Vedere

Per entrare ci voleva una mezza pagnotta. Con due pani sotto il braccio ci garantivamo dunque quattro biglietti, e così partimmo da Bleekenwarf. Passammo sotto la diga, prendemmo la strada dei prati in direzione di Gliiserup ma poi piegammo verso ovest, verso il magro bosco che già faceva parte del campo, della zona militare come allora chiamavano la striscia di terra tra Klinkby e Timmenstedt. Nemmeno loro potevano chiamarla campo di concentramento, perché mancava il filo spinato di prammatica, perché mancavano le baracche, le torri di controllo, i riflettori e, soprattutto, le sentinelle, che avrebbero potuto vigilare la zona fortificata e tenerla sotto controllo.

Per poter radunare i circa seicentomila soldati prigionieri - di questi molti non si accorsero quasi di essere prigionieri - gli inglesi avevano tracciato sulla carta geografica una zona militare: qui la strada che da Klinkby porta a Gliiserup, poi prendiamo un pezzo della Husumer Chaussee, pieghiamo verso sud–est in direzione di Faltmoor e facciamo che il confine continui fino a Timmenstedt; in questo modo l'intera zona militare è circondata da una strada continua e su questa strada mettiamo gli autoblindo.

La guerra che all'inizio era andata così prosperamente, era dunque finita. Quelli che venivano dal nord o che erano fuggiti dall'est, quelli che erano riusciti a scappare dal sud, tutti erano stati catturati dalle pattuglie di autoblindo e convogliati nella zona militare, dove peraltro si potevano muovere con la massima libertà. Non solo: qui i soldati potevano decidere liberamente dove piantare la propria tenda, potevano tenere conferenze, per esempio sul diritto al divorzio, potevano raccogliere senza autorizzazione l'acetosella e le ortiche commestibili, e non era proibito neppure organizzare serate di canti, letture e rappresentazioni teatrali. Non mancavano gli artisti. In occasione degli spettacoli teatrali anche i civili, gli abitanti delle fattorie vicine, potevano entrare nella zona militare; per sovvenzionare gli attori prigionieri, pretendevano tuttavia da noi una mezza pagnotta. Era questo il biglietto d'ingresso.

Preferisco non domandarmi come Wolfgang Mackenroth valuterà dal punto di vista psicologico il fatto che io mi sia pagato il primo spettacolo teatrale della mia vita con una mezza pagnotta - era del resto pane militare che avevamo avuto di straforo da uno della fureria e che ora, per nostro tramite, rientrava nella zona militare. In ogni caso marciavamo verso il rado boschetto: io, Hilke, il dottor Busbeck e il pittore con i due pani in una scatola di cartone. Il tempo? Normali formazioni cirriformi–cumuliformi. Venti: vento di nord–est in diminuzione. Cielo coperto con eventuali schiarite. Il tempo adatto per andare a teatro: allora non ci pensai ma adesso vorrei ribadire anche questo particolare. A un ufficiale consegnammo i pani; li contarono e ci lasciarono passare. Alcuni soldati della marina dalla lunga capigliatura, che facevano da maschere, ci condussero fino al basso palcoscenico costruito in parte sotto gli alberi - abeti, faggi, ontani - e coperto con teli di tenda cuciti insieme. Sull'erba secca del prato, con le gambe incrociate, sorridenti, scucchiaianti dalle gavette, erano seduti i dodicimila spettatori; molti però dormivano e un numero sorprendente si puliva le dita dei piedi nudi. Sorvolava il boschetto rado, ma perfettamente adatto allo scopo cui era destinato, una coppia di gazze che però non si decise a planare e volò via. Le pavoncelle avevano da tempo abbandonato la zona militare e anche i fagiani erano emigrati, come del resto i conigli selvatici abituati al silenzio.

Prima che cominciasse lo spettacolo parlò un uomo con gli stivali rutilanti e una faccia da lattante immusonito. Emerse dal bosco e avanzò sul palcoscenico: il pubblico fece silenzio e quell'uomo, probabilmente un ufficiale della fureria, iniziò il suo panegirico dell'emozione artistica. Intorno a me alcuni batterono brevemente le mani, ma si sentirono anche delle bestemmie. Arrivarono le mosche e i tafani, che però non riuscirono a impedire lo spettacolo.

Avanzò sul palcoscenico un ragazzone con una barba incolta e una mano di ferro - quella vera, dissero, l'aveva sacrificata al suo imperatore. Di lui fu detto anche che era coraggioso e nobile, eccetera eccetera, e che molte volte si era aperto un varco attraverso la cavalleria nemica ed era ovviamente orgoglioso delle sue ferite. Non aveva niente contro l'imperatore, che era suo amico, mentre non poteva soffrire il vescovo e i principi perché costoro erano vili e pensarono di toglierlo di mezzo quando lui gli si oppose. Per un certo periodo di tempo, gli amici e i valorosi cavalieri riuscirono a impedire il peggio, ma un giorno il poveretto fu accusato di essere un incendiario e tradotto in prigione a Heilbronn. Una guardia carceraria gli concedeva di star seduto al sole in un giardinetto, ma la sua sorte era ormai segnata. Morì, e anche nella morte continuò a scacciare le mosche così come scacciavano le mosche e i tafani i principi e le dame. Sono cose che succedono a teatro.

Ero stupito che a teatro ci si potesse annoiare tanto. Solo le cose che dicevano e il modo in cui le dicevano: O fatalità, o sorte avversa! Oppure: Fino alla morte. O ancora: Di' al tuo capitano: per Sua Maestà Imperiale avrò sempre un doveroso rispetto. Con il passare del tempo badavo di più ai folli scapaccioni e alle bestemmie con cui sia gli spettatori che gli attori rispondevano agli assalti degli insetti che non alle parole pronunciate sulla scena. Non so che farci, ma è certo che non riuscii affatto a unirmi alle loro risa - né tanto meno ad applaudire - quando l'uomo con la mano di ferro esclamò: Ma lui, diglielo, può leccarmi il culo.

L'unico che mi interessasse era un certo fratello Martino, un attore che indossava una tonaca: mi ricordò subito Klaas, la voce, i movimenti, il modo di starsene in piedi leggermente curvo; tutto di lui mi ricordò mio fratello Klaas, tanto che a un certo momento diedi di gomito al pittore e glielo additai. Il pittore assentì col capo come se ne sapesse più di me. Il fratello Martino non ottenne nessun successo mentre gli altri non sapevano come salvarsi dagli applausi, soprattutto le donne con le loro voci baritonali. Bastava che avanzassero sulla scena, sfogliassero un fiore o spremessero una lacrima ed ecco uno scroscio di battimani. E quando una - era il momento dell'addio a Jagsthausen - perse l'acconciatura scoprendo una netta scriminatura maschile, anche l'ultimo dei dodicimila spettatori andò in visibilio.

Hilke piangeva con convinzione; più tardi il pittore le diede atto di essere stata la sola a capire il dramma. Sono cose che succedono a teatro. All'inizio avevo voglia di spingermi fin dietro le quinte tra gli alberi, e mi prefiguravo di fare scoperte stimolanti, ma poi con il perdurare dello spettacolo provai sempre maggiore indifferenza per quel che poteva succedere dietro all'ombra dei faggi e degli abeti. Contai i civili presenti e calcolai quante pagnotte avevano raccolto per sostenere l'arte eternamente povera: trenta o trentacinque pagnotte. Il numero esatto lo conosceva soltanto il furiere. Gli ahimè e i me–misero pronunciati sulla scena cominciava tra l'altro a farsi anche buio - parevano, a quel punto, abbastanza sinceri e credibili: a un certo Weislingen, un tipo piuttosto disgustoso, per tutte quelle punture di insetto cominciò a gonfiarsi paurosamente la faccia. Comunque il crescendo dei lamenti alludeva chiaramente alla prossima conclusione del dramma, e infatti l'uomo con la mano di ferro lasciò intendere di essere prossimo alla morte per dolore o per rancore, forse perché il dolore e il rancore si erano infelicemente incontrati. A me la cosa, sinceramente, interessava assai poco e non mi sentii di aumentare il giubilo dei prigionieri–spettatori, tanto ero deluso dal mio primo incontro con il teatro.

