglia e scomparve. Timmsen sedette in mezzo a noi. Sollevò il bicchiere e brindò con mio padre, quindi con me strizzandomi l'occhio e spiegando solo in un secondo momento i motivi del brindisi: A te, Jens, a questa importante serata.

Sedevamo così nel Wattblick mentre a Kiilkenwarf veniva sicuramente dimostrato come il mare patrio sia in grado di rispondere a ogni domanda. A qualsiasi domanda? Ma perché solo da noi la gente teme di confessare la propria ignoranza in questo o in quel campo? L'enorme stupidità alla quale porta il nazionalismo è tutta qui: nel ritenersi in grado di rispondere a ogni domanda. L'orgoglio della limitatezza…

Ma non divaghiamo, restiamo nel Wattblick: soffitto basso a strisce verde scuro, stipiti decorati con conchiglie, fanali di navigazione usati come lampade, bandierine della cassa di risparmio di Gliiserup, un timone in miniatura illuminato, alle finestre cassette di fiori vuote con la vernice bianca che si scrosta sul bordo, portacenere scuri, di ferro, con scritte pubblicitarie, tavoli protetti dalla tela incerata ormai tutta sporca, un tavolo rotondo per gli avventori abituali vicino al banco di mescita, una nave salvadanaio dell'associazione per l'assistenza ai naufraghi, un tavolino portafiori su cui erano appoggiati vecchi giornali, fotografie sbiadite con scene balneari se non proprio degli ultimi mille anni, senz'altro degli ultimi trecento.

Eravamo seduti al tavolo rotondo. Io finii per primo la mia bibita. Con la macchia circolare lasciata dalla brocca dell'acqua mio padre formò il triangolo della penisola indiana e aggiunse a ovest qualche isoletta. Si era completamente chiuso, nel suo tormentoso complesso di colpa, che tuttavia non poteva o non voleva spiegarsi. Beveva con indifferenza. Hinnerk Timmsen dopo il primo sorso non toccò più il bicchiere: osservava mio padre con impazienza; con impazienza e curiosità, come si guarda un giradischi automatico quando i dischi girano scintillando; e il suo sguardo pareva pretendere una risposta. Proprio quello sguardo, al di sopra del grog fumante che si andava raffreddando, lo tradiva: da mio padre si aspettava qualcosa di preciso.