Cercai di farmi largo tra la folla per tornarmene a casa il più alla svelta possibile, ma il pittore ebbe non so quale idea. Ci disse di aspettare e scomparve dietro al palcoscenico tra gli alberi. Gli spettatori si alzarono e si dispersero; molti strizzarono l'occhio e fischiarono a Hilke o la invitarono ad andare con loro. In quel momento mi resi conto chiaramente che parecchi si erano addormentati; li lasciavano semplicemente dov'erano o li scavalcavano. Molti erano quelli che scucchiaiavano dalla gavetta pur continuando a camminare e a conversare con il vicino di destra e sinistra. Diversi erano scalzi: tenevano le calze in mano e gli stivali sulla spalla, legati l'uno all'altro. Ma in gran numero erano anche quelli che passavano del tutto inosservati: si dileguarono senza che nessuno avesse la tentazione di seguirli con lo sguardo.

Hilke salutò una certa Laura Lauritzen: di lei sapevo soltanto che aveva il diabete. Il dottor Busbeck parlò con la signora Sòllring del podere Sòllring, o meglio la ascoltò e con ammirevole pazienza si fece raccontare dalla donna, con le sue parole, quanto aveva appena visto sulla scena. Le sarebbe piaciuto conoscere di persona uno come Weislingen; non considerava un tipo simile affatto esagerato. Disse: Mi creda, dottore, il mondo è pieno di Weislingen, e il dottor Busbeck preferì non rispondere perché quella poteva chiacchierare fino a far morire uno di noia. E a me disse: Eh, caro Siggi, ti è piaciuto lo spettacolo dei nostri soldati? e senza aspettare di sentire la mia opinione, mi spiegò non solo che cosa mi era piaciuto ma anche il perché. Grazie a Dio scorse la famiglia Magnussen la quale, al pari di noi, non sapeva che cosa aveva visto sulla scena. E in questo modo ce ne liberammo. Ma dove era andato il pittore?

Finalmente tornò. Con l'espressione, con l'andatura stessa, rivelava di aver appreso là dietro una notizia che doveva comunicare a qualcuno, immediatamente; ogni minuto gli pesava. Remando con le braccia, schioccando la lingua, si aprì un varco tra i gruppi di persone ferme a discutere, ci raggiunse e disse: E lui. E proprio lui: Klaas! Domani torna a casa.

Ciascuno di noi desiderava saperne di più, e Hilke pensò addirittura di correre dietro al palcoscenico, nel bosco. Ma il pittore ci trascinò via continuando a ripetere: No, adesso no, e ci tirò, ci spinse oltre il confine della zona militare, ci fece passare vicino a un autoblindo e su un ponticello di tronchi di abete.

E Klaas, disse, e aggiunse: Il ragazzo è vivo. Immaginate: C'è ancora. Era quello con la tonaca? chiese Hilke. Non credevo ai miei occhi, disse il pittore, ma non mi sono sbagliato. Com'è capitato al campo? Lo hanno catturato, è semplice. Due volte ha tentato di scappare e tornare a casa e per due volte lo hanno riacciuffato e riportato qui. Da quel che ho capito è stato molto tempo in ospedale. Le sue carte, documenti o atti penali, sono bruciati in un bombardamento, ma poi quando è stato rinchiuso nelle carceri militari, qualcuno ha tirato in lungo il suo caso. Da quel che ho capito, dopo la liberazione è venuto a piedi da Altona ma gli autoblindo lo hanno… e fino adesso ha aspettato il momento del rilascio: siccome rilasciano di preferenza i braccianti agricoli e gli artisti ha fatto l'attore: ogni tanto qualcosa di diverso. L'intervento del pittore era stato determinante. Gli avevano promesso di rilasciarlo il più presto possibile… sicuramente domani stesso. Pensate: È tornato.

Per tutta la strada parlò solo lui, interrotto unicamente dalle nostre brevi domande. Gli chiedemmo di raccontarci che cosa avesse notato incontrandolo, e se allora non me ne stupii, adesso mi sorprende la dovizia dei particolari che aveva riportato da un incontro di pochi minuti. La gioia del vecchio, una gioia che non riusciva a esprimere adeguatamente! E la sua stupefazione! Solo una volta tacque rattristato. Fu quando Hilke disse che avrebbe sgombrato la sua stanza per lasciarla a Klaas; se l'era meritata. Comincio domani mattina presto in modo che se arriva a mezzogiorno può già occuparla. Aspetta a fare progetti, disse il pittore, non cambiate niente. Ma torna, no? Sì, torna. Io stesso andrò a prenderlo domani, ma nei primi tempi, forse per qualche giorno, vuole stare da noi a Bleekenwarf. Lo ha chiesto lui? Mi ha pregato. Uscirà dalla zona militare solo alla condizione di poter venire da noi. Non durerà molto, solo un paio di giorni. Prima deve ritrovare se stesso.

Che cosa voleva dire: ritrovare se stesso? Ma come si può spiegare? Tutti quelli a cui chiesi che cosa significasse quella frase, dopo aver riflettuto per qualche istante alzarono le spalle, rimandandomi la domanda, o dissero: capirai tu stesso. Con grande impazienza attesi il ritorno di Klaas.

Ma le mie domande rimasero senza risposta, sia all'inizio sia più tardi. Neppure Klaas mi ha risposto: quando lo rividi dopo tutto quel tempo, da lui non era possibile cavare niente: Klaas dormiva. Dormiva sempre, di mattina, a mezzogiorno, con il sole, con la pioggia. A Bleekenwarf gli avevano dato la stessa stanza, quella non ultimata. Dormiva su un materasso appoggiato sul pavimento; in ogni caso avevano tolto la scaletta e il mucchio di calcinacci, chiodi, mozziconi e pezzi di tubo. Dormiva sul materasso sotto la coperta a righe nere e verdi che il pittore aveva preso dallo studio; talvolta si vedevano solo i suoi capelli corti o solo un piede o la mano offesa avvolta in un calzino di lana.

A me era proibito entrare nella sua stanza, e spesso me ne restavo per ore dietro alla finestra con le mani intorno al viso e invidiavo Jutta che poteva stare seduta davanti al materasso a guardarlo; con ogni probabilità aveva il compito di sorvegliare il suo sonno. Gli portava da mangiare, lo osservava mentre mangiava mezzo sdraiato - si appoggiava su un gomito - e lo copriva quando si coricava di nuovo. Jutta non si curò di me nemmeno quando sbucai nel riquadro della finestra e la osservai mentre si dava da fare intorno agli abiti di mio fratello più del necessario: tenne in mano i pantaloni e la giacca per lunghi istanti prima di ripiegarli con cura. Anche quando Klaas dormiva all'aperto, in giardino, nel pometo, sotto la siepe al riparo dal vento, Jutta era sempre accoccolata vicino a lui, con il suo corpo ossuto e vigile, e non mi permetteva di avvicinarmi: Klaas era e non era là, era solo una cosa da guardare e tuttavia inawicinabile, proprio perché era sotto la protezione di Jutta.

Allora, piccolo, mi aveva detto una volta sola. E fu tutto.

Così non mi rimase altro da fare che abituarmi alla sua stanchezza: correvo a Bleekenwarf e mi aspettavo di trovarlo addormentato, lo trovavo addormentato, e dopo averlo guardato per un po' senza successo mi dicevo: be', pazienza, me la squagliavo e me ne andavo a cercare il pittore. Il pittore non sapeva dirmi fino a quando Klaas avrebbe dormito, ma capiva perché mio fratello non desiderasse altro che continuare a dormire. Anche se con Klaas non c'era davvero niente da fare, anche se per me aveva solo uno sguardo abbozzato a fatica sotto le palpebre pesanti e nel migliore dei casi un sorriso rapido, preoccupato, tuttavia, appena potevo, andavo a Bleekenwarf forse perché volevo essere nelle immediate vicinanze qualora mio fratello si fosse definitivamente svegliato. Ma forse la ragione era un'altra: il pittore stava dando gli ultimi tocchi al suo autoritratto, cominciato la sera stessa che se n'era andato via dalla trincea ai piedi del mulino.

Prima andavo da Klaas, che non poteva darmi niente, e poi da lui, nel suo studio dall'altra parte del giardino. Mi riconosceva subito appena aprivo la porta e subito gridava dal fondo dello stanzone: Muoviti, Witt–Witt, vieni. Dunque, nuove difficoltà. Noie con il colore, sguardi insoddisfatti. Ritraeva se stesso, e più il tempo passava e più capiva che il volto del quadro non corrispondeva al modello. Semplicemente non mi vedo, disse, niente si ferma, tutto si muove troppo alla svelta e io non riesco a eliminare la contraddizione. All'improvviso il colore non era più "amicizia", ma uno stato temporaneo. Ha la maledetta tendenza a emanciparsi, disse, diventa energia incontrollabile. Guarda, Siggi, e cerca di descriverlo, solo perché tu capisca come sia insufficiente la descrizione quando il colore si trasforma in energia. In movimento. Movimento nello spazio.

Sedevo dietro di lui su una cassetta ricoperta da un pezzo di tela grezza e seguivo il suo tentativo di "trattenere" se stesso in un luogo preciso, sotto un cielo preciso, in un paesaggio sul quale, avvolto nella sua pelliccia rosso fuoco, si muoveva anche Baldassarre, un Baldassarre piuttosto scoraggiato o, forse, reso innocuo dalla prospettiva. La carta giapponese imbevuta di colore ricordava un tessuto, il volto diviso in zone di luce eterogenea ricordava invece una maschera leggera che lasciava trasparire il mondo. La parte sinistra della faccia era di un grigio debole mescolato con il rosso mentre la destra d'un giallo verde; lo sfondo era a macchie rossastre: ecco come si vedeva. Due diverse metà del viso. E gli occhi grigi, che sembravano guardare da molto lontano attraverso veli azzurrognoli, rivelavano in parte lo sforzo di recepire se stesso. Se ora dico: la bocca leggermente aperta in atto di parlare, allora la fronte scintillante di un bagliore biancastro contraddice la precedente affermazione. Se dico: l'azzurra ombra sul dorso del naso è la comunicazione tra le due metà del viso, allora devo anche ammettere che la divisione esiste. Tutto era equivoco: la bocca, gli occhi e persino le orecchie che mi parevano artificiali, come di metallo.

Che cosa ti dà? chiese con impazienza. Su, che cosa ti dà questo quadro? Devi pure saperlo dire. Se rifletti: parlando. Se guardi: spiegando con parole. Ebbene, che cosa? Non sapevo che cosa volesse da me. Non capivo come mai non potesse o non volesse abituarsi alle due differenti metà del volto, grigio rosso e giallo verde. Niente contenuto, disse, un quadro non deve darti nessun contenuto, ma che cosa allora? No, Baldassarre, il colore non può trasformarsi in una superficie piana. Pensa all'inverno quando sulla carta i colori ad acqua improvvisamente si congelavano, la neve li cancellava, i colori sciogliendosi si mescolavano: che cosa succedeva? Diventavano energia? Energia simile a quella che fa crescere i cristalli e le alghe? I muschi? Che ne pensi, Witt–Witt? Per quale ragione noi non riusciamo più a mettere niente al sicuro? È perché non siamo capaci di sottometterci o è perché non sappiamo vedere? Baldassarre pensa che noi dovremmo cominciare a imparare a vedere.

Vedere: mio Dio, come se tutto non dipendesse da questo.

Mise sul cavalletto due schizzi del suo autoritratto e li accostò. Poi fece qualche passo all'indietro, e l'obliquità, la tensione del busto esprimevano la sua insoddisfazione: qualcosa mancava. Qui puoi già vederlo, Siggi: troppo povero, troppo perfetto. Questo azzurro che emana luce dall'interno, su tutta la faccia… non c'è più posto per il movimento. Sai che cosa significa vedere? Moltiplicare, significa. Vedere è penetrare e moltiplicare, o anche inventare. Per assomigliare a te stesso devi inventarti di continuo, a ogni sguardo. Solo se inventi concretizzi. Qui in questo azzurro nel quale niente oscilla, nel quale non c'è inquietudine, non si concretizza niente. Niente si moltiplica. Se vedi, nello stesso momento anche tu sarai visto. Lo sguardo ti torna indietro. Vedere, eh già! Può significare anche rischiare il tutto per tutto o attendere il mutamento. Tu hai davanti a te tutto, gli oggetti, il vecchio, ma queste cose non sono niente se non fai intervenire te stesso. Vedere: ma non è solo registrare. Bisogna essere pronti a ritrattare. Te ne vai e poi torni e intanto qualcosa è mutato. E non parlarmi di verbali. La forma deve fluttuare, tutto deve fluttuare. La luce non è poi saggia come la si immagina.

O qui, Witt–Witt, questa piccola figura calda di sole: Baldassarre mi porge sul palmo della mano un mulino di minuscole dimensioni, ma io non gli bado. Tu vedi il punto dove si trova un altro, qualcosa d'altro: ci deve essere un movimento che congiunga questo punto. Vedere è scambio, reciprocità. Un fatto nuovo significa mutamento reciproco. Prendi il fiordo, prendi l'orizzonte, il fossato, la speronella: appena li recepisci, a tua volta vieni recepito da loro. Vi conoscete reciprocamente. Vedere vuol dire anche venirsi incontro, accorciare la distanza. Oppure? Baldassarre sostiene che questo è troppo poco. Insiste perché vedere sia anche smascherare. Viene messo a nudo qualcosa, che nessuno al mondo sospetta. Non so perché ma io sono contrario a questo smascheramento. Si possono sfogliare tutte le tuniche della cipolla ma alla fine non ti resta nulla. Ti dirò: si comincia a vedere quando si smette di recitare la parte dello spettatore e ci si inventa ciò di cui si ha bisogno: quest'albero, quest'onda, questa pioggia.

E adesso torniamo al quadro: ti dà qualcosa? Ho dovuto suddividere la faccia, qui rosso grigio, là giallo verde. Veramente non so come spiegarlo, ma le parti non armonizzano. Di questo autoritratto potrei dire: non mi riguarda affatto perché manca troppo. Gli mancano le sue stesse possibilità. Mi spiego: quando fai qualche cosa, una faccia, un oggetto, devi fornire le possibilità che questa cosa, faccia o oggetto, ha in sé. Taluni sono riusciti a fare il proprio "autoritratto": guardi la loro faccia e riconosci le malattie che hanno superato, forse scopri addirittura la loro situazione finanziaria. Qui, semplicemente, manca troppo. Non è stato visto fino in fondo, dunque non è stato dominato. Vedere significa anche questo: dominio, presa di possesso. Lo rifarò in un altro modo. Che ne pensi?