La scena al Wattblick è stata ormai ampiamente preparata, l'indimenticabile scena che incominciò così: il poliziotto (a occhi bassi): Fra poco dobbiamo andare. Timmsen (balzando in piedi): Non ancora. C'è un'altra cosa che devo discutere con te. Versati tranquillamente da bere. Poliziotto (sfinito): Stasera no. Finiamo di bere e ce ne andiamo. Timmsen (in piedi dietro la sedia di mio padre): Se non ti secco troppo, Jens. E solo un consiglio. Nient'altro. Non ti comporta nessun rischio. (Versando di sorpresa da bere a mio padre): E nemmeno fatica, penso. Poliziotto (afflosciandosi su se stesso): Oggi mi puoi raccontare tutto quello che vuoi. Non capisco più nulla. Non so che cosa mi sia successo alla testa. E come se tu parlassi al muro. Timmsen (scostandosi e scrutando mio padre di profilo): Non mi preoccupo certo per me (lontane detonazioni, i vetri tremano). Probabile che siano mine. O qualche altra vaccata là fuori. Per autoaccensione, immagino. Dunque, ascolta. Poliziotto (con un gesto di rifiuto): Stasera non mi viene in mente più niente, ti dico. E poi il ragazzo. Deve andare a letto e a me fanno male gli occhi (si scherma gli occhi con la mano). Timmsen (sollecito): Devo spegnere la luce? (a passi rapidi raggiunge l'interruttore e spegne la luce): Bene, è una cosa che si fa anche al buio, se ti dolgono gli occhi. Poliziotto (confuso): Accendi la luce. Se no mi addormento. Timmsen (come spiritato, al buio): Non occorre che tu mi risponda subito. Hai tutto il tempo. Poliziotto: Riaccendi la luce. Timmsen (come spiritato, la mano sull'interruttore): Che faresti al mio posto. Ho una fonte che mi fornisce uova. E una alcool. Ho già calcolato tutto. Vorrei aprire una fabbrica: liquore di zabaione! Nutriente. Tonificante. Fornirò la Wehrmacht. Poliziotto (stanco): Con un liquore di uova mi faresti scappare. Chi sa chi lo ha inventato! Timmsen (imperterrito): Mi domando se una fabbrica del genere avrà successo. E questo che mi interessa. Certo, dovrei ottenere l'autorizzazione. E finita la guerra potrei ingrandirla. Poliziotto (ridendo): Con gente come me tu finisci sul lastrico, Hinnerk. Timmsen (accende la luce, curioso): Mi chiedo se la cosa non può avere buone prospettive. Uno stanzone pulito per la distilleria, per esempio, e un bel caminone in muratura. Poi la palazzina dell'amministrazione. Uomini e donne in camice bianco si intravedono dietro le finestre, con le provette in mano. Davanti alla grande cancellata si fermano i camion, suonano il clacson. Sull'etichetta, la scritta: Timmsen, liquore di zabaione. Poliziotto (beve sorridendo): Quel che ti consiglio è di berle, le uova. E beviti anche una grappa se ti viene voglia. Ma lascia stare il resto. Timmsen (incredulo): Non vedi altro? Poliziotto (sincero): Che cosa vuoi che veda? Ma guarda soltanto la bottiglia. Quando la versi, escono schizzi di roba gialla, grumosa. Chi non ne ha abbastanza solo a vederla? Timmsen (tornando al tavolo): Poi verrà l'esportazione. Ci sono regioni dove berrebbero veramente volentieri questo liquore. E poi lo si può fare anche più liquido. Poliziotto (esausto ma divertito): Io, Hinnerk, se verrò da te, mi farò dare le materie prime. Timmsen (beve deluso): Ma quando sei stanco? Riesci a trovare qualcosa di meglio per quando sei stanco? Poliziotto (senza capire): Che intendi con il tuo stancarsi? Io ho bevuto quella roba una volta sola, il giorno della mia cresima, e mi è bastato fino a oggi (beve e si alza. Ma si siede subito quando riconosce l'uomo che avanza nel buio. Max Ludwig Nansen si ferma indeciso sulla porta. Sotto il braccio ha la cartella degli schizzi). Pittore: 'sera a tutti. Si può avere un tè? Con qualcosa dentro? (Si siede a un tavolo vicino alla finestra.) Timmsen: Se vuoi puoi avere anche un grog. L'acqua è ancora bollente. Pittore (pulisce la pipa): Tanto meglio, Hinnerk. Sono fortunato. Poliziotto (si appoggia allo schienale della sedia e osserva il pittore). Timmsen (preparando il grog): Ma dove sei stato? A Kulkenwarf oggi avresti avuto delle sorprese. Non ci crederai, ma sai chi è capitato là? Asmus Asmussen. Pittore: Immagino, quello va sempre a zonzo per il Mare del Nord. Con il suo guardacoste. Timmsen: Ha proiettato delle fotografie. Sulla vita di bordo, eccetera eccetera. E le ha commentate. Pittore (sminuzza un mozzicone di sigaro): Frasi lunghe, immagino. La serata è già finita? Timmsen (tendendo il bicchiere al pittore): Se ti siedi al nostro tavolo, non devo portartelo fin là. Pittore: Non bisogna mai disturbare i festeggiamenti (si alza, si prende il bicchiere e lo porta al suo tavolo. Con un inchino divertito): Alla salute di tutti! Timmsen: Noi ce ne siamo andati via prima da Kulkenwarf. Jens non era di buon umore. Poliziotto (contrariato): Che significa: non era di buon umore? Timmsen: E accaduto nel bel mezzo della conferenza. Qualcosa è scattato in lui. Si può ben dirlo. Pittore (riempiendo la pipa e poi accendendola): Bravo chi vi capisce! Timmsen: Pensa a Heta Bantelmann. O a Dietrich Gripp. Quello che hanno visto, è accaduto veramente. Pittore (sorpreso): Jens ha lo sguardo profetico? Lui? Finora non me ne sono accorto. Timmsen: Chiedilo ad Asmus Asmussen. Quello sa che cosa si deve aspettare. Quello è ora al corrente. Jens questa sera glielo ha