Max Ludwig Nansen poteva parlare anche così, nei momenti in cui ricercava una soluzione o rifletteva ad alta voce. Non era necessario rispondere alle sue domande perché le rivolgeva a se stesso, e non già a chi gli era vicino, vale a dire a me. La ragione di tanta loquacità andava forse attribuita al cognac che beveva mescolato ad acqua gassata o diluito con succo di zucca. Lubrificati la gola, si diceva, e versatene uno. Le bottiglie e la brocca con il succo di zucca non erano nell'armadio, ma sull'armadio, come il ginepro; probabilmente voleva evitare che gli fosse comodo versarsi da bere. O voleva guadagnarsi ogni bicchiere con un certo sforzo. O solo impedirsi di bere troppo. Quando toglieva la brocca o la bottiglia da sopra l'armadio, correva sempre il rischio di rovesciarsi in testa il succo di zucca; e quanto più beveva tanto più il rischio aumentava. Appena si versava un altro bicchiere, assumeva sempre la stessa espressione preoccupata e mi dedicava gli stessi gesti di rammarico: avrebbe veramente voluto potermi offrire un bicchierino. In quel periodo chiunque volesse parlargli era obbligato a brindare: Teo Busbeck, Okko Brodersen, i due ufficiali inglesi e gli altri ospiti che scendevano da automobili con targhe straniere. A tutti: Lubrificati la gola. Solo a uno non offrì da bere: a Bernt Maltzahn.

Sedevo sulla cassetta rivestita di tela grezza quando entrò nello studio. Era un uomo altissimo con una faccia devastata e un abito sdrucito che, a mio parere, gli ciondolava addosso come un sacco. Il pittore stava indebolendo l'azzurro che divideva la sua faccia in due metà. Maltzahn aveva avuto da fare ad Amburgo e quindi aveva fatto un salto fin lassù, disse. Sotto il braccio teneva il libro Colore e opposizione. Ah, disse il pittore continuando a lavorare. Non l'invitò neppure a sedersi. Da molto, disse Maltzahn, da molto aveva in progetto quel viaggio e aveva anche pensato di scrivere, erano anni; c'era qualcosa che occorreva chiarire, discutere, mettere in giusta luce.

Era in piedi alle spalle del pittore e si sfregava il mento con l'indice, spostandosi di lato a passi incerti. Per prima cosa doveva domandargli un favore. Aveva già sentito della nuova rivista che usciva a Monaco? Volk und Kunstì chiese il pittore con freddezza, e il suo visitatore senza dimostrare alcun disagio ribatté: No, Das Bleibende, si chiama Das Bleibende. Non faceva parte della redazione ma aveva per così dire buone prospettive di diventare collaboratore esterno. La rivista usciva una volta al mese. Sconosciuta, non la conosco, disse il pittore, e non smise di lavorare. Maltzahn guardò la porta: sarebbe stato meglio non venire, sembrava pensare in quel momento. Ma come poteva andarsene adesso che era lì, quando aveva già cominciato a parlare prendendo la questione, come si dice, da molto lontano? A quel punto doveva restare, poteva tutt'al più accelerare i tempi.

Dunque: La rivista sarà mensile e soddisferà tutte le esigenze. Ma, come sempre, Maltzahn sa più di quanto non dica: aveva sentito parlare di una serie di disegni, di un ciclo dal titolo importante Quadri invisibili. Chiese di poterli vedere: ne sarebbe stato molto riconoscente. Domandò anche se la redazione poteva eventualmente riprodurre sulla rivista uno o più di quei disegni, sarebbe stato un onore, eccetera eccetera…

Guardò il pittore con i suoi occhi piccoli e inquieti: molto dipendeva dalla prima risposta. Il pittore scosse la testa. Il ciclo non era completo, disse, lo avevano sequestrato ed era passato per diverse mani. Alcuni fogli, e proprio quelli che gli importavano di più, erano andati perduti. Aveva sì riavuto la serie, ma preferiva non mostrare una cosa incompleta. Senza dubbio la risposta doveva essere sembrata a Maltzahn più favorevole di quanto non si fosse aspettato. Fece alcuni passi in avanti per attirare su di sé lo sguardo del pittore. E il pittore riprese parlando al suo "autoritratto".

Domandò se la redazione di Volk und Kunst non si fosse per caso sbagliata a dedicare tanta attenzione proprio a un pittore come lui, se non fosse stato un errore. A quelle parole Maltzahn, indietreggiando con un sorriso angustiato, rispose che si trattava di una nuova rivista, si chiamava Das Bleibende: una rivista aperta a tutto, rivolta in tutte le direzioni, tesa a recuperare il tempo perduto nei giorni dell'accecamento. Era il loro compito più urgente, o giù di lì. Il pittore fece un cenno di assenso. Pareva non aver niente in contrario in linea di massima. Solo nutriva dubbi nei propri confronti: il sito nel quale si trovava Das Bleibende non era un posto adatto a lui. Troppa luce. Per questo preferiva rimanere nella "camera degli orrori" dove a suo tempo lo aveva esiliato la redazione di Volk und Kunst. Lì, nella "camera degli orrori", stava bene, perfettamente a suo agio, non gli mancavano gli amici, e inoltre era quello il posto che aveva sempre desiderato per sé e i suoi quadri. In fin dei conti se c'era una cosa al mondo degna di essere raffigurata era proprio l'orrore e poiché lui aveva cercato più e più volte di raffigurare quel tipo di orrore, il suo posto era appunto una camera adeguata. Se gli consentiva un'altra parola sull'intera faccenda, voleva esprimergli il proprio grazie per averlo assegnato a quel luogo; in tutti quegli anni ne era stato felicissimo. Quindi, molto semplicemente, lo pregava di lasciarlo dov'era, nella sua camera degli orrori.

Maltzahn trasse un sospiro, eseguì una specie di giro di vite e annuì con una smorfia dolorosa ma non disperata: Sì, sì, lo so, è successa una cosa simile. Dopo, nessuno può capirla, ma è bene che adesso se ne parli. Aveva infatti sperato, aggiunse, che il discorso cadesse su quell'argomento; era una delle ragioni della sua visita: voleva chiarire alcuni punti, voleva fare in modo che le cose venissero "viste in maniera giusta". Viste in maniera giusta? si assicurò il pittore. E Maltzahn con precipitazione: Viste, sì, e precisamente come sono state capite solo da pochissimi.

Maltzahn voleva continuare a parlare: per ogni evenienza si era già preparato il discorso. Ma prima di lui si sentì la voce del pittore. Il tono era immutato. Certo, non aveva molte prospettive, disse, comunque si vedeva esattamente come lui, Maltzahn, lo aveva visto: un fantasma colorato, un panegirico della degenerazione. Non era quella la sua opinione? Non si era espresso in quel modo? A che sarebbe valso cercare di vedere quei giudizi "in maniera giusta"? A suo parere, continuò il pittore, il mondo era veramente popolato da fantasmi e chi dipinge, se desidera spostare i propri confini, finisce per scostarsi dalla norma. Adolf Ziegler della Haus der Deutschen Kunst non ha mai capito questa verità ed è rimasto il pittore della pubertà tedesca, legato alla norma, s'intende. No, una volta lui, Maltzahn, lo aveva chiamato in un certo modo: continuasse quindi a qualificarlo nello stesso modo. Fin dall'inizio aveva visto giusto.

Maltzahn abbozzò un sorriso stiracchiato. Sembrava essersi atteso quella reazione. Era contento che il pittore avesse alluso a quei vecchi giudizi che si prestavano, disse, a una duplice interpretazione. Solo pochissimi avevano infatti colto l'ambiguità di quella sua definizione. Fantasmi colorati, è vero, aveva scritto e detto dei quadri di Max Ludwig Nansen e non intendeva affatto ritrattare le proprie parole. Ma ora non era chiaro a chi avesse alluso, chi avesse voluto colpire? La sua frase esatta era: "Ci si trova circondati da fantasmi colorati". Già: ci si trova circondati… più che chiaro. I fantasmi colorati erano infatti quelli che imperversavano nella realtà politica di quei giorni, e il pittore aveva raffigurato quella follia politica in un suo modo personalissimo. Lui, critico, aveva voluto evidenziare con parole oscure, con una formula discretamente equivoca il rapporto tra mondo reale e mondo figurativo. Anche adesso si stupiva che la cosa fosse sfuggita alla maggior parte della gente.

Maltzahn conservò la parola, accelerò il ritmo cercando di dimostrare come ci fossero, forse contro ogni aspettativa, diversi modi di vedere, e si dispiacque che nel mezzo della sua argomentazione la porta venisse spalancata.

Sei tu, Teo? gridò il pittore. Il dottor Busbeck non rispose, si avvicinò a passi lenti e notò l'ospite con leggera meraviglia. Allora fece l'atto di andarsene e come scusandosi disse: Ho fatto la valigia, Max. Ho finito, solo perché tu lo sappia.

Ci sono visite, disse il pittore, e si voltò. Allora Teo Busbeck squadrò quell'uomo altissimo con l'abito sdrucito: si capiva che cercava di riconoscerlo. Dopo qualche istante domandò: Bernt Maltzahn? Maltzahn rispose con un rapido inchino. Bernt Maltzahn del Volk und Kunstì chiese incredulo Teo Busbeck. Proprio lui, disse il pittore, il mio mecenate, il mio ignoto difensore, nel caso tu non lo sappia. Ha rischiato molto, e nessuno di noi se ne è accorto, nessuno ha capito come andavano interpretate le sue parole. Semplicemente non abbiamo visto le cose in maniera giusta.

Maltzahn scoprì i denti, alzò una mano come se volesse chiedere la parola, scosse la testa e si schiarì la voce. Spostò lo sguardo dall'uno all'altro uomo. Allargò le braccia: Vi prego di lasciarmi spiegare. Ma il pittore non voleva più ascoltarlo. Si accostò a Maltzahn con una faccia scostante, senza tuttavia mostrare né rabbia né disprezzo, indicò la porta e in tono di voce calmissimo disse: Fuori. E poiché Maltzahn lo guardava con aria imbambolata, ripetè l'ordine una seconda volta: Fuori! Non vorrei impegnarmi dicendo in che modo mi sarei personalmente comportato a quella lapidaria ingiunzione. Maltzahn, comunque, barcollò, si riprese, e ricavando dalle consonanti il massimo di forza disse: Buongiorno; quindi uscì.

Era davvero Maltzahn? chiese Busbeck. Alla svelta, disse il pittore, alla svelta sono usciti dalle loro tane. Credi forse che quelli si tengano nascosti per qualche tempo, stiano in silenzio come morti, rimangano nell'oscurità insieme alla loro vergogna? No, non hai nemmeno fatto in tempo a tirare il fiato che ti sono di nuovo addosso. Lo sapevo che un giorno sarebbero ritornati, ma non pensavo così alla svelta, non immaginavo che tornassero così alla svelta. Puoi solo domandarti che cosa sia più grande, se la loro rapidità nel dimenticare o la loro spudoratezza.

Il pittore cinse con il braccio le spalle di Busbeck e lo trascinò davanti al suo "autoritratto". Anch'io mi avvicinai. Osservarono insieme il quadro non ancora ultimato in un modo nuovo: senza partecipazione, con poca voglia di parlare. Quando si resero conto che il loro silenzio era durato troppo, il pittore disse: La tua stanza c'è sempre. Per conto mio non ci entrerà nessuno, resterà com'è. Vi lascio una scatola, Max, disse Busbeck, spero che non intralci. Non staccò lo sguardo dal quadro e non mosse neppure la faccia per guardare il pittore. Con voce amichevole il pittore gli ricordò un patto e aggiunse: E sempre valido. Se vuoi star qui per qualche tempo, vieni. Non hai nemmeno bisogno di scrivere. Comunque non capisco perché tu te ne voglia andare.

Adesso è tutto finito, disse Busbeck. Tu non hai più bisogno di me, e io voglio tentare un'altra volta. Lo sai. Già. Siamo fatti così. Già, Teo. Ma in visita verrai regolarmente? Tutte le estati, Max, ci puoi contare. E questo quadro? L'autoritratto? Come lo si può giudicare? Non lo so ancora, Max. Devo riflettere. Dunque non è niente. Questo non l'ho detto. Prima devo capire quel che c'è dietro al tuo racconto. Adesso però devo andare. Veniamo anche noi, Teo. Ti portiamo a Gliiserup, Siggi e io: ti mettiamo sul treno, non possiamo mancare, no, Witt–Witt?

Ma dove possiamo trovare una pertica? Ci appendiamo il tuo bagaglio e ce lo mettiamo in spalla. Così arriviamo alla stazione di Gliiserup senza doverci fermare. Siggi però deve portare la tua valigetta da levatrice.

Io portai la borsa di cuoio con la chiusura a scatto, che il pittore chiamava valigetta da levatrice, e i due uomini sollevarono il bastone con la valigia: questa all'inizio scivolava in su e in giù ma poi trovò il proprio equilibrio stabilizzandosi nella curvatura del bastone. Seguimmo il sentiero tortuoso che porta alla diga, costeggiando i fossati limacciosi interamente coperti di lenticchie acquatiche. Di Maltzahn nemmeno l'ombra. Una buona giornata per la fienagione, calda, asciutta e a mio giudizio pavesata di azzurro; verso Timmenstedt c'erano uomini nei prati, torsi nudi che si chinavano e si risollevavano, e i forconi dai lunghi rebbi scintillavano abbassandosi. Con il nostro bagaglio rimontammo la diga. Il pittore chiese per l'ultima volta: Proprio non vuoi rimanere, Teo? e Busbeck con la faccia rivolta verso il mare disse: Torno, Max, ma per il momento è meglio che vada. Credimi.

Li precedevo. Era una di quelle giornate in cui il cielo pare tutto percorso da rondini: voli bassi, curve ad angolo retto, cadute rapidissime come a precipizio sulla sabbia calda, strida soffocate quando più rondini sceglievano la stessa rotta incrociandosi all'ultimo istante. Sfrecciavano avvicinandosi ai pascoli, rasentavano la diga. Un'improvvisa folata di vento le risollevava e le riportava sopra il mare, su nel cielo, e quindi di nuovo sulla terra; sibilavano volando. Ce la facciamo comodamente, disse il pittore, non continuare a guardare l'orologio, Teo.

A un tratto ci arrestammo. Appoggiammo il bagaglio. I due uomini parlarono tra loro. Guardarono verso la penisola. Non vedi? Ma più a sinistra. Nella buca vicino all'acqua. Non vedi niente? Jutta? Sì, Jutta, e sai chi è quello sdraiato accanto a lei? Klaas? E chi vuoi che sia.