spiegato. Avresti avuto anche tu la tua bella sorpresa a Kulkenwarf. Poliziotto: Smettetela. E una cosa passata e dimenticata. Timmsen: Basta una volta. Poi ti torna, come la malaria. Mio fratello non è mai riuscito a liberarsene. Chi ha le visioni una volta, le ha sempre. Heta Bantelmann sapeva quale casa sarebbe bruciata per prima. Pittore (appena visibile nell'ombra e dietro a nubi di fumo): Con il suo mestiere, la cosa torna comoda. Gli renderebbe più facile il lavoro, in ogni caso. Timmsen: Ha visto Asmus Asmussen andare alla deriva su un canotto pneumatico. Una mano gli cadeva in acqua. Pittore: E con questo? Farebbe meglio a starsene sulla terraferma. Poliziotto (indispettito tamburella sul tavolo con la tabacchiera vuota): Io, al tuo posto, me ne starei tranquillo. Simili osservazioni non ti giovano affatto. Pittore (invisibile): Puoi risparmiarti un'infinità di indagini, se hai lo sguardo profetico. Questo voglio dire, nient'altro. Timmsen (per cambiare discorso): Lo so da Dietrich Gripp; non basta desiderarle; bisogna aspettare che le visioni vengano da sé. Ma quando arriva il momento, il futuro ti è chiaro come una valle illuminata dal sole. Dopo gli venivano sempre dei dolori, ed era sfinito. Aveva come delle punture nelle tempie. Poliziotto (finisce di bere il suo bicchiere): In ogni caso io non sento nessuna puntura nelle tempie, tanto perché lo sappiate. E adesso non ricominciate. E finita, è passata. Timmsen: Ma gli occhi? Hai detto che ti facevano male gli occhi. Pittore: E quello che accade quando si vuole guardare troppo a fondo nelle cose. Poliziotto (si alza, aggancia il cinturone, infila i pollici nel cinturone e si porta al tavolo del pittore): Si può sapere che cosa c'è in questa cartella? Pittore (tranquillo): Sono stato sulla penisola. Nel capanno. Mi ero ripromesso di fare il tramonto. Rosso e verde. Un dramma. Quasi nessuna rifrazione. Avreste dovuto vederlo anche voi. Poliziotto (additando la cartella): Che cosa c'è dentro, ho chiesto. Pittore (grave): Ho lavorato a un tramonto. Continuato a lavorare. Poliziotto (ordina): Apri la cartella. (Il pittore resta seduto immobile. Dal fondo della stanza si avvicina interessato Hinnerk Timmsen.) Poliziotto (imperterrito): Ho il diritto di invitarti ad aprire la cartella. Adesso te lo ordino. Pittore (assolutamente tranquillo): Le modulazioni non mi sono ancora riuscite. Viola invece dell'arancione (apre la cartella lentamente, quasi con solennità, e sfila alcuni fogli bianchi che appoggia sul tavolo con cura): Tutto ancora troppo decorativo. Un'allegoria troppo decorativa. Timmsen (seccato): Ma io non vedo proprio niente. Potete anche picchiarmi, ma io non vedo niente. Pittore (a me): E tu, Witt–Witt? Tu invece riesci a vedere il tramonto. Io (alzando le spalle): Non lo so. Non ancora. Poliziotto (prende in mano i fogli, li esamina, uno per uno li osserva controluce e poi getta tutto il fascio sul tavolo): Tu non mi fai passare per scemo. Pittore: Che cosa ti aspettavi? Ti ho già detto che non posso smettere. Nessuno di noi può smettere. Voi siete contro ciò che si vede: io dipingo quel che non si vede. Guardalo attentamente, il mio invisibile tramonto sulla battigia. Poliziotto (solleva con negligenza il foglio pulito e lo mette sotto la luce): Bisogna che inventi qualcosa di nuovo, Max. Pittore (sprezzante): Osservalo bene con il tuo sguardo da competente. Con il tuo sguardo da visionario. Poliziotto (a suo modo agitato): Ti devo invitare a esprimerti in un altro tono con me. Anche se ti chiamassi tre volte Nansen. Presumi troppo di te. Timmsen: Su, calmatevi. Non siete poi degli estranei. Poliziotto (che continua a tenere il foglio bianco contro la luce): Questo foglio… tutti questi fogli sono sotto sequestro. Pittore (rabbioso): Ah, sì? Poliziotto: Puoi avere la ricevuta se insisti. Pittore: Insisto. Poliziotto: Solo non posso rilasciartela subito. Ho lasciato il blocco delle ricevute in ufficio. Pittore: E allora pazienterò. Timmsen (sinceramente sconcertato): Che possa esser dannato, Jens. Per me è solo carta. Quello che requisisci, è carta bell'e buona. Poliziotto: Non immischiarti (accuratamente sistema un foglio sull'altro, li infila nella cartelletta, la chiude e se la mette sotto braccio). Timmsen (al pittore): Devi ammetterlo. In questi fogli non ti sei certo immortalato. Sono innocenti come la neve. Pittore: Ci sono anche immagini invisibili, l'ho già detto. Ma evidentemente anche queste non sono più consentite. Poliziotto (in tono di avvertimento): Tu sai, Max, che cosa è in gioco. Conosci i miei doveri. Questi fogli verranno esaminati. Pittore (furente): Sì, sì. Esaminateli pure. Per me buttateli anche al macero. Non riuscirete a distruggerli. Altri uomini… Altri quadri. Poliziotto (calmo): Devo ricordarti che adotti un tono sbagliato. Un giorno o l'altro potresti pentirtene. Timmsen: Non dimenticate che state parlando tra voi. Pittore: In ogni caso non è possibile perquisire una testa. Quel che c'è qui dentro, è al sicuro. Della testa voi non potete confiscare niente. Poliziotto (a me): Vieni. (Andiamo fino alla porta.) Pittore: Fammelo sapere se scopri qualcosa. Se sotto il tuo sguardo la carta lascia trasparire i colori. Poliziotto (si gira, sta per dire qualcosa ma rinuncia. Usciamo).