Dunque Klaas si era finalmente svegliato, finalmente aveva trovato il coraggio di uscire dalla protezione di Bleekenwarf. Era sdraiato nella sabbia a pancia all'ingiù. Jutta era inginocchiata vicino a lui e indossava il suo stretto costume da bagno rattoppato sotto le ascelle e sul piccolo sederino tosto. Klaas si era tolto la camicia e si era arrotolato i pantaloni, mutande comprese, fino ai polpacci: sembrava avesse dei risvolti bianchi e grigi. I suoi capelli corti, stopposi, sporgevano dalla buca e la sabbia in quel punto pareva scostata. I suoi stivaloni con il gambale afflosciato da un lato sembravano due strani esseri stanchi. Jutta lo massaggiava, gli strofinava la schiena e oscillava in avanti e indietro ritmicamente; ogni tanto gli batteva il palmo aperto delle mani sulle scapole. Se Klaas alzava una gamba lei la respingeva subito nella sabbia, mentre se faceva l'atto di sollevare la testa, gli stringeva il collo fìngendo di strozzarlo.

Devo dar loro una voce? domandai. Devo andarli a chiamare? No, disse il dottor Busbeck, li ho già salutati in giardino. Lasciali stare. In quel momento Jutta si sdraiò bocconi e con un gesto esperto abbassò le spalline del costume. Allora Klaas si rizzò. Pareva piuttosto intontito ed ebbe bisogno di un po' di tempo prima di trovare la bottiglietta dell'olio. Ne schizzò abbondanti gocce sulla schiena di Jutta e si strofinò le mani. Stava per mettersi al lavoro quando stranamente si fermò e con la testa china di lato prese a guardare Jutta abbandonata sulla sabbia. È probabile che Jutta gli abbia chiesto: E allora? Che ti succede? perché a un certo momento Klaas cominciò a massaggiarle la schiena con l'olio fino a farlo assorbire dalla pelle. I suoi erano movimenti meccanici, quasi distratti. Mentre massaggiava, guardava il Mare del Nord e la spiaggia calda di sole. Inevitabilmente ci vide.

Agitò la mano e scrollò leggermente Jutta segnalandoci con il dito puntato. Allora ci salutarono insieme e noi rispondemmo al loro saluto. Ciascuno rimase dov'era. Dopo qualche istante risollevammo il bagaglio. Lasciai andare avanti i due uomini. Dovevano sovente cambiare passo per calmare la valigia che di tanto in tanto si animava, oscillava e sbatteva dondolando sulla pertica. Grazie a Dio il ragazzo c'è ancora. Sì, grazie a Dio.

Si vedeva già Gluserup. In quella giornata fosforescente pareva più grande, quasi raddoppiato. Il secondo Gluserup sembrava innalzarsi sopra il primo, come riflesso e capovolto da uno specchio, con i polverosi corpi in muratura del cementificio, con la torre dell'acquedotto e i serbatoi arrugginiti del gasometro.

Non scherza, Max. Che dici? Questa terra, la tua terra, non consente scherzi, neppure oggi, in una simile giornata. E sempre molto grave, anche sotto il sole ha la stessa severità. Ti è riuscito difficile sopportarla? Ci si sente sempre costretti. Perché? Non lo so, forse è la serietà, la serietà e il mutismo. Anche a mezzogiorno qui qualcosa ti sfugge. Talvolta ho pensato che questa terra non ha esteriorità ma solo… come posso spiegare, solo interiorità, un'interiorità cattiva dove ogni cosa ti minaccia. Trovi che questa sia cattiveria, Teo? Io penso solo che l'esteriorità sia più umana. Capisco. Ma se è così perché non dobbiamo cercare di renderla abitabile, questa terra? Lo so, può anche mettere a disagio. Ma è la particolare atmosfera di questa terra che mette a disagio. Forse questa terra è fatta solo di atmosfere particolari e quando le conosci ti senti meno disorientato. Probabilmente dobbiamo imparare a vederla, questa terra.

Così parlarono prima di congedarsi, raggiungendo l'estremità della diga. Davano quasi l'impressione di non voler lasciare nessun punto oscuro. Continuarono a parlare e non si accorsero che davanti al Wattblick c'era Hinnerk Timmsen: le mani appoggiate sui fianchi, le gambe larghe, ci guardava mentre avanzavamo sul coronamento della diga. Tutte le finestre del Wattblick erano spalancate, trattenute da ganci. Sull'asta bianca sventolava la bandierina privata di Timmsen con le chiavi incrociate per le quali pareva non esistessero serrature. Le scale e i corridoi erano stati tirati a lucido e splendevano al sole. Immaginate che l'oste abbia fatto anche un solo passo per venire verso di noi? Scoprendo i denti alla solita maniera, attese che arrivassimo alla sua altezza, quindi arrestò il nostro corteo. Veramente avrebbe voluto deviarlo e farlo proseguire fin dentro al Wattblick, ma il pittore e il dottor Busbeck si limitarono ad appoggiare per terra il bagaglio e a fermarsi. Busbeck, estraendo l'orologio, disse: Dobbiamo prendere il treno, Hinnerk, ce n'è uno solo che va diretto ad Amburgo. Un sorso, disse Timmsen, un sorso solo per dirci addio dopo tanti anni. E tutto pronto. Scomparve con il busto nel riquadro della finestra, batté le mani, e Johanna, con il grembiule allacciato sulla pancia, gli passò un vassoio con tre bicchieri colmi fino all'orlo; in ogni bicchiere galleggiava una fetta di limone. Che è? Prima bevetelo. E Siggi? Giusto. Johanna, porta anche una limonata per il ragazzo.

Brindammo alla partenza e al ritorno del dottor Busbeck. Gli uomini trovarono di loro gradimento la bevanda offerta da Timmsen e chiesero: Ma come fai ad avere del gin, Hinnerk? Per quale ragione credete che ci sia necessario arieggiare con tanta furia il locale? domandò Hinnerk Timmsen. Qui si continuano a organizzare festeggiamenti per la vittoria. Vengono da Gluserup in macchina a far festa: noi mettiamo a disposizione il locale e poi gli diamo aria. Dovreste venire anche voi, almeno una volta, disse, e bevve godendo anche per noi. Fra poco ho pure di meglio per voi. Ah, Max, sono venuti qui degli altri a chiedere di te, questa mattina. Sono venuti su una jeep. Non sapevano il tedesco e io l'inglese non lo so abbastanza, comunque ho capito che volevano un ritratto da te o qualcosa del genere, come il maggiore. Che potevo fare. Ho spiegato quale strada dovevano prendere per Bleekenwarf La troveranno, stai sicuro, disse il pittore appoggiando sul davanzale della finestra il bicchiere vuoto, e con un'occhiata incoraggiante indusse anche noi a posare i nostri. Poi ringraziò Timmsen battendogli più volte sulla spalla, e quando Busbeck e Timmsen si strinsero la mano, disse: Fate alla svelta, non se ne va poi per sempre. Allora non volete proprio entrare, nemmeno per un attimo? chiese l'oste, e Busbeck: Temo che se continuiamo così non ce la facciamo.

Un altro saluto e le solite cose che si dicono in occasioni simili. Fatti vedere presto! Non stare via troppo tempo! Lo speriamo davvero. Riprendemmo il bagaglio e ci rimettemmo in marcia. Timmsen ci salutò agitando la mano dal sentiero, Johanna dalla terrazza. Un paio ancora di questi addii e sarai costretto a rimanere qui, Teo, disse il pittore. Ce la facciamo, vedrai, disse il dottor Busbeck. Io proposi di prendere la scorciatoia fino al terrapieno della ferrovia, quindi di camminare lungo la strada ferrata e attraversare il ponte di ferro. Si dissero d'accordo e sempre ondeggiando discendemmo ai piedi della diga e poi camminammo sui prati caldi. Non dimenticare i fiori, disse il dottor Busbeck, il giorno del suo compleanno, l'8 settembre. Lo saprò bene quando è il compleanno di Ditte. Va bene, facevo per dire… Ci arrampicammo sull'argine della ferrovia e seguimmo il sentiero battutissimo vicino ai binari - non solo il casellante ma quasi tutti quelli della zona prendevano quel sentiero se dovevano andare alla stazione. Gettai dei ciottoli nel largo fossato scuro sopra il quale la calura si arrestava. Con un bastone battei dei colpi sulla ringhiera del ponte di ferro. Da quel punto riuscivo già a scorgere l'orologio della stazione. Era coperto da due strisce incrociate di cerotto, il vetro si era incrinato. Vedi, disse il pittore, ce la facciamo comodamente. Riusciamo persino a comprare il biglietto. Lo spero bene, disse Busbeck.

Ed ecco finalmente la stazione di Glùserup: quattro binari, due marciapiedi, un capannone fuligginoso per le riparazioni, l'edificio principale in mattoni rossi a forma di cubo, diversi binari morti dove sono finite parecchie carrozze più o meno danneggiate e bruciate; su alcuni vagoni si legge ancora la scritta: Le ruote avanzano verso la vittoria. Il corpo principale comprende la biglietteria, alcuni locali di servizio, il deposito bagagli, i gabinetti e anche una sala d'aspetto di tale ampiezza che, una volta rimossi i tavoli, le sedie e le panche, potrebbe servire da palestra; l'altezza raggiunge i dodici metri: sarebbe dunque possibile giocare persino a palla.

L'ingresso ai treni è chiuso da una catenella tesa all'altezza del ginocchio, ma solo chi ha l'uniforme può scavalcarla. È proibito attraversare i binari. Per passare da un marciapiede all'altro bisogna servirsi del ponte sopraelevato rivestito di assi di legno, sulle quali i viaggiatori esasperati dall'attesa hanno inciso disegni osceni e le loro iniziali. Dietro una vetrata si vedono impiegati in divisa che svolgono lavoro sedentario; inutile battere ai vetri quando c'è il cartello "Chiuso". La placca smaltata con l'avvertimento "Servirsi delle apposite sputacchiere" ha invece perso ogni validità, perché non si vedono più sputacchiere: sono state probabilmente ritirate per cessata richiesta. Il pavimento dell'edifìcio principale è di mattonelle scanalate. Una ricorda l'anno della costruzione: novecentoquattro.

Quando arrivammo alla stazione la vendita dei biglietti era già cominciata e i viaggiatori potevano accedere liberamente ai treni. Ci dirigemmo al binario due e con grande stupore ci ritrovammo, in pieno sole, insieme a tutta la popolazione di Gliiserup: evidentemente aveva deciso di lasciare la città in massa. Sedevano su ceste, zaini, scatole di cartone, valigie, cassette, trascinavano sacchi, pendole, biancheria da letto, lavandini, corna di cervo e si aprivano con accanimento un varco tra la folla per raggiungere il bordo del marciapiede e poter prendere così il treno d'assalto da una posizione privilegiata.

Come vedi, Teo, non viaggerai da solo, disse il pittore. Pare proprio, assentì Busbeck. E con quanta pazienza riusciva a star seduta quella gente: alcuni parevano addormentati sui loro informi bagagli. Notai diversi ex militari che al posto dei fucili avevano ora bastoni artisticamente intagliati; la maggior parte aveva per tutto bagaglio un tascapane rigonfio. Mi colpì un vecchio con la barba. Già da parecchi minuti allungava il collo, con la testa di traverso, per bere a un rubinetto dell'acqua, e lo difendeva, sbuffando e lanciando occhiate cattive, da un gruppo di bambini in attesa del loro turno. Mi colpì una donna con un abito molto aderente: si faceva strada con modi sgarbati e se vedeva un uomo di spalle lo faceva ruotare bruscamente dalla sua parte, quindi con un gesto davvero offensivo lo ributtava indietro, delusa che anche quello non fosse l'uomo cercato. E mi colpì naturalmente la donna con una gabbietta bianca, che non racchiudeva uccellini ma un orologio con una soneria antiquata. E Hilde Isenbiittel: come poteva non colpirmi quando si arrestò sulla scaletta del ponte, in modo da poter dominare l'intero marciapiede ed essere, a sua volta, facilmente riconosciuta? Là c'è Hilde Isenbiittel, dissi, e il pittore, lanciando un breve sguardo a Teo Busbeck: Guarda, Teo, solo una donna incinta può starsene in piedi a quel modo. Quella pancia. Quel senso di superiorità naturale. Lei un posto lo trova sempre, disse Busbeck.

Da uno degli uffici uscì un uomo in divisa delle ferrovie dello stato con in mano la paletta. Attraversò i binari e venne sul nostro marciapiede. Inesorabile nello spingere indietro i passeggeri in attesa, lontano dal bordo del marciapiede, lo percorse più volte in tutta la sua lunghezza mostrando fin dove giungesse il limite di pericolo all'arrivo del treno. Si rivolgeva ai viaggiatori, faceva appello al loro buon senso con esortazioni alle quali era abituato e che in ogni caso avevano già dato buona prova: Fare posto, tirarsi indietro per favore.

Sembra che arrivi, Max! Sì, lo sento già. Come posso ringraziarti, Max? Non parlare. Di tutti questi anni. Smettila, Teo. Ho la sensazione di andarmene via da casa. Lo spero bene. Ma scrivi come ti trovi a Colonia. Ecco che arriva, è il tuo treno.

Rallentando, percorso da sobbalzi sempre meno frequenti in corrispondenza dei giunti delle rotaie, il treno entrò in stazione. Una tremolante cortina di calore, un forte spostamento d'aria che pareva bruciacchiasse la pelle: entrò in stazione e sobbalzando e trasalendo si arrestò. Ferro che urtava contro altro ferro. Vapore bollente che cercava uno sbocco. Valvole che battevano per il mutamento di pressione. Sui respingenti, sul tetto delle vetture e sui predellini membra umane che si staccavano dopo tanto disperato sforzo, membra che si rilassavano e lasciavano la presa. Poiché tutte quelle persone, così almeno mi pareva, non solo avevano cercato un sostegno ma, contemporaneamente, avevano tenuto insieme il convoglio, lo avevano avvolto con i loro corpi e lo avevano piegato alla loro volontà, come le alghe piegano lo scafo di una nave, lo invadono progressivamente fino a immobilizzarlo. In realtà il treno dava l'impressione di essere assediato, occupato da quelle persone che avevano il diritto di governarlo per il numero dei loro corpi e per la loro unanime volontà di proseguire. E poiché erano riusciti ad avanzare fin lì, non avevano voglia di cedere nemmeno uno dei posti, conquistati con tanta fatica, ai passeggeri che facevano ressa sul marciapiede. Tuttavia non potevano impedirsi di cedere alla pressione esterna, di indietreggiare e aprire il loro sbarramento agli intrusi, i quali, subito, cominciavano a saggiare il margine di tolleranza loro consentito. Ma nonostante le voci che annunciavano una conquista o si accordavano, nonostante le lotte, si sentì la voce, sorprendentemente chiara, dell'uomo con la paletta che a intervalli regolari gridava: GLU–SE-RUP! GLO–SE-RUP!