Anche se sarei rimasto volentieri al Wattblick a bere una seconda limonata e ad ascoltare la discussione su quei fogli non più innocenti nonostante il loro candore, seguii mio padre fuori. Mentre sollevava la bicicletta togliendola dal posteggio, ressi la cartella con i fogli bianchi; quindi, seduto sul portapacchi, me la strinsi al petto. Sempre senza parlare, con un innocuo vento che ci colpiva di lato, ridiscendemmo la diga nell'indecisa oscurità. Non si voltò nemmeno una volta. Avrei avuto la possibilità di sfilare dalla cartella, se non proprio tutti, almeno alcuni fogli, e di farli volare dalla ripida muraglia della diga. Mi immaginai la pianura coperta di fogli bianchi simili a grandi fazzoletti stesi sull'erba ad asciugare: dove avrebbe potuto posare lo sguardo il vecchio Holmsen scoprendo i fogli sparsi un po' dovunque? Non aprii la cartella.

Nell'oscurità ci venivano incontro le fattorie buie con i tetti spioventi, circondate dalle siepi che il vento costringeva a incurvarsi. I cani da guardia si concedevano alle loro avventure allontanandosi per lunghi tratti di strada. Un frastuono giungeva dal mare come se una nave buttasse le ancore. Conosci quella nave? chiesi, e veramente credetti che mi potesse dire il nome o la sigla della nave, come aveva detto il numero del battello di Asmussen. Con mia grande delusione rispose solo: Non fare domande, hai capito, adesso non domandarmi niente. Tuttavia continuai a credere che alla sua maniera vedesse e riconoscesse la nave. Ancora oggi ricordo come quella sera, mentre ce ne tornavamo a casa, fossi sopraffatto dalla paura insospettata che lui potesse vedere e riconoscere altre cose, una paura che mi awertiva, mi invitava alla cautela e che forse durò più a lungo di quanto non volessi ammettere.

Desidero comunque, anzi devo, spiegare ciò che quella paura mi consigliò. Non era infatti proprio quella paura a trattenermi dal guardare il mulino privo di pale? Perché mi impediva di pensare al mio nascondiglio nella torre? Perché lasciava che Bleekenwarf si stendesse inosservata alla mia sinistra? Nemmeno uno sguardo, né un pensiero. Perché cercavo di liberarmi violentemente dall'immagine del bagno sordido, mai ultimato, da quell'immagine che mi ossessionava? Perché mi costringevo a non pensare a un nome che, ciò nonostante, mi si presentava alla mente senza darmi pace?

E se ora, con la dovuta concisione, faccio il riepilogo di quella sera, volente o nolente devo ammetterlo: mio padre, guardia della stazione di polizia di Rugbull, la stazione più a nord della Germania, che durante la guerra ricevette l'ordine non solo di trasmettere a Max Ludwig Nansen la delibera che gli vietava di dipingere, ma anche di controllare il rispetto del divieto, durante una proiezione di fotografie organizzata dall'associazione di cultura regionale di Gluserup dimostrò di possedere il dono della seconda vista, fenomeno che da noi non è insolito ma neppure frequente. Prima di allora non aveva dato segni di questa sua dote. Né sarebbe possibile parlare di predisposizione familiare. Comunque questa sua prerogativa si era manifestata e fin dal primo momento non rimase senza conseguenze.