In che modo siamo riusciti a caricare il dottor Busbeck? Il pittore ci tenne uniti, calma, calma, lasciate che assaltino pure, indietreggiò per lanciare un'occhiata al treno da cima a fondo e all'improvviso decise: Là, là nella cabina del frenatore. Allora passammo anche noi all'attacco. Le tre infermiere sedute nella cabina cominciarono a brontolare e, mentre loro si trinceravano, noi stivammo dentro il bagaglio del dottor Busbeck. Quando spingemmo all'interno anche il dottor Busbeck, quella con i capelli grigi, che per difendersi si era stretta le braccia contro i seni ingiustificatamente grossi, gridò aiuto con voce fievole e addirittura scolorò in viso. Questo signore, disse il pittore infilando la testa nel finestrino aperto, vi offrirà da mangiare durante il viaggio e vi rifornirà di bibite fresche: siate gentili con lui. Poi il pittore chiuse lo sportello con la sicura, agganciando a una sbarra di ferro una corda legata alla maniglia. Dopo qualche istante, sentimmo delle risa uscire dalla cabina: cominciavano già a intendersi. Il dottor Busbeck, però, non poteva salutare. Salutò per lui una delle infermiere quando, dopo segnali e controsegnali, il treno si mise finalmente in moto, in ritardo, carico di corpi che parevano escrescenze schiacciate sul tetto o che, aggrappati ai respingenti, sussultavano al ritmo degli urti delle ruote sui giunti delle rotaie. Ricordo esattamente i piccoli grappoli umani che si ruppero o si sgretolarono quando il convoglio ripartì. Alcuni lo rincorsero gridando e gesticolando fino alla fine del marciapiede, e là si accasciarono su un traversino e lanciarono saluti che restavano senza risposta.

Neppure allora, quando il treno scomparve oltre la curva lucente dei binari, il marciapiede si svuotò. Requisirono le panchine appena lasciate libere, sedettero sui bagagli dando prova di saper aspettare anche senza ragione. Nella stanchezza di quel caldo mattino si misero nuovamente in posizione di riposo. Stavamo per andarcene quando vedemmo Hilde Isenbuttel: correva sul marciapiede verso il punto dove poco prima si era fermato il bagagliaio. Che cosa aveva visto? Che cosa intendeva fare? ci domandammo nello stesso istante seguendola con lo sguardo. Notammo che anche altre persone la osservavano. Quella donna sempre pronta al riso, con in testa il suo fazzoletto stampato, schivava con uno slalom faticoso le montagne di bagagli degli uomini sdraiati per terra e agitava la mano abbozzando un breve saluto.

A terra era seduto un uomo in divisa: Hilde Isenbuttel correva dunque verso di lui. L'uomo sedeva vicino a una rudimentale carretta piatta le cui ruote erano senz'altro state tolte dalla carrozzina di un bambino. Sedeva tenendo il busto eretto. Non aveva più le gambe. Era a capo scoperto e aveva un viso ancora giovane, duro. Guardò la donna con molta attenzione e la afferrò per il braccio mentre lei si inginocchiava con cautela, per via della pancia. Le loro facce erano quasi alla stessa altezza ma non si mossero l'una verso l'altra come ci si sarebbe aspettato. Ma quello è Albrecht, disse il pittore, Albrecht Isenbuttel: allora è scampato da lassù, da Leningrado. La donna si liberò dalla stretta dell'uomo e con un gesto inatteso lo abbracciò. Barcollarono leggermente. Poi lei si alzò, chinò il busto in avanti e tentò di sollevare l'uomo, la prima volta come per provare la sua forza, la seconda con maggior decisione. Lo mise a sedere sulla carretta e con aria pensierosa osservò i due monconi: ripiegò la stoffa grigio verde dei calzoni sotto quel che rimaneva delle gambe; attorcigliò la corda della carretta, se la passò intorno al collo, infilò un braccio sotto la corda, e partì.

Hilde Isenbuttel spinse la carretta lungo il marciapiede. L'uomo sedeva tenendo il busto rigido. Aggrappato con le mani alle sponde, pareva continuasse a dir di sì con la testa, ma era il rollio della carretta a imprimergli quei bruschi sussulti. Guardava fisso davanti a sé, incurante delle grida, e anche quando noi li fermammo per offrire il nostro aiuto, non ci badò affatto, non tanto per indifferenza quanto perché in quel momento aveva evidentemente lasciato ogni iniziativa alla donna e accettava qualunque sua decisione. La donna ringraziò: No, Max, lascia, ce la faccio da sola. Forse per salire le scale…

Portarono a braccia l'uomo senza gambe su per le scale. Io trascinai la carretta. Arrivati in cima lo deposero nuovamente sullo stretto fondo del veicolo che pareva fatto su misura. Finalmente, disse la donna, finalmente è tornato a casa. Fuori, sul gibboso piazzale della stazione all'ombra dei tigli, rinnovammo la nostra offerta, ma Hilde Isenbiittel rifiutò ancora. Con un gesto della mano il pittore le ricordò il suo stato, ma lei, buttando indietro la testa, disse: Ce la faccio, devo farcela. Si slegò il fazzoletto e si asciugò il sudore sul collo, quindi sistemò il foulard sotto i monconi dell'uomo. In ogni caso grazie.

Lasciammo che ci sopravanzassero di un buon tratto e poi li seguimmo in direzione del porto, quindi sulla strada non lastricata che costeggia il mare. Le ruote di gomma piena del carrozzino macinavano la sabbia sottile. Non li perdemmo mai di vista e ci abituammo così a vedere la donna fermarsi di tanto in tanto per tergersi il sudore o per riposarsi temporaneamente della cinghia che le segava la spalla. Allora anche noi frenavamo, rallentavamo il passo. Il pittore disse: Ancora niente, non si scambiano nemmeno una parola. Perché? A loro basta vedere, disse.

Sulla strada costiera le ruote cigolavano e sbandavano ma Hilde Isenbiittel non badava alle ruote, seguiva il sentiero sinuoso che porta alla diga. Noi le stavamo dietro. Nell'aria c'era odore di polvere e di fieno. L'uomo seduto nel carrozzino guardava sempre davanti a sé. Mai, nemmeno una sola volta, si voltò verso il Mare del Nord o verso la campagna con le fattorie lontane, quella campagna che doveva aver rimpianto nei lunghi anni della sua assenza. Solo quando scendevano dalla diga, mentre la donna in ginocchio cercava di bloccare la carretta, l'uomo, che premeva le mani contro il terreno per contribuire all'opera, guardò dalla nostra parte come se si aspettasse aiuto. Ma non ci diede una voce e noi non li aiutammo: riuscirono a scendere anche da soli il fianco panciuto della diga. Ci fermammo soltanto allorché la donna con un vigore inaspettato prese a spingere la carretta sul sentiero scuro, verso i pioppi neri di stornelli. Valeva la pena - da noi vale sempre la pena - fermarsi a guardare qualcuno che si allontana stagliandosi contro il cielo: ci si ferma istintivamente e si concentra la propria attenzione sul rapporto tra spazio e movimento e ogni volta ci si stupisce di fronte alla schiacciante superiorità dell'orizzonte.

Restammo a lungo sulla diga con la schiena rivolta verso il mare. Lasciammo che la coppia diventasse sempre più piccola, si fondesse in un corpo unico che a sua volta continuava a rimpicciolire riducendosi progressivamente a un movimento appena percettibile. Credi che possiamo fare qualcosa adesso? chiese il pittore. Perché no, dissi, e il pittore mi mise una mano intorno al collo, stringendola in modo tollerabile, e mi spinse in avanti giù dal lungo gomito della diga. Non passammo dal Wattblick ma ci dirigemmo verso est, verso la Husumer Chaussee; probabilmente non aveva alcuna voglia di rivedere Hinnerk Timmsen. Anche se non parlava e si isolava in se stesso, per me era sempre un piacere camminargli vicino. Non riuscivo a tenergli dietro e tuttavia mi piaceva camminare alla sua presenza, amica e insieme imprevedibile, che mi costringeva a stare sempre all'erta: per una domanda o per uno sguardo. Camminargli vicino significava sentirmi occupato perché sempre in attesa di qualcosa. Di gioia, comunque, non è il caso di parlare.